In queste settimane e per i prossimi mesi, in vari momenti e diverse forme si celebrano i 150 anni dell’avvenuta Unità d’Italia, nonostante le contestazioni e la mancata partecipazione di alcuni a questa ricorrenza. Anche la chiesa cattolica che è in Italia ha voluto – nella maniera che le è propria, cioè attraverso una celebrazione liturgica – prendere parte alla memoria di questo evento. Il papa, come vescovo di Roma (non si dimentichi che è in tale veste che presiede alla chiesa universale) e primate d’Italia, ha voluto indirizzare un messaggio non solo ai cattolici ma a tutti gli italiani. Ma proprio perché quest’Unità d’Italia è stata faticosamente costruita anche contro il volere del papa – allora difensore non solo dell’onore di Dio ma anche di «Cesare», il potere politico che lui incarnava nello Stato pontificio – proprio perché c’è ancora chi vorrebbe che l’Italia tornasse a una federazione di staterelli, proprio perché nuove ideologie contrastano con la realtà di un’Italia unita, è bene interrogarsi sul significato di questa unità. E io vorrei interrogarmi da cristiano e da cittadino italiano, due appartenenze che non sono né in contrasto né in concorrenza ma che, per essere vissute senza schizofrenia, abbisognano di lealtà, di riconoscimento della storia e di esercizio della memoria, di una visione di solidarietà capace di convergenza per la polis. Come cristiani, abbiamo una parola da dire nei confronti di questa celebrazione e del suo significato? La risposta è certamente positiva: in Italia i cristiani abitano tranquillamente, sono membri della polis e come tali partecipano responsabilmente alla storia di questo paese senza evasioni e senza esenzioni. Ma dobbiamo porci anche un’altra domanda: noi cristiani abbiamo una parola «cristiana» da dire sull’Italia unita? E qui la risposta si fa più articolata e richiede specificazioni. L’Italia non è né un articolo di fede, né un principio strutturale della chiesa che è cattolica, universale. Ma resta vero che questa terra «Italia» è la terra che i cristiani abitano nella consapevolezza che «ogni patria è per loro straniera e ogni terra straniera è loro patria» (Lettera a Diogneto). Cosa significano queste parole, formulate nel II secolo d.C. e ancora oggi utilizzate? Non indicano evasione o estraneità dei cristiani rispetto alla terra e allo Stato, ma che i cristiani sanno amare la terra che è stata data loro in sorte, che questa terra è per loro anche «patria» in quanto terra già dei loro padri, che i cristiani pregano per questa terra e per i loro governanti, fossero anche non cristiani, così come pregavano per l’imperatore romano che era pagano (e, a volte, anche loro persecutore!), che i cristiani partecipano in tutto come cittadini alla costruzione della società italiana e lavorano per una convivenza in questa terra segnata da libertà, giustizia, eguaglianza, solidarietà, pace. Ma questa appartenenza all’Italia certamente non deve suscitare nei cristiani un’ideologia nazionalistica, che si manifesta sempre in una egemonia rispetto ad altre terre, nella costruzione di un popolo «senza gli altri» e magari «contro gli altri». Il contributo più specifico dei cristiani alla costruzione di uno Stato unitario dovrebbe essere caratterizzato dal superamento di una pretesa superiorità della loro cultura, dalla negazione di un centralismo foriero di ideologie che, anziché preparare la pace, alimenta intolleranza e rifiuto dell’alterità di cultura, etica, religione… D’altro lato i cristiani dovrebbero vigilare che non si affermino spinte localistiche, che finiscono sempre per generare atteggiamenti razzisti o xenofobi, non solo verso le culture lontane che si fanno presenti attraverso gli immigrati, ma addirittura verso la terra, la regione vicina. È vero che l’Italia è storicamente segnata da regioni che hanno una cultura propria più accentuata che in altre nazioni, ma la lingua è divenuta una, così come la cultura che ha dato il meglio dell’umanesimo e ha fatto compiere un cammino all’Italia è unitaria e convergente. Un’unità d’Italia che nutrisse un’identità italiana segnata dalla vittoria del «medesimo» e da un ripiegamento autistico storico-sociale a causa dell’esclusione dell’altro, soprattutto dei tanti poveri che giungono dall’altra sponda del mare nostrum, contraddirebbe gravemente l’ispirazione cristiana e cattolica. Se penso alla mia vita, non posso dimenticare che fin da piccolo sono cresciuto con persone provenienti da altre regioni, con altri dialetti, con abitudini in parte diverse dalle mie: alle elementari, in un piccolissimo paese del Monferrato, avevo vicini di banco provenienti dal Polesine alluvionato, alle superiori in una cittadina di provincia avevo compagni calabresi e sardi, all’università a Torino ho incontrato studenti di tutte le regioni italiane. Non posso negare questa italianità, questo sentire che c’è un’Italia vissuta nella mia storia e che dunque non va negata né tanto meno ferita dalla negazione della solidarietà. La mia generazione ha imparato fin dalle elementari che non i localismi, ma l’Europa unita doveva essere l’orizzonte da tenere presente e in nome di un’affermazione di quei valori di libertà, di democrazia, di giustizia per i quali tanto si era combattuto in Europa nei tempi della modernità. festeggiare l’unità d’Italia allora significa riconoscere ciò che lega gli abitanti di questa terra, affermare la solidarietà e la convergenza verso una polis segnata da giustizia e pace, senza ripiegamenti localistici, senza egoismi territoriali, senza esasperazioni della propria cultura locale. Per questa unità d’Italia molti che ci hanno creduto hanno speso la vita e hanno saputo sacrificarsi perché il loro obiettivo era una «communitas italiana». Per noi oggi tutto questo è di esempio, è un’eredità che comporta responsabilità, soprattutto di fronte a rigurgiti ideologici e a proclami e programmi che vorrebbero non solo dividere gli italiani, ma costruire una «babele» locale in cui ciò che si afferma sa solo di barbarie. Sì, come cristiano lontano da ogni nazionalismo, credo di amare questa terra d’Italia, volere che in essa cresca l’unità tra le popolazioni, così diverse ma così capaci di essere solidali l’una con l’altra, così disposte – lo spero, nonostante tutto – a una convergenza verso una polis più umanizzata, unite da una comune cittadinanza sempre più di suolo che non di sangue. Celebrare l’unità della nazione italiana, nell’orizzonte dell’unità del continente europeo e nella volontà di affermare sempre l’unità e la dignità di tutti e il rispetto di tutte le culture e le nazioni è un dovere che nasce dalla consapevolezza di essere cittadini che devono sperare tutti insieme e sentire questa terra come appartenente a tutti.
