Le università cattoliche nel dibattito pubblico in difesa dei valori non negoziabili

“Educare alla vita buona del Vangelo: il contributo delle Università” Cardinale Angelo Bagnasco Arcivescovo di Genova Presidente della Conferenza Episcopale Italiana Un cordiale e rispettoso saluto alle Autorità presenti, ai Docenti, agli studenti e a quanti sono benevolmente intervenuti a questo momento di riflessione sul tema educativo che appassiona tutti.
Si tratta della vita buona delle giovani generazioni, cioè della loro felicità, della riuscita della loro vita; ma si tratta anche del bene comune, cioè del futuro della nostra società e, più ampiamente del mondo.
Quanto sia necessaria un’umanità matura, capace di portare la vita nella sua complessità e nelle sue sfide, è sotto gli occhi di tutti.
Per questo, mentre esprimo sincero apprezzamento per questa iniziativa, ringrazio per l’invito a partecipare presentando gli Orientamenti Pastorali dei Vescovi Italiani per il decennio: “Educare alla vita buona del Vangelo”.
Naturalmente, come è stato precisato nel titolo, l’attenzione particolare sarà verso l’Università con le peculiarità sue proprie e quindi con la sua specifica missione.
E’ noto che l’educazione ha come protagonisti tutti, adulti e giovani, e come destinatari tutti, adulti e giovani! Nessuno, infatti, può sentirsi arrivato e quindi non più bisognoso di crescere e di imparare; sarebbe, questo atteggiamento, il segno più evidente della grave incompiutezza educativa.
Ciò nonostante, è indubbio che chi è più avanti negli anni ha maggiore responsabilità verso le giovani generazioni, e quindi deve avere qualcosa da dire e da testimoniare, senza presunzioni da una parte e senza giovanilismi dall’altra…peraltro totalmente invisi ai giovani e patetici.
Per questo motivo, l’attenzione di oggi sarà rivolta in modo speciale verso il mondo dei ragazzi e dei giovani, sperando che quanto diremo possa comunque essere utile anche per noi più adulti.
Non è pleonastico ricordare che l’atteggiamento di fondo che anima la Chiesa verso il mondo è la “simpatia”: si potrebbe leggere il mistero dell’incarnazione come il sovrabbondare della simpatia di Dio verso l’umanità ferita dal peccato e dalla morte.
E’ un specie di profonda e ontologica “simpatia” che spinge il Verbo Eterno a scendere sulle strade dell’uomo e, come sulla via di Emmaus, porsi al suo fianco, misurare con lui il passo, provocarlo alla confidenza dell’anima, illuminarlo con la sua parola, sanarlo con il sacrificio della sua vita, affidarlo al “sacramento grande” della Chiesa.
E’ dunque la passione per Cristo che spinge i credenti alla passione per l’umanità: sta qui il principio fondativo del nostro servire il mondo.
Quando questo radicamento si affievolisce, si stemperano la motivazione e l’entusiasmo della vita personale e della missione di essere sale e luce nella storia.
Prevale allora il peso della fatica quotidiana, della ripetizione dei doveri, delle inevitabili difficoltà, delle salutari delusioni.
Per questo, il Santo Padre Benedetto XVI non si stanca – fin dall’inizio del suo ministero petrino – di esortarci a non distrarre lo sguardo dal volto di Cristo: è dal suo sguardo che possiamo attingere quello sguardo di simpatia e di amore per il mondo e che è l’anima di ogni servizio.
1.
La sfida educativa L’educazione è stata in ogni tempo un compito delicato e difficile: oggi però assume caratteristiche più ardue tanto che il Santo Padre parla “di una grande emergenza educativa”.
Tra le diverse ragioni, quella di fondo la riscontriamo nelle parole del Papa quando avverte che “anima dell’educazione , come dell’intera vita, può essere solo una speranza affidabile.
Oggi la nostra speranza è insidiata da molte parti e rischiamo di diventare anche noi, come gli antichi pagani, ‘uomini senza speranza e senza Dio in questo mondo’, come scriveva l’apostolo Paolo ai cristiani di Efeso (Ef 2,12).
Proprio da qui nasce la difficoltà forse più profonda per una vera opera educativa: alla radice della crisi dell’educazione c’è infatti una crisi di fiducia nella vita” (Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21.1.2008).
La sfiducia nella vita  è una conseguenza che genera a sua volta altre conseguenze, ma – ci chiediamo – quale può essere il terreno di coltura di questa gramigna che avvelena la vita e la oscura nel suo futuro? Dal punto di vista del credente, è una fede languida, snervata, privata della sua linfa originaria e vitale, cioè il “cuore a cuore” con Cristo, il fidarsi di Lui senza riserve, l’appartenenza cordiale alla Chiesa.
Senza questa luce, o con una luce fioca perché non alimentata e rinvigorita ogni giorno, tutto pian piano si spegne, e le suggestioni del mondo – pensare come se Dio non ci fosse – insensibilmente invadono e sommergono.
Ma la crisi dell’educazione può dipendere non solo da uno snervamento della fede, ma anche da una crisi della ragione.
Se  guardiamo ai movimenti culturali che sembrano dominare la piazza, infatti, dobbiamo riconoscere che “un ospite inquietante” si aggira in Europa: è il nichilismo.
Esso penetra i sentimenti, confonde i pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca l’anima, rende le passioni tristi ed esangui.
E se ci chiediamo che cosa significhi nichilismo, Nietzsche ci risponde: “Che i valori supremi perdono valore” (Frammenti postumi, 1887-1888, in Opere, 1971, vol.
III, 2, fr.
9, pag.
12): “Vidi una grande tristezza invadere gli uomini.
I  migliori si stancarono del loro lavoro.
Una dottrina apparve, una fede le si affiancò: tutto è vuoto, tutto è uguale, tutto fu! (…) Che cosa è accaduto quaggiù la notte scorsa dalla luna malvagia? Tutto il nostro lavoro è stato vano, il nostro vino è divenuto veleno (…) Aridi siamo divenuti noi tutti (…) Tutte le fonti sono esauste, anche il mare si è ritirato” (Così parlò Zarathustra, in Opere 1968, vol.
III, pag.
175).
E’ un opprimente senso del tramonto.
In questo deserto valoriale l’uomo si trova disorientato, e lo smarrimento investe il suo mondo interiore, la costruzione di ciò che egli è in se stesso, del suo universo fatto di idee, sensazioni, sentimenti, slanci, emozioni e pulsioni…un mondo da ordinare perché da caos diventi universo, armonia, bellezza.
Ma senza un criterio unificante, senza un centro, un “unum” verso il quale guardare, sarà possibile costruire quell’ordine vivo e dinamico senza il quale si vive senza capire niente di sé, affidandosi al richiamo più forte? Lo smarrimento investe anche il mondo dei rapporti esterni con gli altri e le cose, con gli avvenimenti, la storia, il vivere e il morire.
E’ la domanda di significato che irrompe ancor più acuta in mezzo al nichilismo che vorrebbe renderla ridicola agli occhi dei giovani, una “domanda oziosa” come affermavano Comte, Marx e altri Maestri del sospetto.
In questa terra, ferita da uno spaesamento che genera paura e angoscia, ha buon gioco quella fragilità di fondo che sembra segnare il tessuto interiore del mondo giovanile, una fragilità che, non superata da punti fermi e veri di tipo ideale ed etico, viene ad essere luogo di scorribande emotive e sempre più veloci per la legge della sensibilità.
Su questa esposizione senza difese, si concentra il fuoco incrociato degli interessi più diversi, economici-commerciali, ideologici.
Il risultato interiore è una emotività che, rispetto a tempi passati, è molto più sollecitata e incontrollata, a cui corrisponde uno spazio di riflessione molto più modesto, fino a cristallizzare la non-distinzione tra intelligenza e impressionabilità.
E’ comprensibile allora che l’estuario di questo fiume in piena senza argini protettivi, possa sfociare più o meno nello stordimento, nel disinteresse generico, nella eccedenza, nel cinismo comportamentale.
In sintesi, in una tristezza facilmente risentita.
Profetiche e lucide le parole di J.
Maritain nel 1959: “E’ il male metafisico che (…) si fa sentire nelle profondità dello spirito e che tocca più impietosamente i giovani, perché non sono ancora abituati a mentire a se stessi.
Voglio dire il vuoto, il nulla completo di ogni valore assoluto e di ogni fede nella verità nella quale la gioventù è posta dall’intellighenzia al potere e da una educazione scolastica e universitaria che in generale ( e malgrado molte eccezioni individuali) tradisce allegramente la sua missione essenziale.
La gioventù contemporanea è stata sistematicamente privata di ogni ragione di vita.
E questo è un crimine spirituale!” (J.Maritain, Pour une philosophie de l’education, 1959).
I giovani, come afferma Maritain, attendono altro: il loro cuore non invoca questo male di vivere, al contrario guarda e aspira altrove con la nativa speranza che l’avventura della vita sia promettente e piena di sole, ricca di significati, degna di essere vissuta lasciando qualcosa di meglio e di grande.
In questa ansia positiva troviamo la “punta rovente” della coscienza universale, cioè del creato che, in un certo senso, affida il suo anelito di compimento alla responsabilità umana.
Di fronte al cosmo, alla sua bellezza e maestà, al suo ordine luminoso, l’uomo da sempre si è posto una domanda seppure con parole differenti: interrogativo che il Santo Padre ha ripreso nel viaggio apostolico nel Regno Unito: “A livello spirituale tutti noi, in modi diversi, siamo personalmente impegnati in un viaggio che offre una risposta importante alla questione più importante di tutte, quella riguardante il significato ultimo dell’esistenza umana.
(…) All’interno dei loro ambiti di competenza, le scienze umane e naturali ci forniscono una comprensione inestimabile di aspetti della nostra esistenza ed approfondiscono la nostra comprensione del mondo in cui opera l’universo fisico, il quale può essere utilizzato per portare grande beneficio alla famiglia umana.
E tuttavia queste discipline non danno risposta, e non possono darla, alla domanda fondamentale, perché operano ad un livello totalmente diverso.
Non possono soddisfare i desideri più profondi del cuore umano, né spiegarci pienamente la nostra origine ed il nostro destino, per quale motivo e per quale scopo noi esistiamo, né possono darci una risposta esaustiva alla domanda: ‘Per quale motivo esiste qualcosa, piuttosto che il niente?’” (Benedetto XVI, Viaggio Ap.
Nel regno Unito, Incontro con i Rappresentanti di altre Religioni, 17.9.2010).
L’uomo, dunque, è domanda e nostalgia: domanda di senso sulla realtà e su se stesso; nostalgia di una risposta che sia il compimento al suo sentirsi incompiuto, al suo riconoscersi un paradosso posto sulla misteriosa linea di confine tra il finito e l’infinito, il divino e l’umano.
2.
L’educazione appartiene alla missione della Chiesa Dall’ orizzonte appena accennato nasce la necessità di sempre e la sfida di oggi: l’educazione come crocevia sensibile delle problematiche che agitano questa inquieta stagione di inizio millennio e che interpellano in modo particolare la comunità cristiana: “Nel settore educativo – affermava Benedetto XVI – la Chiesa ha molto da fare e da dare per quanto riguarda la formazione.
In Italia parliamo del problema dell’emergenza educativa.
E’ un problema comune a tutto l’occidente: qui la Chiesa deve di nuovo attualizzare, concretizzare, aprire per il futuro la sua grande eredità” (intervista a Benedetto XVI durante il viaggio aereo da Roma a Praga, 26.9.2009).
Come non ricordare qui le parole di Platone? “Lasceremo forse che i fanciulli ascoltino facilmente i primi miti che capitano, inventati dai primi venuti, e permetteremo forse che i ragazzi accolgano nelle loro anime opinioni per più opposte a quelle che riterremo essi debbano avere, una volta divenuti maturi? Certamente no” (Repubblica, 1 II, c.
