Encyclomedia

Umberto Eco è l’ideatore e direttore

della vasta opera interdisciplinare

 

 

Nella sede romana della casa editrice Laterza è stato presentato in anteprima l’atteso progetto multimediale Encyclomedia per la scuola diretto da Umberto Eco.

Insieme al professor Eco sono intervenuti Danco Singer, direttore editoriale di Encyclomedia Publishers, che ha seguito fin dall’inizio lo sviluppo di questo importante prodotto e Alessandro Laterza, amministratore delegato della casa editrice pugliese.

Encyclomedia Publishers, che ha realizzato il sistema on line e Laterza, che promuove il progetto Encyclomedia nelle scuole avvalendosi della propria rete, inaugurano così una partnership nel campo delle nuove tecnologie per la scuola.

La realtà scolastica è infatti in rapida evoluzione, e sempre più necessita di accedere alla rete con la garanzia di attingervi contenuti che siano insieme affidabili e pensati e organizzati secondo l’approccio dei ‘nativi digitali’.

Encyclomedia è una grande opera interdisciplinare multimediale ideata e diretta da Umberto Eco, pensata per lo studio e la diffusione della storia della civiltà europea dall’antichità all’inizio del Terzo Millennio, e un insieme di strumenti per costruire relazioni tra fatti e personaggi storici dall’antichità ai giorni nostri.

In Encyclomedia tutti gli aspetti del sapere – dalle arti alle scienze, dalla filosofia alla politica, dall’economia alla religione – vengono affrontati con l’ausilio di potenti strumenti digitali, intrecciando e collegando in percorsi dinamici i personaggi, le idee e gli avvenimenti che hanno formato la nostra cultura.

Le cronologie interattive, per esempio, sono vere e proprie mappe visuali nelle quali sono riportati gli eventi e i personaggi di un dato periodo storico, presentati in ordine di rilevanza rispetto ai temi o alle aree geografiche selezionate. Per costruire una cronologia è sufficiente impostare pochi parametri, oppure avvalersi del motore semantico, che mette in relazione tra loro tutti gli argomenti a cui sono ancorati i contenuti di Encyclomedia.

Lo schedario di Encyclomedia è costituito da oltre 40.000 schede che contengono brevi descrizioni di personaggi, eventi, opere o luoghi. Ogni scheda riporta anche i rimandi ad altre tipologie di contenuti, come i saggi e le cronologie a essa collegate.

I principali temi delle varie discipline sono approfonditi in 2500 saggi, scritti espressamente per Encyclomedia dai più prestigiosi studiosi ed esperti di ciascuna materia. I saggi  sono corredati da elementi multimediali come immagini, filmati, animazioni, brani musicali o letture di testi.

Nell’Atlante di Encyclomedia la rappresentazione della geografia politica è dinamicamente storicizzata. Si può infatti scegliere un anno nel passato, e vedere, ad esempio, i confini degli Stati così come erano in quella data storica.

I materiali sono organizzati in modo tale da facilitare una didattica personalizzata e l’effettuazione da parte degli studenti di ricerche che tengano conto del carattere multidimensionale e interagente degli eventi storici, letterari, artistici, filosofici, scientifici e così via.


tuttoscuola.com

La IV domenica di Quaresima

Esegesi, meditazione

preghiera e racconti

 


Prima lettura: 1 Samuele 16,1.4.6-7.10-13

 

In quei giorni, il Signore disse a Samuele: «Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perché mi sono scelto tra i suoi figli un re». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato.

Quando fu entrato, egli vide Eliàb e disse: «Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato!». Il Signore replicò a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede

l’apparenza, ma il Signore vede il cuore».  Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripeté a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo, che ora sta a pascolare il gregge». Samuele disse a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Lo mandò a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto.  Disse il Signore: «Alzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi.

v Se la domanda centrale del Vangelo di oggi è: «Chi è Gesù?», questo brano di 1Samuele ne preannuncia già la risposta. Egli è il discendente di Davide, il germoglio che spunta dal tronco di Iesse, su cui, secondo Isaia, si posa lo Spirito del Signore (Is 11,2).

Sappiamo che l’istituzione della regalità fu molto contrastata in Israele, perché sembrava contrapporsi alla fede del popolo eletto in JHWH come unico re e guida, che l’aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto.

Dio non si lascia condizionare dalle apparenze. Per la scelta di Saul erano state importanti alcune qualità: era «alto e bello; non c’era nessuno più bello di lui tra gli Israeliti; superava dalla spalla in su chiunque altro del popolo» (1Sam 9,2). Davide invece era il più piccolo di otto fratelli. Dio sceglie la piccolezza, per fare cose grandi, «perché nessuno», dirà poi Paolo, «possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1,28).

Seconda lettura: Efesini 5,8-14

Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce; ora il frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità.

Cercate di capire ciò che è gradito al Signore. Non partecipate alle opere delle tenebre, che non danno frutto, ma piuttosto condannatele apertamente. Di quanto viene fatto in segreto [da coloro che disobbediscono a Dio] è vergognoso perfino parlare, mentre tutte le cose apertamente condannate sono rivelate dalla luce: tutto quello che si manifesta è luce. Per questo è detto: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà».

 

v Il brano della lettera proposto dalla liturgia è preso dalla sua seconda parte parenetica, che segue la prima parte dottrinale interamente centrata sulla polarità Cristo-capo e chiesa suo corpo. Paolo propone un progetto di vita cristiana, conseguente all’inserimento del credente nel corpo di Cristo, che è la Chiesa. È all’uomo nuovo, la cui vita è fondata in Cristo risorto, che sono rivolte le parole di questa esortazione. E verso questo uomo nuovo, mentre usciva rinnovato dalle acque del battesimo, si dirigevano le parole di un inno battesimale citate da Paolo: «Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (v. 14). Il passaggio dall’incoscienza del sonno allo stato di veglia indica la trasformazione che il sacramento produce.

Questo uomo nuovo ora è in grado non solo di dissociarsi dalle opere infruttuose delle tenebre, ma anche di smascherarle, perché ha discernimento, essendo illuminato dalla luce di Cristo, e a condannarle apertamente, perché è un uomo liberato dalla sua morte e risurrezione.