Mercoledì 17 marzo Benedetto XVI ha inviato un messaggio al Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, in occasione dei 150 anni dell’Unità politica d’Italia. Il messaggio è stato consegnato al presidente Napolitano dal cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, nel corso di una visita al Quirinale.
L’esposizione del crocefisso nella aule scolastiche non ha influenza sugli alunni
L’ottimismo che trapelava alla vigilia della sentenza sul crocifisso nelle scuole in seno al governo ha avuto conferma: la Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo riunitasi a Strasburgo ha assolto l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche.
La decisione della Corte è stata approvata con 15 voti favorevoli e due contrari. I giudici hanno accettato la tesi in base alla quale non sussistono elementi che provino l’eventuale influenza sugli alunni dell’esposizione del crocefisso nella aule scolastiche.
In questa maniera, la Corte scrive la parola fine sul dossier del caso ‘Lautsi contro Italia’. Un procedimento approdato a Strasburgo il 27 luglio del 2006. Allora l’avvocato Nicolò Paoletti presentò il ricorso con cui Sonia Lautsi, cittadina italiana nata finlandese, lamentò la presenza del crocifisso nelle aule della scuola pubblica frequentata dai figli, ritenendo che si trattasse di un’ingerenza incompatibile con la libertà di pensiero e il diritto ad un’educazione e ad un insegnamento conformi alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori.
La prima sentenza della Corte (9 novembre 2009) diede sostanzialmente ragione alla signora Lautsi, affermando la violazione da parte dell’Italia di norme fondamentali sulla libertà di pensiero, convinzione e religione. Il Governo italiano, a quel punto, domandò il rinvio alla Grande Chambre della Corte, ritenendo la sentenza 2009 lesiva della libertà religiosa individuale e collettiva come riconosciuta dallo Stato italiano.
Sentenza sul crocifisso, ecco le motivazioni Per la Corte, “un crocifisso apposto su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose”
“Se è vero che il crocifisso è prima di tutto un simbolo religioso, non sussistono tuttavia nella fattispecie elementi attestanti l’eventuale influenza che l’esposizione di un simbolo di questa natura sulle mura delle aule scolastiche potrebbe avere sugli alunni“. è un passo delle motivazione della sentenza della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo che, a grande maggioranza (15 giudici contro 2) ha dato ragione all’Italia nella causa “Lautsi e altri contro Italia” sulla presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche stabilendo che nell’esposizione del simbolo religioso non c’è violazione dei diritti dell’uomo.
Secondo la ricorrente Soile Lautsi, cittadina italiana di origini finlandesi, la presenza del crocifisso costituiva un’ingerenza incompatibile con libertà di pensiero, convinzione e di religione (art.9 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950) così come del diritto all’istruzione, in particolare, il diritto ad un’educazione ed insegnamento conformi alle convinzioni religiose e filosofiche dei genitori (art.2 del Protocollo n.1).
Nella motivazione della sentenza, in merito proprio all’articolo 2 del protocollo 1 sul diritto all’istruzione, si legge che “dalla giurisprudenza della Corte emerge che l’obbligo degli Stati membri del Consiglio d’ Europa di rispettare le convinzioni religiose e filosofiche dei genitori non riguarda solo il contenuto dell’istruzione e le modalità in cui viene essa dispensata: tale obbligo compete loro nell’esercizio dell’insieme delle ‘funzioni’ che gli Stati si assumono in materia di educazione e di insegnamento“.
Ciò “comprende l’allestimento degli ambienti scolastici qualora il diritto interno preveda che questa funzione incomba alle autorità pubbliche. Poiché la decisione riguardante la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche attiene alle funzioni assunte dallo stato italiano, essa rientra nell’ambito di applicazione dell’articolo 2 del protocollo 1“.
Questa disposizione, si legge ancora, “attribuisce allo Stato l’obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire ai propri figli un’educazione e un insegnamento conformi alle loro convinzioni religiose e filosofiche“.
La Corte “constata che nel rendere obbligatoria la presenza del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche, la normativa italiana attribuisce alla religione maggioritaria del paese una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico” e sottolinea altresì che “un crocifisso apposto su un muro è un simbolo essenzialmente passivo, la cui influenza sugli alunni non può essere paragonata a un discorso didattico o alla partecipazione ad attività religiose“. Infine, la Corte osserva che “il diritto della ricorrente, in quanto genitrice, di spiegare e consigliare i suoi figli e orientarli verso una direzione conforme alle proprie convinzioni filosofiche è rimasto intatto“. La Corte conclude dunque che “decidendo di mantenere il crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche frequentate dai bambini della ricorrente, le autorità hanno agito entro i limiti dei poteri di cui dispone l’Italia nel quadro del suo obbligo di rispettare, nell’esercizio delle proprie funzioni in materia di educazione e d’insegnamento, il diritto dei genitori di garantire tale istruzione secondo le loro convinzioni religiose e filosofiche“. La Grande Camera della Corte è stata presieduta da Jean-Paul Costa (Francia), il giudice Giorgio Malinverni (Svizzera) ha espresso un’opinione dissenziente, condivisa dalla giudice Zdravka Kalaydjieva (Bulgaria).
Il crocifisso a scuola negli altri paesi europei
Subito dopo l’uscita della sentenza della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha assolto l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche, l’agenzia Asca ha pubblicato una breve scheda che raccoglie la disciplina della materia nelle aule scolastiche di altri paesi europei.