17, p.
376e); “Perciò bisogna fare ogni sforzo perché le prime cose che essi odono siano miti composti quanto meglio possibile per spingere alla virtù” (ib.
p.
377b).
Se educare – possiamo dire – è aprire alla vita, accettare di incontrarla e di porsi in dialogo con essa, ciò significa lasciarsi provocare, imparare a conoscere se stesso, riconoscere limiti e talenti, tematizzare criteri e principi, imparare a distinguere il bene dal male, porsi degli obiettivi, accettare la gradualità e la fatica, sviluppare la fortezza,…in una parola porsi sulla via della paideia coniugando reale e ideale, intelligenza e cuore, conoscenza e ascesi che, nella esperienza della grazia, sono pilastri dell’educazione.
Il riferimento, come sempre, è Gesù Cristo: “Parliamo a voi come a condiscepoli alla stessa scuola del Signore – scrive Sant’Agostino -.
Abbiamo infatti un unico Maestro, nel quale tutti siamo una cosa sola (…) Sotto questo Maestro, la cui cattedra è il cielo – è per mezzo delle Scritture che dobbiamo essere formati – fate dunque attenzione a quelle poche cose che vi dirò”  Sant’Agostino, Discorso 270, 1: cit.
CEI Orientamenti Pastorali, n.
1).
Come emerge nel secondo capitolo degli Orientamenti, Dio educa il suo popolo secondo una pedagogia adatta alle diverse situazioni.
Sarà Gesù, il Verbo di Dio, che porterà a compimento quest’opera con i suoi discepoli.
Ne sceglie dodici e ne fa degli Apostoli.
Erano uomini adulti, avvezzi ad una esistenza di sacrificio.
La vita li interpellava rude ogni giorno ed essi rispondevano alle sue chiamate: il lavoro, la famiglia, gli amici, la fede ebraica, la società di appartenenza, il villaggio…Il divino Maestro li sceglie e li educa per una nuova vita.
Come? Basta scorrere i Vangeli e vediamo che la scuola è fatta di parole e silenzi, di gesti quotidiani e di miracoli, di rimproveri e di tenerezza, di esigenza e di pazienza, di fatica e di preghiera, di compagnia e di solitudine.
Sempre di amore e di fiducia verso quei poveri uomini, semplici e quasi tutti incolti, che si sono trovati all’improvviso dentro un’avventura più grande di loro.
Le parabole, i grandi discorsi sulla montagna o in riva al mare, i miracoli, la gloria di Gerusalemme e l’abiezione dolorosa del Calvario, l’intimità misteriosa del cenacolo, l’alba della risurrezione e il distacco fisico dell’ ascensione al cielo, la Pentecoste…tutto era grazia di salvezza per il mondo e, per loro, anche cattedra che li educava ad una nuova vita.
Gesù è dunque il Maestro perfetto, ma anche il modello pieno e affascinante da guardare per educare ed educarci, la vera unità di misura  dell’umanesimo.
Il Vangelo, infatti, proprio perché Parola di salvezza, contiene tutto l’umano: proprio per questo lo sguardo rivolto su Cristo non è restrizione di prospettive, ma apertura nella verità, ed è per questa ragione che tutti possono guardare a Lui come a modello e metodo: “Come ha affermato il Concilio Vaticano II, Gesù Cristo, rivelandoci il mistero del Padre e del suo amore, ha rivelato anche l’uomo a se stesso, rendendogli nota la sua altissima vocazione che è essenzialmente chiamata alla santità, ossia alla perfezione dell’amore” (CEI Orientamenti Pastorali, n.
23).
Ma Cristo è anche sorgente di forza e di grazia, perché ciò che in Lui vediamo e a cui Lui ci chiama possa in noi, non senza di noi, diventare felice realtà: Egli è via, verità e vita.
“L’esistenza cristiana non è frutto di uno sforzo volontaristico, ma è un cammino attraverso il quale il Maestro interiore apre la mente e il cuore alla comprensione del mistero di Dio e dell’uomo” (ib.
n.
22).
Accenno appena che l’educazione richiede un grembo e questo è il grembo della Chiesa Madre e Maestra.
Gli Orientamenti lo sottolineano in modo incisivo al numero 21.
Mi piace solo citare le parole di Sant’Agostino riportate felicemente nel testo: “Oh Chiesa cattolica, oh madre dei cristiani nel senso più vero (…) tu educhi ed ammaestri tutti: i fanciulli con tenerezza infantile, i giovani con forza, i vecchi con serenità, ciascuno secondo l’età, secondo le sue capacità non solo corporee ma psichiche.
Chi debba essere educato, ammonito o condannato tu lo insegni a tutti con solerzia, mostrando che non si deve dare tutto a tutti, ma a tutti amore e a nessuno ingiustizia” (cit.
ib.
n.21).
Sull’esempio del Signore Gesù e nella tradizione della Chiesa, ricordiamo che l’opera educativa “esige un rapporto personale di fedeltà tra soggetti attivi, che sono protagonisti della relazione educativa” (ib.
n.
26) anche in forza del fatto che il lavoro educativo s’innesta nell’atto generativo e nell’esperienza di essere figli: non si finisce mai di essere figli, per questo possiamo essere padri ed educatori.
Mantenendo la verità dei ruoli, e le responsabilità che derivano dalla vita e dagli anni, l’educatore si pone in gioco nell’atto educativo, si colloca dentro a questo processo e ci sta con gioia accettando la fatica: la luce infatti – secondo alcune belle immagini di Romano Guardini – si accende solo con la luce, la vita con la vita.
Possiamo aggiungere che la libertà si accende solo con la libertà: se l’educatore non è per primo un uomo luminoso, vivo e interiormente libero, non potrà accendere nulla e nessuno, non potrà generare la persona.
Per questo motivo ogni genitore di fronte al figlio, così come ogni educatore di fronte al giovane, non deve chiedersi “cosa posso fare per lui?”, ma “chi sono io?”.
Il docente deve essere un maestro.
Egli non trasmette il sapere come se fosse un oggetto d’uso e consumo, ma stabilisce anzitutto una relazione sapienziale che, anche quando non può giungere all’incontro personale per il numero elevato degli studenti, si fa parola di vita ancora prima che trasmissione di conoscenze.
Egli istruisce nel significato originario del termine, offre cioè un apporto sostanziale alla strutturazione della personalità; educa, secondo l’antica immagine socratica, aiutando a scoprire e attivare le capacità e i doni di ciascuno; forma, secondo la comprensione umanistica, che non restringe questo termine alla pur necessaria acquisizione di competenze professionali, ma le inquadra in una costruzione solida e in una correlazione trasparente di significati di vita.
3.
Educare in Università Al numero 49 degli Orientamenti, i Vescovi parlano del ruolo dell’Università come luogo particolare di educazione: “L’Università svolge un ruolo determinante per la formazione delle nuove generazioni, garantendo un elevato livello culturale.
Una preparazione adeguata, a livello universitario, assicura competenze atte non solo a entrare nel mondo del lavoro, finalizzate alle professioni, ma anche utili a orientarsi nella complessità culturale odierna”.
Puntuali le parole di Benedetto XVI: “Che cos’è l’università? Quale è il suo compito? Penso si possa dire che la vera, intima origine dell’università stia nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo.
Egli vuole sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda.
Vuole la verità” (Benedetto XVI, Allocuzione per l’incontro con l?università degli studi di Roma “La Sapienza”, 17.1.2008).
Tenendo conto che il compito educativo chiama in causa diversi soggetti e chiede una urgente capacità di reti virtuose all’interno del labirinto sociale e culturale, vorrei ora presentare una specie di “declinazione educativa” per cercare di rispondere alla completezza del titolo: “il contributo delle Università”.
1) Educare alle domande.
Per creare interesse, movimento, ricerca e proporre delle risposte, è necessario che vi siano le domande.
Le domande di fondo sono quelle di sempre perché legate all’uomo; le ho accennate sopra e sono riprese nella storia di tutti i tempi, basta pensare alle coinvolgenti pagine di Giobbe, ella Sapienza, del Qoelet, dei Proverbi, dei Salmi; riandare ai tragici greci, a tanti autori latini, a Sant’Agostino, ai poeti e scrittori della letteratura e della filosofia…Sono le eterne domande di senso che possono essere coperte dal frastuono ma mai soffocate.
Esse non sono legate al grado di civiltà, progresso e cultura, ad epoche storiche definite, bensì marchiano a fuoco il cuore dell’uomo.
L’uomo, questo mistero! Egli, quando è se stesso, è immediatamente oltre sé, come ricordava Pascal.
Domande che il Concilio Vaticano II e il Magistero dei Papi riprendono e sintetizzano: “Un semplice sguardo alla storia antica mostra con chiarezza come in diverse parti della terra, segnate da culture differenti, sorgono nello stesso tempo le domande di fondo: chi sono io? Da dove vengo e dove vado? Perché la presenza del male? Cosa ci sarà dopo questa vita?” (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, n.1).
Tutte si riconducono al fatto che l’uomo è domanda a se stesso, un enigma confusamente percepito.
Tutto questo esiste nell’anima, non è indotto, si tratta di farlo emergere là dove i rumori, le evasioni, le illusioni, i modelli accattivanti sono riusciti a mettere la sordina, a gettare polvere, o forse meglio, a rendere l’uomo sordo alle voci dell’essere.
Bisogna non dare per scontato, su nessuna cattedra, che le domande di fondo siano chiare nel cuore dei giovani ed abbiano udienza.
Provocarle, ravvivarle, richiamarle, è imprescindibile compito di ogni Università: potremmo dire, che la sua prima missione è quella di porre le questioni prime, esistenziali.
Non si tratta di suscitare dubbi, ma di dare voce alla verità che è in noi.
2) Educare alla verità La ricerca della verità chiede verità.
Ma oggi questa è oscurata: da cosa? Non parlo della ragione considerata debole e che richiamerò nel punto successivo; intendo indicare l’oscuramento che proviene dalla banalità e dalla volgarità imperante.
La banalità, il vuoto dell’anima e della vita, è figlia della cultura dell’utile.
La volgarità e la violenza ne sono le figlie.
L’utilità non è malvagia in se stessa, lo diventa quando si pone come valore primo e assoluto: allora non solo la verità è perdente, ma anche l’utilità è sconfitta perché, fuori dal rapporto con la verità, si nega e si elimina da sé.
Il senso dell’utile, presente nell’uomo come il senso del vero, è più immediato e appariscente; quindi risulta avere buon gioco nel disputarsi l’attenzione e l’interesse del soggetto, viene ad avere più peso.
Per questo è necessario coltivare nei giovani il senso e il gusto della verità.
Essa, ad una sensibilità non allenata, appare di primo acchito leggera, quasi inconsistente, imprendibile e poco interessante.
Essa nasce dalla presa sul reale: in un clima dove tutto sembra virtuale e fabulatorio, mitico e appariscente, è troppo facile che il giovane perda la presa sulla realtà, sulle cose come sono in se stesse, sulla vita com’è non come si vorrebbe che fosse.
E’ fatale che ci si rinchiuda in una bolla incantata o mostruosa.
Il senso della verità richiede la consuetudine con le domande alte, con la capacità al lavoro della ricerca, alla fatica; ma esige anche una tensione morale, la disponibilità cioè a lasciarsi giudicare dalla verità.
Essa giudica non per schiacciare ma per liberare la vita dagli inganni e dalle schiavitù.
Se il soggetto non è disposto a questo cammino interiore, sarà difficile che riconosca la verità delle cose, dei valori, dei significati, perché riconoscere richiede docilità e cambiamento.
E’ quindi necessaria una continua azione di bonifica intellettuale ed etica rispetto ai molti “idola” che sono luoghi comuni di pensare e di agire: si tratta di quella vita inautentica di heideggeriana memoria, che nasce e si nutre del “si” impersonale e spersonalizzante: “si dice”e “si fa”.
3) Educare alla ragione Esiste un’ulteriore sfida nei confronti della verità: è quella di una ragione svilita e svigorita della forza di raggiungere la verità oggettiva del reale.
