Ancora un martire in Pakistan: Shahbaz Bhatti

Chi difende Asia Bibi muore.
Ai primi di gennaio, in Pakistan, era stato assassinato Salman Taseer, il governatore del Punjab che aveva presentato una richiesta di grazia a favore della donna cristiana, madre di cinque figli, arrestata nel 2009 e condannata a morte nel 2010 per il reato di blasfemia.
Adesso la violenza dell’estremismo islamico si è abbattuta su Shabhaz Bhatti, il ministro per le Minoranze che proprio a partire dal caso di Asia Bibi aveva avviato una battaglia per la riforma della legge sulla blasfemia.
Il nesso, dunque, è più che evidente.
Ma sarebbe un errore limitare la portata degli eventi a un solo caso, seppure emblematico.
La persecuzione dei cristiani in oltre 60 Paesi del mondo è un’innegabile realtà e il Pakistan (la “terra dei puri”, la Repubblica islamica nata nel 1947 per accogliere i musulmani del subcontinente indiano) dimostra che essa ha un nocciolo politico.
Taseer era un musulmano, Bhatti un cattolico.
Sono morti allo stesso modo e per la stessa causa.
La legge sulla blasfemia, in Pakistan, consente di accusare chiunque sulla base di presunte offese ad Allah, e di ottenere con prove inesistenti o sommarie condanne pesantissime da tribunali complici o, a loro volta, intimiditi.
Non esistono leggi analoghe per il Dio cristiano o gli dei hindù, il che diventa un potente strumento di conservazione sociale a favore dei musulmani.
Ma non solo: la legge è stata spesso applicata da musulmani ai danni di musulmani, e quasi sempre per risolvere contese politiche o economiche.
Un’arma micidiale nelle mani di movimenti e partiti dell’estremismo islamico, che riescono facilmente a istruire cause e trovare testimoni e che già approfittano della debolezza del governo centrale pakistano per indebolirlo – e in alcune regioni addirittura sostituirsi a esso – in settori cruciali come l’assistenza sociale o l’educazione scolastica.
La risposta a un problema politico dev’essere anch’essa politica.
Le campagne per mobilitare le coscienze, come quella lanciata in Italia per Asia Bibi, sono indispensabili.
Dietro le coscienze, però, devono muoversi le istituzioni.
Il nostro governo si è fatto più volte sentire.
Manca ancora, però, una serie presa di posizione internazionale: dell’Unione Europea o, meglio, dell’Onu.
Perché la dimensione politica della scia di sangue che unisce Asia Bibi a Salman Taseer a Shabhaz Bhatti prosegue fino alla morte del capitano Massimo Ranzani e a quella dei 2.535 soldati occidentali e degli oltre 10mila soldati e poliziotti afghani caduti con lui.
Le teste e le mani che hanno armato gli assassini del ministro Bhatti sono nella North West Frontier Province, l’area del Pakistan che confina con l’Afghanistan e si è trasformata nel santuario del fondamentalismo.
Si muore in Afghanistan perché la regione non vada in pezzi, quindi anche perché il Pakistan (Paese dotato di armi atomiche) non diventi il nuovo centro propulsivo del terrorismo islamico.
Cosa che avverrebbe se il fragile governo democratico del premier Raza Gilani e del presidente Ali Zardari fallisse o cadesse.
Per Asia Bibi e contro Osama Benladen, la battaglia è la stessa.
Prima lo capiremo, più facile sarà ottenere risultati positivi.
– INTERVISTA Frattini: un martire.
L’Europa codarda
Non capire è impossibile di Fulvio Scaglione – IL RICORDO Padre Mendes: «Mi disse: tornerai in chiesa per i miei funerali» – IL PROFILO Paladino del dialogo – IL VIDEO DI TV2000

Il crocifisso e le nostre radici

Il crocifisso di stato Sergio Luzzato Einaudi editore Senza il crocifisso sul muro, dicono, l’Italia non sarebbe piú la stessa.
Lo dicono tanti cattolici, ma anche tanti laici.
Io penso che gli uni e gli altri abbiano ragione.
Senza il crocifisso negli edifici statali l’Italia non sarebbe piú la stessa: sarebbe piú giusta, piú seria, migliore.
Perché in Italia alle pareti di scuole, ospedali e perfino tribunali stanno appesi dei crocifissi? E perché non dovrebbero? Molte persone non li vedono nemmeno, molte altre ritengono che sia questa una consuetudine innocua.
Ma il crocifisso di Stato ha anche fieri nemici, e strenui difensori.
Se periodicamente si riaccende la polemica attorno a un simbolo cosí ingombrante, è perché la discussione non può essere fatta soltanto di regole europee, principî astratti, conflitti identitari.
Quel «pezzo di legno» non è lí da sempre e per sempre: ha tutta una storia, ricca di sorprese, trasformazioni, manipolazioni.
«Sta su quelle pareti perché là lo ha preparato a giungere un passato remoto, perché là lo ha imposto un passato prossimo, perché là lo mantiene una specie di presente storico».
Il crocifisso sul muro è un problema di storia.
Una storia da conoscere, e da raddrizzare.
Quel saggio che attacca il “crocifisso di stato” di Carlo Galli in “la Repubblica” del 28 febbraio 2011 I luoghi pubblici statali possono, debbono, o non debbono, avere un crocifisso alle pareti? Vexata quaestio, ripresa con foga da Sergio Luzzatto nel suo ultimo pamphlet, Il Crocifisso di Stato (Einaudi), in cui lo storico non si fa mancare illustri bersagli, dal papa a Napolitano, da Cacciari a, soprattutto, Natalia Ginzurg (importante autrice della medesima casa editrice, bersagliata dalla polemica in quanto aveva difeso con argomenti laici l’esposizione del crocifisso).
Il punto centrale del libro è che togliere il crocefisso dagli spazi pubblici statali (non da quelli pubblico-sociali) non è un atto di anticlericalismo ma di laicità.
E questa non è cristofobia, come sostengono le gerarchie, perché la laicità non è una posizione di parte: è anzi l’obbedienza alle logiche della modernità politica, che vedono nello Stato il garante delle libertà di tutti, e quindi gli vietano di favorire l’una o l’altra parte; e l’esporre il crocifisso è certo attribuire il favore di Stato a una specifica religione (come afferma una sentenza del tribunale europeo di Strasburgo).
Un favore che, per di più, non è fondato su alcuna legge ma solo su circolari di epoca fascista, indifendibili e inapplicabili; e che viene giustificato, di solito, con due argomenti: il crocifisso è simbolo dell’umana sofferenza e non discrimina nessuno (la tesi di Ginzburg); è talmente intrecciato alla storia d’Italia e ha a tal punto plasmato l’identità nazionale che è simbolo laico (come ha affermato il Consiglio di Stato).
Al primo argomento Luzzatto replica che il crocifisso ha una storia non universale e neutra, ma particolare e polemica, che lo ha visto anche trasformato in oggetto di odio e in arma – certo, impropria – di odio.
Il secondo argomento, poi, è ingenuo e quasi blasfemo.
Ingenuo perché l’identità nazionale è dinamica, e non fissa; e oggi certamente l’Italia non è più esclusivamente e neppure maggioritariamente cattolica (i crocefissi sono sempre più rari nelle case); inoltre, per quanto il cattolicesimo abbia incrociato il formarsi storico della nazione, Paesi non meno cattolici dell’Italia, come la Francia e la Spagna, sono ben più coerenti del nostro rispetto all’intrinseca laicità della cosa pubblica.
Quasi blasfemo, infine, perché associa il Figlio di Dio al potere politico, facendone lo strumento di una strategia di ‘legge e ordine’, anziché di liberazione profetica, di promessa di un’altra vita.
La Chiesa costantiniana – protagonista del compromesso fra trono e altare – oggi non è più, ufficialmente, all’ordine del giorno.
Il cattolicesimo non è più la sola religione ufficiale dello Stato, come si leggeva nello Statuto albertino, recepito nei Patti lateranensi e quindi anche dalla costituzione repubblicana (e anche per questo nel 1984 i Patti furono riveduti).
L’Italia è sempre più secolarizzata, e sempre più ospita residenti e cittadini non cattolici.
Perché, allora, resta in questo limbo di indifferenza e, quando qualcuno pone la questione, di imbarazzo? Il silenzio come regola, e – quando è il caso – le corali manifestazioni, da parte di tutte le forze politiche, di adesione al crocifisso di Stato nascono certo dall’obiettivo di non inimicarsi la Chiesa.
Ma i cittadini? Il libro non risponde direttamente, ma si può avanzare un’ipotesi: che il loro tacito consenso alla presenza del crocifisso sia l’altra faccia della parallela e concomitante sfiducia nella statualità.
Insomma, senza crocifisso, e il suo uso improprio, gli italiani – che sanno bene che cosa pensare del loro Stato – si sentirebbero davvero soli.
E quindi se lo tengono.
Non per fede nella religione ma per mancanza di fede nella cosa pubblica.
Sul crocifisso un muro divide le aule d’Italia di Michele Ainis in “il Sole 24 Ore” del 27 marzo 2011 Poverocristo o povero Cristo? Dobbiamo prendere partito per Marcello Montagnana (l’insegnante di Cuneo che andò sotto processo per aver rifiutato l’ufficio di scrutatore alle politiche del 1994, protestando contro l’esposizione del crocifisso nei seggi elettorali) o è giusto schierarsi per il simbolo dolente che campeggia in tutti i nostri edifici pubblici? Sergio Luzzatto sceglie decisamente il primo, ma senza mancare di rispetto nei confronti del secondo.
Il rispetto del quale in Italia siamo orfani è piuttosto un altro: quello che andrebbe tributato al principio di laicità del nostro stato.
Lo professiamo a chiacchiere, però nei fatti ce lo mettiamo sotto i piedi.
E a tale riguardo la vicenda del crocifisso è la più dibattuta, ma non la più eloquente.
Ne è prova per esempio il finanziamento pubblico alle scuole private, che al 90 per cento sono scuole cattoliche: la Costituzione lo vieta espressamente, una legge del 2000 lo permette allegramente.
Sarà per questo, per la cifra di disperazione che ormai accompagna i laici nel paese in cui torreggia il Cupolone, che Luzzatto ha scritto un libro acre come zolfo, dove risuonano gli accenti del pamphlet.
E dove riecheggia la storia di Montagnana insieme a quella dei coniugi Lautsi, che hanno ingaggiato una lunga battaglia giuridica e civile contro l’esposizione del crocifisso nelle scuole.