AUSTRIA. La presenza del crocifisso è garantita da una legge del 1949, confermata dal Concordato del 1962, in tutte le aule scolastiche nelle quali oltre metà degli alunni appartenga a una delle confessioni cristiane.
FRANCIA. In Francia l’articolo 28 della legge 9 dicembre 1905 vieta espressamente l’esposizione di simboli o emblemi religiosi su monumenti o in spazi pubblici, a eccezione dei luoghi di culto, dei campi di sepoltura, dei musei e delle mostre. Nel 2004, l’articolo 1 della legge n.228 del 15 marzo, chiamata “legge anti-velo” e approvata dal parlamento francese, precisa il divieto, nelle scuole primarie e secondarie, di indossare simboli o indumenti che ostentino l’appartenenza religiosa.
GERMANIA. Solo in Baviera il crocifisso è di norma esposto nelle aule delle scuole elementari, dato che il Land è storicamente cattolico. Se alcuni studenti obiettano che questo lede la loro libertà di coscienza, le autorità scolastiche aprono un procedimento di conciliazione, che può condurre alla rimozione. Una sentenza della Corte Costituzionale del 1995 ha sancito l’incostituzionalità della presenza dei simboli religiosi nelle aule scolastiche.
ROMANIA. In Romania, la decisione 323/2006 del Consiglio Nazionale per la Lotta alla Discriminazione ha stabilito che il ministero dell’Educazione deve “rispettare il carattere secolare dello stato e l’autonomia della religione“, e che “simboli religiosi devono essere mostrati solo durante le ore di religione o in aree dedicate esclusivamente all’educazione religiosa“. Il caso nasceva dal ricorso di Emil Moise, maestro e genitore della contea di Buzau, che contestava come l’esposizione pubblica di icone ortodosse costituisse una rottura della separazione tra Stato e Chiesa in Romania, e come ciò costituisse una discriminazione contro atei, agnostici e non religiosi.
SPAGNA. Il crocifisso è affisso nelle aule scolastiche in Spagna dal 1930 ed è tuttora presente, nonostante la costituzione aconfessionale dello Stato entrata in vigore nel 1978. Nel 2009 il governo guidato da Zapatero ha messo a punto un disegno di legge per togliere ogni simbolo religioso dalla scuola pubblica. Il dibattito era già nato poco prima che un giudice di Valladolid aveva deciso di “far ritirare i simboli religiosi dalle classi e dagli spazi comuni” in una scuola di Valladolid dopo che alcuni genitori nel 2005 ne avevano chiesto la rimozione.
SVIZZERA. In Svizzera il comune ticinese di Cadro decise di mettere il crocifisso in tutte le aule scolastiche, ma nel 1990 il Tribunale Federale si pronunciò contro l’esposizione dei crocifissi e per la loro rimozione con la motivazione che “lo Stato ha il dovere di assicurare la neutralità in ambito filosofico-religioso della sua scuola e non può identificarsi con una confessione o religione. Deve evitare che studenti e studentesse siano offesi nelle loro convinzioni religiose dalla continua presenza del simbolo di una religione a cui non appartengono”.
Sentenza sul crocifisso, soddisfazione diffusa
Sono quasi tutti positivi i primi commenti alla sentenza della Grande Camera della Corte europea per i diritti dell’uomo che ha assolto l’Italia dall’accusa di violazione dei diritti umani per l’esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche.
Il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Mariastella Gelmini in particolare esprime in una nota “profonda soddisfazione per la sentenza della Corte di Strasburgo, un pronunciamento nel quale si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell’identità culturale del nostro Paese”.”Il Crocifisso – continua il ministro – sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà”. “E’ un simbolo dunque – conclude – che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia né alla laicità dello Stato, né alla libertà religiosa. Oggi è un giorno importante per l’Europa e le sue istituzioni che finalmente, grazie a questa sentenza, si riavvicinano alle idee e alla sensibilità più profonda dei cittadini”.
Quella sul crocifisso in classe è una “vittoria” anche per la Radio Vaticana, vittoria che “non è solo dell’Italia ma anche di questi Paesi e di tutti coloro che ritenevano assurdo imporre la rimozione del Crocifisso dalle aule scolastiche“. La Radio Vaticana ha anche ricordato che la posizione italiana nella vicenda “ha trovato l’appoggio formale, davanti alla Corte, di San Marino, Malta, Lituania, Romania, Bulgaria, Principato di Monaco, Federazione Russa, Cipro, Grecia e Armenia“.
La soddisfazione della Santa Sede trapela anche nel primo commento del portavoce vaticano, p. Federico Lombardi: “La sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo sull’esposizione obbligatoria del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane e’ accolta con soddisfazione da parte della Santa Sede”.
Soddisfazione è espressa anche da esponenti di tutti i partiti politici, sia di centro-destra che di centro-sinistra, come pure dalla gran parte del mondo dell’associazionismo, non solo cattolico.
Ad uscire del coro è comprensibilmente il ricorrente Massimo Albertin, il medico di Abano Terme che otto anni fa aveva iniziato con la moglie finlandese, Solile Lautsi, una battaglia legale contro il crocifisso nella scuola frequentata dai figli, che dichiara: “Il pronunciamento di Strasburgo mi delude, molto, perché la prima sentenza su questa vicenda era clamorosamente chiara. Pare – dice il medico padovano – che sia tutto legato al “margine di apprezzamento” sull’applicazione dei diritti umani, per cui la Corte può decidere su determinate materie di lasciare più margine ai singoli Stati. Ma se ci sono dei diritti da far rispettare, non si capisce perché questi in Italia possano essere diversi da quello che sono in Francia o in altri Paesi dell’Unione”.
Critiche alla sentenza anche dal rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni: “La sentenza esprime una delle opinioni contrapposte in questa discussione. Nello specifico, ho sempre sostenuto una tesi differente da questa. La mia opinione personale è che nell’edificio pubblico ci deve essere spazio solo per simboli condivisi e non di una parte, anche se è rispettabile e di maggioranza. Ciò premesso, mi rendo conto della durezza polemica della questione e delle tradizioni e sensibilità della maggioranza cristiana del nostro Paese, e non ho voluto mai farne una guerra di religione”. Quanto alla tesi sostenuta dal governo italiano nel suo ricorso, per Di Segni, “dire che il crocifisso è simbolo culturale è, a mio parere, mancargli di rispetto. E non mi ci riconosco come simbolo culturale”.