 

Vangelo: Giovanni 9,1-41

In quel tempo, Gesù passando vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio. Bisogna che noi compiamo le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. Finché io sono nel mondo, sono la luce del mondo». Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: «Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe», che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva. Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano: «Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina?». Alcuni dicevano: «È lui»; altri dicevano: «No, ma è uno che gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!». Allora gli domandarono: «In che modo ti sono stati aperti gli occhi?». Egli rispose: «L’uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: “Va’ a Sìloe e lavati!”. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista». Gli dissero: «Dov’è costui?». Rispose: «Non lo so».

Condussero dai farisei quello che era stato cieco: era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha messo del fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo». Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri invece dicevano: «Come può un peccatore compiere segni di questo genere?». E c’era dissenso tra loro. Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «È un profeta!». Ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. E li interrogarono: «È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco?

Come mai ora ci vede?». I genitori di lui risposero: «Sappiamo che questo è nostro figlio

e che è nato cieco; ma come ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui: ha l’età, parlerà lui di sé». Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l’età: chiedetelo a lui!».

Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero: «Da’ gloria a Dio!

Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore». Quello rispose: «Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: ero cieco e ora ci vedo». Allora gli dissero: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?». Rispose loro: «Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?». Lo insultarono e dissero: «Suo discepolo sei tu! Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia». Rispose loro quell’uomo: «Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non avrebbe potuto far nulla». Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi?». E lo cacciarono fuori. Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Lo hai visto: è colui che parla con te». Ed egli disse: «Credo, Signore!». E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse: «È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano e quelli che vedono, diventino ciechi». Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo ciechi anche noi?». Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: “Noi vediamo”, il vostro peccato rimane».

 

Esegesi

 

Questo è il sesto miracolo narrato da Giovanni e appartiene al cosiddetto «libro dei segni» (Gv 1-12). La domanda che l’evangelista pone alla sua comunità e ai suoi avversari, i giudei della sinagoga della fine del primo secolo, è questa: «Chi è Gesù». Il contesto in cui avviene il miracolo è la festa ebraica delle Capanne, che cadeva tra la fine di settembre e la prima metà di ottobre. Era una festa in cui venivano richiamati i motivi dell’acqua e della luce. Siamo probabilmente nell’anno 29.

L’episodio inizia con una domanda dei discepoli: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Nella risposta data da Gesù troviamo che non c’è consequenzialità tra malattia e peccato. Nella malattia, come sarà poi nella croce di Gesù, si manifesterà la gloria di Dio. Si tratta di un cieco nato, che mai aveva visto la luce, la cui vita era ristretta nel chiedere l’elemosina: dipendeva esclusivamente dalla compassione del prossimo. Gesù non gli da un’elemosina più abbondante del solito. Inizialmente sembra fare qualcosa di offensivo alla cecità del povero uomo: gli spalma sugli occhi del fango (anticamente si attribuiva alla saliva soprattutto se mescolata con la terra, una virtù terapeutica). Il cieco si sente sporco ed è costretto dai fatti e dalla parole di Gesù a scendere a lavarsi alla piscina di Siloe. Si lavò e riebbe la vista.

Entrano allora in scena i farisei che negano risolutamente il miracolo, perché Gesù facendo del fango in giorno di sabato aveva violato il comando divino del riposo, dunque non poteva venire da Dio. Il comportamento poi dei genitori appare reticente, ma esprime bene la tensione tra i cristiani e la sinagoga alla fine del secolo I. Negli anni 80 d.C. si decretò infatti la scomunica per i giudeo-cristiani.

Il guarito, scacciato dalla sinagoga e accolto da Gesù, lo riconosce come Figlio dell’uomo, cioè giudice escatologico del mondo e come Signore, cioè come Figlio di Dio. Gesù non gli restituisce solo la luce degli occhi ma anche quella della fede. I farisei, invece, sicuri di possedere la verità rifiutano di vedere fuori di sé per non porre in dubbio le proprie certezze. Nella loro scelta consapevole di scegliere le tenebre anziché la luce, si attua il giudizio di Dio, che li esclude dalla salvezza.

 

Meditazione

Al centro della quarta domenica di Quaresima vi è il tema dell’illuminazione, del passaggio dalle tenebre alla luce espresso nel vangelo dal racconto della guarigione dell’uomo cieco dalla nascita che acquista il senso di una pedagogia verso la fede cristologica. Nella seconda lettura il tema riveste valenza battesimale ed è colto nelle sue implicazioni etiche: l’illuminazione battesimale impegna a una vita di conversione («Fratelli, un tempo eravate tenebra, ora siete luce nel Signore. Comportatevi perciò come figli della luce»: Ef 5,8). In parallelo con questo annuncio la prima lettura presenta l’unzione regale di David da parte di Samuele: il gesto e le parole del profeta che consacrano il messia rinviano alle parole e ai gesti di Gesù, «luce del mondo» (Gv 9,5), che dona luce a chi è nelle tenebre con gesti e parole che evocano la dinamica sacramentale.

Le tre letture pongono il problema del discernimento. Si tratta del difficile discernimento di Samuele per scegliere colui che Dio ha eletto tra i figli di Iesse. Per discernere occorre guardare come Dio stesso guarda, nella coscienza che se «l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1 Sam 16,7), o, come recita l’antica versione siriaca: «l’uomo guarda con gli occhi, il Signore guarda con il cuore». Nella seconda lettura il discernimento è richiesto al battezzato che, nella situazione in cui è «luce nel Signore», è chiamato a discernere ciò che è gradito a Dio (Ef 5,10-11). Il brano evangelico si apre con il diverso sguardo di Gesù e dei discepoli su un cieco, e prosegue con il percorso che porta il cieco guarito a discernere la vera qualità di Gesù e a confessare la fede in lui, mentre altri protagonisti dell’episodio si chiudono a tale discernimento e restano nella cecità spirituale (cfr. Gv 9,39-41).

Nel vangelo, Gesù e i discepoli incontrano un uomo cieco, ma lo guardano con occhi molto diversi. Accecati da un assioma teologico che lega in modo automatico la malattia al peccato i discepoli vedono in lui un peccatore, mentre Gesù vede nella malattia di quell’uomo l’occasione del manifestarsi dell’azione di Dio. Stessa persona, sguardo diametralmente opposto. Chi vediamo vedendo un malato? Che cosa vediamo nella sofferenza dell’altro? Lo sguardo colpevolizzante dei discepoli si oppone allo sguardo di solidarietà di Gesù.