Potremmo aggiungervi pure il giudice Tosti, che ha fatto altrettanto per espellere questo simbolo  ingombrante dai muri delle aule giudiziarie, guadagnandone in cambio una sfilza di processi e di castighi.
L’elenco è lungo.
Ma è lungo anche l’elenco dei paladini del crocifisso, dove figurano intellettuali insospettabili come Natalia Ginzburg, donna laica e di sinistra.
Nonché nomi importanti dell’intellighenzia cattolica italiana, quali Massimo Cacciari e Franco Cardini.
Luzzatto ricorda – con qualche grammo di perfidia – che il primo viene dall’operaismo sessantottesco, il secondo dal neofascismo degli anni Cinquanta, però l’approdo è identico.
E quale arma dialettica viene brandita in questi casi? Un coltello a doppia lama, benché le due lame siano poi tutt’altro che affilate.
In primo luogo – s’osserva – quella croce di legno non fa male a nessuno, è un dettaglio dell’arredamento pubblico sul quale i più passano via senza degnarlo d’uno sguardo.
Curiosa questa difesa della rilevanza pubblica del crocifisso in nome della sua irrilevanza pubblica.
Ma a sprezzo della logica, gli indomiti crociati ci rovesciano addosso una domanda: se è questione dappoco, allora perché tanto accanimento? Risposta: perché quand’anche fosse un solo uomo a sentirsene ferito, a venire sopraffatto da una religione dominante che lo esclude, uno stato democratico avrebbe l’obbligo d’aprire un ombrello in sua difesa.
I diritti valgono per i deboli, non per i forti.
Servono ai meno, non ai più. Specialmente quando entra in gioco la libertà di religione, che storicamente ha preceduto la stessa libertà di manifestazione del pensiero.
Se fossero libere soltanto le parole di chi canta nel coro, sarebbe come stabilire in una legge che hanno diritto al vino esclusivamente gli ubriachi.
D’altronde lo ha dichiarato pure la Consulta, attraverso un nutrito gruppo di pronunzie che s’affaccia sul volgere degli anni Settanta: il principio di maggioranza non si applica alla sfera religiosa, e dunque è “inaccettabile” ogni discriminazione basata sul numero degli appartenenti ai vari culti.
Non fu minoranza la stessa Chiesa cattolica? Venne fondata da Cristo alla presenza di non più di 12 discepoli, anche se adesso qualcuno lo ha un po’ dimenticato.
Ma si può ben essere cattolici senza pretendere d’imporre al prossimo le insegne del papato.
Ne è testimonianza don Milani, che tolse il crocifisso dalle pareti della scuola di Calenzano per cancellare ogni sospetto di pedagogia confessionale.
Ne è testimonianza il gesto di Cesare Ruperto, ex presidente della Corte costituzionale: benché cattolico, all’atto del suo insediamento fece eliminare il crocifisso dall’aula delle udienze alla Consulta.
Perché quello spazio è pubblico, di tutti.
E perché la nostra carta afferma l’eguaglianza delle confessioni religiose.
Qui però s’affaccia l’altro argomento inalberato dai crociati: non è per le nostre idee particolari che sosteniamo il crocifisso obbligatorio, lo facciamo per il vostro bene, per difendere la storia della quale anche voi atei o miscredenti siete figli, e dunque per difendere l’identità che vi appartiene.
Non è forse vero che riposate di domenica (“il giorno del Signore”), che contate gli anni a partire dalla nascita di Cristo? E allora il crocifisso è un simbolo civile, allora la laicità si nutre di valori religiosi: nel 2006 lo ha scritto anche il Consiglio di stato.
Dev’essere per questo, per la santificazione dell’ossimoro operata dai nostri tribunali, che Luzzatto dichiara in ultimo tutta la sua sfiducia nel diritto.
Dice: a breve arriverà un verdetto dalla corte di Strasburgo, ma tanto per noi non cambierà mai nulla.
Sbaglia, perché la querelle si vince o si perde sull’altare della legge.
Ma non è detto che la laicità reclami un muro nudo.
Non è detto che la difenderà un divieto, come nella Francia che nel 2004 ha proibito il velo in classe, nel 2010 il burqa.
Possiamo aggiungere, anziché togliere.
Possiamo allestire un muro colorato, dove campeggiano i simboli d’ogni religione, e anche lo stemma di chi non ha religione.
Quanto a noi laici, ci basterebbe il faccione corrugato di Voltaire.
Ma una civiltà senza segni è priva di vita di Davide Rondoni in “il Sole 24 Ore” del 27 febbraio 2011 A me, cristiano, il libro di Sergio Luzzatto non persuade, anche per la scelta del pamphlet come strumento di comunicazione.
Per affrontare un tema di così vasta portata occorreva un altro passo.
Mi pare che l’autore dimentichi come da quel giorno sul Golgota, fino ai giorni nostri per il fatto d’esser cristiani, in molte zone del mondo, c’è un sacco di gente che ha perso la vita.
A quest’odio che si fa più cupo non a caso quando fa i conti con la carnalità scandalosa del crocifisso, i cristiani han spesso risposto facendosi il segno della croce, graffiandoselo nel cuore o sui muri, tessendolo in segreto con misera canapa, con fili di ferro e di lacrime.
Come il nome di un amore.
O alzandolo su vessilli.
Mai nascondendolo dalla scena della storia.
Nelle più oscure fosse di dolore sono stati fatti crocefissi di ogni genere, minimi e segreti, per guardare il senso della pena.
Per la mia fede, stracciata e semplice che ci sia o no, Gesù esposto nelle aule di scuola non cambia niente.
So dove inginocchiarmi di fronte a Lui.
Ma a me, come italiano, fa piacere: significa che questo paese, dove da tutto il mondo vengono a vedere luoghi in buona parte legati alla storia e all’arte nate e sviluppate con il cristianesimo, è fatto non solo di istituzioni ma anche di anima e storia, di vita.
Così come sono soddisfatto di vedere esposti simboli di origine religiosa o no in tanti luoghi pubblici in giro per il mondo.
Secondo Il crocifisso di Stato invece la croce esposta è sintesi di tutti i mali italiani (a proposito, come la mettiamo con la bandiera della Svizzera, paese dove l’autore ha scelto di vivere, visto che ha la croce sulla bandiera nazionale stessa?).
Per Luzzatto ogni religione dovrebbe ritirarsi nello spazio del privato e se la prende quindi con chi non condivide la sua tesi.
Natalia Ginzburg, per esempio, viene definita “melensa”, poiché ricordò in un suo articolo su «l’Unità» che il crocifisso esposto non fa male a nessuno e mostra un elemento vitale della nostra civiltà: guardare alla vita con pietà.
Perché bollare come “melenso” il ragionare dell’esponente di una famiglia sfregiata con il sangue? Luzzatto poi ce l’ha con il presidente Giorgio Napolitano che, da ministro, non rispose ad alcuni di coloro che sollevarono il problema del crocifisso nei luoghi pubblici.
Prende di mira molti, da Travaglio a Mussolini, da Padre Pio a Giuliano Ferrara.
Il parlare in nome della “storia” e della “scienza” non lo esime da contraddizioni: rilancia l’idea che il crocifisso sia stato nel Medioevo segno di guerra a cui fedeli d’altre religioni han dovuto reagire e poi ricorda le ingiurie portate in epoca precedente da fanatici ebrei alla croce.
Racconta le vicende gravose di coloro che con tenacia han voluto portare davanti a giudici e presidenti il loro sentirsi offesi dalla presenza del crocifisso.
Storie rispettabili e comprensibili, ma con le quali l’autore stesso finisce per trovarsi in disaccordo.
Costoro, “offesi” dal crocifisso, non volevano nessun simbolo.
Luzzatto deve invece convenire con il mio amico professor J.
Weiler, insigne giurista ebreo di New York che ha difeso a Strasburgo il ricorso dell’Italia e d’altri paesi contro l’ingiunzione di togliere i crocefissi dai luoghi pubblici.
Weiler infatti – con brillantezza e humour, presentandosi con la kippah d’ortodosso ebreo per difendere il crocifisso – ha mostrato ai giudici che non è possibile in questo genere di faccende arrivare a un grado zero di problema.
I simboli religiosi non vanno “laicizzati”, ma letti per il valore che hanno a riguardo della storia di un popolo.
Cittadini britannici potranno sempre sentirsi offesi dal fatto che nel loro inno ci si rivolga a Dio.
Eliminando tali parole si sentirebbero offesi i credenti.
In ogni caso non si può negare il valore di tali parole per la storia di quel paese.
Insomma, la storia non sopporta l’inseguimento dell’attrito zero.
Inutile invocare simboli buoni che “uniscono” contro cattivi che “dividono”: ogni segno porta con sé la necessità della comprensione e della tolleranza.
Il muro bianco è solo negazione di ogni storia.
Una civiltà che non dà luogo a segni condivisi – come è il crocifisso – è civiltà morta.
Perciò Luzzatto finisce il pamphlet riproponendo l’idea di sostituire il crocifisso con l’elica del Dna, unico simbolo che ci accomunerebbe.
Ma non è proprio il Dna ci distingue? Dividendo i malati dai sani, i fortunati dagli imperfetti, i bassi dagli  pilungoni…
Il crocifisso e le nostre radici di Fulvio De Giorgi in “Appunti di cultura e politica” n.
3 del maggio-giugno 2010 Dopo le prime reazioni ‘a caldo’, segnate dalla foga (e non esenti da strumentalizzazioni), forse è possibile avviare una riflessione più serena sulla sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo relativa al Crocefisso nelle scuole italiane: una riflessione controcorrente, ma non astiosamente provocatoria, e che dà una valutazione positiva della sentenza, se intesa in modo profondo e non superficiale o riduttivo.
Le diverse posizioni Vi sono posizioni serie e pensose, passate e presenti, che vedono nel Crocefisso unicamente un simbolo culturale, “interamente secolarizzato” (Carlo Ossola), una “testimonianza storica” (Piero Ostellino), ma di portata universale: segno rivoluzionario dell’uguaglianza tra gli uomini e del dolore umano (Natalia Ginzburg); simbolo della prevalenza dell’amore sul potere (Vito  ancuso), del disinteresse e del rifiuto di ogni compravendita della fede (Aurelio Mancuso), di pace e di amore (Carlo Cardia), di accoglienza e di donazione di sé (Massimo Cacciari), di libertà e di gratuità (Marco Travaglio); volto dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta (Claudio Magris).
È bello e consolante che ci siano questi giudizi, che dimostrano quale etica profonda sia presente nell’umanesimo laico italiano.
Ma c’è un consenso universale su questa universalità culturale del Crocefisso? Non c’è.