La cosiddetta ragione debole, per la quale tutto diventa necessariamente relativo sul piano cognitivo, impedisce ogni vera educazione.
Se il soggetto, infatti, vive avvolto dalla nebbia dello scetticismo teoretico, quali criteri, quali obiettivi, potranno essere indicati dalla pedagogia? Quale forza potranno avere le ragioni di una ragione incapace? Ma anche come sarà possibile non cadere nel cinismo etico? Sappiamo che il soggetto ha un ruolo inevitabile nel circolo ermeneutico della conoscenza, ma sappiamo anche che la dialettica soggetto-oggetto sta nell’orizzonte del realismo, cioè di una realtà data che ci precede e che non costruiamo noi, ma di cui noi stessi siamo parte.
L’esperienza universale di ieri e di oggi, il senso comune che ha ispirato la filosofia perenne e che guida la vita, testimonia non solo il desiderio della ricerca, ma altresì la fiducia originaria dell’uomo nelle proprie capacità conoscitive.
Il pensiero critico, che fa parte degli obiettivi propri dell’Università, come potrà essere raggiunto se critica il pensiero nella sua stessa radice, rendendolo un pensiero invalido? Inoltre, come insiste il Santo Padre Benedetto XVI, è necessario superare l’orizzonte angusto della ragione strumentale consegnata alle categorie della sola ricerca empirica, che conduce a conoscere il “come” le cose funzionano, al fine dominarle e piegarle al proprio servizio.
Occorre allargare gli spazi della ragione e ricuperare la dimensione contemplativa che si interroga e indaga sul “perché” dell’essere e sul senso della totalità.
Tra l’altro, è solo all’interno di questo orizzonte che l’uomo può trovare il luogo della sintesi di se stesso e del suo esistere.
Infine, non è sufficiente riaffermare la fiducia nella ragione nella sua interezza – strumentale e contemplativa –, è anche indispensabile imparare a ragionare, vale a dire acquisire i meccanismi propri del retto raziocinio: questo, per giungere alla meta della verità, ha bisogno non solo di poter camminare ma anche di saper camminare correttamente.
Il recupero della logica non va inteso come rigidità metodologica e mortificazione della spontaneità e del genio, ma semplicemente come alveo di ciò che ordinariamente è il faticoso cammino di ricerca e di argomentazione.
4) Educare all’umano Il Novecento appena concluso ha lasciato in eredità, insieme grandi luci, una domanda inquietante: chi è l’uomo, chi è la persona? La controversia sull’umano non solo non sembra per nulla conclusa, ma addirittura più attuale, grave e complessa.
E’ la questione antropologica che il mondo occidentale sta affrontando, trovandosi di fronte ad acquisizioni tecnico-scientifiche impensate, che pongono l’uomo in condizione di intervenire e manipolare se stesso e la natura in misura sconcertante e con esiti imprevedibili.
Se il retto agire nasce dal retto pensare, vediamo quanto sia urgente partire da una teoresi vera per poter arrivare, attraverso il filtro della libertà responsabile dei singoli, ad una prassi buona per tutti.
Se alla radice della cultura si impianta una visione distorta o monca dell’uomo, le conseguenze saranno nefaste per il singolo e per la società intera.
Oggi, è sotto gli occhi di tutti, si confrontano e spesso si scontrano due opposte concezioni antropologiche.
Se l’uomo è un individuo chiuso in se stesso, autoreferenziale, legge a se stesso, occupato all’affermazione di sé, la visione della vita e della società sarà chiusa e individualista, tesa a far valere in prima istanza i propri bisogni o desideri, ritenuti come sacrosanti diritti.
La percezione della libertà individuale verrà talmente assolutizzata da farne il primo dei valori a cui commisurare e sottomettere ogni altro valore: essenziale sarà che la libertà sia liberata da tutto ciò che possa essere o apparire come un vincolo, fosse anche la propria vita.
La stessa rete delle relazioni verrà percepita come una penosa necessità da limitare il più possibile, fino al parossismo nichilista e autodistruttivo: “Io sono libero – esclamava J.P.
Sartre- non mi resta più nessuna ragione per vivere” (Sartre, La nausea).
In questa prospettiva antropologica l’individuo, alla ricerca di se stesso fuori da ogni vincolo, si allontana sempre più dagli altri ma anche dalla vita, e si fa prigioniero della sua solitudine.
Radicalmente diversa è la concezione dell’uomo che trova le sue radici nel mistero di Dio: il Creatore non è solitudine ma Trinità di Persone nell’unico Dio, e l’uomo porta questa incancellabile impronta che segna anche la direzione di marcia, l’imperativo etico, la sua vocazione e il suo destino.
Per questa ragione la persona, che è “individuo in relazione”, si realizza solo uscendo da sé nella dimensione del dono, e la libertà è sempre sì personale ma anche libertà in relazione con valori che le danno contenuto, e quindi la rendono capace di rispondere di se stessa; in relazione anche con il contesto vivo del mondo fatto di persone, di situazioni e di cose.
Ma innanzitutto la libertà, meglio ancora la persona, è in stretto e filiale rapporto con Dio, che in Cristo è diventato il grande “sì” alla vita, all’intelligenza, all’amore, al mondo (cfr Benedetto XVI, Discorso al Convegno Ecclesiale di Verona, 2006).
Nella visione cristiana è questa la ragione ultima, il principio euristico dell’antropologia che sta all’origine dell’umanesimo plenario e della società che ne è ispirata.
Una difficoltà che il Papa mette in rilievo nella missione educativa oggi sta in un falso concetto di autonomia, per cui “l’uomo dovrebbe svilupparsi solo da se stesso, senza imposizioni da parte di altri, i quali potrebbero assistere al suo autosviluppo, ma non entrare in questo sviluppo.
In realtà, è essenziale per la persona umana il fatto che essa diventa se stessa solo dall’altro, l’ ‘io’ diventa se stesso solo dal ‘tu’ e dal ‘voi’, è creato per il dialogo, per la comunione sincronica e diacronica.
E solo l’incontro con il ‘tu’ e con il ‘noi’ apre l’ ‘io’ a se stesso.
Perciò la cosiddetta educazione antiautoritaria non è educazione, ma la rinuncia all’educazione” (Benedetto XVI, Discorso alla 61° Assemblea Generale della CEI, 27.5.2010).
Occorre aiutare a comprendere e a ricordare, non solo ai ragazzi e ai giovani ma anche agli adulti, che gli altri non sono soltanto un limite alla libertà, ma la condizione affinché ognuno possa vivere libero e felice.
5) Educare alla fede pensata Nell’ambito delle Università e Istituti accademici che fanno riferimento alla Chiesa Cattolica, non è possibile non fare almeno un cenno alla educazione ad una fede pensata, capace di dare ragione della propria speranza.
Nello scorso decennio i Vescovi avevano parlato, negli Orientamenti Pastorali, di “analfabetismo religioso”, e credo che quella preoccupazione sia ancora motivata.
Si impone dunque una formazione cristiana decisamente più sostanziosa e organica.
Il primo luogo della formazione è la comunità cristiana, le parrocchie e le aggregazioni ecclesiali: l’appello è per tutti un impegno maggiore, una dedizione che, pur tenendo conto della gradualità e delle situazioni di ciascuno, proponga itinerari di fede dove l’incontro con il Signore e le verità della fede siano abbracciati con crescente consapevolezza e cordialità, siano sostenuti e accompagnati da una forte vita di preghiera personale e liturgica, e corroborati dalla comunità cristiana.
Ma oltre a questa educazione di base, è opportuno che i luoghi della scientificità accademica siano meta di frequentazione organica da parte di coloro che sono possibilitati per circostanze e propensione, nell’orizzonte di una fede più consapevole e di una evangelizzazione che non si può rimandare.
Mi permetto di insistere su una particolare attenzione nell’ambito della docenza e dell’ approfondimento della fede e delle sue verità: è la questione di Dio.
Il Santo Padre è ritornato in diverse occasioni a rilevare che questa è la questione centrale per un occidente che appare sempre più smemorato delle sue origini e che sembra coltivare una crescente pretesa di costruire la città degli uomini senza Dio.
Diventa tanto più necessario che i credenti siano più consapevoli della novità cristiana nel vivere la storia per essere sale e luce per il nostro tempo, ma anche perché la coscienza del cristiano sia meglio avvertita su come la fede illumina e ispira in modo unico e originale tutti gli ambiti del suo vivere.
6) Per concludere In conclusione, mi permetto di segnalare una duplice considerazione che spero possa arricchire l’angolazione – quella universitaria – con la quale abbiamo affrontato, seppure parzialmente, il documento degli Orientamenti Pastorali.
Innanzitutto auspico che venga sempre più aiutata la coscienza critica dell’ora presente.
La cultura occidentale – ma in modo particolare l’Europa – mi pare sia giunta ad una linea di confine.
Non è qui possibile tentare delle analisi sulle origini e sulle cause più o meno lontane di questa parabola, semplicemente osserviamo che la linea demarca l’umano e ciò che è solo apparentemente umano.
Se questa lettura è corretta, come a me  sembra, se ne intuisce la gravità.
Mi pare che il Santo Padre ricordi proprio questa situazione quando, nell’Enciclica Caritas in  veritate, afferma che “la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica” (n.
75) e precisa che “quando una società si avvia verso la negazione e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell’uomo.
Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (n.
28).
La questione dei cosiddetti “valori non negoziabili”, con tutto ciò che ne consegue, demarca questa linea di confine, questo crinale oltre il quale l’uomo perde se stesso e la società diventa disumana.
Non essere pienamente consapevoli di questa scommessa ed non starci con le ragioni della ragione confermata e illuminata dalla fede, significherebbe un grave peccato di omissione verso Dio e verso l’uomo.
In secondo luogo, in connessione con questa sfida sull’umano, è auspicabile che tutti gli Istituti accademici, che afferiscono alla Chiesa Cattolica, entrino maggiormente nei circuiti del dibattito pubblico per offrire alla riflessione collettiva, ad ogni livello, i migliori contributi – argomentati e incisivi – sulle grandi categorie dell’alfabeto umano, come la persona, l’anima, la vita, l’amore, la famiglia, la libertà, la morte…E’ necessario far comprendere che è in atto una decisiva scommessa che vede protagonisti due culture, quella della vita e quella della morte, culture che entrambe rivendicano per sé la vita.
La nota espressione – cultura della vita e cultura della morte – non è una forma letteraria usata dal Magistero per la sua forza suggestiva, ma descrive lucidamente la realtà che viviamo: si tratta del futuro dell’uomo.
Dimensionare o silenziare, non prendere in mano con decisione e grande impegno la questione, sarebbe mancare all’appuntamento a cui il Signore ci chiama.
Se la cultura è la forma della vita, allora tutto ciò che la vita presenta di vero, di bene e di bello, ma anche di problematico e di oscuro, deve prendere la forma della riflessione culturale per diventare giudizio critico e propositivo a vantaggio di tutti.
Vi ringrazio per la pazienza del vostro ascolto e per quello che fate come Università Salesiana: la luce di San Giovanni Bosco continui a guidarvi nella sua passione per il mondo della gioventù.
In voi, cari Amici, desidero salutare e onorare tutte le Università ecclesiastiche e civili, formulando l’augurio che la passione educativa che tutti ispira si intensifichi e alimenti rapporti rispettosi e virtuosi per il vero bene dei giovani.
Roma, Università Pontificia Salesiana 24.2.2011 8