La Corte di Strasburgo assolve definitivamente l’Italia: mai violata la libertà di educazione. Con una maggioranza schiacciante (15 a 2) i giudici della «Grande Chambre» del Consiglio d’Europa hanno rovesciato l’esito di primo grado con un pronunciamento non più appellabile: il simbolo cristiano non sortisce alcun effetto di «indottrinamento» degli studenti e non va rimosso dalle pareti delle scuole.
A scopo di documentazione riportiamo in questa rassegna tre interventi di vescovi italiani. “Il primo e fondamentale fra questi valori, rappresentato precisamente dal crocifisso, è quello della persona umana: ” (violazione dei diritti umani – federalismo solidale – dibattito sulle dat: sono contributi della meditazione sul crocifisso) ” Senza quel crocifisso esposto nelle tante “agorà” della vita e della storia saremmo, insomma, certamente peggiori di come siamo” (ndr.: 1) è l’esposizione sulla pubblica piazza a influenzare le coscienze? La corte ha sentenziato proprio l’opposto e cioè che quel simbolo è inoffensivo e ininfluente; 2) purtroppo nel corso della storia quel segno è stato utilizzato anche in ben altro modo; 3) i diritti dell’uomo, come la libertà di coscienza o quella religiosa si sono imposti non solo fuori dalla chiesa ma spesso anche contro la chiesa; 4) occorrono soluzioni più rispettose di una società sempre più multiculurale e multireligiosa)
“Il crocifisso esprime certamente valori universali e da tutti condivisibili e già per questo la sentenza si giustifica ampiamente. Bisogna aggiungere che un sano pluralismo vive proprio di questa accoglienza reciproca,” (ndr.: sano pluralismo, sana libertà, sana (o positiva) laicità: ma chi stabilisce ciò che è sano o positivo? perché tanta paura della libertà, della laicità, del pluralismo tout court? È triste che il valore universale del crocifisso sia certificato da sentenze)
«A lungo andare l’assenza di un segno e di un linguaggio come quello del crocifisso avrebbe indebolito il senso religioso delle persone e annebbiato la loro capacità di esprimere la propria umanità. …” (ndr.: dato che da tanti decenni quel simbolo è presente nelle aule scolastiche, nei tribunali ecc., allora il senso religioso degli italiani si è in questi decenni rafforzato?)
“L’idea che un simbolo possa essere passivo è… estremamente insidiosa dal punto di vista pratico… anche se possiamo non rendercene conto fino a che si tratta di simboli portatori di valori positivi… Da non cristiano posso dire di essere impressionato dai commenti delle gerarchie religiose che festeggiano una sentenza dove si esclude che il crocifisso possa essere il simbolo dell’indottrinamento. Secondo me si tratta di una vera e propria profanazione. Colpisce la povertà di spirito di una chiesa ridotta a brandire questo argomento”
“Sorprende dunque l’entusiasmo dei credenti cattolici per una sentenza che indica nel crocifisso sì, un simbolo religioso, ma che viene sdoganato come «elemento culturale» e apparentemente «ininfluente».”
“…Rinnegare la tradizione della propria terra, la cultura e tutto quello che il cristianesimo ha seminato in quello che siamo oggi, è un controsenso; ma è che ci siamo dati un compito più alto, un disegno più nobile. Il rispetto di tutti. Uno stato laico.”
È in dirittura d’arrivo il nuovo portale web della Santa Sede.
Come già annunciato dall’arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, durante la recente plenaria del dicastero, subito dopo Pasqua sarà in rete in italiano, in inglese e in francese. “Ci sarà da aspettare ancora un po’ – spiega il presule – perché sia operativo anche nelle altre lingue, cinese compreso. Del resto, abbiamo voluto che il progetto si realizzasse in maniera progressiva, per aver modo di apportare immediatamente tutte le modifiche che dovessero rendersi evidentemente necessarie in corso d’opera”. Ma la plenaria non si è occupata solo del nuovo portale. Ce ne parla l’arcivescovo in questa intervista al nostro giornale.
La plenaria segna sempre un momento importante nella vita di un dicastero. Qual è il problema di fondo sul quale si è concentrata la vostra attenzione?
La plenaria consente un confronto diretto con i collaboratori, membri e consultori, i quali, vivendo la loro esperienza in tanti Paesi diversi, possono fornire un quadro complessivo sullo stato della comunicazione nel mondo. Quella di quest’anno ha avuto un significato e uno sviluppo particolari, perché è stata inaugurata dall’incontro con il Papa. Le sue parole sono state illuminanti proprio per farci capire quale deve essere il punto fermo: capire che la Chiesa è chiamata a dialogare con gli uomini di oggi, sempre più impregnati da una cultura digitale. Si tratta, in sostanza, di allargare gli orizzonti della diaconia della cultura. È quello che chiede il Papa quando raccomanda di conoscere, di capire i nuovi linguaggi attraverso i quali l’uomo contemporaneo si esprime, comunica ciò che egli è, ciò che egli percepisce.
Dunque un nuovo modo di evangelizzare?
La Chiesa deve certamente imparare ad annunciare Cristo secondo il linguaggio più facilmente e più direttamente comprensibile dall’uomo al quale si rivolge. Oggi si tratta dell’uomo dell’era digitale, della cultura digitale. E il Papa ha orientato la nostra riflessione in questo senso, ricordandoci che “occorre avere il coraggio di ripensare in modo più profondo, come è avvenuto in altre epoche, il rapporto tra la fede, la vita della Chiesa e i mutamenti che l’uomo sta vivendo” e chiedendoci un rinnovato impegno nell’aiutare “quanti hanno responsabilità nella Chiesa a essere in grado di capire, interpretare e parlare il nuovo linguaggio dei media in funzione pastorale”. In sostanza, ci ha chiesto di pensare quali sfide il cosiddetto pensiero digitale pone alla fede e alla teologia, e quali sono le domande e le richieste che ne derivano.