Vi sono infatti almeno due posizioni, altrettanto rispettabili, che vanno in senso opposto.
C’è chi lo considera sì simbolo secolare e culturale ma dell’identità nazionale (Carlo Azelio Ciampi e altri) o dell’identità ebraico-cristiana europea (Giorgio Israel), perciò non universale.
C’è pure chi lo considera non simbolo culturale secolarizzato (come la M di McDonald’s) ma unicamente o soprattutto simbolo religioso (Stefano Rodotà e Emilio Gentile tra i laici, Marinella Peroni e Massimo Fagioli e altri, tra i cristiani).
Ci sono poi i leghisti che lo considerano simbolo identitario (non è ben chiaro se dell’identità italiana o di quella padana), ma non certo simbolo dell’uguaglianza tra gli uomini e del dolore umano (cioè anche del dolore dei poveri immigrati): simbolo dunque di respingimento di altre identità culturali.
Simbolo del cristianesimo Ma cosa implica – sul piano istituzionale e giuridico – che sia un simbolo religioso? Consideriamolo nella vicenda dell’Italia unita.
La Costituzione dell’Italia unita, dalla sua nascita all’avvento della Repubblica, era lo Statuto albertino che sanciva, all’art.
1, che la religione cattolica, apostolica romana “è la sola religione dello Stato”.
Quindi il Regno d’Italia era una monarchia costituzionale e liberale ed era pure uno Stato confessionale (gli altri culti erano “tollerati”).
In conseguenza di tale assetto, il Regolamento attuativo della Legge Casati (che nel 1859 disegnava l’architettura del sistema scolastico italiano) per le scuole elementari prevedeva che ogni scuola dovesse essere fornita – tra le altre suppellettili – anche di un Crocefisso (RD n.
4336, 15 settembre 1860).
Lo Statuto albertino vigeva – ancorché stravolto nelle sue garanzie liberali – anche durante il fascismo.
Il Concordato del 1929 prevedeva dunque che l’insegnamento della religione cattolica dovesse essere fondamento e coronamento di tutta l’istruzione pubblica: accentuazione della confessionalità dello Stato, che già c’era e di cui il Crocefisso nelle aule era conseguenza.
Con la fine del fascismo e della monarchia e con l’avvento della Repubblica la situazione cambia.
La Costituzione del 1948 afferma l’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (art.
3), la libertà di tutte le confessioni religiose (art.
8), la reciproca autonomia tra Stato e Chiesa cattolica (art.
7).
Dunque la Repubblica italiana non è più uno Stato confessionale (con un’unica religione ufficiale), ma uno Stato laico.
Tuttavia la Costituzione riconosce – come voleva allora la Chiesa cattolica – valore costituzionale ai Patti Lateranensi, dunque al Concordato del 1929, con le affermazioni che abbiamo visto (e che saranno recepite ancora nei Programmi della scuola elementare del 1955).
Il Crocefisso nelle scuole dunque resta: non più giustificato dalla Costituzione, ma dal residuo confessionalismo implicato nel Concordato.
Il Concilio Vaticano II porta però un grande rinnovamento nella Chiesa cattolica, che afferma la sua autonomia dalla comunità politica, la libertà religiosa, la rinunzia a mezzi contrari allo spirito evangelico.
Afferma: “la potestà civile deve provvedere che l’uguaglianza giuridica dei cittadini, che appartiene essa pure al bene comune della società, per motivi religiosi non sia, apertamente o in forma occulta, mai lesa, e che non si facciano fra essi discriminazioni.
[…] Inoltre, poiché la società civile ha il diritto alla protezione contro i disordini che si possono verificare sotto pretesto della libertà religiosa, spetta soprattutto alla potestà civile prestare una tale protezione; ciò però deve compiersi non in modo arbitrario o favorendo iniquamente un determinato partito, ma secondo norme giuridiche, conformi all’ordine morale obiettivo: norme giuridiche postulate e dall’efficace difesa dei diritti e della loro pacifica composizione a vantaggio di tutti i cittadini” (Dignitatis Humanae, nn.
6-7).
In ogni caso, la Chiesa cattolica “non pone la sua speranza nei privilegi offertile dall’autorità civile.
Anzi essa rinunzierà all’esercizio di certi diritti legittimamente acquisiti, ove constatasse che il loro uso potesse far dubitare della sincerità della sua testimonianza o nuove circostanze esigessero altre  disposizioni” (Gaudium et Spes, n.
76).
I principi della Costituzione e le affermazioni del Concilio portano dunque, nel 1984, alla revisione bilaterale del Concordato del 1929, sancendo in modo inequivocabile: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato dai Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano” (Protocollo addizionale).
Non essendoci più dunque nessuna religione di Stato, nessun simbolo religioso può svolgere una funzione identitaria in uno spazio pubblico-istituzionale.
Ciò significa che è diritto individuale (di portata universale: cioè valido per tutti) rifiutare un simbolo religioso come simbolo identitario dello Stato.
Ciò significa, ancora, che oltre ai simboli identitari nazionali (il tricolore e lo stemma della Repubblica), c’è anche un simbolo valoriale della Repubblica che è – e non se ne vedono altri – il Testo della Costituzione.
Se vuole affermare questo, la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo è indiscutibilmente giusta.
Integralismo o integrazione Ma oggi la nuova realtà multiculturale e multireligiosa porta pure a constatare che “nuove circostanze esigano altre disposizioni”.
Oggi una visione laicista che voglia difendere la laicità espungendo totalmente le religioni dalla scuola pubblica non andrebbe verso il bene comune di una cittadinanza condivisa, di una democrazia partecipativa, di una convivenza serena e pluralista.
La gestione di una società multiculturale può avvenire secondo due principi: o con un assimilazionismo degli individui, unito ad uno scontro di civiltà tra comunità religiose o valoriali (principio di integralismo); oppure con un universalismo individuale dei diritti, unito all’uguaglianza e fraternità delle comunità religiose o valoriali (principio di integrazione).
Ma, a sua volta, l’integrazione si può realizzare con due diverse forme di laicità: o con una laicità di disintegrazione che per integrare toglie dalle istituzioni tutti i riferimenti religiosi o valoriali, considerando l’ambito pubblico come un sottrattore religioso (o multireligioso); oppure con una laicità di integrazione che accoglie e armonizza nelle istituzioni tutte le comunità religiose o valoriali presenti, considerando l’ambito pubblico come un moltiplicatore interreligioso (che, cioè, non solo attrae e non sottrae, ma fa dialogare tra loro e perciò moltiplica la fraternità tra tutte le comunità religiose o valoriali).
Ecco allora che nella scuola pubblica, per rispettare il diritto di libertà di coscienza di ogni individuo, nessun simbolo religioso può avere una posizione ‘fisica’ preminente ed una funzione simbolico-identitaria dello spazio scolastico; ma pure, per favorire l’uguaglianza e la fraternità tra comunità religiose o valoriali, tutti i simboli religiosi o valoriali delle comunità a cui appartengono le famiglie degli scolari devono essere presenti.
Lo scopo è conoscitivo (non culturale: c’è una conoscenza religiosa che, come tale, è importante per tutti) e pedagogico: educare alla conoscenza delle religioni e delle opzioni areligiose, delle loro visioni, della loro storia, dei loro simboli.
Parentesi: in questo contesto, non è detto che in tutti i gradi di scuola il simbolo pedagogicamente più adeguato del Cristianesimo sia il Crocefisso (per esempio, nelle scuole dell’infanzia e primarie, potrebbe essere la Madonna con il Bambino, come voleva la Montessori per le sue Case dei Bambini).
Infine una conclusione, per i cristiani.
La nostra fede sarà riconoscibile non per le nostre radici, culturalmente esibite, ma per i nostri frutti, esistenzialmente vissuti come carità.
Per far questo non bisogna dissotterrare e sbandierare al cielo le radici, ma affondarle, nel nostro cuore, in Cristo.
Cristo risorto, Persona viva oggi (non statua inanimata di ieri, non figura mitologica culturale: come gli dei pagani per Monti e Foscolo), è la radice necessaria per portare frutti di Vangelo, secondo la via stretta indicata nel Discorso della Montagna.
Fulvio De Giorgi

Nuove adozioni per i libri di testo

La CM n. 18 del 25 febbraio 2011 ha diramato istruzioni sull’adozione dei libri di testo per il prossimo anno scolastico 2011-12.
Nel confermare quanto già era stato stabilito negli anni precedenti con la CM 16/09 e la CM 23/10, l’attuale circolare aggiunge solo alcune precisazioni, su cui conviene soffermarsi, anche perché in parte dedicate proprio all’Irc.
Come è noto, la legge 133/08, art. 15, ha stabilito che dal 2011-12 potranno essere adottati solo libri di testo scaricabili da internet o in versione mista, cartacea ed elettronica.
La legge 169/08, art. 5, ha poi aggiunto che i libri devono essere adottati per almeno un quinquennio nella scuola primaria e per almeno un sessennio nella secondaria.
Ciò che preoccupa gli insegnanti è soprattutto il vincolo di adozione pluriennale, dato che sulla versione elettronica si sono mobilitate le case editrici che ormai propongono quasi esclusivamente testi in versione mista.
Il vincolo pluriennale, invece, ricade sulle spalle degli insegnanti come una limitazione talvolta insopportabile, dato che il libro di testo rimane ancora il principale sussidio didattico per ogni docente.
Come è stato ribadito da ultimo con la Nota ministeriale del 20-5-2009, prot.
5361, a seguito di uno specifico contenzioso amministrativo, nemmeno il trasferimento dell’insegnante può giustificare la modifica del testo adottato prima della scadenza prevista.
La legge 169/08 consente la deroga solo in presenza di «specifiche e motivate esigenze», che la successiva legge 167/09, art. 1-ter, ha precisato doversi connettere «con la modifica di ordinamenti scolastici ovvero con la scelta di testi in formato misto o scaricabili da internet».
Attualmente ci troviamo in presenza di una riforma ordinamentale, che ha interessato le scuole del secondo ciclo a partire proprio dal corrente anno scolastico, e quindi è possibile immaginare una deroga ai vincoli di adozione pluriennale.
La CM 18/11, infatti, chiarisce che proprio per via di questa circostanza «i collegi dei docenti, limitatamente alle adozioni per la prima classe della scuola secondaria di secondo grado, potranno valutare l’opportunità di confermare i testi già adottati ovvero di procedere a nuove adozioni», anche se il periodo di adozione non è ancora scaduto.