Il testo si presenta come una iniziazione in cui l’uomo che era cieco ottiene la vista e giunge alla conoscenza dell’identità profonda di Gesù, una conoscenza che è anche una co-nascenza, una rinascita, la nascita a una vita completamente rinnovata dall’incontro con Gesù ed espressa dalla lapidaria confessione di fede: «Io credo, Signore» (Gv 9,38).

Il gesto terapeutico attuato da Gesù sul cieco quando ha impastato del fango e l’ha spalmato sugli occhi dell’uomo (Gv 9,7), ricorda il gesto con cui Dio ha creato Adamo plasmandolo con polvere del suolo (Gen 2,7). La ri-creazione non ha nulla di magico o spiritualistico, ma ha una valenza umanissima e conduce colui che era solo oggetto di parole e giudizi altrui a divenire soggetto, ad assumere la propria vita, a prendere la parola e a rivendicare la propria identità: «Sono io» (Gv 9,9). Quel «sono io» è essenziale per poter giungere a proclamare nella libertà e con convinzione: «Io credo!». Divenire credenti non esime dal divenire uomini. Anzi, lo esige.

Di fronte al cieco guarito una prima reazione è quella dei conoscenti che pongono domande, interrogano, ma non si interrogano, non pongono mai in questione se stessi e così restano alla superficie dell’evento (vv. 8-12). Vi è poi l’atteggiamento dei genitori che per paura non vanno oltre una banale e distaccata constatazione del fatto (vv. 18-23). Vi è il sapere teologico dei farisei, un sapere autosufficiente e impermeabile che diviene ottusità portandoli ad accusare Gesù (vv. 13-17) e lo stesso cieco guarito di essere peccatori (vv. 24-34) pur di non lasciarsi interpellare dall’evento straordinario. Chi è cieco e chi vede? Questa la domanda che il testo suscita. E questa la risposta: vede chi sa vedere la propria cecità e aprirsi all’azione sanante e illuminante di Cristo.

 

Preghiere e racconti


Il cieco nato

In questo luogo elevato del corpo, l’anima si sveglia

ecco il cieco nato che mi meraviglia

 

II giardino chiuso davanti a lui si è aperto

un ritmo nuovo si impone all’universo

 

Ristabiliamo gli esseri e le cose

nel loro candore nativo Propongo

 

che camminiamo insieme sulle acque

che abbiamo l’ardire degli uccelli

 

che il nostro soffio sposando la terra

accenda un fuoco nuovo nelle nostre arterie

 

Non c’è nulla da temere Tutto è bello Aspetto

l’eternità promessa per l’istante

 

l’immensità appresa nei miei limiti

So il peso del mondo Gravito

 

attorno all’asse dove mi voleva la sorte

Sono appena nato Mi cerco ancora

 

ma sono al mio posto sovrano

Di un mondo nuovo di cui ho preso le redini.

(L. Wouters)

 

L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore (1 Sam 16,7)

La secolarità è il modo di essere dipendenti dalle reazioni del nostro ambiente. L’io secolare, il falso-io, è quello fabbricato – come dice Thomas Merton – dalle costrizioni sociali. ‘Costrittivo’ è certamente il migliore aggettivo per dire il falso io. Esso indica la necessità di continua e crescente affermazione. Chi sono io? Sono uno che piace, è lodato, ammirato, o che non piace, è odiato, disprezzato… La costrizione si manifesta nell’inconscia paura di fallire e nell’ossessivo desiderio di impedirlo, accumulando sempre di più le stesse cose: più  lavoro, più denaro, più amici.

Queste costrizioni stanno alla base di due dei principali nemici della vita spirituale: la collera e la cupidigia. Esse sono il lato interiore della vita secolare, i frutti acidi delle nostre dipendenze dal mondo.

(J.M. Nouwen, La via del cuore, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 93).

 

Primavera

Un giorno,un uomo non vedente stava seduto sui gradini di un edificio con un cappello ai suoi piedi ed un cartello recante la scritta:”Sono cieco, aiutatemi per favore”. Un pubblicitario che passeggiava lì vicino si fermò e notò che aveva solo pochi centesimi nel suo cappello. Si chinò e versò altre monete. Poi, senza chiedere il permesso dell’uomo, prese il cartello, lo girò e scrisse un’altra frase. Quello stesso pomeriggio il pubblicitario tornò dal non vedente e notò che il suo cappello era pieno di monete e banconote. Il non vedente riconobbe il passo dell’uomo: chiese se non fosse stato lui ad aver riscritto il suo cartello e cosa avesse scritto. Il pubblicitario rispose “Niente che non fosse vero – ho solo scritto il tuo cartello in maniera diversa”, sorrise e andò via. Il non vedente non seppe mai che sul suo cartello c’era scritto: “Oggi è primavera…ed io non la posso vedere”.

 

«Io credo, Signore!»

Eccoci, Signore Gesù, radiosa luce della gloria del Padre, ai tuoi piedi come ciechi ignari della loro infermità.

Guardaci, figlio di Davide, come hai guardato i tuoi, oppressi dal sonno, nella luce del Tabor.

Svegliaci, Signore Gesù, vero sole che mai tramonta, illuminaci e noi saremo raggianti.

Curaci, Signore Gesù con il tocco lieve del dito di Dio e con la Parola che apre occhi e cuore alla luce.

Mandaci, Signore Gesù, alla piscina perenne del lavacro di vita nuova.

Donaci tua Madre, Signore Gesù, la brocca d’oro per attingere acqua viva dalla fonte perenne del tuo cuore trafitto per noi sulla croce.

Custodiscici premuroso, Gesù, nella prova della fede che non risparmia nessuno, perché non ha risparmiato nemmeno Te, il Signore.

Rivelati, Signore Gesù, luce gioiosa dell’eterno giorno, mettendo sulle nostre labbra il grido del cieco sanato: «Io credo, Signore!».