Siete riusciti a trovare delle risposte?
Più che altro abbiamo individuato le realtà sulle quali è necessario intervenire per trovare risposte adeguate.
Per esempio?
L’accento è stato posto innanzitutto sull’attenzione pastorale da dedicare agli operatori del mondo della comunicazione. Si tratta di un aspetto fondamentale. Strettamente collegata è poi la questione della formazione di futuri sacerdoti, catechisti e laici impegnati, capaci di esercitare la loro missione nel mondo digitale. Lo scorso anno il Papa, nel messaggio per la Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, pose proprio l’accento sulla necessità di provvedere a una pastorale appropriata per il mondo della cultura digitale. Il punto fondamentale è cogliere le dimensioni più profonde dei processi comunicativi che via via emergono. La persona umana, come soggetto comunicativo, si esprime infatti attraverso un’attrezzatura tecnica che veicola un nuovo linguaggio, un modo nuovo di capire il mondo. È questo che va approfondito nei centri formativi della Chiesa, che già adesso vede tanti episcopati in prima linea. Dopo l’incontro delle università cattoliche del mondo organizzato qui a Roma lo scorso anno, abbiamo avviato noi stessi una serie di riunioni continentali proprio per incentivare questa attività formativa. Siamo già stati in Spagna, Thailandia e Stati Uniti. Prossime mete l’America latina e l’Africa. Si può ben parlare, dunque, di una “rete” di formazione vasta e articolata, alla quale il Pontificio Consiglio cerca, in molti modi, di dare il proprio contributo. Puntare forte sulla formazione è il nostro primo obiettivo. Se ne è discusso molto in plenaria.
E quali sono state le indicazioni?
Intanto i partecipanti hanno tenuto a ribadire che formare non significa aggiungere una materia in più da studiare nel percorso di apprendimento. O almeno non è questo l’aspetto più importante da curare. Bisogna invece ribadire il ruolo della comunicazione nella Chiesa e di conseguenza ripensare anche la teologia nella prospettiva della comunicazione. Molti degli intervenuti hanno poi posto l’accento sulla trasversalità della comunicazione all’interno della Chiesa stessa e hanno chiesto al Pontificio Consiglio di approfondire il dialogo con tutti gli altri dicasteri vaticani affinché si crei un legame profondo sul tema della comunicazione. La base ci ha chiesto, in sostanza, di ripensare il ruolo che il nostro dicastero dovrebbe interpretare nell’ambito della missione della Chiesa. Una missione, lo ricordiamo, dalla quale derivano complessi ed esigenti compiti operativi, che ci pongono di fronte non solo all’esercizio delle nostre responsabilità, ma, direi, alla ricerca di una forma di coerenza complessiva nei confronti del messaggio o del flusso di informazioni da comunicare.
Come si potrebbe realizzare questa collaborazione?
Riflettendo innanzitutto sul fatto che a ognuno, nel proprio ambito, è richiesto di trasmettere il messaggio evangelico, di viverlo e di testimoniarlo in modo concreto. E poi considerando che la comunicazione non è un settore, bensì un elemento costitutivo e culturalmente rilevante nella vita della Chiesa. Essa infatti si rivolge non solo ad extra ma anche ad intra, nel senso che, già in linea di principio, si pone l’obiettivo di estendere il proprio servizio verso tutti gli altri dicasteri vaticani. L’impegno primario di tutti non è altro che l’evangelizzazione, quindi l’annuncio sempre nuovo della Parola di Dio. Lo sviluppo delle nuove tecnologie impone assetti e, in molti casi, atteggiamenti sempre nuovi, collaborazioni più estese, coordinamenti più puntuali, sinergie più allargate. In questo senso siamo tutti chiamati a essere comunicatori; tutti convergiamo verso un unico obiettivo.
E il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali può essere il punto di riferimento?
Non parlerei tanto di punto di riferimento quanto piuttosto di un ruolo di collaborazione nello sviluppo di metodologie più adatte al nuovo modo di comunicare nell’era digitale, ben sapendo che anche queste vanno finalizzate a obiettivi comuni. Non si comunica per sé, perché l’autoreferenzialità è uno dei rischi maggiori di tutta la comunicazione. Da questo pericolo il Pontificio Consiglio intende stare molto alla larga.
In un’intervista dello scorso anno lei disse che il sacerdote deve restare il fulcro della diffusione del messaggio evangelico “qualunque sia la strada da percorrere per raggiungere l’uomo, anche se si tratta di una strada telematica”. Cosa è cambiato, se è cambiato qualcosa, oggi?
Non è cambiato nulla perché non può cambiare nulla. E questo è un altro dei dati emersi durante la nostra plenaria. Nella comunicazione, al di là di ogni progresso tecnologico, non verrà mai meno l’esigenza costitutiva del messaggio. Torno a quello che ci ha detto il Papa all’inizio dei nostri lavori: “La fede sempre penetra e arricchisce, esalta e vivifica la cultura e questa, a sua volta, si fa veicolo della fede, a cui offre il linguaggio per pensarsi ed esprimersi. È necessario quindi farsi attenti ascoltatori dei linguaggi degli uomini del nostro tempo, per essere attenti all’opera di Dio nel mondo”. Farsi attenti ascoltatori significa però anche e soprattutto saper ascoltare quello che Dio vuol comunicare. Si comunica se si ha qualcosa da dire. Il sacerdote, in questo senso, ha il grande privilegio di un messaggio che, per lui, si è fatto ed è diventato vita. Il suo compito è anche quello di comunicare – cioè di rendere partecipi tutti – questa sua gioia. Quando ciò avviene è un fatto che non passa inosservato; né per gli incontri diretti e personali, né sul web o nel cyberspazio. La verità sa farsi sempre strada nel mondo, pur così variegato e talvolta difficile, dei media. Al sacerdote non si chiede di essere un professionista della comunicazione, ma un servitore fedele e appassionato della Parola di Dio. Direi di più: l’efficacia della comunicazione dipenderà proprio dalla fedeltà e dall’amore che egli rivelerà nei rapporti con i fedeli.