Specificamente per l’Irc, inoltre, la CM 18/11 ricorda che quest’anno sono entrate in vigore le Indicazioni per le scuole del primo ciclo (DPR 11-2-2010) e quindi si può giustificare la modifica dei libri di testo in adozione per l’Irc in tutte le classi del primo ciclo.
Ovviamente si tratta di una possibilità e non di un obbligo, anche perché il mercato editoriale ancora non ha proposto un sufficiente numero di libri in linea con le nuove Indicazioni e quindi gli Idr potranno decidere di rinviare l’aggiornamento dei loro libri di testo in attesa di una maggiore varietà di offerte.
La situazione si ripropone anche nelle scuole del secondo ciclo, dove sono entrate in vigore quest’anno le Indicazioni diffuse con la CM 70/10.
Licei, tecnici e professionali non sono espressamente citati a proposito dell’Irc, ma si deve ritenere che il loro caso possa rientrare nelle modifiche ordinamentali dell’intero secondo ciclo, cui si fa riferimento in maniera generale nella circolare.
Pertanto, tutti gli Idr potranno non tener conto dei vincoli di adozione, salvo diversa valutazione dettata da motivi di prudenza.
Nella CM 18/11 si richiama anche il rispetto dei tetti di spesa individuati per le scuole secondarie di primo e secondo grado.
In proposito capita che talvolta le scuole ricorrano a qualche misura artificiosa per rientrare nei limiti, escludendo alcuni libri o proponendoli solo come consigliati.
Si tratta di “trucchi” che spesso coinvolgono l’Irc, ma occorre affermare con chiarezza che nessuna disciplina può essere esclusa dall’adozione formale dei libri di testo.
La scusa della facoltatività dell’Irc non regge, poiché tutti gli studenti avvalentisi sarebbero in tal modo costretti a sfondare il tetto di spesa per potersi dotare dei necessari strumenti didattici.
Viceversa, contando anche l’Irc tra i libri di testo che devono rientrare nei limiti di spesa si realizza implicitamente un ulteriore risparmio per i non avvalentisi.

VIII Domenica del Tempo Ordinario Anno A

 Preghiere e racconti   La ricchezza La ricchezza diventa un idolo che si oppone al Dio vivente e la scelta del discepolo dev’essere netta: «Non potete servire a Dio e a mammona».
Eppure questo non significa un masochismo pauperista.
Gesù si preoccupa dei miseri e invita a sostenerli coi propri mezzi come fa il Buon Samaritano nella celebre parabola.
La ricchezza può diventare una via di salvezza se è investita per i poveri: «Vendete ciò che avete e datelo in elemosina; fatevi un tesoro inesauribile nei cieli, dove i ladri non arrivano e la tignola non consuma» (Lc 12,33).
(Gianfranco Ravasi, La “ricchezza” in «Famiglia cristiana» (2006) 40,131).
Quello che non abbiamo cercato “Michail […] non si vantò mai delle grandi ricchezze che aveva accumulato.
Diceva che nessuno merita di possedere un centesimo in più di quanto è disposto a cedere a chi ne ha più bisogno di lui.
La notte in cui conobbi Michail mi disse che, per qualche motivo, la vita è solita offrirci quello che non abbiamo cercato.
A lui aveva concesso ricchezza, fama e potere, mentre desiderava soltanto la pace dello spirito e di poter tacitare le ombre che gli tormentavano il cuore…”.
(Carlo Ruiz ZAFÓN, Marina, Mondadori, 2009, 248-249).
Che cosa è tuo? «A chi faccio torto se mi tengo ciò che è mio?», dice l’avaro.
Dimmi: che cosa è tuo? Da dove l’hai preso per farlo entrare nella tua vita? I ricchi sono simili a uno che ha preso posto a teatro e vuole poi impedire l’accesso a quelli che vogliono entrare ritenendo riservato a sé e soltanto suo quello che è offerto a tutti.
Accaparrano i beni di tutti, se ne appropriano per il fatto di essere arrivati per primi.
Se ciascuno si prendesse ciò che è necessario per il suo bisogno e lasciasse il superfluo al bisognoso, nessuno sarebbe ricco e nessuno sareb-be bisognoso.
Non sei uscito ignudo dal seno di tua madre? E non farai ritorno nudo alla terra? Da dove ti vengono questi beni? Se dici «dal caso», sei privo di fede in Dio, non riconosci il Creatore e non hai riconoscenza per colui che te li ha donati; se invece riconosci che i tuoi beni ti vengono da Dio, spiegaci per quale motivo li hai ricevuti.
Forse l’ingiusto è Dio che ha distribuito in maniera disuguale i beni della vita? Per quale motivo tu sei ricco e l’altro invece è povero? Non è forse perché tu possa ricevere la ricompensa della tua bontà e della tua onesta amministrazione dei beni e lui invece sia onorato con i grandi premi meritati dalla sua pazienza? Ma tu, che tutto avvolgi nell’insaziabile seno della cupidigia, sottraendolo a tanti, credi di non commettere ingiustizie contro nessuno? Chi è l’avaro? Chi non si accontenta del sufficiente.
Chi è il ladro? Chi sottrae ciò che appartiene a ciascuno.
E tu non sei avaro? Non sei ladro? Ti sei appropriato di quello che hai ricevuto perché fosse distribuito.
Chi spoglia un uomo dei suoi vestiti è chiamato ladro, chi non veste l’ignudo pur potendolo fare, quale altro nome merita? Il pane che tieni per te è dell’affamato; dell’ignudo il mantello che conservi nell’armadio; dello scalzo i sandali che ammuffiscono in casa tua; del bisognoso il denaro che tieni nascosto sotto terra.
Così commetti ingiustizia contro altrettante persone quante sono quelle che avresti potuto aiutare.
(BASILIO DI CESAREA, Omelia 6,7, PG 31,276B-277A).
L’imperativo biblico: amare le persone e usare le cose L’imperativo biblico è piuttosto chiaro: dobbiamo amare le persone e usare le cose.
Gesù ci avverte che, ovunque sia il nostro tesoro, lì ci sarà anche il nostro cuore.
Sento il Signore dirci: “Risparmiate il vostro cuore per l’amore, e date il vostro amore solo alle persone: a voi stessi, al vostro prossimo e al vostro Dio.
Non date mai il vostro cuore alle cose: se lo farete, quella cosa, qualunque essa sia, diventerà gradualmente la vostra padrona, vi conquisterà e vi terrà stretti al guinzaglio della dipendenza.
Le preoccupazioni che ne deriveranno, vi renderanno inquieti e vi terranno svegli la notte.
Quel che è peggio, se date il vostro cuore a una cosa, ben presto inizierete a invertire in modo radicale le vostre priorità.
Quando si incomincia ad amare le cose, si iniziano ad usare le persone per ottenere queste cose, per avere sempre più cose.
È dunque opportuno osservare che la Bibbia non dice che il denaro è la causa di ogni male, bensì che l’amore per il denaro è la causa di ogni male.
Avere dei soldi non è un male, ma vendere il proprio cuore al denaro è una tragedia, perché, ovunque sia il vostro tesoro, lì sarà anche il vostro cuore.
Se date il vostro cuore alle cose di questo mondo, presto inizierete a competere con gli altri per ottenere tutto il possibile.
Incomincerete ad accendere la candela ad entrambe le estremità pur di avere sempre di più.
Questa è la strada giusta se volete farvi venire la pressione alta e l’ulcera, se volete diventare ansiosi e depressi.
Se scegliete di percorrere questa strada, finirete per essere tentati di ingannare, raggirare e scendere a compromessi con la vostra integrità, pur di fare del “denaro facile” o di concludere un “grande affare”».[…] La conclusione è la seguente: non posso pronunciare il mio «sì» d’amore in risposta all’invito di Dio senza pronunciare un «sì» d’amore agli altri; mi è impossibile amare Dio senza amare gli altri, così come agli altri è impossibile amare Dio senza amare me.
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 89-90).
Quali sono i criteri per un giusto rapporto con il denaro? Il denaro serve in primo luogo a sostenere le spese necessarie per mantenersi.
Infatti, serve ad assicurarsi il sostentamento anche per il futuro.
È quindi sensato mettere da parte dei soldi e investirli bene, in modo da poter vivere nella vecchiaia senza paura della povertà e della miseria.
Ma nei confronti del denaro dobbiamo sempre essere consapevoli che è a servizio degli uomini e non viceversa.
Il denaro può dispiegare anche una dinamica propria.
Ci sono persone che non ne hanno mai abbastanza.
Vogliono averne sempre di più.
Ed eccedono nel preoccuparsi per la vecchiaia.
In ultima analisi diventano dipendenti dal denaro.
Nel rapporto con il denaro dobbiamo rimanere liberi interiormente e non lasciarci definire sulla base del denaro e nemmeno lasciarci dominare da esso.
Se giustamente si dice che il denaro è al servizio dell’uomo, allora non dovrebbe essere solo al mio servizio, ma anche a quello degli altri.
Con il mio denaro ho sempre una responsabilità nei confronti degli altri.
Le donazioni a favore di una causa buona sono solo una possibilità di concretizzare questa responsabilità.
Da dirigente d’azienda posso creare posti di lavoro sicuri mediante investimenti e, in questo modo, essere al servizio degli altri.
O sostengo progetti che aiutano a vivere in modo più umano.
Importante è l’aspetto del servizio agli altri e della solidarietà: soprattutto l’evangelista Luca ci ammonisce a tenere un atteggiamento di condivisione reciproca.
Ci sono risposte diverse relative al modo di investire bene denaro per il futuro.
Non da ultimo la decisione dipende dalla psiche del singolo.
Uno accetta più rischi, l’altro meno, perché preferisce dormire sonni tranquilli.
Ma anche qui si tratta di utilizzare i soldi in modo intelligente.
Tuttavia, è necessaria sempre la giusta misura, che argina la nostra avidità.
E sono  necessari criteri etici.
Non dovremmo depositare i soldi solo dove ottengono gli utili maggiori, ma piuttosto dove vengono tenuti in considerazione criteri etici.
Oramai molte banche offrono fondi etici, che investono solo in aziende che corrispondono alle norme della sostenibilità, del rispetto delle dignità umana e dell’ecologia.
Decisivo per il rapporto, con il denaro: non dobbiamo soccombere all’avidità.
È necessaria soprattutto la libertà interiore.
(Anselm GRÜN, Il libro delle risposte, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2008, 157-158).
Dire Dio Dio! dice la porta schiudendosi sulla strada piena di passanti.
Dio! dice l’ape posandosi sulla ciotola cerchiata di luce.
Dio! dice il vento che rigira senza fine la sua fronda familiare.