Khaled Fouad Allam: «Dai giovani una forte presa di coscienza»

L’intervista « Nessuno ha la certezza che domani cadrà questo o quel governo, però si sta concludendo un ciclo storico, cosa che gli europei non arrivano ancora a capire.
Muore il vecchio mondo arabo, quello della generazione dei miei genitori».
È assolutamente convinto dell’irreversibilità del processo innescato nel Maghreb dalle rivolte tunisine ed egiziane Khaled Fouad Allam, docente di Sociologia del mondo musulmano all’Università di Trieste.
Perché questa convinzione? Quando i ragazzi di oggi sono nati c’erano già gli stessi regimi, le stesse persone al potere, elemento che produce una certa schizofrenia: i governi parlano un linguaggio che la gioventù non capisce più.
Inoltre l’asimmetria demografica è decisiva: è molto più elevato il numero di giovani rispetto ad adulti e anziani.
Perché queste rivolte stanno accadendo ora e non 5 o 10 anni fa? Come in tutti i processi storici non c’è mai un solo motivo, ma un cumulo di fattori che fa sì che a un certo momento esploda la dinamica storica.
L’evento simbolico forte e scatenante in questo caso è stato la Tunisia.
Ma c’è altro da considerare.
A cosa si riferisce? Innanzitutto il fatto che sono cambiate le pratiche religiose: i ragazzi tra i 18 e i 30 anni hanno una pratica religiosa di tipo pietista.
L’islam non è più visto come la soluzione, come sarebbe probabilmente accaduto 10-15 anni fa.
I giovani non credono più che il Corano darà loro il lavoro, come potevano crederlo i loro padri.
Sono credenti e praticanti, ma non hanno una carica ideologica.
E infatti dallo Yemen all’Algeria di slogan religiosi non ne abbiamo sentiti.
I giovani vogliono lavoro e democrazia… In questi ultimi 10 anni è cresciuto il fenomeno dei diplomati e laureati disoccupati, costretti a fare gli ambulanti di frutta e verdura.
È il loro unico mezzo di sussistenza, e non è un caso che tutto sia nato da quel giovane tunisino ambulante che si è dato fuoco.
E poi c’è l’aspetto della globalizzazione: si sta sviluppando una coscienza mondiale della democrazia.
Un ragazzo di Algeri che corrisponde via Internet con un suo amico di Roma si chiede come mai sull’altra sponda del Mediterraneo c’è libertà e nel suo Paese no.
Ciò crea un sentimento molto forte.
Non conta la tecnologia informatica in sé, ma il suo effetto, ovvero un’accelerazione della maturazione della presa di coscienza.
Quanto durerà il vento della rivolta? Le sequenze rivoluzionarie non hanno ogni giorno la stessa intensità, ma questo clima durerà sicuramente molti mesi.
I regimi, se non cadranno, saranno costretti comunque a concedere riforme che forse non avrebbero mai fatto.
Si è aperta una breccia nella storia.
Nessuno di questi leader ha detto che intende presentarsi alle elezioni, e ciò la dice lunga sul sentimento della fine del ciclo di un’epoca.
Sta morendo un vecchio mondo, anche se non si tratta di un processo di breve durata.
Una cosa sono le sommosse di piazza, un’altra il lavorio interno che, a partire da un movimento rivoluzionario, porta al cambiamento.
E come giudica la reazione europea? L’Europa mostra di non avere una politica mediterranea.
Ha stanziato per Tunisi appena 17 milioni di euro, meno di un milione a Paese.
Ciò significa non avere la percezione della necessità di costruire un’architettura di cooperazione con la sponda sud del Mediterraneo.
Bruxelles ha costruito una visione tecnocratica dei rapporti con la sponda sud, ma non ha pensato cosa potesse essere questo rapporto geopoliticamente e geoculturalmente.
Ci vuole un cambio di mentalità e di strategia.
Gli Usa, per quanto criticabili, hanno almeno una loro chiara visione del Mediterraneo in “Avvenire” del 22 febbraio 2011

Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2011

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE “Con Cristo siete sepolti nel Battesimo, con lui siete anche risorti” (cfr Col 2,12) Cari fratelli e sorelle, la Quaresima, che ci conduce alla celebrazione della Santa Pasqua, è per la Chiesa un tempo liturgico assai prezioso e importante, in vista del quale sono lieto di rivolgere una parola specifica perché sia vissuto con il dovuto impegno.
Mentre guarda all’incontro definitivo con il suo Sposo nella Pasqua eterna, la Comunità ecclesiale, assidua nella preghiera e nella carità operosa, intensifica il suo cammino di purificazione nello spirito, per attingere con maggiore abbondanza al Mistero della redenzione la vita nuova in Cristo Signore (cfr Prefazio I di Quaresima).
1.
Questa stessa vita ci è già stata trasmessa nel giorno del nostro Battesimo, quando, “divenuti partecipi della morte e risurrezione del Cristo”, è iniziata per noi “l’avventura gioiosa ed esaltante del discepolo” (Omelia nella Festa del Battesimo del Signore, 10 gennaio 2010).
San Paolo, nelle sue Lettere, insiste ripetutamente sulla singolare comunione con il Figlio di Dio realizzata in questo lavacro.
Il fatto che nella maggioranza dei casi il Battesimo si riceva da bambini mette in evidenza che si tratta di un dono di Dio: nessuno merita la vita eterna con le proprie forze.
La misericordia di Dio, che cancella il peccato e permette di vivere nella propria esistenza “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), viene comunicata all’uomo gratuitamente.
L’Apostolo delle genti, nella Lettera ai Filippesi, esprime il senso della trasformazione che si attua con la partecipazione alla morte e risurrezione di Cristo, indicandone la meta: che “io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11).
Il Battesimo, quindi, non è un rito del passato, ma l’incontro con Cristo che informa tutta l’esistenza del battezzato, gli dona la vita divina e lo chiama ad una conversione sincera, avviata e sostenuta dalla Grazia, che lo porti a raggiungere la statura adulta del Cristo.
Un nesso particolare lega il Battesimo alla Quaresima come momento favorevole per sperimentare la Grazia che salva.
I Padri del Concilio Vaticano II hanno richiamato tutti i Pastori della Chiesa ad utilizzare “più abbondantemente gli elementi battesimali propri della liturgia quaresimale” (Cost.
Sacrosanctum Concilium, 109).
Da sempre, infatti, la Chiesa associa la Veglia Pasquale alla celebrazione del Battesimo: in questo Sacramento si realizza quel grande mistero per cui l’uomo muore al peccato, è fatto partecipe della vita nuova in Cristo Risorto e riceve lo stesso Spirito di Dio che ha risuscitato Gesù dai morti (cfr Rm 8,11).
Questo dono gratuito deve essere sempre ravvivato in ciascuno di noi e la Quaresima ci offre un percorso analogo al catecumenato, che per i cristiani della Chiesa antica, come pure per i catecumeni d’oggi, è una scuola insostituibile di fede e di vita cristiana: davvero essi vivono il Battesimo come un atto decisivo per tutta la loro esistenza.
2.
Per intraprendere seriamente il cammino verso la Pasqua e prepararci a celebrare la Risurrezione del Signore – la festa più gioiosa e solenne di tutto l’Anno liturgico – che cosa può esserci di più adatto che lasciarci condurre dalla Parola di Dio? Per questo la Chiesa, nei testi evangelici delle domeniche di Quaresima, ci guida ad un incontro particolarmente intenso con il Signore, facendoci ripercorrere le tappe del cammino dell’iniziazione cristiana: per i catecumeni, nella prospettiva di ricevere il Sacramento della rinascita, per chi è battezzato, in vista di nuovi e decisivi passi nella sequela di Cristo e nel dono più pieno a Lui.
La prima domenica dell’itinerario quaresimale evidenzia la nostra condizione dell’uomo su questa terra.
Il combattimento vittorioso contro le tentazioni, che dà inizio alla missione di Gesù, è un invito a prendere consapevolezza della propria fragilità per accogliere la Grazia che libera dal peccato e infonde nuova forza in Cristo, via, verità e vita (cfr Ordo Initiationis Christianae Adultorum, n.
25).
E’ un deciso richiamo a ricordare come la fede cristiana implichi, sull’esempio di Gesù e in unione con Lui, una lotta “contro i dominatori di questo mondo tenebroso” (Ef 6,12), nel quale il diavolo è all’opera e non si stanca, neppure oggi, di tentare l’uomo che vuole avvicinarsi al Signore: Cristo ne esce vittorioso, per aprire anche il nostro cuore alla speranza e guidarci a vincere le seduzioni del male.
Il Vangelo della Trasfigurazione del Signore pone davanti ai nostri occhi la gloria di Cristo, che anticipa la risurrezione e che annuncia la divinizzazione dell’uomo.
La comunità cristiana prende coscienza di essere condotta, come gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni, “in disparte, su un alto monte” (Mt 17,1), per accogliere nuovamente in Cristo, quali figli nel Figlio, il dono della Grazia di Dio: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento.
Ascoltatelo” (v.
5).
E’ l’invito a prendere le distanze dal rumore del quotidiano per immergersi nella presenza di Dio: Egli vuole trasmetterci, ogni giorno, una Parola che penetra nelle profondità del nostro spirito, dove discerne il bene e il male (cfr Eb 4,12) e rafforza la volontà di seguire il Signore.
La domanda di Gesù alla Samaritana: “Dammi da bere” (Gv 4,7), che viene proposta nella liturgia della terza domenica, esprime la passione di Dio per ogni uomo e vuole suscitare nel nostro cuore il desiderio del dono dell’ “acqua che zampilla per la vita eterna” (v.
14): è il dono dello Spirito Santo, che fa dei cristiani “veri adoratori” in grado di pregare il Padre “in spirito e verità” (v.
23).
Solo quest’acqua può estinguere la nostra sete di bene, di verità e di bellezza! Solo quest’acqua, donataci dal Figlio, irriga i deserti dell’anima inquieta e insoddisfatta, “finché non riposa in Dio”, secondo le celebri parole di sant’Agostino.
La “domenica del cieco nato” presenta Cristo come luce del mondo.
Il Vangelo interpella ciascuno di noi: “Tu, credi nel Figlio dell’uomo?”.
“Credo, Signore!” (Gv 9,35.38), afferma con gioia il cieco nato, facendosi voce di ogni credente.
Il miracolo della guarigione è il segno che Cristo, insieme alla vista, vuole aprire il nostro sguardo interiore, perché la nostra fede diventi sempre più profonda e possiamo riconoscere in Lui l’unico nostro Salvatore.
Egli illumina tutte le oscurità della vita e porta l’uomo a vivere da “figlio della luce”.
Quando, nella quinta domenica, ci viene proclamata la risurrezione di Lazzaro, siamo messi di fronte al mistero ultimo della nostra esistenza: “Io sono la risurrezione e la vita… Credi questo?” (Gv 11,25-26).
Per la comunità cristiana è il momento di riporre con sincerità, insieme a Marta, tutta la speranza in Gesù di Nazareth: “Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio, colui che viene nel mondo” (v.
27).
La comunione con Cristo in questa vita ci prepara a superare il confine della morte, per vivere senza fine in Lui.
La fede nella risurrezione dei morti e la speranza della vita eterna aprono il nostro sguardo al senso ultimo della nostra esistenza: Dio ha creato l’uomo per la risurrezione e per la vita, e questa verità dona la dimensione autentica e definitiva alla storia degli uomini, alla loro esistenza personale e al loro vivere sociale, alla cultura, alla politica, all’economia.
Privo della luce della fede l’universo intero finisce rinchiuso dentro un sepolcro senza futuro, senza speranza.
Il percorso quaresimale trova il suo compimento nel Triduo Pasquale, particolarmente nella Grande Veglia nella Notte Santa: rinnovando le promesse battesimali, riaffermiamo che Cristo è il Signore della nostra vita, quella vita che Dio ci ha comunicato quando siamo rinati “dall’acqua e dallo Spirito Santo”, e riconfermiamo il nostro fermo impegno di corrispondere all’azione della Grazia per essere suoi discepoli.
3.
Il nostro immergerci nella morte e risurrezione di Cristo attraverso il Sacramento del Battesimo, ci spinge ogni giorno a liberare il nostro cuore dal peso delle cose materiali, da un legame egoistico con la “terra”, che ci impoverisce e ci impedisce di essere disponibili e aperti a Dio e al prossimo.
In Cristo, Dio si è rivelato come Amore (cfr 1Gv 4,7-10).
La Croce di Cristo, la “parola della Croce” manifesta la potenza salvifica di Dio (cfr 1Cor 1,18), che si dona per rialzare l’uomo e portargli la salvezza: amore nella sua forma più radicale (cfr Enc.
Deus caritas est, 12).
Attraverso le pratiche tradizionali del digiuno, dell’elemosina e della preghiera, espressioni dell’impegno di conversione, la Quaresima educa a vivere in modo sempre più radicale l’amore di Cristo.
Il digiuno, che può avere diverse motivazioni, acquista per il cristiano un significato profondamente religioso: rendendo più povera la nostra mensa impariamo a superare l’egoismo per vivere nella logica del dono e dell’amore; sopportando la privazione di qualche cosa – e non solo di superfluo – impariamo a distogliere lo sguardo dal nostro “io”, per scoprire Qualcuno accanto a noi e riconoscere Dio nei volti di tanti nostri fratelli.
Per il cristiano il digiuno non ha nulla di intimistico, ma apre maggiormente a Dio e alle necessità degli uomini, e fa sì che l’amore per Dio sia anche amore per il prossimo (cfr Mc 12,31).
Nel nostro cammino ci troviamo di fronte anche alla tentazione dell’avere, dell’avidità di denaro, che insidia il primato di Dio nella nostra vita.
La bramosia del possesso provoca violenza, prevaricazione e morte; per questo la Chiesa, specialmente nel tempo quaresimale, richiama alla pratica dell’elemosina, alla capacità, cioè, di condivisione.
L’idolatria dei beni, invece, non solo allontana dall’altro, ma spoglia l’uomo, lo rende infelice, lo inganna, lo illude senza realizzare ciò che promette, perché colloca le cose materiali al posto di Dio, unica fonte della vita.
Come comprendere la bontà paterna di Dio se il cuore è pieno di sé e dei propri progetti, con i quali ci si illude di potersi assicurare il futuro? La tentazione è quella di pensare, come il ricco della parabola: “Anima mia, hai a disposizione molti beni per molti anni…”.
Conosciamo il giudizio del Signore: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita…” (Lc 12,19-20).
La pratica dell’elemosina è un richiamo al primato di Dio e all’attenzione verso l’altro, per riscoprire il nostro Padre buono e ricevere la sua misericordia.
In tutto il periodo quaresimale, la Chiesa ci offre con particolare abbondanza la Parola di Dio.
Meditandola ed interiorizzandola per viverla quotidianamente, impariamo una forma preziosa e insostituibile di preghiera, perché l’ascolto attento di Dio, che continua a parlare al nostro cuore, alimenta il cammino di fede che abbiamo iniziato nel giorno del Battesimo.
La preghiera ci permette anche di acquisire una nuova concezione del tempo: senza la prospettiva dell’eternità e della trascendenza, infatti, esso scandisce semplicemente i nostri passi verso un orizzonte che non ha futuro.
Nella preghiera troviamo, invece, tempo per Dio, per conoscere che “le sue parole non passeranno” (cfr Mc 13,31), per entrare in quell’intima comunione con Lui “che nessuno potrà toglierci” (cfr Gv 16,22) e che ci apre alla speranza che non delude, alla vita eterna.
In sintesi, l’itinerario quaresimale, nel quale siamo invitati a contemplare il Mistero della Croce, è “farsi conformi alla morte di Cristo” (Fil 3,10), per attuare una conversione profonda della nostra vita: lasciarci trasformare dall’azione dello Spirito Santo, come san Paolo sulla via di Damasco; orientare con decisione la nostra esistenza secondo la volontà di Dio; liberarci dal nostro egoismo, superando l’istinto di dominio sugli altri e aprendoci alla carità di Cristo.
Il periodo quaresimale è momento favorevole per riconoscere la nostra debolezza, accogliere, con una sincera revisione di vita, la Grazia rinnovatrice del Sacramento della Penitenza e camminare con decisione verso Cristo.
Cari fratelli e sorelle, mediante l’incontro personale col nostro Redentore e attraverso il digiuno, l’elemosina e la preghiera, il cammino di conversione verso la Pasqua ci conduce a riscoprire il nostro Battesimo.
Rinnoviamo in questa Quaresima l’accoglienza della Grazia che Dio ci ha donato in quel momento, perché illumini e guidi tutte le nostre azioni.
Quanto il Sacramento significa e realizza, siamo chiamati a viverlo ogni giorno in una sequela di Cristo sempre più generosa e autentica.
In questo nostro itinerario, ci affidiamo alla Vergine Maria, che ha generato il Verbo di Dio nella fede e nella carne, per immergerci come Lei nella morte e risurrezione del suo Figlio Gesù ed avere la vita eterna.
Dal Vaticano, 4 novembre 2010 BENEDICTUS PP XVI