 

Miracolo del cieco nato

Finché vivi sulla terra sei come uno con gli occhi bendati. Solo per la fede, sotto l’influsso del mio Spirito, puoi essere sensibile alla mia presenza, alla mia voce, al mio amore. Agisci come se mi vedessi, bello, affettuoso, amorevole come sono, eppure così mal compreso, così isolato e trascurato da molti esseri ai quali ho tanto donato e tanto sono disposto a perdonare. Ho un così grande rispetto delle vostre persone! Non voglio rovinare nulla. Per questo sono tanto paziente, pur essendo attento e sensibile al più piccolo gesto d’amore e di attenzione.

(G. Courtois, Quando il Maestro parla al cuore).

 

Settimana Santa

Signore Gesù Cristo, nell’oscurità della morte

Tu hai fatto che sorgesse una luce;

nell’abisso della solitudine più profonda

abita ormai per sempre la protezione potente

del tuo amore;

in mezzo al tuo nascondimento

possiamo cantare l’Alleluia dei salvati.

Concedici l’umile semplicità della fede,

che non si lascia fuorviare

quando tu chiami nelle ore del buio, dell’abbandono,

quando tutto sembra apparire problematico;

concedi in questo tempo nel quale attorno a te si combatte una lotta mortale,

luce sufficiente per non perderti;

luce sufficiente perché noi possiamo darne

a quanti ne hanno ancora più bisogno.

Fai brillare il mistero della tua gioia pasquale,

come aurora del mattino, nei nostri giorni,

concedici di poter essere veramente uomini pasquali

in mezzo al sabato della storia.

Concedici che attraverso i giorni luminosi ed oscuri

di questo tempo

possiamo sempre con animo lieto

trovarci in cammino verso la Tua gloria futura.

Amen

(J. Ratzinger).

 

Finché sono nel mondo, sono luce di questo mondo

Quanto sono sciocchi quei giudei che chiedono: «È lui che ha peccato o i suoi genitori?» (Gv 9,2) riconducendo le infermità del corpo alla responsabilità delle colpe. E perciò il Signore dice: «Non ha peccato né lui né i suoi genitori, ma ciò è accaduto perché in lui si manifestassero le opere di Dio» (Gv 9,3). Spetta infatti al Creatore, che è autore della natura, ridare forma a ciò che mancava alla natura. Perciò aggiunse: «Finché sono nel mondo, sono luce di questo mondo» ( Gv 9,5), cioè tutti quelli che sono ciechi possono vedere se mi chiedono la luce.

Accostatevi anche voi e ricevete la luce per poter vedere. […] Quanto al fatto che il Signore fece del fango e lo spalmò sugli occhi del cieco, che altro significa se non che si comportò così perché tu comprendessi che egli restituì la salute a quell’uomo spalmando del fango come aveva formato l’uomo dal fango e che la carne del nostro fango riceve la luce della vita eterna mediante i sacramenti del battesimo? Va’ anche tu alla piscina di Siloe, cioè a colui che è stato inviato dal Padre, come trovi scritto: «La mia dottrina non è mia, ma di colui che mi ha inviato» (Gv 7,16). Cristo ti lavi perché tu possa vedere. Vieni al battesimo, ormai il tempo è vicino. Vieni subito per poter dire anche tu: «Sono andato, mi sono lavato e ho cominciato a vedere» (Gv 9,11), per poter dire, come disse costui dopo che gli fu ridata la vista: «La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Rm 13,12). La cecità era notte. Era notte quando Giuda prese il boccone da Gesù e in lui entrò Satana. Era notte per Giuda dentro il quale vi era il diavolo. Era giorno per Giovanni che riposava sul petto di Gesù (cfr. Gv 13,21-30). Era giorno anche per Pietro quando vedeva la luce di Cristo sul monte (cfr. Mt 17,1-8); per gli altri era notte, ma per Pietro era giorno. Ma anche per Pietro era notte quando negava Cristo; il gallo cantò ed egli si mise a piangere (cfr. Mt 26,74-75) per emendare il suo errore. Infatti, ormai il giorno era vicino.

(AMBROGIO, Lettere 67,3.6-7, Opera omnia di sant’Ambrogio, pp. 190-192).

 

Chi aprirà i nostri occhi?

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente chiusi

per evitare di vedere

la miseria agitarsi alla nostra porta?

 

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente tappati

per evitare di guardare

faccia a faccia

il prossimo

che ci viene incontro?

 

Chi aprirà i nostri occhi

ostinatamente velati

per evitare di essere abbagliati

dalla presenza di Cristo

con il suo vangelo esigente?

 

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere lo Spirito di Dio

all’opera sui molteplici cantieri

dove l’umanità si rinnova?

 

Chi aprirà i nostri occhi

per riconoscere il seme

che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata?

 

 

Preghiera

Dio onnipotente

la tua eterna parola è la vera luce

che illumina ogni uomo.

Guarisci la cecità dei nostri cuori,

perché possiamo discernere

che cosa è giusto

e amarti sinceramente.

(H.J.M. Nouwen, Preghiere dal silenzio, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003, 95).

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Lezionario domenicale e festivo. Anno A, a cura della Conferenza Episcopale Italiana, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2007.

– Giuseppe TURANI, Quaresima-Pasqua 2011. Cristo mia speranza è risorto!, in «Vita pastorale. Supplemento» (2011) 1, 113 pp.

– COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano» 91 (2010) 10,  71 pp.

– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno A, a cura di Enzo Bianchi et alt., Milano, Vita e Pensiero, 2010.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– Fernando ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità, Anno A, Padova, Messaggero, 2001.

 

Rete Italia

Aperta a Riva del Garda la «Duegiorni» di Rete Italia: “la Chiesa cattolica chiede alla politica due cose: garantire la libertà per tutti e lavorare per il bene comune”.

 

 

Camillo Ruini arriva sul lago di Garda e i cronisti gli chiedono perentoriamente: ma c’è ancora spazio per testimoniare la propria fede anche nell’agone politico? Certo che sì, risponde il cardinale: «C’è spazio e bisogno dei cattolici in politica». E aggiunge, significativamente: «Senza egemonia». A Riva del Garda si è aperta ieri l’attesa assemblea di “Rete Italia” e l’ex presidente della Cei, oggi presidente del Comitato per il Progetto culturale della Chiesa italiana, tiene la prolusione sviluppando un tema che davvero è tutto un programma: bisogna rinvigorire un’autentica sapienza politica, andando oltre ogni riduzionismo ideologico o pretesa utopica, senza mai dimenticare che il contributo dei cristiani è decisivo solo se l’intelligenza della fede diventa intelligenza della realtà. Guarda lontano, il porporato; richiama i cattolici in politica ad un impegno esigente.