Dio! dice il tordo chinandosi per bere il cielo nello stagno.
Dio! dice la neve ricoprendo di lana le fredde carreggiate.
Dio! dice il bambino vedendosi giocare nelle braccia di sua madre.
E solo, quaggiù, l’uomo attende per dire Dio a modo suo.
(M.
Carême, Il sapore del pane)       * Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Lezionario domenicale e festivo.
Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.
– Temi di predicazione.
Omelie.
Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.  – Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.
– E.
Bianchi et al., Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Tempo ordinario anno A [prima parte], in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 89 (2008) 4, 84 pp.
– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa.
Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.
      VIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO   Lectio – Anno A   Prima lettura: Isaia 49,14-15          Sion ha detto: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato».
Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai.
       v In Israele, prima di ripudiare la moglie, il marito doveva riflettere a lungo perché si trattava di una scelta irreversibile, non erano ammessi ripensamenti, non gli era più permesso di riprendersela.
     In esilio, a Babilonia, Israele si sente una sposa ripudiata.
Sa di essere stata infedele, di aver tradito il suo Dio, ha abbandonato ogni speranza di ricostruire il rapporto d’amore infranto e, mestamente, va ripetendo: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (v.
14).
È il lamento con cui inizia la lettura di oggi ed è l’espressione della dolorosa esperienza di chiunque, caduto nell’abisso del peccato, si rende conto di aver fatto scelte di morte ed è convinto che anche il Signore lo rifiuti.
     Questi pensieri sorgono quando vengono proiettati in Dio i nostri criteri di giudizio e le nostre meschinità.
Compare allora il Dio suscettibile, permaloso e persino vendicativo.
Questa deformazione del suo volto è la più subdola delle astuzie diaboliche e il Signore si premura di cancellarla.
Per bocca del profeta dichiara: «Viene forse ripudiata la donna sposata in gioventù? Io ti riprenderò con immenso amore» (Is 54,6-7).
     Il suo amore non è una risposta ai meriti o alle dimostrazioni di affetto dell’uomo, è una passione incontenibile che prescinde dalle nostre opere buone, è come l’amore di una madre – ecco la nuova, commovente metafora introdotta dalla lettura di oggi (v.
16) — un amore incondizionato e invincibile.
Una madre ama il figlio non perché è riamata, ma perché è suo figlio e lo amerà sempre, qualunque cosa egli faccia.
     Quest’immagine ha già in sé una forte risonanza emotiva, tuttavia, per comprenderne tutta la ricchezza, vale la pena ricordare alcune celebri figure di madri bibliche: il sublime eroismo di Rispa che «dal principio della mietitura dell’orzo, fino a quando dal cielo non cadde su di loro la pioggia», vegliò i cadaveri dei figli consegnati alla morte da Davide (2Sam 21); il coraggio della madre di Mosè che sfida l’ordine del faraone pur di salvare il figlio (Es 2,2-9); il tormento della meretrice che accetta di essere privata del figlio purché non venga ucciso (1Re 3,16-17); la forza d’animo della madre che incoraggia i figli ad affrontare la morte per non rinnegare la fede (2Mac 7).
     Tutta questa carica di emozioni e di sentimenti è presente nell’immagine dell’amore di una madre e aiuta a comprendere con quale passione Dio ama e si interessa dell’uomo.
  Seconda lettura: 1Corinzi 4,1-5          Fratelli, ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio.
Ora, ciò che si richiede agli amministratori è che ognuno risulti fedele.
A me però importa assai poco di venire giudicato da voi o da un tribunale umano; anzi, io non giudico neppure me stesso, perché, anche se non sono consapevole di alcuna colpa, non per questo sono giustificato.
Il mio giudice è il Signore! Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, fino a quando il Signore verrà.
Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno riceverà da Dio la lode.
          v La parola del vangelo è il più grande dono che si possa ricevere, per questo è facile non solo provare profonda simpatia e riconoscenza per chi lo ha offerto, ma anche legarsi fin troppo al messaggero.
Accade oggi ed è accaduto anche nella comunità di Corinto dove, a causa dell’attaccamento all’uno o all’altro degli apostoli, erano sorti dei partiti: alcuni si gloriavano di appartenere a Pietro, altri ad Apollo, altri ancora a Paolo (1Cor 1,12).
     Il brano di oggi conclude la lunga trattazione di questo argomento, iniziata con il severo monito: «Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?» (1Cor 1,13).
     Paolo impiega il plurale – «Ognuno ci consideri come servi di Cristo e amministratori dei misteri di Dio» (v.
1) – perché non parla solo di sé, si riferisce a tutti gli annunciatori del vangelo.
Con due termini espressivi ne definisce il ruolo: sono servi (hypêrétai in greco) cioè inservienti che liberamente hanno accettato di svolgere un incarico; sono dei subordinati, dei dipendenti a servizio di un signore, Cristo; sono degli amministratori (oikónomoi in greco, economi) non dei padroni, hanno in mano beni che appartengono a Dio, a loro sono stati solo affidati affinché li facciano fruttare.
     Agli amministratori si richiede solo la fedeltà (v.
2).
Chi annuncia il vangelo – intende dire Paolo – deve avere un’unica preoccupazione: trasmettere il messaggio del Maestro, senza nulla aggiungere e nulla togliere.
Il padrone non gli chiederà se è riuscito a convincere molte persone, se si è accattivato la simpatia degli uomini, se ha ricevuto applausi e approvazioni; domanderà soltanto se ha annunciato il vangelo secondo verità, senza cedere agli opportunismi, senza scendere a compromessi, senza rispetti umani.
     Nella seconda parte del brano (vv.
3-5) Paolo risponde alle critiche che i corinzi gli muovono.
Assicura che non è per niente preoccupato dei giudizi pronunciati su di lui, siano essi di approvazione o di condanna.
Non è ai corinzi che deve rendere conto del proprio operato, ma a Dio.
Non si fida nemmeno del giudizio della sua coscienza, anche se, onestamente, riconosce che non gli rimprovera nulla (v.
4).
Tiene presente questo giudizio, ma non lo considera definitivo, attende quello del Signore che verrà pronunciato al termine della dura «giornata di lavoro».       Le parole dell’Apostolo non sono un invito a ignorare il giudizio che una comunità pronuncia su chi svolge un ministero.
La comunità ha il diritto e il dovere di esprimere il proprio parere sull’operato dei ministri e amministratori e questi non possono arrogarsi il diritto di agire in modo arbitrario e di «comportarsi da padroni» (1Pt 5,3).
Ma non va dimenticato che, solo alla fine, «ciascuno riceverà da Dio la lode».
  Vangelo: Matteo 6,24-34          In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Nessuno può servire due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro.
Non potete servire Dio e la ricchezza.
Perciò io vi dico: non preoccupatevi per la vostra vita, di quello che mangerete o berrete, né per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita non vale forse più del cibo e il corpo più del vestito?  Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre.
Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano.
Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro.
Ora, se Dio veste così l’erba del campo, che oggi c’è e domani si getta nel forno, non farà molto di più per voi, gente di poca fede? Non preoccupatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?”.
Di tutte queste cose vanno in cerca i pagani.
Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno.
Cercate invece, anzitutto, il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.
Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso.
A ciascun giorno basta la sua pena».
     Esegesi        Il bambino che perde i genitori non può stare solo, ha bisogno di avere qualcuno in cui riporre la sua fiducia, qualcuno che gli dia sicurezza.
Egli cerca spontaneamente un modello, un punto di riferimento nella vita.
     Capita anche con Dio: non se ne può fare a meno, non si può rimanerne orfani; chi lo rifiuta, lo rimpiazza subito con un sostituto.
Il pericolo non è l’ateismo, ma la scelta del dio sbagliato.
     Molti credono che, nell’alto dei cieli, ci sia un Padre che si prende cura di loro; costoro sono convinti che egli prova per loro anche sentimenti materni: si interessa, con affetto e sollecitudine, dei loro bisogni.
Se egli è padre di tutti, gli uomini non sono dei compagni di viaggio, dei vicini più o meno simpatici, più o meno meritevoli di attenzioni; non sono degli antagonisti con i quali competere o, peggio ancora, dei nemici da combattere, ma dei fratelli da amare e aiutare.
     Non tutti accettano questo Padre.
A chi lo rifiuta si presenta subito, con tutto il suo incantevole fascino, il più seducente, il più subdolo degli idoli, il denaro.
Il vangelo di oggi inizia con una denuncia della pericolosità di quest’idolo (v.24).
     Matteo ci ha conservato il termine aramaico – mamônâ – usato da Gesù.
È significativo: deriva dalla radice ‘aman che vuol dire offrire sicurezza, essere solido, affidabile.
Il denaro, come Dio, garantisce ogni bene a chi gli presta culto: dona cibo, bevande, salute, piaceri, divertimenti; ma cosa chiede in cambio? Come ogni dio, esige tutto.
     Dio è il punto di riferimento dei pensieri, delle azioni, della vita dell’uomo e vuole essere amato «con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Dt 6,5).
Anche il denaro pretende il coinvolgimento totale dei suoi devoti.
Per amor suo bisogna essere disposti a rinunciare alla propria dignità, a ingannare, a rubare, a rovinare gli altri, a perdere le amicizie, a trascurare persino moglie e figli (per loro non ci sarà più tempo!), bisogna essere pronti anche a uccidere.
Coloro che adorano il denaro hanno tutto, ma non sono più uomini, divengono schiavi.
«L’attaccamento al denaro – scrive l’autore della lettera a Timoteo – è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono, da se stessi, tormentati con molti dolori» (1Tm 6,10) ed è un’idolatria (Ef 5,5).
     La prima follia in cui trascina l’adorazione di mamônâ e l’accumulo.
Chi accumula si illude di aver trovato un obiettivo concreto e gratificante che dia un senso alla vita, ma ha solo scoperto un vano ripiego per esorcizzare il pensiero della morte.
«Lasciare in eredità» è un palliativo.
     Il Padre che sta nei cieli si colloca agli antipodi: invita alla rinuncia all’uso egoistico del denaro.
Non chiede di «non rubare», di fare elemosine, ma di instaurare un rapporto com-pletamente nuovo con i beni; propone la condivisione, l’attenzione ai bisogni dei fratelli.
Qualunque forma di accumulo egoistico è una violazione del primo comandamento: «Non avrai altro dio all’infuori di me» (Es 20,3).
     Nessuno può servire a due padroni; o odierà l’uno e amerà l’altro, o preferirà l’uno e disprezzerà l’altro.
Non è possibile servire Dio e mamônâ.