San Giovanni della Croce

L’amore di Cristo non è un peso per l’uomo, ma “gli dà quasi ali”.
Lo ha detto il Papa parlando di san Giovanni della Croce all’udienza generale di mercoledì 16 febbraio, nell’Aula Paolo VI.
Cari fratelli e sorelle, due settimane fa ho presentato la figura della grande mistica spagnola Teresa di Gesù.
Oggi vorrei parlare di un altro importante Santo di quelle terre, amico spirituale di santa Teresa, riformatore, insieme a lei, della famiglia religiosa carmelitana: san Giovanni della Croce, proclamato Dottore della Chiesa dal Papa Pio XI, nel 1926, e soprannominato nella tradizione Doctor mysticus, “Dottore mistico”.
Giovanni della Croce nacque nel 1542 nel piccolo villaggio di Fontiveros, vicino ad Avila, nella Vecchia Castiglia, da Gonzalo de Yepes e Catalina Alvarez.
La famiglia era poverissima, perché il padre, di nobile origine toledana, era stato cacciato di casa e diseredato per aver sposato Catalina, un’umile tessitrice di seta.
Orfano di padre in tenera età, Giovanni, a nove anni, si trasferì, con la madre e il fratello Francisco, a Medina del Campo, vicino a Valladolid, centro commerciale e culturale.
Qui frequentò il Colegio de los Doctrinos, svolgendo anche alcuni umili lavori per le suore della chiesa-convento della Maddalena.
Successivamente, date le sue qualità umane e i suoi risultati negli studi, venne ammesso prima come infermiere nell’Ospedale della Concezione, poi nel Collegio dei Gesuiti, appena fondato a Medina del Campo: qui Giovanni entrò diciottenne e studiò per tre anni scienze umane, retorica e lingue classiche.
Alla fine della formazione, egli aveva ben chiara la propria vocazione: la vita religiosa e, tra i tanti ordini presenti a Medina, si sentì chiamato al Carmelo.
 Nell’estate del 1563 iniziò il noviziato presso i Carmelitani della città, assumendo il nome religioso di Mattia.
L’anno seguente venne destinato alla prestigiosa Università di Salamanca, dove studiò per un triennio arti e filosofia.
Nel 1567 fu ordinato sacerdote e ritornò a Medina del Campo per celebrare la sua Prima Messa circondato dall’affetto dei famigliari.
Proprio qui avvenne il primo incontro tra Giovanni e Teresa di Gesù.
L’incontro fu decisivo per entrambi: Teresa gli espose il suo piano di riforma del Carmelo anche nel ramo maschile dell’Ordine e propose a Giovanni di aderirvi “per maggior gloria di Dio”; il giovane sacerdote fu affascinato dalle idee di Teresa, tanto da diventare un grande sostenitore del progetto.
I due lavorarono insieme alcuni mesi, condividendo ideali e proposte per inaugurare al più presto possibile la prima casa di Carmelitani Scalzi: l’apertura avvenne il 28 dicembre 1568 a Duruelo, luogo solitario della provincia di Avila.
Con Giovanni formavano questa prima comunità maschile riformata altri tre compagni.
Nel rinnovare la loro professione religiosa secondo la Regola primitiva, i quattro adottarono un nuovo nome: Giovanni si chiamò allora “della Croce”, come sarà poi universalmente conosciuto.
Alla fine del 1572, su richiesta di santa Teresa, divenne confessore e vicario del monastero dell’Incarnazione di Avila, dove la Santa era priora.
Furono anni di stretta collaborazione e amicizia spirituale, che arricchì entrambi.
A quel periodo risalgono anche le più importanti opere teresiane e i primi scritti di Giovanni.
L’adesione alla riforma carmelitana non fu facile e costò a Giovanni anche gravi sofferenze.
L’episodio più traumatico fu, nel 1577, il suo rapimento e la sua incarcerazione nel convento dei Carmelitani dell’Antica Osservanza di Toledo, a seguito di una ingiusta accusa.
Il Santo rimase imprigionato per mesi, sottoposto a privazioni e costrizioni fisiche e morali.
Qui compose, insieme ad altre poesie, il celebre Cantico spirituale.
Finalmente, nella notte tra il 16 e il 17 agosto 1578, riuscì a fuggire in modo avventuroso, riparandosi nel monastero delle Carmelitane Scalze della città.
Santa Teresa e i compagni riformati celebrarono con immensa gioia la sua liberazione e, dopo un breve tempo di recupero delle forze, Giovanni fu destinato in Andalusia, dove trascorse dieci anni in vari conventi, specialmente a Granada.
Assunse incarichi sempre più importanti nell’Ordine, fino a diventare Vicario Provinciale, e completò la stesura dei suoi trattati spirituali.
Tornò poi nella sua terra natale, come membro del governo generale della famiglia religiosa teresiana, che godeva ormai di piena autonomia giuridica.
Abitò nel Carmelo di Segovia, svolgendo l’ufficio di superiore di quella comunità.
Nel 1591 fu sollevato da ogni responsabilità e destinato alla nuova Provincia religiosa del Messico.
Mentre si preparava per il lungo viaggio con altri dieci compagni, si ritirò in un convento solitario vicino a Jaén, dove si ammalò gravemente.
Giovanni affrontò con esemplare serenità e pazienza enormi sofferenze.
Morì nella notte tra il 13 e il 14 dicembre 1591, mentre i confratelli recitavano l’Ufficio mattutino.
Si congedò da essi dicendo: “Oggi vado a cantare l’Ufficio in cielo”.
I suoi resti mortali furono traslati a Segovia.
Venne beatificato da Clemente X nel 1675 e canonizzato da Benedetto XIII nel 1726.
Giovanni è considerato uno dei più importanti poeti lirici della letteratura spagnola.
Le opere maggiori sono quattro: Ascesa al Monte Carmelo, Notte oscura, Cantico spirituale e Fiamma d’amor viva.
Nel Cantico spirituale, san Giovanni presenta il cammino di purificazione dell’anima, e cioè il progressivo possesso gioioso di Dio, finché l’anima perviene a sentire che ama Dio con lo stesso amore con cui è amata da Lui.
La Fiamma d’amor viva prosegue in questa prospettiva, descrivendo più in dettaglio lo stato di unione trasformante con Dio.
Il paragone utilizzato da Giovanni è sempre quello del fuoco: come il fuoco quanto più arde e consuma il legno, tanto più si fa incandescente fino a diventare fiamma, così lo Spirito Santo, che durante la notte oscura purifica e “pulisce” l’anima, col tempo la illumina e la scalda come se fosse una fiamma.
La vita dell’anima è una continua festa dello Spirito Santo, che lascia intravedere la gloria dell’unione con Dio nell’eternità.
L’Ascesa al Monte Carmelo presenta l’itinerario spirituale dal punto di vista della purificazione progressiva dell’anima, necessaria per scalare la vetta della perfezione cristiana, simboleggiata dalla cima del Monte Carmelo.
Tale purificazione è proposta come un cammino che l’uomo intraprende, collaborando con l’azione divina, per liberare l’anima da ogni attaccamento o affetto contrario alla volontà di Dio.
La purificazione, che per giungere all’unione d’amore con Dio dev’essere totale, inizia da quella della vita dei sensi e prosegue con quella che si ottiene per mezzo delle tre virtù teologali: fede, speranza e carità, che purificano l’intenzione, la memoria e la volontà.
La Notte oscura descrive l’aspetto “passivo”, ossia l’intervento di Dio in questo processo di “purificazione” dell’anima.
Lo sforzo umano, infatti, è incapace da solo di arrivare fino alle radici profonde delle inclinazioni e delle abitudini cattive della persona: le può solo frenare, ma non sradicarle completamente.
Per farlo, è necessaria l’azione speciale di Dio che purifica radicalmente lo spirito e lo dispone all’unione d’amore con Lui.
San Giovanni definisce “passiva” tale purificazione, proprio perché, pur accettata dall’anima, è realizzata dall’azione misteriosa dello Spirito Santo che, come fiamma di fuoco, consuma ogni impurità.
In questo stato, l’anima è sottoposta ad ogni genere di prove, come se si trovasse in una notte oscura.
 Queste indicazioni sulle opere principali del Santo ci aiutano ad avvicinarci ai punti salienti della sua vasta e profonda dottrina mistica, il cui scopo è descrivere un cammino sicuro per giungere alla santità, lo stato di perfezione cui Dio chiama tutti noi.
Secondo Giovanni della Croce, tutto quello che esiste, creato da Dio, è buono.
Attraverso le creature, noi possiamo pervenire alla scoperta di Colui che in esse ha lasciato una traccia di sé.
La fede, comunque, è l’unica fonte donata all’uomo per conoscere Dio così come Egli è in se stesso, come Dio Uno e Trino.
Tutto quello che Dio voleva comunicare all’uomo, lo ha detto in Gesù Cristo, la sua Parola fatta carne.
Gesù Cristo è l’unica e definitiva via al Padre (cfr Gv 14, 6).
Qualsiasi cosa creata è nulla in confronto a Dio e nulla vale al di fuori di Lui: di conseguenza, per giungere all’amore perfetto di Dio, ogni altro amore deve conformarsi in Cristo all’amore divino.
Da qui deriva l’insistenza di san Giovanni della Croce sulla necessità della purificazione e dello svuotamento interiore per trasformarsi in Dio, che è la meta unica della perfezione.
Questa “purificazione” non consiste nella semplice mancanza fisica delle cose o del loro uso; quello che rende l’anima pura e libera, invece, è eliminare ogni dipendenza disordinata dalle cose.
Tutto va collocato in Dio come centro e fine della vita.
Il lungo e faticoso processo di purificazione esige certo lo sforzo personale, ma il vero protagonista è Dio: tutto quello che l’uomo può fare è “disporsi”, essere aperto all’azione divina e non porle ostacoli.
Vivendo le virtù teologali, l’uomo si eleva e dà valore al proprio impegno.
Il ritmo di crescita della fede, della speranza e della carità va di pari passo con l’opera di purificazione e con la progressiva unione con Dio fino a trasformarsi in Lui.
Quando si giunge a questa meta, l’anima si immerge nella stessa vita trinitaria, così che san Giovanni afferma che essa giunge ad amare Dio con il medesimo amore con cui Egli la ama, perché la ama nello Spirito Santo.
Ecco perché il Dottore Mistico sostiene che non esiste vera unione d’amore con Dio se non culmina nell’unione trinitaria.
In questo stato supremo l’anima santa conosce tutto in Dio e non deve più passare attraverso le creature per arrivare a Lui.
L’anima si sente ormai inondata dall’amore divino e si rallegra completamente in esso.
Cari fratelli e sorelle, alla fine rimane la questione: questo santo con la sua alta mistica, con questo arduo cammino verso la cima della perfezione ha da dire qualcosa anche a noi, al cristiano normale che vive nelle circostanze di questa vita di oggi, o è un esempio, un modello solo per poche anime elette che possono realmente intraprendere questa via della purificazione, dell’ascesa mistica? Per trovare la risposta dobbiamo innanzitutto tenere presente che la vita di san Giovanni della Croce non è stata un “volare sulle nuvole mistiche”, ma è stata una vita molto dura, molto pratica e concreta, sia da riformatore dell’ordine, dove incontrò tante opposizioni, sia da superiore provinciale, sia nel carcere dei suoi confratelli, dove era esposto a insulti incredibili e a maltrattamenti fisici.
È stata una vita dura, ma proprio nei mesi passati in carcere egli ha scritto una delle sue opere più belle.
E così possiamo capire che il cammino con Cristo, l’andare con Cristo, “la Via”, non è un peso aggiunto al già sufficientemente duro fardello della nostra vita, non è qualcosa che renderebbe ancora più pesante questo fardello, ma è una cosa del tutto diversa, è una luce, una forza, che ci aiuta a portare questo fardello.
Se un uomo reca in sé un grande amore, questo amore gli dà quasi ali, e sopporta più facilmente tutte le molestie della vita, perché porta in sé questa grande luce; questa è la fede: essere amato da Dio e lasciarsi amare da Dio in Cristo Gesù.
Questo lasciarsi amare è la luce che ci aiuta a portare il fardello di ogni giorno.
E la santità non è un’opera nostra, molto difficile, ma è proprio questa “apertura”: aprire le finestre della nostra anima perché la luce di Dio possa entrare, non dimenticare Dio perché proprio nell’apertura alla sua luce si trova forza, si trova la gioia dei redenti.
Preghiamo il Signore perché ci aiuti a trovare questa santità, lasciarsi amare da Dio, che è la vocazione di noi tutti e la vera redenzione.
Grazie.
Bendetto XVI (©L’Osservatore Romano – 17 febbraio 2011)