 

 

Dirà più avanti, esemplificando ed entrando nel dibattito di stretta attualità: «La coscienza dei credenti deve essere illuminata e formata non solo dalla loro ragione ma anche dalla fede e dall’insegnamento della Chiesa. È teologicamente infondata, pertanto quella posizione – rivendicata a volte con enfasi da alcuni politici cattolici – per la quale il richiamo alla propria libertà di coscienza viene fatto valere per discostarsi dagli insegnamenti della Chiesa. Sul piano politico e giuridico essi hanno certamente il diritto di agire così, ma non possono pretendere che questi comportamenti e queste scelte siano anche teologicamente ed ecclesialmente legittimi». Per Ruinini non ci sono dubbi: all’interno del mondo cattolico, «la controversia sui “principi non negoziabili” ha qui il suo vero nocciolo». Coglie nel segno il cardinale, trovando pressocché unanime consenso nel popolo di “Rete Italia”.

Puntualizza, infatti, uno dei leader, Roberto Formigoni, presidente della Regione Lombardia:  «Se uno vuole dirsi cristiano non può dire: io faccio quello che voglio, perché essere cristiano significa avere una fede, che ha dei punti fermi. E anche dal punto di vista concreto ha dei doveri irrinunciabili».

Insomma, «la Chiesa cattolica chiede alla politica due cose: garantire la libertà per tutti e lavorare per il bene comune». “Rete Italia” non rappresenta una “corrente” all’interno del Pdl, ma un circuito – nato per iniziativa di Roberto Formigoni, Maurizio Lupi e Mario Mauro – che cerca, con le sue iniziative, di dare un’anima al centrodestra.

Per i cattolici che operano in politica – insiste Ruini – «una cosa mi sembra
decisiva: essere convinti e consapevoli che il loro impegno sarà tanto più efficace e fecondo quanto più cercheranno di essere veramente, e vorrei dire semplicemente, cattolici, anche e specificamente nel loro agire politico». Ecco perché «è giusto rispondere in modo unitario». Magari affrontando le vere priorità che stanno alla base del bene comune: anzitutto la famiglia («troppo trascurata nell’azione di governo, dalla fine della seconda guerra mondiale fino ad oggi»), e immediatamente dopo, l’educazione delle nuove generazioni e la crisi demografica.

«La questione che più mi preoccupa per il futuro del cattolicesimo in Italia – ha ammesso, concludendo, Ruini – è comunque quella degli orientamenti culturali e delle scelte e stili di vita dei giovani». A margine c’è il tempo anche per una battuta sul fine vita: «Questa legge offre una buona salvaguardia e non mette in discussione il diritto alla vita. Il bisogno di legiferare su questa materia? È venuto da alcune sentenze della magistratura».

Francesco Dal Mas

CEI: Consiglio Episcopale Permanente

Sono essenzialmente tre i punti chiave che hanno animato
il Consiglio Episcopale Permanente della CEI,
riunito a Roma dal 28 al 30 marzo 2011.



Anzitutto, i problemi legati all’intervento militare in Libia, all’emergenza dei profughi e dei rifugiati, al dovere della prima accoglienza.
In secondo luogo, la preoccupazione per il dilagare di un paradigma antropologico che rende labile l’identità personale e il senso di una storia condivisa, illudendo di costruire un modello di uomo che pretende di bastare a se stesso.
Infine, l’orizzonte pastorale di una Chiesa che vive l’evangelizzazione come il terreno della sua presenza nel mondo, non stancandosi di educare con animo missionario e di seminare la Parola nelle molteplici occasioni della vita ordinaria, con speranza e pazienza rispetto ai tempi di Dio.
Alla luce di questi temi si è articolato un confronto sereno e pacato, che ha valorizzato e approfondito i molteplici spunti offerti dalla prolusione del Cardinale Presidente, Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova.
Consapevoli del loro compito di guide della comunità ecclesiale, i Vescovi membri del Consiglio Permanente non hanno rinunciato a pronunciare una parola umile e ferma sul momento presente, ben sapendo quanto le questioni in gioco siano complesse, complicate e confuse, con l’intenzione esplicita di attivare pensieri e accendere speranze più forti delle preoccupazioni che pure assalgono quanti hanno a cuore il bene delle persone e la serenità della convivenza sociale.
Nelle tre giornate di lavoro, il Consiglio Permanente ha approvato l’ordine del giorno della prossima Assemblea Generale, che si terrà a Roma dal 23 al 27 maggio 2011. Entrando nel vivo del decennio dedicato all’educazione, essa fisserà l’attenzione sui soggetti e sui metodi con cui la missione ecclesiale conduce all’incontro con Cristo, sorgente, itinerario e traguardo di ogni prassi pastorale. Durante l’Assemblea Generale sarà anche esaminata la seconda parte dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano. È stata annunciata la preghiera mariana che, in quella occasione, riaffiderà il Paese alla Vergine Madre, nell’anno in cui esso fa memoria del centocinquantesimo anniversario dell’unità.
È stata analizzata e approvata la proposta di ripartizione delle somme che nell’anno corrente perverranno alla Chiesa cattolica dall’otto per mille, come pure la misura del contributo per il funzionamento dei Tribunali ecclesiastici regionali. In questo stesso ambito, si è approvato un nuovo modello di inquadramento professionale per i giudici, i difensori del vincolo e i patroni stabili laici a tempo pieno. Ampio spazio è stato dedicato all’esame dei piani di lavoro delle Commissioni Episcopali, così da orientarne la programmazione del prossimo quinquennio.