     Noi vorremmo tenerceli buoni tutti e due, convinti che quello che non ci concede l’uno ce lo darà l’altro.
Ma i due non sono soci in affari, sono antagonisti, non possono stare insieme nel cuore dell’uomo, danno ordini opposti.
Il Padre che sta nei cieli ripete: «Ama, aiuta tuo fratello, dà cibo a chi ha fame, vesti chi è nudo, offri la tua casa a chi è privo di casa».
Il denaro ordina invece: «Sfrutta il povero, non dare nulla gratuitamente, non preoccuparti di chi è nel bisogno, stima e apprezza le persone in proporzione di ciò che possiedono».
     Il distacco dai beni è uno dei temi ricorrenti nel vangelo ed è uno dei più difficili da assimilare.
L’uomo infatti si affeziona ai tesori di questo mondo, è portato a idolatrarli fino a dimenticare l’eredità «che non si corrompe, non si macchia e non marcisce, quella che è conservata nei cieli» (1Pt 1,4).
     Fin dal suo primo discorso – quello della montagna dal quale è tratto il brano di oggi – Gesù mette in guardia i discepoli: «Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove i ladri scassinano e rubano; accumulatevi invece tesori nel cielo, dove né tignola né ruggine consumano, e dove i ladri non scassinano e non rubano.
Perché là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6, 19-21).
A chi lo vuole seguire chiede di dare anche il mantello e raccomanda di non volgere le spalle a chi chiede un prestito (Mt 6,40.42).
     Le richieste di Gesù sono paradossali e sconcertanti.
Prima di decidersi ad accettarle, non si può non chiedersi: Che ne sarà della mia vita? Che cosa mangerò, che cosa berrò, come mi vestirò? Chi mi assicura che avrò poi il sufficiente per vivere? Non mi pentirò di aver rinunciato alla sicurezza che offre il denaro accumulato e goduto? Non sarà meglio limitarsi a elargire qualche elemosina?      È a questi interrogativi che Gesù risponde nella seconda parte del vangelo di oggi (vv.
25-34) dove invita alla fiducia nel Padre che sta nei cieli, che si prende cura dei figli e che non lascerà mancare il necessario a chi ha creduto in lui.
     Le immagini con cui è presentata la premura di Dio nei confronti delle sue creature sono deliziose: «Guardate gli uccelli del cielo: non séminano e non mietono, né raccolgono nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre.
Non valete forse più di loro? E chi di voi, per quanto si preoccupi, può allungare anche di poco la propria vita? E per il vestito, perché vi preoccupate? Osservate come crescono i gigli del campo: non faticano e non filano.
Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro» (vv.
26-29).
Dà quasi l’impressione di essere un ingenuo sognatore, di proporre una vita spensierata, giuliva, ma completamente staccata dalla realtà.
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Il cardinale Robert Sarah: la situazione nei Paesi del Maghreb

Gli africani non ce la fanno più a sopportare di essere sottomessi.
Sottomessi da dittatori senza scrupoli, sottomessi dai Paesi ricchi, sottomessi dall’egoismo del mondo, sottomessi dai fondamentalismi religiosi.
Sono capaci di amare ma hanno bisogno di amore, di essere amati e non sfruttati, messi alla fame, colonizzati.
Per questo si ribellano.
Parla a voce bassa ma ferma il cardinale Robert Sarah, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, analizzando la situazione esplosiva che in questi giorni sconvolge alcuni Paesi della “sua” Africa.
In questa intervista al nostro giornale il porporato – di ritorno da Haiti, dove ha portato la solidarietà di Benedetto XVI alle popolazioni colpite dal terremoto – rilancia l’appello del Papa a porre fine alla spirale di violenze causate dall’egoismo e dalle ingiustizie.
“La violenza – afferma il cardinale – non è mai accettabile, in nessuna condizione.
Tanto meno quando per salvare un solo uomo se ne uccidono così tanti, come sta accadendo in questi giorni in Libia”.
E ricorda ai capi delle nazioni che l’autorità e l’esercizio del potere devono essere un servizio al bene comune.
Cosa sta accadendo nel Maghreb?  Per me è un fatto sorprendente.
Non mi sarei mai aspettato che in Paesi in cui la religione maggioritaria è l’islam e la gente è abituata alla sottomissione, si verificassero rivolte di una tale gravità.
Evidentemente la pressione è stata forte, forse troppo.
L’uomo sopporta, ma ci sono limiti anche alla sopportazione.
Soprattutto quando ci si trova davanti a situazioni di ingiustizia come quelle che si sono rivelate nei Paesi del Maghreb.
Non so naturalmente quale sia l’origine vera dei fatti che stanno accadendo oggi.
Voglio sperare che finiscano presto le violenze.
La violenza non è mai accettabile, in nessuna condizione.
Tanto meno quando per salvare un solo uomo se ne uccidono così tanti, come sta accadendo in questi giorni in Libia.
Vorrei rilanciare l’appello del Papa affinchè finisca in ogni parte del mondo la logica dell’egoismo che genera tanto male.
Questo è anche il mio appello.
L’effetto domino di questa crisi può essere favorito dalle rivelazioni degli ingenti tesori che alcuni capi di Stato africani hanno accumulato all’estero mentre i loro popoli soffrono la fame? È chiaro che il popolo africano si ribella proprio nel vedere che i suoi capi si arricchiscono mentre loro sentono i morsi della fame e sono costretti a sopportare sempre maggiori sacrifici.
Di chi è la responsabilità? Certamente i Paesi ricchi sfruttano la loro capacità economico-finanziaria per comprare favori.
Dunque sbarcano nei Paesi africani, riempiono d’oro i capi di Stato che accettano di farsi corrompere e poi sfruttano le enormi ricchezze della terra.
Perché l’Africa è un continente ricco.
Non ha i mezzi per sfruttare la sua ricchezza e dunque non può farlo.
Chi detiene le leve del potere cede alle lusinghe dei nuovi colonizzatori e svende il suo popolo.
Le banche estere, i cosiddetti paradisi fiscali, sono ricolmi di ricchezze di africani senza scrupoli.
Dunque, forse tutta questa ribellione che sta esplodendo è dovuta a questo contrasto tra la ricchezza portata fuori dell’Africa e la povertà e la fame distribuite in Africa.
Sarebbe proprio impossibile che l’Africa sfruttasse per sé le proprie ricchezze? Assolutamente no.
Anzi, se l’Africa imparasse a scoprirsi continente, a capire l’importanza dello stare insieme, dell’essere uniti, farebbe la sua fortuna.
L’Europa questo lo ha capito e si è unita: cerca di collaborare per raggiungere scopi comuni.
Senza organizzazione non c’è futuro.
Ma esiste l’Unione africana.
Solo sulla carta.
In realtà ogni Paese segue le indicazione che gli vengono dall’estero, dai Paesi che occultamente o meno li controllano.
Sta dicendo che l’Africa è ancora oggi colonizzata? Di fatto credo di sì.
Purtroppo è un continente con un’economia molto debole e dipendente dall’estero, manca di tecnologie adeguate e di strutture di supporto.
Non voglio assolvere gli africani dalle loro responsabilità; ma resta il fatto che tante nazioni potenti poggiano la loro mano pesante sull’Africa e la schiacciano.
Si pensi per esempio a quanto è capitato in Angola.
Anni e anni di guerre fratricide, tanta miseria.
Poi è affiorato il petrolio, si sono scoperte miniere di diamanti.
Ma la ricchezza che ne è derivata non è stata per il popolo angolano, che ha continuato e continua a soffrire la fame.
Altri hanno sfruttato e sfruttano la loro ricchezza.
Lo stesso nella Repubblica Democratica del Congo.
Questo è il dramma.
E tutto a causa dell’egoismo di pochi.
Come fare per fermare questo circolo di egoismo per cui chi non ha nulla avrà sempre meno e chi possiede potere e ricchezze avrà sempre di più? Forse può sembrare scontato che un cardinale risponda dicendo: bisogna dare maggiore diffusione al messaggio evangelico.
Oltre alla Parola del Signore porto con me una grande esperienza maturata in quella terra meravigliosa che è appunto l’Africa.
La gente africana ha bisogno di conoscere il Vangelo dell’amore.
Il Vangelo è amore.
Amore di Dio verso l’uomo.
Il Vangelo è la vicinanza di Dio nei confronti dell’uomo; è la misericordia di Dio verso l’uomo.
È la fonte della fratellanza umana.
Senza la presenza di Dio nel mondo ci sarà sempre uno spazio crescente per l’egoismo.
La Chiesa ha un ruolo molto importante da svolgere.
Anche se il suo messaggio è rifiutato, essa deve continuare con coraggio e con pazienza a evangelizzare.
Solo il Vangelo potrà cambiare il cuore dell’uomo e dunque la società.
Per questo nel presentare alla stampa il messaggio del Papa per la Quaresima ha rivolto un appello ai media affinchè facciano conoscere la missione della Chiesa nel mondo? Non credo di essere molto lontano dal vero se affermo che accendendo radio e televisori o sfogliando giornali si sentono o si leggono solo brutte notizie: catastrofi, uccisioni, violenze.
Perché le cose buone non fanno mai notizia? Forse perché potrebbero contribuire realmente a far crescere umanamente e spiritualmente l’uomo e la società.
Dobbiamo far conoscere che esistono nel mondo suore che sacrificano la loro vita per aiutare i più poveri, i derelitti, i moribondi; missionari che vanno nei luoghi più sperduti della terra, ovunque ci sia un uomo da aiutare, da soccorrere, da difendere con le armi del Vangelo.
Vivono con i poveri per dare loro più dignità.
Questo volevo dire ai giornalisti.
C’è del bene nel mondo.
C’è tanto bene all’interno della Chiesa.
Ci sono tanti uomini di Chiesa che fanno veramente tanto del bene.
Però si parla solo degli sbagli di alcuni di loro, di ciò che fa scandalo.
È giusto che si sappia, anche per poter riparare.
Ma non è giusto che passi solo questa immagine falsa della Chiesa.
 Ha rivolto anche una sorta di appello alla responsabilità della comunità internazionale nella lotta alla corruzione e all’ingiustizia nei singoli Paesi e nel mondo.
A cosa si riferiva? Mi sembra che sia importante sottolineare con insistenza che l’autorità, il potere, sono un servizio per promuovere il bene comune.
E su questa strada principalmente si deve muovere ogni buona azione di governo.
Le istituzioni internazionali dovrebbero appoggiare la promulgazione di leggi economiche e commerciali che non favoriscano solo la politica dei più ricchi, dei più potenti.