Una teologa della salvezza.

Conoscevo Adriana Zarri dai libri e dagli articoli, ma l’ho incontrata soltanto durante la campagna sul referendum contro l’aborto.
Difendeva la libertà per una donna di rifiutare la gravidanza non perché la condividesse, ma per avvertire le credenti che nulla nelle scritture poteva essere invocato contro di essa.
Ricordo la sua persona nel mio studio, nell’unica sfondata poltrona del «manifesto», esile, diritta, i capelli rialzati, in un pomeriggio romano.
Poco dopo – veniva spesso a Roma – m’invitò al Molinasso, dove è stato scritto Erba della mia erba, e la prima volta che salii a Torino mi presi un giorno di piú per raggiungerla.
Il Molinasso era una cascina, forse un vecchio mulino, appena fuori della strada fra le colline attorno a Ivrea.
Stava su un poggio, isolato, lontano qualche chilometro dall’aggregato piú prossimo, in vista di un’unica altra cascina che si presumeva abitata per avervi intravvisto qualche luce.
Vi si accedeva da un sentiero tra l’erba, qualche rovo e un ruscello, era un’antica costruzione contadina, semplice, armoniosa, con un portone ancora orlato di marmo, e subito la scala che saliva al piano.
La scala finiva in una stanza abbastanza grande, con una stufa a legna e un gatto e le finestre che si aprivano su un orizzonte ondulato fin alla linea azzurra delle montagne.
Non si vedeva anima viva.
Adriana aveva lasciato le scarpe e gli abiti di città per gli zoccoli, un vasto grembiule su una vasta gonna, scuri come quelli delle contadine, e mi guidò nei suoi domini chiamando con il loro nome le piante, gli ortaggi e gli animali – i morbidi conigli che si lasciavano tirar su per le orecchie e i rumorosi polli, fra i quali pescò qualche uovo.
In quel silenzio e nel calare della sera parlammo a lungo, e cosí fu sempre quando potevo arrivare.
Prima di cena mi chiedeva se volevo assistere a una sua preghiera, che era di solito una lettura di qualche passo dell’antico Testamento, di quelli dove Dio è indulgente, al massimo un poco geloso – vuoi leggere tu? e io leggevo – qualche minuto di silenzio (lei non amava la parola che mi parve giusta, raccoglimento) e poi a tavola, non senza gustare un bicchiere di vino.
Attorno, verso il buio, vecchi mobili contadini, qualche arnese agricolo ormai fuori uso, qualche vaso con fiori o foglie o bacche delle prime brume dell’autunno.
Era la povertà della quale i poveri diffidano, perché non c’era nulla che non avesse una sua bellezza.
Ricordo di un trauma Del Molinasso m’era rimasta la persuasione che sarebbe stato per sempre, e che era tutto quel che ad Adriana occorreva, né molto né poco.
Lo aveva trovato, credo, nel 1975 e non so quante volte vi salii, almeno una volta l’anno per molti anni, per uno o due giorni di pace.
Né lei cercava di convertirmi, anche perché convinta che tutti saremo salvati, ci piaccia o no, né io di dissuaderla da quel che non provavo; ognuna ascoltava l’altra; solo una volta, dicendomi quanto amava questo mondo fatto da Dio (si doleva che lo scrivessi con la minuscola), aggiunse che non avrebbe potuto ccettare la morte se non avesse creduto alla resurrezione.
Ma restammo là, e d’altronde c’era poco da commentare.
La notte mettevamo fuori il micio, chiamato Malestro per qualche giovanile misfatto, e ci ritiravamo presto, io a leggere e lei a scrivere perché di giorno non aveva tempo.
L’orto, le piante e gli animali cui badare, la corrispondenza, le telefonate, il riporre o pescare dal cassone refrigerato le provviste, il muoversi ordinatamente in uno spazio vasto e che a me pareva disordinato, insomma soltanto a ora tarda era in grado di lavorare.
A quel tempo non la aiutava nessuno.
Quando doveva mettersi nella sua vecchia macchina o saltare in un treno per combattere il nemico principale, che era allora Comunione e Liberazione, chiudeva approssimativamente tutto, badava che al micio non mancasse né un rifugio né il cibo oltre alle lucertole e ai topi forniti dalla provvidenza, e trovava tutto uguale al ritorno.
Il Molinasso era la quiete e pareva che sarebbe stato cosí sempre.
Ma per la campagna piemontese correvano dei disperati che una notte le sfondarono la porta.
Dovevano averla sorvegliata, era una donna sola, palesemente non contadina, palesemente non miserabile, e non capirono perché non tirasse fuori i soldi che esigevano.
Non potevano immaginare che Adriana di soldi non ne avesse affatto, forse non ne aveva mai avuti, urlarono, la minacciarono e alla fine, dopo avere buttato all’aria tutto, la lasciarono legata a terra, e fu la postina a trovarla due giorni dopo.
(…) La sua inconfessata aristocrazia Fu un trauma, fra il terrore, il malessere, il freddo, quelle ore fra vita e morte e una perdita della quale non riusciva a consolarsi.
Dove poteva andare? Poteva mantenersi ma non aveva denaro per comprare niente, tanto meno un’altra cascina, e in una solitudine meno deserta e pericolosa.
Non le mancarono le proposte, di venire qui o andare là, di amici che ne aspettavano le parole e gli scritti, ma naturalmente non erano eremiti.
Vagò per un certo tempo senza nido, fin che parve rassegnata a fermarsi nel cuneese, dove una famiglia generosa deteneva il dorso di una collina fra i carpini.
Vi si scorgevano qualche rada costruzione e un borgo nel fondovalle.
La coppia ospitava dei tossicodipendenti.
Ricordo il volto smarrito di Adriana alla tavola comune, fra due adulti calorosi e alcuni giovani risentiti, incapaci di muovere un dito, infelicissimi e tetri.
Ho pensato allora, con qualche malizia, che delle virtú teologali la mia amica ne aveva in sovrabbondanza due, fede e speranza, mentre frequentava a modo suo la carità, il suo amore essendo tutto per Dio e qualche grande causa, ma poco incline alla sofferenza dei singoli, che in verità non ha nulla di splendido.
I suoi occhi spalancati su quelle infelicità ne vedevano la bruttezza e non riusciva, come i suoi amici, a tendere le braccia.
Non sarebbe mai stata come madre Teresa e le sue seguaci, delle quali diffidava e, come capii piú tardi, non a torto.
Il suo bisogno di solitudine veniva anche, credo, da una inconfessata aristocrazia del modo di essere.
Intanto era una gran pena e si stava già rassegnando a far planare sul terreno dei suoi ospiti, come la casa di Loreto portata dagli angeli, un prefabbricato norvegese minimo, munito di una poderosa stufa.
Me lo descrisse con voce ottimista.
Addio viste e orizzonti aperti, orto e rose.
Doveva mettersi da qualche parte dove poter chiudere una porta.
Fu allora che qualcuno, penso Luigi Bettazzi che allora era vescovo di Ivrea, la salvò, offrendole in comodato, che deve essere una sorta di affitto a termine, una proprietà diocesana abbandonata, che aveva il vantaggio di stare proprio sull’orlo di un paesino del torinese, un lato sulle ultime case e l’altro su una sconfinata campagna.
Un miracolo.
Adriana rifiorí, vi si insediò subito e io salii a vedere.
Avevo in mente il Molinasso e rimasi di stucco, era un luogo bruttissimo.
Un gran cancello arrugginito, fra due santi antipatici, immetteva a sinistra su una cascina disabitata e a destra su n’altra cascina appena meno sbrindellata, cui si accedeva da un’erta scala di legno, a sua volta collegata a uno sgarbato casone giallo, forse degli anni Trenta, che dava sulla campagna e un giardinetto ad aiuole.
Il quarto lato era indeciso fra una costruzione informe e un arruffato boschetto.
In mezzo uno spazio interrotto da un alto muro, inteso a dividere una delle due cascine e il casone dall’altra.
Adriana si era collocata al primo piano della cascina di destra, che era poi uno stanzone affacciato in fondo verso il paese, e per me aveva collocato un letto giú al pianterreno.
C’era dappertutto una polvere decennale, dappertutto tracce di immemoriali abbandoni, sgomberi frettolosi e confusi, mi misi a scopare e riordinare inutilmente, e quando ci lasciammo dopo una breve cena afferrai una coperta e scesi quella scala da vertigini giú in cortile dove, saltata la lampadina, sbagliai di porta e mi infilai a tastoni in una stanza dove mi parve di individuare un letto di legno.
La mattina dopo scoprii che avevo dormito su un catafalco, con i suoi bravi manici davanti e dietro, e un cespo di rose di pezza coperto di falso filo d’oro rimasto attaccato dall’ultima cerimonia.
Ero in una sorta di magazzino dove era stato ammucchiato tutto quel che una sacrestia povera poteva lasciare di non sacro dietro di sé.
(…) in “il manifesto” del 12 febbraio 2011