Comunicato_finale.doc

 

 

 

La Prolusione del Card. Bagnasco (Roma, 28-31 marzo)


“Una legge sulle dichiarazioni anticipate di fine vita è necessaria e urgente”, afferma il Card. Bagnasco, Presidente della CEI, aprendo lunedì 28 marzo i lavori del Consiglio Episcopale Permanente (Roma, 28-31 marzo): servono “regole che siano di garanzia per persone fatalmente indifese”.
In Libia Bagnasco chiede che “si fermino le armi”, nella convinzione che “la strada della diplomazia sia giusta e possibile”, “premessa e condizione per una “via africana” verso il futuro”.
E, parlando dell’Italia, aggiunge: “Ha un estremo bisogno di ricomporsi”.


Prolusione Card. Bagnasco

 

 

 


Scuola: come cambia con Lim e e-book

Lavagne elettroniche e libri digitali. Il futuro è già fra i banchi e sta cambiando rapidamente le modalità di insegnamento.

 

 

È la riflessione che compare sul sito dell’Ansas, Agenzia nazionale per lo sviluppo dell’autonomia scolastica, principale promotrice, per conto del ministero, delle aule 2.0 e dell’innovazione digitale a scuola. In un approfondimento che compare sul sito dell’Agenzia (e ripreso dall’agenzia di stampa Dire) si affronta la seguente domanda: Lim (Lavagne interattive multimediali) ed e-book, perché portarli in classe?

Innanzitutto, si spiega nell’articolo di approfondimento, gli ambienti digitali in classe sono qualcosa di più semplice rispetto a quanto viene evocato dall’immaginario collettivo quando se ne parla. Niente realtà virtuale o scene da Second life, insomma. L’aula digitale è costituita da un insieme di strumenti digitali che vengono utilizzati, anziché in solitudine, da una comunità di persone. Ma grazie alle tecnologie la scuola si ‘dilata’, supera i propri confini e tocca il mondo portandolo fra le sue pareti. Tuttavia, perché la scuola digitale funzioni “è necessaria un’adeguata cultura dei media, ovvero un approccio che consenta al docente di appropriarsi della tecnologia, dei linguaggi multimediali, per farli propri e individuarne il valore aggiunto“.

Occorre prevedere nuovi modi d’uso – è l’auspicio dell’Ansas –, consapevoli delle potenzialità e specificità del singolo medium per non incorrere nella tentazione di utilizzare, ad esempio, la Lim come la lavagna d’ardesia sprecando tempo e vanificando l’investimento“. La Lim (lavagna interattiva multimediale), infatti, “può rappresentare oggi una svolta per l’insegnamento. Entra in classe, va al cuore del sistema di apprendimento e della pratica didattica quotidiana, rompe la configurazione tradizionale dell’ambiente“.

La classe, estesa e potenziata, può accedere a diversi aspetti della realtà esterna, estrapolarne particolari e dettagli, analizzare, scomporre, manipolare informazioni e contenuti, con il supporto di efficaci applicazioni software appositamente progettate e sviluppate. Di fronte alla tecnologia il docente e lo studente possono essere “passivi consumatori” o, a loro volta, produttori. E questa è la differenza fra un buono e un cattivo uso delle tecnologie in aula. Quanto al libro digitale, Alberto Manzi, storico maestro che negli anni del dopoguerra commosse l’Italia con il suo carisma e la dolcezza con cui insegnava agli adulti analfabeti a scrivere nel famoso programma televisivo ‘Non è mai troppo tardi’, sosteneva che “per il ragazzo il libro deve essere qualcosa di piacevole, dove si può non solo leggere, ma colorare, trasformare, fare, disfare, ampliare, ridere, inventare, riflettere. Il libro si trasforma così in qualcosa di personale, perciò vivo“.

Queste affermazioni sono oggi più che mai attuali e potranno forse trovare un alleato nella tecnologia digitale. E se, di fatto, l’e-book non nasce per il target scuola, in essa trova applicazione e naturale collocazione.


tuttoscuola.com

Intervista ad Asia Bibi

“Io cristiana in carcere per la fede salvatemi, sto morendo ogni giorno”

 

 

“Sto male. Mi sento soffocare fra queste quattro mura in ogni momento. Ogni minuto che passa mi sembra essere l’ultimo. Mi sveglio tutte le mattine pensando che quello sarà il mio ultimo giorno”. È un grido disperato quello Asia Bibi lancia dalla cella di isolamento del carcere di Sheikpura, nel Punjab pachistano, dove è rinchiusa, condannata a morte per blasfemia, nella prima intervista concessa dall’inizio della sua vicenda.
La donna, madre di 5 figli, è stata arrestata nel 2009 e condannata nel 2010: la sua colpa, secondo le vicine di casa, sarebbe quella di aver insultato Maometto e di essersi rifiutata di convertirsi all’Islam. Il caso si è trasformato in una questione internazionale quando la proposta di modificare la legge sulla blasfemia sull’onda della sua vicenda, ha generato un’ondata di violenze in Pakistan: una rabbia culminata negli assassinii, a gennaio e marzo, del governatore del Punjab Salmaar Tasmeer e del ministro delle Minoranze religiose Shahbaz Bhatti, che si erano battuti per la
modifica.

Dopo queste morti, il cerchio intorno ad Asia Bibi si è stretto ulteriormente. Oggi vive in isolamento: non può uscire dalla cella neanche per prendere aria, perché c’è il timore che venga assassinata. Familiari e legali sono minacciati. È malata, e chi la conosce è preoccupato per la sua salute, fisica e mentale. Questa preoccupazione è uno dei motivi che spiega la scelta di rompere il silenzio, parlando per la prima volta con un giornale. Asia Bibi risponde alle domande tramite il marito, Ashiq, l’unica persona insieme ai suoi legali autorizzata ad incontrarla, e alla sede londinese della Masihi Foundation, che si occupa della sua difesa.

 

Signora Bibi, per prima cosa vuole raccontarci come sta?
“Prima di rispondere alla sua domanda, voglio mandare i miei ringraziamenti a tutti quelli che sono preoccupati per me e che stanno pregando per me. Io sto molto male. La notizia della morte di Shahbaz Bhatti mi ha devastato e non riesco a riprendermi. Mi sento soffocare in queste quattro mura in ogni momento. Ogni minuto che passa mi sembra essere l’ultimo. Mi sveglio ogni mattina pensando che forse quello sarà il mio ultimo giorno: e allora piango. Piango per i miei figli e per mio marito”.