Così facendo si creano più povertà, più instabilità sociale, più violenza, più guerre.
L’interdipendenza di oggi richiede la collaborazione di tutti per porre fine a queste strutture di ingiustizia Quello che sta accadendo oggi in tante parti del mondo è proprio il frutto dell’ingiustizia che regna.
La povera gente comincia a ribellarsi a questi sistemi economici, finanziari e commerciali che alimentano i ricchi e affamano i poveri.
Rimedi possibili? Certo, c’ è un lavoro molto lungo da fare; ma se mai si comincia, mai se ne viene a capo.
Quale può essere in questo senso il ruolo dell’Onu? Credo che i potenti siano veramente potenti e tanto più potenti dell’Onu stesso.
Cosa può fare l’Onu davanti ai poteri forti, che lo condizionano e lo guidano? Io credo che ci sarebbe bisogno di una rivoluzione – pacifica s’intende – all’interno dell’Onu stesso.
I piccoli Paesi, quelli che contano di meno perché più poveri, ma che sono comunque la maggioranza, dovrebbero cercare di farsi rispettare di più, di imporre la propria presenza, di imporre la propria dignità.
Dovrebbero far capire che è il momento di mettere la parola fine a tutte le forme di ingiustizia internazionale, che purtroppo, si manifesta anche all’interno dell’Onu.
Come si possono contrastare le strutture d’ingiustizia? È una cosa molto difficile da realizzare.
Io credo che la strada principale da percorrere, se non l’unica, sia quella della formazione dell’uomo, o meglio, della formazione del cuore dell’uomo.
Solo con un cuore rinnovato, aperto allo Spirito, si può superare l’ingiustizia del mondo.
Se manca la presenza di Dio nel cuore dell’uomo, tutto il male è possibile.
Dunque è possibile anche che i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri.
Noi puntiamo molto sulla formazione perché quando l’uomo avrà nel suo cuore l’occhio di Dio, riuscirà anche a vedere il bisogno del suo fratello.
A Cz?stochowa, con i responsabili diocesani della carità di tutta l’Europa, abbiamo proprio cercato di far capire l’importanza della formazione del cuore, del far riscoprire a tutti la presenza dell’occhio di Dio nel nostro cuore.
Quando portate la solidarietà della Chiesa nei Paesi disastrati, la gente percepisce questa presenza? Direi proprio di sì.
Del resto è questa la nostra missione.
Non si può pensare di portare solo cose materiali.
Bisogna dare a questa gente la forza di andare avanti.
Recentemente ad Haiti ho potuto maturare un’esperienza meravigliosa.
Lì c’è gente che non solo ha sofferto per il terremoto, ma continua a soffrire ancora oggi per tante situazioni sociali: non c’è un governo stabile, c’è tanta corruzione, manca assolutamente il concetto della dignità umana perché dove c’è tanta povertà spesso non c’è neppure dignità.
Ho visto un popolo che ha confidenza con la sofferenza ma che è aperto alla speranza, perché è un popolo credente e prega molto.
Ma ho anche visto tanta, tantissima gente che si è rimboccata le maniche e affianca il popolo haitiano nella difficile opera di ricostruzione, materiale e morale.
Sono i volontari delle organizzazioni cattoliche che si sono precipitati lì appena apprese le prime drammatiche notizie.
E sono ancora lì.
Non li abbandonano.
Questa è una bella testimonianza della prossimità di Dio ai poveri.
Questo stanno dando i nostri tra le macerie di Haiti.
Ha verificato lo stesso impegno durante la sua recente partecipazione in Africa alla riunione della Fondazione Giovanni Paolo II per il Sahel? Sì, anche se la situazione lì è diversa e non si tratta di interventi momentanei.
Ci sarebbe bisogno di spingere gli altri Paesi africani alla solidarietà con le nazioni del Sahel.
Sono rimasto molto impressionato dal fatto che tanti Paesi africani, come il Senegal, il Benin e altri, hanno aiutato Haiti.
È bello vedere i poveri che aiutano i poveri.
È una manifestazione della presenza di Dio che suscita la sua generosità nel cuore dei poveri.
L’auspicio è che questa stessa solidarietà si trasmetta a tutta l’Africa.
Un messaggio, questo, che porterà in Burundi nel corso della sua prossima visita? Certamente.
Ma direi di più, perché in Burundi andiamo a inaugurare una scuola dedicata a Benedetto XVI.
Questo nostro dono vuole essere il segno di quanto sia importante per noi proprio la formazione dell’uomo.
Un uomo nuovo, nuovo nel cuore, può essere un segno di speranza per il futuro dell’Africa.
(©L’Osservatore Romano – 26 febbraio 2011)

Nuovi orizzonti per ebrei e cristiani

NATHAN BEN HORIN, Nuovi orizzonti per ebrei e cristiani, Edizioni Messaggero, Padova 2011, EAN 9788825026887, pp.
160, Euro 12,00 A quasi 25 anni dalla Nostra aetate e dopo i documenti applicativi che l’hanno seguita (1974 e 1985), a che punto è il dialogo tra ebrei e cristiani? Fra le molte voci, di entrambe le parti, che periodicamente intervengono su questo tema, quella di Ben Horin, che riportiamo, ci pare particolarmente significativa per equilibrio e pacatezza, oltre che per autorevolezza: Nathan Ben Horin ha vissuto a Roma dal 1980 al 1986 in qualità di ministro plenipotenziario dei rapporti di Israele con il Vaticano.
Il testo offre una sintesi storica degli anni trascorsi e ne deduce alcuni punti fermi validi per entrambi gli interlocutori.
Autore/i NATHAN BEN HORIN, nato in Germania da famiglia polacca, ha vissuto in Francia dove ha partecipato alla resistenza contro i nazisti.
Ha svolto attività diplomatica per Israele.
In Italia dal 1980 al 1986 si è occupato dei rapporti diplomatici con la Santa Sede, quando le relazioni diplomatiche con Israele non erano ancora state regolate.
Dal 1994 è membro della Commissione per la designazione dei «Giusti tra le Nazioni» dell’Istituto Yad Vashem, incaricato in particolare delle pratiche che riguardano l’Italia.
PIERO STEFANI (Ferrara 1949), laureato in filosofia a Bologna, noto studioso di ebraismo e insigne biblista, è uno dei principali animatori del dialogo cristiano-ebraico.
Insegna filosofia della religione presso l’Università di Ferrara.
Dal 1985 è redattore e articolista della rivista «Il Regno» e collabora con le riviste «Credere oggi», «Humanitas», «Esodo», «Studi Ecumenici», «Studi Fatti Ricerche» (Sefer), «Horeb», «Jesus».
È membro del Comitato scientifico e direttore del «Notiziario di Biblia», Associazione laica di cultura biblica.
Collabora regolarmente con la trasmissione di Radio 3 «Uomini e Profeti».
Ha al suo attivo una settantina di pubblicazioni in qualità di autore, curatore e scrittore di introduzioni o contributi vari.

Il bullismo nelle scuole

Il bullismo nelle scuole: un fenomeno da conoscere e prevenire.
Il fenomeno del bullismo, spesso alla ribalta della cronaca negli ultimi anni, ha sicuramente origini lontane nella letteratura per ragazzi.
È possibile trovare “bulli” che rappresentano la parte cattiva della storia e che fanno sì che venga ancora di più esaltata la figura del “buono” che non si fa sottomettere dalle minacce e dalle prevaricazioni.
Nel 1886 De Amicis descrive la figura di Franti che racchiude in sé i tratti distintivi del prepotente.
Altri esempi classici li troviamo in Charles Dickens e Stephen King, fino ai “Ragazzi di vita” di Pasolini e – perché no – Draco Malfoy in Harry Potter.
Oggi però è diventato un aspetto allarmante della società, come ha pubblicato – sul periodico di Lampedusa “Punta Sottile” – la dott.ssa in Scienze e tecniche della psicologia dello sviluppo e dell’educazione Caterina Fumularo: non accade solo nella favola di “Cappuccetto rosso”.
Anche nella realtà quotidiana ci sono bambini e adolescenti che si perdono in un bosco insidioso e incontrano un “lupo-bullo” prepotente o un branco di lupi violenti, pronto ad aggredirli fisicamente, verbalmente o psicologicamente, minacciando il loro microcosmo interiore con l’intento di intimorire, disorientare o allontanarli dal “bosco” stesso.
Ci sono ragazzi che, per sfuggire al lupo, si riempiono le tasche di sassolini e li buttano a terra, in modo da saper ritrovare più facilmente il sentiero del proprio equilibrio interiore o in modo che qualcuno si accorga delle loro tracce di disagio.
Ci sono ragazzi, però, che sono così vulnerabili da non riuscire a fare provvista di sassolini o a chiedere aiuto a qualcuno.
Incapaci di difendersi dal lupo o di affrontarlo per timore di rappresaglie e vendette, lasciano cadere dalle loro tasche, vuote di speranza e di fiducia, soltanto delle briciole di fragilità, silenzio, rassegnazione e insicurezza.
Come pane secco, mangiato da formiche o da uccelli, quelle “briciole” diventano tracce poco visibili a genitori, insegnanti o ad altre figure significative dalle quali poter ricevere attenzione e ascolto.
Purtroppo, come si apprende dai mass-media e dai recenti fatti di cronaca, quel bosco d’aggressività non è soltanto la strada, un posto di svago o un quartiere sconosciuto;quel bosco è anche la scuola, istituzione educativa per eccellenza, luogo privilegiato di socializzazione, di promozione del benessere e di costruzione dell’autostima.
Un contesto all’interno del quale ogni studente vorrebbe e dovrebbe sentirsi protetto, come nel proprio ambiente familiare.
Eppure, il “lupo-bullo” che molesta, insulta, ricatta, minaccia, offende, schernisce, danneggia oggetti, maltratta psicologicamente le persone più deboli e indifese (come i diversamente abili o quelli più piccoli) e addirittura ferisce fino ad uccidere, è proprio un compagno di classe o uno studente della stessa scuola o un gruppo di studenti, che, rifiutando di seguire le regole formali della società, le sostituisce con altre in cui prevale l’affermazione personale anche a costo di un uso sistematico della violenza.
Quest’ultima può essere “agita” dal bullo non solo in forma diretta e manifesta ma anche in modo indiretto e latente, con la calunnia, il prendersi gioco della diversità degli altri, la manipolazione dei rapporti d’amicizia, i pettegolezzi e le mal dicerie che mettono in cattiva luce e rovinano la reputazione.