Albouazizi: La dignità Araba

Quello che sta succedendo nel mondo arabo sta a dimostrare che è terminato un periodo nel quale quasi tutti i paesi arabi hanno convissuto con la paura, con la repressione feroce, con sistemi autoritari, dittatoriali, dispotici, con una componente di corruzione molto evidente, con dei regimi che hanno escluso per anni buona parte della popolazione dalla partecipazione alla vita pubblica.
In conseguenza di tutto questo le manifestazioni di oggi sono caratterizzate da due elementi: da una parte la rivendicazione della libertà e dall’altra parte la richiesta di giustizia sociale e soprattutto di dignità.
Dopo la caduta del muro di Berlino, il mondo arabo è rimasto fuori da qualsiasi dialettica di cambiamento.
Questi giorni dimostrano che il clima di paura è terminato e siamo di fronte all’avvio di un nuovo processo.
Quali saranno le fasi, i traguardi, le interpretazioni della vita pubblica è tutto da vedere, ma intanto queste manifestazioni danno un segnale molto preciso: le popolazioni dei paesi arabi non sono più disposte a sopportare né le condizioni economiche né le condizioni politiche in cui vivevano da anni.
Vorrei utilizzare un’immagine per esplicitare meglio le condizioni in cui si sono trovati questi popoli: quella di un triangolo, che ha funzionato in tutti questi anni come un recinto di repressione e di dispotismo assoluto.
Un triangolo composto, per un lato, dall’ondata di un certo integralismo religioso che era privo di progettualità e chiarezza, di una reale interpretazione dei bisogni e delle esigenze delle popolazioni; per un altro lato dai sistemi di governi secolari, dispostici, familistici e spesso corrotti; come terzo lato, infine, l’ingerenza di potenze straniere che hanno sorretto quei regimi, un appoggio che certamente ha giocato un ruolo determinante nel favorire per lunghi decenni l’operato di combriccole autoritarie e violente.
Le potenze straniere che hanno sostenuto questi regimi spesso sono rimaste in silenzio rispetto alle violazioni di diritti elementari delle popolazioni.
Oggi, tutti questi elementi si trovano in crisi di fronte a quello che è avvenuto, ai movimenti di base che si sono ribellati alla loro condizione.
Sia nel caso egiziano sia in quello tunisino i partiti dell’opposizione ufficiale – un’opposizione spesso meno che decorativa – sono stati scavalcati.
Ma anche la stessa opposizione, quella reale, quella che ha vissuto per decenni in una situazione di repressione quasi totale, è stata a sua volta scavalcata da queste forze popolari che ora stanno rivendicando – pagando anche un alto prezzo – un accesso alla partecipazione politica e un nuovo ruolo dello Stato come garante delle esigenze di larga parte della popolazione.
Quel triangolo su cui si basavano questi regimi è ora in frantumi: sia i regimi, sia gli stessi movimenti integralisti, sia le potenze straniere si trovano in forte difficoltà di fronte agli avvenimenti attuali.
Occorre dire che questi movimenti non nascono dal nulla, come mera sollevazione spontanea per rivendicare il pane.
Stiamo parlando di popoli che hanno una storia millenaria, hanno una coscienza e un senso di sé come tanti altri popoli nel mondo, soprattutto hanno una storia di lotta di liberazione dal giogo del potere colonialista.
In alcuni periodi le popolazioni si sono mosse in termini di rivolta, di ribellioni, anche se, essendo disarmate e senza aiuti esterni, spesso sono state represse nel sangue.
Molti degli attivisti sono stati torturati, incarcerati, esiliati, però attualmnte sembra che la paura e la repressione non siano sufficienti ad arginare questo flusso “rivoluzionario” di rivendicazioni che chiedono la fine di regimi impopolari,  nella corruzione, del marciume, per ottenere giustizia sociale, libertà e dignità, evidenziando una consapevolezza politica molto matura.
Ritengo elementi determinanti la mancanza di libertà e l’insicurezza dei cittadini.
Il sentirsi perseguitati (perfino in casa propria) come persone umane, ha avuto un peso notevole.
Ricordiamoci inoltre che, se negli anni ’60 e ’70 questi Stati hanno avuto un percorso economico che ha garantito una redistribuzione del reddito e la creazione di un minimo di welfare, oggi questo è venuto meno, molte proprietà dello Stato sono state privatizzate, anzi in molti casi accaparrate, “familizzate” dai parenti di chi gestiva il potere, che agli occhi della gente è strapotere assoluto.
In regimi così repressivi non ci sono neppure luoghi dove la gente può ritrovarsi; spesso non ci sono né spazi né riferimenti per le organizzazioni della società civile.
Per questo strumenti come twitter, facebook, cellulari, sms sono diventati sussidi per scambiare informazioni, per far sapere cosa sta accadendo nei vari luoghi, nelle varie situazioni.
Oggi le connessioni sul piano telematico sono fortissime, accorciano le distanze, anche popolazioni lontane dai luoghi del potere sono in grado di connettersi, accedere alle informazioni, acquisire conoscenze.
Da decenni assistiamo anche all’evolversi di una società civile mondiale dove avviene uno scambio di linguaggi, di temi come la giustizia, la libertà.
Negli ultimi decenni questi processi sono divenuti più celeri.
La televisione Al Jazeera, ad esempio, è diventata un luogo virtuale dove le persone possono partecipare, riconoscersi in una serie di contenitori culturali e politici, dove si svolgono continuamente dibattiti su temi sensibili, delicati, in cui vengono presentati punti di vista completamente diversi.
Da metà dicembre AJ è stata censurata nel momento in cui il regime tunisino ha capito la capacità di questa televisione di seguire le rivolte nei diversi luoghi del Paese, il luogo dove i tunisini si informano sui loro accadimenti e sulle manifestazioni di sostegno delle altre popolazioni arabe.
Durante una trasmissione un cittadino tunisino intervistato ha detto che il 70% di quello che è avvenuto, il successo della rivolta è stato reso possibile grazie ad AJ, ma non perché essa la fomentava o la sosteneva, bensì perché documentava, faceva vedere quello che avveniva, mentre la televisione di Stato nascondeva tutto.
Le date del 14 ed 25 gennaio 2011 saranno incise nella profondità dell’immaginario delle genti arabe.
Popolazioni che da lunghi anni sono in attesa di riscatto per scrollarsi di dosso un orribile cumulo di fallimenti e di sconfitte sui tutti piani e specialmente il perpetuarsi delle sofferenze dei palestinesi e la drammatica situazione delI’Iraq.
Questa rivoluzione è nata dal basso, senza alcun sostegno esterno, a differenza delle “rivoluzioni a colori” sostenute da potenze straniere.
Sono manifestazioni non funzionali a nessun progetto di potenza grande, media o piccola, sono manifestazioni di disobbedienza civile, disarmate, quindi non violente e questo confuta il fatto che da anni si va sostenendo in Europa, che la società musulmana si identifica con la violenza.
La seconda quetione è che con queste manifestazioni non ci si muove per questioni religiose, ma per difendere la dignità dei cittadini.
Sono manifestazioni povere, dove si scrivono cartelli a mano, dove le parole d’ordine sono la libertà, la dignità, la democrazia, no al dispotismo (Istibdad), no alla corruzione (Fasad).
La forza di queste manifestazioni è che sono sostenute da esponenti dei ceti medi, dagli operai, dai contadini, dalle donne, dagli uomini, dagli anziani e dai giovani.
Sono movimenti popolari, non particolarmente ideologicizzati.
Questi movimenti non nascono, come si dice in Europa nel gergo politico, perché ci sono delle avanguardie che li guidano.
Le avanguardie, se ci saranno, nasceranno in seguito da questi movimenti.
Non è da trascurare la presenza di realtà politiche con un certo radicamento, perché queste manifestazioni non nascono dal nulla: ci sono state in passato mobilitazioni, rivolte e rivendicazioni che rappresentano dei riferimenti significativi per gli attivisti di oggi.
Oltre alle forze politiche a favore di un radicale cambiamento ci sono gruppi che hanno molti legami con vecchie e nuove potenze coloniali, ci sono personaggi che possono riciclarsi, possono usare un linguaggio liberale, possono fare delle aperture molto moderate, con aggiustamenti di facciata, ma stanno attendendo l’occasione per inserirsi nel gioco e controllarne gli effetti.
Certo le potenze esterne proveranno a trovare delle strategie per impedire, far abortire, stroncare, nel migliore dei casi trovare un  compromesso per aggiustamenti timidamente liberali sul piano politico e sul piano economico.
Ma non credo siano sufficienti per dare risposte alle esigenze di una società dove circa il 60% della popolazione è giovane, con livelli di istruzione e aspettative molto alti, diversi da quelli dei genitori.
Si ha a che fare con una nuova fascia della popolazione molto estesa che si sente totalmente esclusa, per cui gli aggiustamenti marginali non potranno reggere a lungo.
Ci sarà bisogno di riforme radicali sul piano sia politico che economico, perché la gente è stanca di vivere in condizioni inaccettabili e di subire il servilismo come ricetta per accedere a un nuovo progresso.
del 9 febbraio 2011 Adel Jabbar Sociologo e saggista

Libertà religiosa, via per la pace.

«I cristiani sono attualmente il gruppo religioso che soffre il maggior numero di persecuzioni a motivo della propria fede»: con questa affermazione il messaggio pontificio Libertà religiosa, via per la pace per la XLIV Giornata mondiale della pace, reso noto pochi giorni prima di Natale (16 dicembre), ha subito attirato l’attenzione dei media.
Nel 25° anniversario dell’Incontro interreligioso di pre ghiera per la pace di Assisi (ottobre 1986), il riferimento è, infatti, non solo a quelle situazioni nelle quali si coltiva «una visione riduttiva della persona umana», ge nerando così «una società ingiusta», ma si allarga a tutte quelle «forme più sofisticate di ostilità contro la religione, che nei paesi occidentali si esprimono talvolta col rinnegamento della storia e dei simboli religiosi nei quali si rispecchiano l’identità e la cultura della maggioranza dei cittadini ».
In tema di libertà religiosa, la Santa Sede e lo stesso Benedetto XVI sono recentemente intervenuti anche a proposito della situazione in Cina: cf.
Regno-att.
22,2010,737 e riquadro a p.
6.
Regno-doc.
n.1, 2011, p.1 Il testo dell’articolo è disponibile in formato pdf Visualizza il testo dell’articolo