 

Ci racconti come vive…
“Le mie condizioni di vita in carcere non sono semplici. Sono in isolamento e non posso parlare con nessuno a parte il personale della prigione, con il quale però non mi sento di parlare. Sono in una situazione davvero difficile, nessuno può capire quello che sto vivendo: mi hanno condannato a morte e sono innocente. Non ho commesso nessun crimine eppure ogni persona in questa prigione mi fissa come se io fossi la persona più terribile che vive al mondo”.

 

Ha paura?

“Sì. Ho paura, sono terrorizzata: per la mia vita, per quella dei miei figli e di mio marito. Non ce la faccio più e non penso che ad uscire da questo luogo miserabile. La cosa che mi preoccupa di più sono le mie figlie, che stanno soffrendo con me: mi sento come se la mia intera famiglia fosse stata condannata. Questo mi rende triste e mi fa sentire come se fossi responsabile, come se fossi stata io a fallire in qualcosa. Le donne in questo mondo sono chiamate a costruire una casa, un futuro, insieme alle loro famiglie: ma io? Che futuro posso promettere io alla mia famiglia, alle mie figlie, se sono bloccata qui dentro? Vorrei offrire loro una vita più sicura in un altro posto: in un posto qualunque che non sia il Pakistan. Ma so che forse non vivrò per arrivare a vedere questo futuro. Sarei felice se solo sapessi che la mia famiglia è al sicuro. Ma so per certo che se anche io uscissi di prigione, se anche la corte decidesse che sono innocente, qui non sopravviverei: né io né la mia famiglia. Gli estremisti non ci lasceranno mai in pace: sono una donna segnata. Ma la mia fede è forte e credo che Dio misericordioso risponderà alla mie preghiere”.

 

È consapevole che il suo è diventato un caso internazionale? Che in Pakistan e in moltissimi altri Paesi intorno alla sua vicenda si sono accesi dibattiti e polemiche? Se queste notizie Le sono arrivate come giudica tanto interesse? Si sta rivelando utile per il suo caso?
“Il mio mondo è chiuso dentro a queste quattro mura. Ho sentito molte cose su questi dibattiti, me le hanno raccontate: ma tanto rumore non ha portato a nessuno cambiamento nelle mie condizioni di vita. Due delle persone che mi hanno più appoggiato in Pakistan, che hanno fatto sentire la loro voce per me, sono morte. Sono terrorizzata per chiunque lì fuori sta rischiando la sua vita per me e per le tante altre persone che stanno soffrendo per me. Ho paura non solo per la mia famiglia, ma anche per i miei legali e per la Masihi foundation, che con tanta generosità sta aiutando la mia famiglia. Prego Dio ogni giorno perché alle persone che sono dalla mia parte non accada nulla”.

 

 

Cosa ha pensato quando ha saputo invece che due delle persone che si erano battute per lei erano state assassinate, una dietro l’altra? E che molte persone, in Pakistan, hanno gioito per quelle morti?
“Ho sentito un dolore terribile quando ho saputo della morte di Salman Taseer prima e di Shahbaz Bhatti poi: sono rimasta senza parole, sotto choc. Poi mi sono infuriata, non volevo crederci: il mio cuore è con le loro famiglie e con tutte le persone che li amavano. Hanno dato la vita per una causa importante, vorrei che l’intero mondo riconoscesse la loro lotta e il loro sacrificio, che sono stati fatti in nome dell’umanità intera. Da allora passo molte notti senza dormire. Sono frustrata e penso che la mia vita sia ad un punto morto. Sto disperatamente aspettando di uscire da questa prigione e voglio chiedere aiuto a tutti perché facciano qualcosa per risolvere questo caso. La gente qui in Pakistan usa la legge sulla blasfemia per risolvere le proprie questioni personali: questa legge dovrebbe solo essere abolita, perché fa male a tutti, siano essi cristiani o musulmani. Nessuno sarà mai al sicuro in Pakistan fino a quando questa legge continuerà ad esistere. Io sono per certo di essere una vittima innocente di questa legge; soffro e l’intero mondo deve sapere che sto soffrendo senza aver commesso nessun crimine”.

 

 

Parliamo di futuro, signora Bibi: cosa sogna di fare quando uscirà? Quale sarà il suo primo gesto?
“Ringrazierò Dio per essersi preso cura di me e della mia famiglia. Abbraccerò forte ogni singolo membro della mia famiglia e poi farò con loro una grande cena per celebrare. Poi ringrazierò le persone che non conosco di persona ma che tanto stanno facendo per me, come Haroon Masih della Masihi foundation, di cui ho sentito così tanto parlare. Ma il mio sogno più grande è quello di incontrare Papa Benedetto. Haroon mi ha fatto arrivare la notizia che il Santo Padre ha parlato di me: questo mi ha dato moltissima speranza, mi ha spinto a continuare a vivere, mi ha fatto sentire amata e come se l’intero mondo fosse con me. Mi sono sentita onorata: è un privilegio sapere che ha
parlato per me, che ha pronunciato il mio nome, che segue il mio caso personalmente. Vorrei vivere abbastanza per vedere il giorno in cui potrò incontrarlo e ringraziarlo di persona.

in “la Repubblica” del 27 marzo 2011

Giovanni Paolo II. La biografia

Andrea Riccardi, Giovanni Paolo II : La biografia, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2011, ISBN-13: 978-8821568893, € 24,00


La biografia più documentata su Giovanni Paolo II. Un viaggio attraverso le vicende che hanno caratterizzato la seconda metà del XX secolo, per comprendere appieno la carismatica figura del Pontefice.

Giovanni Paolo II, protagonista per più di un quarto di secolo sulla scena mondiale, è stato definito il papa slavo, colui che ha dato il colpo di grazia all’Unione Sovietica e al suo impero, l’uomo del secolo.

Più semplicemente, egli riteneva di aver ricevuto il compito di introdurre la Chiesa nel nuovo millennio. Questo era il senso del suo viaggio condotto, secondo la sua convinzione, dal filo invisibile della Provvidenza. Questa guida nascosta l’aveva sottratto alla guerra e alle deportazioni di cui erano caduti vittima tanti suoi compagni; l’aveva chiamato alla vita sacerdotale; l’aveva scelto come vescovo e come papa. Ancora nel 1981 questo scudo di grazia l’aveva protetto in occasione dell’attentato in piazza San Pietro. Una volta ristabilito, Giovanni Paolo II ampliò ulteriormente il suo raggio d’azione. Al servizio della Chiesa cattolica, egli si impegnò a favorire l’unione tra i cristiani, l’amicizia con l’ebraismo, il dialogo tra le religioni, la pace nel mondo. Al termine della sua vita, consumato dalla dedizione, commosse il mondo con la sua sofferenza.