La conseguenza è che la vittima rimane intrappolata nella ragnatela dell’esclusione sociale e viene condannata all’isolamento dai gruppi d’aggregazione ad atteggiamenti ansiosi e insicuri, a continui sensi di colpa per non essere in grado di affrontare da sola il problema, ad una progressiva perdita dell’autostima e alla produzione di un’immagine negativa di sé.
Il bullismo, quindi, non si configura come un semplice atteggiamento conflittuale tra pari o un comportamento litigioso nei confronti dei compagni ma come un fenomeno più complesso che vede coinvolti i due protagonisti, il bullo e la vittima, in una dinamica relazionale, caratterizzata da una certa intenzionalità a fare del male e da un’asimmetria (dovuta alla forza fisica o all’età) che accentua la probabilità del ripetersi di tali manifestazioni aggressive del più forte verso il più debole.
La persistenza nel tempo contribuisce a determinare l’interiorizzazione di modalità comportamentali che rafforzano i rispettivi ruoli, con l’effetto di un quadro patologico serio sia per  la vittima, che può presentare sintomatologie anche di tipo depressivo, sia per il bullo, che rischia problematiche antisociali e devianti.
Nel “bosco”del bullismo, infatti, non si perdono solo le vittime ma anche i bulli, gli insegnanti, i genitori (che spesso rimangono all’oscuro di tutto) e gli altri ragazzi “spettatori” (che preferiscono restare dietro le “quinte” dell’indifferenza e dell’omertà, ad osservare la violenza che va in scena proprio su un palcoscenico educativo come la scuola).
E’ necessario, quindi, che le proposte d’intervento debbano svilupparsi da un piano individuale ad un piano istituzionale, in una prospettiva sistemica che miri al cambiamento non solo dei singoli elementi del “bosco” (il bullo, la vittima) ma del bosco stesso nella sua complessità (il gruppo, la scuola, la famiglia, gli insegnanti, i rapporti con altri contesti, ecc.).
Il “cacciatore buono”, metaforicamente un buon progetto educativo che si propone di prevenire o contrastare il fenomeno, non può, come succede nella favola di “Cappuccetto rosso”, avere la finalità di “annientare”il lupo cattivo per salvare chi è stato divorato dalla sua “fame aggressiva”.
Oltre ad aiutare la vittima, è necessario, cioè, intervenire sul lupo stesso e su tutti i soggetti coinvolti, favorendone il recupero psicologico, attraverso la promozione dell’empatia, dell’altruismo, della cooperazione e di quei comportamenti prosociali che possono contribuire a trasformare quel luogo d’aggressività in un terreno fertile, per educare alla legalità e per garantire il diritto di non subire più aggressioni e violenze.
Milano, 14 gennaio 2011 Segreteria Nazionale ANAPS per la consultazione dell’intero contributo IL BULLISMO.pdf 587K  

Un Afghanistan nel Mediterraneo

Le tre foto qui sopra sono state scattate al Cairo in piazza al-Tahrir, la piazza della Liberazione.
Le ha pubblicate e commentate sull’agenzia on line “Asia News” del Pontificio Istituto Missioni Estere il gesuita egiziano Samir Khalil Samir, islamologo tra i più stimati da papa Joseph Ratzinger.
In piazza al-Tahrir, nei momenti della preghiera coranica, i cristiani copti facevano cordone in difesa dei musulmani in ginocchio.
Al Cairo sono anche comparsi dei manifesti con la croce e il Corano affiancati, e la scritta in arabo: “Egiziani, una mano sola”.
A giudizio di padre Samir, l’unità tra musulmani e cristiani che si è vista all’opera nei giorni della ribellione è segno che l’islamismo fondamentalista non comanda la svolta in atto, né in Egitto né negli altri paesi del Nordafrica e del Golfo.
Sicuramente, la rivoluzione che oggi sconvolge i paesi arabi non è partita dalle moschee.
La più celebre e influente delle moschee sunnite, quella di al-Azhar al Cairo, è apparsa subito fuori gioco.
I suoi leader, tutti di nomina presidenziale, pagano anch’essi il prezzo della caduta di Mubarak.
In Egitto, l’unica seria chance che gli islamisti hanno di conquistare il potere è legata alle sorti dei Fratelli Musulmani.
Hanno notevole forza organizzativa.
Hanno il controllo dei principali ordini professionali: ingegneri, medici, dentisti, farmacisti, commercianti, avvocati.
Sono diffusi nelle campagne.
Un loro leader, Sobhi Saleh, è presente nel comitato che i militari hanno costituito per riformare la costituzione egiziana.
Ed è loro alleato il presidente di questo stesso comitato, l’anziano magistrato Tariq al-Bishri, figlio di un grande imam di al-Azhar.
Ma più che un effetto della loro forza, questa cooptazione dei Fratelli Musulmani dentro il comitato per la nuova costituzione sembra un gesto calcolato dei militari al potere, per controllarli.
Neppure l’exploit dello sceicco Yussuf al-Qaradawi, leader carismatico dei Fratelli Musulmani di tutto il mondo, rientrato al Cairo dopo decenni di esilio per guidare la preghiera di venerdì 18 febbraio in piazza al-Tahrir e arringare la folla, sembra aver piegato la rivolta nella direzione dell’estremismo religioso.
Al-Qaradawi ha esultato per l’abbattimento del “Faraone”, ma la caduta di Mubarak non era certo avvenuta per mano dei Fratelli Musulmani.
Ha raccontato il sogno della liberazione di Gerusalemme dagli infedeli, ma né prima né dopo il sermone nessuna bandiera di Israele è stata bruciata.
Intatte, nei giorni della rivolta, sono rimaste anche le chiese cristiane, oggetto invece di crudeli aggressioni solo poche settimane prima, quando il regime di Mubarak aveva ancora il pieno controllo del paese.
Il patriarca dei copti, Shenuda III, ha puntato fino all’ultimo sulla permanenza al potere di Mubarak, dal quale si sentiva più rassicurato che non da un cambio di regime.
Ma i copti son scesi nelle strade fin dai primi giorni, a reclamare più libertà.
Padre Samir dice che il sommovimento attuale gli ricorda la rivoluzione egiziana del 1919 contro il Regno Unito che occupava l’Egitto e il Sudan, una rivoluzione non di tipo religioso ma mirata all’indipendenza.
Ma la rivolta che oggi infiamma i paesi arabi, dal Marocco allo Yemen, non si avventa contro potenze straniere: Israele, gli Stati Uniti, l’Occidente.
Tanto meno contro i cristiani.
I nemici sono interni, sono i regimi tirannici.
Le richieste sono elementari.
La prima delle rivolte, in Tunisia, è partita dal rincaro del pane.
Khaled Fouad Allam, algerino con cittadinanza italiana, professore di islamistica alle università di Trieste e di Urbino, ha spiegato al quotidiano della conferenza episcopale italiana “Avvenire”, il 22 febbraio, che i protagonisti dell’attuale rivolta sono le giovani generazioni: “I ragazzi tra i 18 e i 30 anni hanno una pra­tica religiosa di tipo pietista.
L’islam non è più visto come la soluzione, come sarebbe probabilmente ac­caduto dieci o quindici anni fa.
I giovani non credono più che il Corano darà loro il lavoro, come potevano creder­lo i loro padri.
Sono credenti e praticanti, ma non hanno una carica ideologica.
Dallo Yemen all’Algeria di slogan religiosi non ne sentiamo”.
E ancora: “Poi c’è l’aspetto della globalizzazione: si sta svi­luppando una coscienza mondiale della democra­zia.
Un ragazzo di Algeri che corrisponde via inter­net con un suo amico di Roma si chiede come mai sull’altra sponda del Mediterraneo c’è libertà e nel suo paese no.
Ciò crea un sentimento molto forte.
Non conta la tecnologia informatica in sé, ma il suo effetto, ovvero un’accelerazione della maturazione della presa di coscienza”.
La rivolta non mostra di avere una direzione precisa.
Non ha leader.
Non ha grandi organizzazioni.
“Durerà molto tempo”, avverte Allam.
Senza esiti prevedibili.
Il ritratto che ne esce è quello di un mondo arabo musulmano molto più fragile e disordinato di quello che si usa immaginare.
Molto più variegato.
Molto più esposto alla secolarizzazione e ai linguaggi della comunicazione globale, universali ma anche incerti di significato.
È un ritratto che corrisponde in modo impressionante a quello vividamente descritto in un libro autobiografico dell’italo-marocchina Anna Mahjar-Barducci, di cui questo servizio di www.chiesa ha riprodotto un capitolo: > Anna e i suoi fratelli.
I mille volti del vero islam
* Quanto osservato fin qui si applica a quasi tutti i paesi arabi oggi in rivolta.
Ma con una eccezione.
Questa eccezione è la Libia.
È ancora il professor Khaled Fouad Allam a spiegarla, in un commento del 23 febbraio su “Il Sole 24 Ore”, il più diffuso quotidiano finanziario d’Italia e d’Europa.
La Libia non è mai stata una nazione omogenea.
È un insieme di tribù arabe, berbere e africane, per ciascuna delle quali vale più di tutto lo spirito di corpo.
Allo scoppiare della rivolta, rapidamente intere città e regioni si sono rese autonome.
In Libia non vi sono vere e proprie istituzioni statali, non c’è un parlamento, non c’è un esercito che possa assumere il potere, come è avvenuto in Egitto, e assicurare una transizione controllata.
Per Gheddafi la “rivoluzione” era lo stato, e lo stato era lui.
Il suo era un “maoismo islamico” depurato dalla tradizione profetica, la Sunna, il che lo rendeva estraneo ed inviso all’insieme dello stesso mondo musulmano sunnita.
Paradossalmente, la tirannia di Gheddafi assicurava alla Chiesa cattolica livelli di libertà maggiori che in ogni altro paese musulmano della regione.
La caduta di Gheddafi può quindi coincidere col collasso totale della Libia.
Che potrebbe diventare – avverte Allam – “un Afghanistan nel Mediterraneo”.
Perché nel caos e nel vuoto statuale troverebbero spazio di presenza e di azione proprio le correnti islamiche più radicali, provenienti dall’Africa e da altri paesi arabi.
A dispetto della “laica” domanda di libertà espressa dai giovani che anche in Libia hanno invaso le piazze, in molti casi pagando con la vita.
Un nuovo Afghanistan, con un islamismo incendiario, ricchissimo di petrolio e di gas, al confine con l’Italia e l’Europa.
__________ Le altre foto di piazza al-Tahrir, al Cairo, commentate da padre Samir Khalil Samir  su “Asia News”: > Rivoluzione egiziana: cristiani e musulmani uniti