Dal punto di vista pratico come intendete agire?
Intanto organizzando corsi di formazione. Cercheremo prima di tutto di dare un senso nuovo agli incontri con i vescovi in visita ad limina. Punteremo però soprattutto sulla formazione a livello internazionale. In questa ottica stiamo organizzando a Rio de Janeiro un seminario sulla comunicazione per i vescovi brasiliani, un incontro in Medio Oriente e un altro in Africa. Nella seconda parte dell’anno ne avremo uno anche in Cile, destinato agli operatori della rete informatica dell’America latina (Riial). Anzi, in questo vasto continente abbiamo avviato già da tempo una proficua collaborazione con il Celam e devo dire che il presidente, il cardinale Raymundo Damasceno Assis, si è mostrato particolarmente attento a questa forma di collaborazione.
Le “ore alternative all’insegnamento della religione cattolica” sono un “servizio strutturale obbligatorio” che non grava sui fondi che le istituzioni scolastiche destinano al pagamento delle supplenze brevi, ma che deve essere liquidato dal Ministero dell’economia e finanze.
È quanto emerge da una nota (la n. 26482 del 7.3.2011) della Ragioneria Generale dello Stato che è stata trasmessa nei giorni scorsi ai propri uffici territoriali.
La nota fornisce precisazioni sulla liquidazione dei compensi spettanti al personale interessato, indicando anche a quali docenti deve essere attribuito prioritariamente tale insegnamento.
In ordine, devono essere impiegati per le ore di materia alternativa i docenti a tempo indeterminato che si dichiarano disponibili ad effettuare “ore eccedenti”; successivamente, si può ricorrere ai supplenti già titolari di contratto, che possono così ottenere un completamento dell’orario di servizio oppure se ne possono nominare altri solo per la materia alternativa.
La nota precisa anche che, data l’urgenza di provvedere ai pagamenti spettanti (finora i docenti di materia alternativa non sono stati retribuiti), gli Uffici territoriali possono accettare i provvedimenti di conferimento degli incarichi anche in forma cartacea e non per via telematica.
Secondo la Cisl scuola, che riporta la notizia sul suo sito (www.cislscuola.it) “si chiarisce definitivamente e positivamente, così, una questione per la quale nei mesi scorsi ha ripetutamente sollecitato l’Amministrazione a diramare specifici ed esplicativi chiarimenti”.
Il cardinale Angelo Bagnasco ci riceve nello studio che fu di Giuseppe Siri, «un grande padre e un grande maestro». Anche l’inginocchiatoio e la cattedra, nella piccola cappella a fianco, sono gli stessi. Alle pareti, i ritratti dei predecessori, Dionigi Tettamanzi e Tarcisio Bertone, lo stemma episcopale con il motto Christus spes mea, Cristo mia speranza. Dalle finestre si vedono i vicoli di Genova. Bagnasco è cresciuto in uno di questi, salita Montagnola della Marina. Ora è arcivescovo della sua città e capo dei vescovi italiani. Sottile, dita lunghe da statua gotica; molto cortese, molto fermo.
Eminenza, parlando dei fatti di 150 anni fa lei ha detto che «mai come in quella stagione la Provvidenza guidò gli eventi». Resta il fatto che il Risorgimento si fece contro la Chiesa, o no? «Fu il cardinale Montini, per la prima volta, in un discorso al Campidoglio del 1961, a evocare “il gioco” della Provvidenza nella risoluzione della questione romana. In effetti, parte della Chiesa riteneva che la mancanza di un territorio geografico per garantire l’indipendenza del Papa dinanzi al mondo costituisse un problema insuperabile. Col tempo, al contrario, ci si sarebbe resi conto che la perdita del potere politico ha enormemente accresciuto la rilevanza morale della Chiesa nel mondo. Il Risorgimento, se è parso all’inizio “contro” la Chiesa, in realtà non si è compiuto “senza” di essa. Basterebbe pensare, nel filone risorgimentale, al contributo più federalista di Gioberti o di Rosmini, rispetto a quello più “unitarista”di Mazzini o di Garibaldi».
Vede rischi per l’unità nazionale in futuro? «Ne vedo alcuni a partire da segnali in genere sottovalutati: a cominciare dal cambiamento demografico, dalla crisi economica, dalla fatica a uscire dai particolarismi e a promuovere le mediazioni necessarie per perseguire il bene comune. C’è poi la sfida della mondializzazione che un Paese spesso ripiegato su polemiche interne rischia di non cogliere. Il futuro dell’unità nazionale dipende anche dalla capacità del Paese di trovare una sua collocazione nello scenario globale. E rispetto a questo punto la Chiesa, che è una rete globale per vocazione ma anche nei fatti, può dare un contributo importante. Dovremmo farci tutti più consapevoli del peso storico del nostro Paese, che è universalmente noto per la sua cultura e per la sua arte, ma che rappresenta pure il cuore del cattolicesimo. Dal Vangelo nasce quell’umanesimo plenario che è patrimonio universale. La sfida è concepire questa centralità non come una semplice eredità del passato, ma come un investimento per il futuro: l’unità non si fa solo attorno all’economia e alla politica, ma attorno a dei valori. Solo un nucleo vivo di valori suscita quel senso di appartenenza che resiste alle crisi ed è capace di generare una storia comune, di far superare ogni rischio di fuga e disgregazione».