La tradizione europea delle grandi chiese

Dagli angoli della vita al cerchio dell’eternità  Tra le caratteristiche distintive del cristianesimo occidentale vi è la volontà di costruire grandi chiese: ancor oggi, in un’Europa che non vuole riconoscere ufficialmente le sue radici cristiane, gli edifici storici più imponenti delle città sono cattedrali, chiese monastiche o santuari.
Come nasce questa tradizione? L’idea cristiana del luogo di culto subisce una prima fondamentale trasformazione in Italia e specificamente a Roma a partire dall’epoca costantiniana.
Precedentemente, come apprendiamo dalle lettere di san Paolo, a Roma come in altre città evangelizzate, la Chiesa era strutturata in piccole comunità identificabili in base alle case private in cui i membri si riunivano.
Nella sua lettera ai Romani, ad esempio, salutando i suoi amici Aquila e Prisca, Paolo saluta anche “la comunità che si riunisce nella loro casa” (Romani, 16, 3-5).
Tra le case utilizzate a Roma nel I secolo, c’erano però anche delle domus patrizie e forse perfino il palatium imperiale: scrivendo da Roma ai credenti di Filippi tra il 61 e il 63, san Paolo dirà: “Vi salutano tutti i santi, soprattutto quelli della casa di Cesare” (Filippesi, 4, 22).
Con la conversione alla nuova fede dei massimi ceti sociali tra la fine del IV e l’inizio del V secolo, alcune “case” vennero destinate permanentemente al servizio della ecclesia erano poi grandi e lussuose: tra queste c’era un’aula di rappresentanza della residenza dell’imperatrice madre Elena, il Palazzo Sessoriano, nota poi col nome di basilica di Santa Croce in Gerusalemme.
 Sarà soprattutto il figlio di Elena, l’imperatore Costantino, a dare dignità ufficiale a questa tendenza, esaltando la nuova fede mediante la costruzione di una vera e propria rete di grandi chiese sul modello architettonico delle aule pubbliche o regie dell’impero: le basiliche.
Come per trecento anni le comunità cristiane avevano celebrato i riti in sale ordinarie in case private e nelle insulae delle città greco romane, senza avvertire una particolare necessità di distinguere i loro luoghi di culto dal mondo che li circondava, così, anche dopo l’ascesa sociale della Chiesa le grandiose strutture fatte costruire dal governo imperiale s’inserivano nell’esistente tessuto architettonico delle città in cui si trovavano.
Le fondazioni costantiniane e quelle del V secolo erano molte e molto grandi: San Giovanni in Laterano, forse già avviata nel 312-13, aveva dimensioni titaniche: 98 per 56 metri; la basilica cimiteriale di San Sebastiano, sulla via Appia, era lunga 75 metri; l’originaria basilica di San Lorenzo sulla via Tiburtina era lunga 98 metri.
C’era una basilica sulla via Labicana, attigua al martìrion dei santi Marcellino e Pietro contenente il mausoleo dell’imperatrice Elena, e un’altra sulla via Nomentana, vicino alla memoria di sant’Agnese, dove la figlia di Costantino, Costanza, aveva fatto costruire il suo mausoleo (l’attuale chiesa di Santa Costanza).
Soprattutto l’antica basilica di San Pietro era colossale, con una facciata larga circa 64 metri e un portico profondo 12.
Le navate (esclusa l’area presbiteriale) erano lunghe 90 metri e quella centrale larga 23,50 con un’altezza di 32,50, mentre le navatelle laterali avevano altezze, rispettivamente, di 18 e 14,80 metri.
Nell’ambito della corte imperiale viene fatto poi un passo carico di significato per la storia dell’architettura cristiana: l’adattamento a scopi liturgici dell’edificio circolare o cilindrico tipico nel mondo tardo-antico dei mausolei di personaggi illustri.
Per la sensibilità greco romana, la forma cilindrica-chiusa infatti suggeriva il mistero della morte; proprio questa configurazione era stata usata nel IV secolo a Gerusalemme per la struttura costantiniana dell’Anastasis, contenente la tomba vuota di Cristo; la stessa forma venne poi utilizzata dalla figlia di Costantino per il proprio mausoleo sulla via Nomentana, accanto all’antica basilica cimiteriale di Sant’Agnese.
Simili strutture circolari hanno un simbolismo particolare.
Mentre le più comuni basiliche longitudinali implicano un cammino – dall’ingresso all’altare – la forma circolare, senza inizio e senza fine, ha dell’infinito: giungere al suo centro connota la fine della ricerca, l’arrivo nel porto sospirato.
Al Santo Sepolcro gerosolimitano, dove prima si passava per una basilica longitudinale per poi – attraversato un cortile – penetrare nella struttura circolare, l’esperienza spaziale complessiva era quasi una metafora di ricerca e scoperta: del cammino di fede e della certezza con cui Dio pone fine alla ricerca dell’uomo, ammettendolo nella luce infinita.
Nel V secolo la più grande chiesa romana a pianta centrale, Santo Stefano Rotondo, proporrà un’esperienza nuova.
La basilica longitudinale diventa un immenso cortile rettangolare intorno all’elemento circolare, che a sua volta diventa un labirinto concentrico con più ingressi.
Dalle cappelle si passa successivamente nel penultimo anello, più alto di quelli esterni e più luminoso, che infine dà accesso all’altissimo spazio cilindrico centrale, un pozzo di luce al cuore dell’edificio.
A Santo Stefano Rotondo il senso del cammino cristiano veniva cioè articolato in termini mistagogici: non più come movimento lineare e neanche come semplice arrivo, ma nell’esperienza di una penetrazione per gradi: dall’esterno verso il centro, dalle tenebre verso la luce, metafora forse, questa, per la vita di una Chiesa che ormai trovava la ragione della sua comunione non solo nella radice storica di una condivisa romanitas, ma nella convergenza verso Colui che è luce degli uomini.
È suggestivo infatti mettere la pianta circolare di questa chiesa a confronto con una coeva immagine di Cristo che ascende nel circolare clipeus simboleggiante la luce, in uno dei pannelli lignei delle porte della Basilica di Santa Sabina, sull’Aventino.
 È il Cristo dell’Apocalisse, l’Alfa e l’Omega della storia umana, presentato tra i simboli dei quattro evangelisti, con – sotto di lui – i santi Pietro e Paolo che innalzano un serto sulla testa di una donna.
Questa, che con le braccia alzate in preghiera, simboleggia la stessa Chiesa che anela al suo Sposo.
A Roma per la prima volta la Chiesa si è identificata plasticamente con Colui che, immolato, è ora “degno di ricevere potenza e ricchezza, sapienza e forza, onore, gloria e benedizione” (Apocalisse, 5, 12); ha occupato spontaneamente, trasformandoli, gli spazi architettonici e concettuali dell’antico impero, persuasa che Dio, oltre a manifestarsi nella grandezza morale d’Israele, s’era manifestato anche nello splendore materiale di Roma.
La marmorea magnificenza della città un tempo pagana fu letta come adombramento della città dell’Apocalisse, la Gerusalemme celeste le cui mura saranno rivestite di pietre rare e preziose.
Roma è infatti la città dell’Apocalisse – dello svelamento del senso nascosto della storia – e dal V secolo in avanti i messaggi comunicati nei programmi iconografici delle più importanti chiese romane sono “apocalittici”.
Cristo nella toga dorata rivelato come Dominus dominantium, Signore dei signori, seduto sul trono o in piedi col rescritto del suo potere divino in mano e, davanti a lui, i ventiquattro vegliardi che giorno e notte l’adorano, versando incensi che simboleggiano le preghiere dei santi: sono queste le immagini realizzate nei presbiteri delle grandi nuove basiliche.
In diverse di queste poi, le scene rivelatrici dell’eternità completavano grandiosi cicli storici sulle pareti laterali, con episodi dell’Antico e del Nuovo Testamento, insistendo così sulla gloria celeste come risoluzione della vicenda terrestre.
Al Vaticano questo messaggio verrebbe anticipato già all’esterno, con un monumentale mosaico che ricopriva la parte superiore della facciata della basilica (conosciuta in una delineazione in un codice del XI secolo proveniente da Farfa e attualmente conservato all’Eton College di Windsor) mettendo davanti agli occhi di fedeli e pellegrini l’Agnello, i vegliardi e la moltitudine senza numero di coloro che stanno “in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide” (Apocalisse, 7, 9).
Pure questa caratteristica della vita dell’antica capitale, la moltitudine, assumerà connotati apocalittici nella Roma cristiana.
La città i cui teatri ed anfiteatri avevano accolto folle immense diventerà la Roma papale che regolarmente accoglie uomini e donne “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Apocalisse, 7, 9).
Fenomeno, questo, che spiega la creazione – prima al Laterano e poi al Vaticano – di spazi adeguati ad accogliere le folle di pellegrini provenienti da tutto il mondo, spazi che esprimono continuità con l’antico impero: la basilica San Pietro ed antistante piazza infatti ricoprono un circo realizzato nel I secolo dagli imperatori Caligola e Nerone.
I giganteschi teatri e anfiteatri dell’Urbe, che ancor oggi testimoniano la capacità dell’impero di convogliare folle oceaniche verso un punto, fanno parte dell’esperienza della primitiva Chiesa di Roma.
Anche se i convertiti alla nuova fede non dovevano essere assidui frequentatori del teatro e del circo, non potevano certo ignorare il fascino che simili luoghi esercitavano sui loro contemporanei.
Ciò significa che non solo l’idea di magnifici spazi di vita collettiva, ma anche quella dello spettacolo – di raduni per vedere insieme eventi che uniscano mediante l’emozione condivisa da centinaia di migliaia di persone – faceva parte del bagaglio culturale ed umano della primitiva Chiesa romana.
(©L’Osservatore Romano – 10 febbraio 2011)

I cristiani e il risveglio arabo

Le rivolte arabe hanno sorpreso tutti.
Le proteste nascono da dure condizioni di vita ma anche dall’umiliazione di regimi corrotti.
È una rivolta in buona parte di giovani: il 61% degli egiziani, il 58% dei libici e il 74% degli yemeniti hanno meno di trent’anni.
I giovani non si sono rassegnati all’intimidazione che ha trattenuto i loro padri per anni.
Gente alfabetizzata e globalizzata reagisce in modo nuovo: si sente soggetto, non solo oggetto della storia.
Il sistema autoritario non riesce a bloccare chi ha vissuto una rivoluzione mentale.
Si sollevano società civili e classi medie umiliate con la coscienza di non essere più isolate, ma parte di una comunità globale con nuovi mezzi per comunicare.
«Siamo tutti egiziani» — si leggeva su un cartello in piazza Tahrir, mentre fraternizzavano musulmani e cristiani.
Eppure papa Shenouda, capo di vari milioni di copti (sempre critico verso le vessazioni del governo), ha sostenuto Mubarak: ha chiesto ai suoi giovani di non scendere in piazza.
Le minoranze cristiane hanno paura.
Gli autocrati sembrano garantirle di fronte alla marea musulmana.
Ma trapelano sospetti che il ministro dell’Interno di Mubarak abbia avuto connivenze nell’attentato alla chiesa copta di Alessandria.
Allora si capisce meglio la furente reazione egiziana alle proteste italiane e alle parole di Benedetto XVI per la strage.
A piazza Tahrir un giovane cristiano brandiva un cartello: «Sono copto e sto qui malgrado papa Shenouda».
Un piccolo episodio ignorato riguarda la sinagoga vicino piazza Tahrir, sempre protetta da blindati.
Con la rivolta, i militari sono spariti e i dimostranti, divenuti padroni della zona, hanno rispettato il tempio.
Sintomo di un sentire maturo? Certo preoccupano le dichiarazioni di alcuni religiosi contro Israele ed è inquietante l’arrivo di due navi iraniane nel Mediterraneo via Suez.
Il futuro politico delle rivolte arabe non è chiaro.
Un ingegnere libico ha detto all’inviato de La Stampa: «Vuol sapere come finirà? Non lo so proprio, so soltanto che non ci fermeremo».
La politica e le analisi europee sono state a lungo bloccate dall’alternativa secca tra autocrati e pericolo islamico.
Di fronte agli ultimi eventi ci si è troppo limitati alla legittima, ma riduttiva domanda se ne guadagnasse l’islamismo.
Ma, per esportare la democrazia in Iraq contro un sanguinario dittatore, si è combattuta una guerra.
Poca simpatia è spirata da noi verso il «vento di libertà» di piazza Tahrir.
Si tratta di un nuovo ’68, di un ’89 o che altro? Per il «vento della libertà», laddove è vittorioso, comincia ora un delicato viaggio verso la democrazia attraverso le istituzioni e la politica.
L’entusiasmo per la libertà riuscirà a fondare un senso della cittadinanza che superi il fondamentalismo delle identità? In ogni caso mi pare dovuta un’apertura di credito da parte di chi crede nei valori democratici e nella libertà.
La paura è un cattivo consigliere.
Ha bloccato la politica occidentale verso gli arabi con il timore dell’Urss e poi del fondamentalismo.
Certo si capiscono gli interessi economici (come in Libia).
Ma c’è un limite, già da tempo oltrepassato da Gheddafi.
E mille morti pesano.
La radicalizzazione repressiva poi fa il gioco degli estremisti.
Il ministro Frattini, reduce dall’Egitto, ha indicato una prospettiva nuova al convegno tra cristiani e  musulmani sulle ragioni della convivenza, tenutosi mercoledì a Sant’Egidio: «Bisogna passare dalla partnership della convenienza a quella della convivenza» — ha detto.
La convivenza è riconoscimento del pluralismo.
Un simile riconoscimento da parte  musulmana è solida garanzia alle minoranze cristiane, del cui valore l’Europa comincia ad accorgersi.
Dopo tanta retorica mediterranea, oggi le due rive sono più vicine e il mondo arabo meno lontano da noi.
Il futuro è nelle mani di tutti, arabi ed europei, in un mondo più globale.
in “Corriere della Sera” del 25 febbraio 2011