Viviamo da anni in un clima di conflittualità permanente. È una rappresentazione esasperata del microcosmo politico o no? Quanto la divisione è reale, nel Paese? «La scena pubblica offre una rappresentazione certamente distorta rispetto alla realtà del Paese. Doppiamente distorta si può dire, dai media e dalla politica. I media, perché spesso esasperano episodi o realtà secondarie, mentre tacciono di altre ben più importanti o rendono invisibili le realtà positive di cui l’Italia è ricca. A volte, il sensazionalismo e la spettacolarizzazione creano una specie di “inquinamento ambientale”. E poi la distorsione della politica, che pare sempre meno il luogo della mediazione dei conflitti e degli interessi in funzione del bene comune, e sempre più un’arena in cui si cerca di neutralizzare l’avversario senza esclusione di colpi. Si alimenta così una sfiducia e un disinteresse per la politica, soprattutto nelle giovani generazioni, che non fa bene a nessuno. Questa sorta di specchi deformanti lasciano fuori l’Italia più vera, la parte più sana e più vitale del Paese, che continua a rigenerare quegli elementi che fanno la ricchezza della nostra identità: la generosità, l’operosità, la creatività, la capacità di innovare nel solco di una tradizione, di sperare oltre difficoltà vecchie e nuove. Questa Italia esiste, ed è quella che costruisce l’unità».
La politica vive una stagione di crisi? «La politica è diventata strumentale, sembra priva di grandi idee dopo la stagione per niente invidiabile delle ideologie, autoreferenziale e in difficoltà ad ascoltare il Paese, ad intercettare i bisogni e le speranze delle persone. È un gioco tra poteri, fortemente personalizzati, fatto di colpi bassi che demoliscono la fiducia nella democrazia e fanno il gioco del nichilismo, anche quando a parole si afferma il contrario. Alimentare lo scontro può essere una strategia per interessi che non sono quelli del Paese».
C’è il rischio che il federalismo impoverisca ulteriormente il Sud e allenti la coesione nazionale? «È importante declinare la pluralità in chiave unitaria. C’è un modo di essere plurali che, nel valorizzare l’articolazione del Paese, può aiutare a conservare una unità di fronte alle spinte disgregatrici della globalizzazione. In questo senso un federalismo maturo non può voler dire localismo. Al contrario, vuol dire rinnovato patto di alleanza tra cittadini, territorio e Stato. Vuol dire realizzare il principio di sussidiarietà intersecando quello di solidarietà. Perché la sussidiarietà senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, così come la solidarietà senza la sussidiarietà scade nell’assistenzialismo».
Il presidente del Consiglio è sotto processo per reati gravi. Quali riflessioni le suscita questa vicenda? Sono questioni private? O, se provate e condannate, rendono incompatibile la permanenza in una carica pubblica così importante come la guida del governo? «Mi pare che la domanda esuli dal 150 ° e si concentri… sugli ultimi 150 giorni. In ogni caso, per il rispetto che si deve alla realtà, occorre attendere gli esiti della vicenda. È saggio non anticipare valutazioni e ancor meno sentenze, fermo restando il principio formulato nell’articolo 54 della Costituzione che recita: “Chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta”».
In quale misura la Costituzione può essere modificata? «La Costituzione non è un dogma di fede, però è un punto basilare. Non è che possiamo trattare la Carta con superficialità; andrebbe contro la sua stessa natura. In alcuni punti può essere opportunamente rivista, ma non la si può prendere alla leggera. La Carta è troppo seria, importante, costitutiva di una società e di uno Stato per esporla a incertezze che riguardano l’identità e la fisionomia di un popolo. Va trattata con estrema cautela. L’esperienza ci insegna che i processi di rivisitazione storicamente necessari si sa come cominciano ma non si sa mai come finiscano».
Che impressione le fa l’annunciata riforma della giustizia? «Sento che da molte parti, di vario indirizzo, si invoca una certa rivisitazione, un migliore equilibrio. Questo è quel che sento dire. Dato che questo auspicio viene da parti diverse, che conosco molto bene, mi pare sia una testimonianza di verità. Del resto leggo e sento dichiarazioni dal mondo politico molto più possibiliste rispetto a qualche tempo fa, rispetto al niet assoluto. Mi sembra un altro segnale di onestà rispetto a situazioni di carattere strutturale che hanno bisogno di essere riviste».
La Cei come la Santa Sede hanno mostrato negli ultimi mesi grande sintonia con il Quirinale. È anche un segnale di attenzione agli «arbitri» istituzionali, perché non vengano trascinati nello scontro? «La figura del capo dello Stato realizza anche visivamente l’unità del Paese. Questo compito, che il presidente Napolitano svolge con competenza e dedizione, esprime una posizione sempre più necessaria in momenti di ricorrente contrasto politico. Anche la Chiesa non intende certo identificarsi con l’una o l’altra parte politica, ma svolgere il suo servizio a beneficio di tutti, credenti e non credenti».
La Chiesa denuncia da tempo l’emergenza educativa. Napolitano ha lanciato l’allarme su formazione e occupazione dei giovani. Cosa si può fare per loro, per l’Italia di domani? «La perdita di senso del futuro è uno dei dati più preoccupanti del nostro Paese. Lo spazio per i giovani può essere ricreato se si torna a coltivare la speranza, che non è un generico atteggiamento di ottimismo ma un impegno verso qualcosa a cui come individui e come collettività tendiamo. Nessuna società può prosperare senza investire nell’educazione dei suoi giovani. È un’antica saggezza che non dobbiamo smarrire neanche per un istante».
Ha davvero senso “consegnare anche la morte” a una legge? Non sarebbe meglio lasciare alla sensibilità di malati, medici e familiari la questione, compresa la possibilità di lasciarsi morire? «Non si tratta di “consegnare la morte” alla legge, ma di garantire la tutela della salute e della vita di ogni persona umana in tutte le sue fasi e condizioni dell’esistenza, in particolare quelle più deboli. Anche lo strumento di una legge può essere utile, dopo che l’esperienza degli ultimi anni ha mostrato i rischi derivanti dall’attuale vuoto legislativo».
Alcuni notano in lei uno stile meno «interventista» rispetto al suo predecessore. Sbagliano? «Ciascuno porta con sé i tratti del proprio temperamento e della propria storia personale. Sono di natura piuttosto riservato. Non amo essere catapultato al centro della scena. Per il resto non credo ci sia discontinuità rispetto ai temi e alle questioni sollevate dal mio predecessore. A volte sorrido e qualche volta mi rammarico nel constatare quanto forzate siano certe interpretazioni, e quanto fantasiose siano le ricostruzioni su supposte divergenze dentro la Chiesa italiana e addirittura tra la Cei e il Vaticano».
Dopo gli studi classici in seminario e l’ordinazione sacerdotale, lei si iscrisse e si laureò in Filosofia alla Statale di Genova. Perché quella scelta? «La scelta non fu la mia, ma del mio arcivescovo, il cardinale Giuseppe Siri. Fu lui che mi invitò, anzi mi ordinò di iscrivermi alla Facoltà di Filosofia, proprio negli anni della contestazione studentesca. Ricordo che ho sempre registrato rispetto e accoglienza. Erano tempi di barricate, di lezioni in birreria… Per me è stata una lezione importante di conoscenza e di dialogo a tutto campo con una cultura che non può fare a meno di cimentarsi con la grande questione cristiana e con le domande radicali circa il problema del male, il senso della vita, della storia e della morte».
Che ricordo personale ha di Siri? «Conosceva intus et in cute tutti i suoi preti: dentro l’animo, e fuori. Nonostante il protocollo, che doveva essere assolutamente rispettato, tutto il clero avvertiva una grande paternità e un grande affetto. Tanto tuonava dal pulpito, tanto era accogliente e paziente nel rapporto personale. Sapeva ascoltare».
Crede che Siri sia stato sconfitto ma il suo pensiero abbia trovato una rivincita con il tempo? «Il cardinale è stato se stesso sempre, anche nei momenti più difficili, sapendo che la storia avrebbe purificato tante conflittualità, alcune punte di ideologia. Non cercava l’affermazione di sé; desiderava solo servire la verità, anche quando non era riconosciuta, vista o presentata come faceva lui. La storia non evidenzia chi vince o chi perde. Fa emergere quel che rimane».
Tornando al Risorgimento, che cosa rimane della figura di Pio IX? «La sua figura è segnata dal dilemma intorno alla necessità o meno del potere temporale in ordine alla missione universale. Non a caso Papa Mastai Ferretti non fu del tutto contrario alle prime aperture sociali e politiche, anche se poi dovette fare i conti con la realtà che rischiava di sfuggire di mano. L’essere stato di recente proclamato santo da Giovanni Paolo II attesta che la cifra più profonda della sua personalità resta comunque la sua fede incrollabile, pure dinanzi allo sfaldamento di un mondo. Alla fine, ciò che rende Pio IX se stesso è il suo slancio apostolico più che la sua strategia politica».
Come replica a chi oggi accusa la Chiesa di ingerenza?
«Mi sembrano accuse come minimo ingenerose. Gesù ha separato, come mai prima di lui, fede e politica, come ha scritto Benedetto XVI nel suo ultimo libro. La Chiesa, che ha a cuore l’essere umano e la sua umanità, non può non essere presente, con le opere oltre che con la parola, soprattutto laddove l’umanità è fragile e ha bisogno di essere riconosciuta, accompagnata, difesa. Troppo spesso si definisce “ingerenza” la semplice presenza, che disturba il fondamentalismo laico perché propone una prospettiva antropologica incompatibile con l’idea di immanenza assoluta e individualista, e afferma una diversa idea di libertà e di umanità. La Chiesa interviene per difendere l’uomo debole, marginale, senza diritti: di volta in volta può essere il bambino nato e non nato, il giovane reso irrilevante da questa nostra società competitiva, l’anziano che rischia l’abbandono da parte di una società sempre più cinica e distratta. Ma questo non è politica. È servizio alla causa dell’uomo nel nome del Signore».
“la Patria che ci ha generato è una preziosa eredità e insieme una esigente responsabilità”.
Un inno di ringraziamento per l’Italia, senza retorica, né nostalgia, ma nella “consapevolezza che la Patria che ci ha generato è una preziosa eredità e insieme una esigente responsabilità”. Con queste parole, il Card. Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha aperto l’omelia in occasione della celebrazione eucaristica per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, a Roma, nella Basilica di S. Maria degli Angeli, giovedì 17 marzo 2011.
Un inno di ringraziamento per l’Italia, senza retorica, né nostalgia, ma nella “consapevolezza che la Patria che ci ha generato è una preziosa eredità e insieme una esigente responsabilità”. Con queste parole, il Card. Angelo Bagnasco, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha aperto l’omelia in occasione della celebrazione eucaristica per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, a Roma, nella Basilica di S. Maria degli Angeli, giovedì 17 marzo 2011.
La Chiesa partecipa convinta alla festa per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Di fronte alle più alte cariche dello Stato, ad una nutrita rappresentanza del mondo politico e a tante persone, molti con una coccarda tricolore al petto o con una bandiera tra le mani, il card. Angelo Bagnasco – Presidente della Conferenza Episcopale Italiana – giovedì 17 marzo, alle 12, ha presieduto una solenne celebrazione eucaristica nella basilica di S. Maria degli Angeli, nel cuore della Capitale, affiancato dai Presidenti delle 16 Conferenze Episcopali Regionali. Nei minuti che precedevano la celebrazione un caloroso applauso ha accolto, al suo ingresso in chiesa, il Capo dello Stato Giorgio Napolitano, lasciando poi il posto alla preghiera e al raccoglimento. Il card. Bagnasco ha poi espresso, nel corso dell’omelia, la gioia e l’impegno della Chiesa nel servire il popolo italiano secondo il Vangelo. Ad ascoltarlo anche molti rappresentanti di associazioni e movimenti, del mondo del volontariato e di quanti quotidianamente sono impegnati nella solidarietà e nel soccorso ai più bisognosi. Al termine della celebrazione coloro che vi hanno preso parte si sono riversati di nuovo per le vie della città di Roma, mai come oggi densa di appuntamenti celebrativi e di occasioni culturali e di incontro, fra cui la solenne cerimonia pubblica per i 150 anni dell’Unità nazionale, fissata presso il palazzo di Montecitorio per le ore 16.00. Vi prende parte anche il card. Bagnasco.