L’opera di Andrea Riccardi, storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio che conobbe e collaborò a lungo con il papa polacco, è la prima vera biografia scritta su base scientifica e testimoniale di un papa che ancora vive nel ricordo di credenti e non credenti.

 

Andrea Riccardi

è ordinario di Storia contemporanea presso la Terza Università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio. Presso le Edizioni San Paolo ha pubblicato: Le politiche della Chiesa (1997); Vescovi d’Italia. Storie e profili del Novecento (2000), Dio non ha paura. La forza del Vangelo in un mondo che cambia (2003), La pace preventiva. Speranze e ragioni in un mondo di conflitti (2004) e ha curato Il sogno di un tempo nuovo. Lettere di Giorgio La Pira a Giovanni XXIII (2009).

 

 

UN COMMENTO

 

Giovanni Paolo II. Il fascino di quel papa che dava del tu alla storia
di Agostino Giovagnoli
in “la Repubblica” del 21 marzo 2011

Allo “shock” Wojtyla – la grande sorpresa per la sua elezione – sono seguiti ventisette anni in cui egli è stato al centro della scena mondiale, portando la Chiesa nel cuore della storia. Eppure, Wojtyla resta ancora “un personaggio da scoprire”, come scrive Andrea Riccardi in un importante volume appena pubblicato e da cui difficilmente potranno prescindere, in futuro, altre ricostruzioni di questo pontificato (Giovanni Paolo II. La biografia, San Paolo, 561 pp., 24 euro). «Non si scrive per fare un monumento» – egli spiega aprendo un libro ricco di documenti inediti e di tante voci di protagonisti – «bensì per comprendere». Anche se il 1° maggio Karol Wojtyla sarà solennemente beatificato, infatti, resta ancora qualcosa del disorientamento degli inizi. Allora egli era sconosciuto ai più – molti pensarono che fosse un africano – e nulla faceva presagire che ai suoi funerali avrebbero partecipato i potenti della terra. Ma si è poi conquistato, passo dopo passo, rispetto e fama.
Giovanni Paolo II ha affascinato e sconcertato. Non è stato un personaggio oscuro e misterioso, sono note la sua carica umana e la cordialità del suo tratto. Ma, spiega Riccardi, aveva una visione originale della storia ed ha tracciato una nuova geografia spirituale del mondo, dalla Polonia all’Italia, dall’America latina all’Africa. Sorprese molti affermando che la dittatura di Pinochet in Cile sarebbe finita senza bisogno di ricorrere alla violenza. E, fino al 1989, anche la sua convinzione che il blocco sovietico non fosse eterno è stata condivisa da pochi. Ma sarebbe
sbagliato leggere queste posizioni con le chiavi del pensiero politico occidentale, come dimostra efficacemente questo libro. La biografia dell’americano George Weigel pubblicata nel 1999 ha insistito sull’alleanza politica tra Reagan e Wojtyla contro l'”impero del male” identificato con i regimi comunisti. Ma a Gorbaciov – la ricostruzione dell’incontro tra i due nel 1989 è una delle tante novità di questo volume – il papa disse che non si dovevano  applicare al mondo orientale modelli occidentali. Karol Wojtyla ha sempre portato con sé la storia e la cultura di una terra di confine tra Oriente ed Occidente, oltre ad una straordinaria esperienza personale del Ventesimo secolo, compresi la guerra, il nazismo e il comunismo. Non è stato solo il primo papa non italiano dopo quattrocento anni, è stato anche il primo pontefice, da dodici secoli, che non sia venuto da un paese dell’Europa occidentale. Riccardi sottolinea che egli non credeva al mito della rivoluzione, intorno a cui ha ruotato il pensiero politico occidentale per due secoli, e nota che non sostenne con l’intensità di Paolo VI l’esperienza dei partiti democratico-cristiani, tanto rilevante in Italia, in Germania e altrove. Per Giovanni Paolo II, la caduta del muro di Berlino non ha rappresentato il trionfo dell’Occidente e la fine della storia. E dopo il 1989 egli si è proiettato con ancora maggiore fiducia nel mare aperto delle vicende mondiali, inserendo sempre di più la Chiesa nella globalizzazione. Ha sviluppato, tra l’altro, l’intuizione dell’incontro di Assisi nel 1986, quando convocò leader religiosi di tutto il mondo invitandoli a pregare per la pace, e, pur non avendo avuto in precedenza esperienze dirette con l’Islam, ha saputo aprire la via del dialogo con i musulmani.
Nel contesto post-conciliare in cui Giovanni Paolo II è stato eletto, era usuale classificare gli uomini di Chiesa in conservatori e progressisti. Ma i giornalisti notarono che il nuovo papa sfuggiva a queste categorie. Il volume documenta numerose divergenze di vedute tra il papa e il suo principale collaboratore, il card. Casaroli, considerato un progressista perché protagonista della Ostpolitik vaticana. Ma Wojtyla lo volle ugualmente come suo Segretario di Stato per oltre dieci anni: lo scelse perché ne conosceva la fedeltà e la lealtà. Questo papa, nota Riccardi, non si è circondato di persone con visioni affini alle sue (come fece Paolo VI con i “montiniani”). È convinzione di molti
che Wojtyla “non abbia governato” la Chiesa, ma è vero piuttosto che ha accettato di vivere senza protezioni, per così dire, la «dialettica di sempre tra l’uomo e l’istituzione, tra il sentire personale e il lavoro di un’amministrazione», come spiega qui Benedetto XVI in una testimonianza ad hoc. Per quanto riguarda l’Italia, si pensa che egli abbia delegato molte scelte al card. Ruini, ma anche in questo caso ha seguito la sua visione personale: Ruini, ha detto lo stesso Giovanni Paolo II all’autore, è stato l’interprete della linea del papa per l’Italia.
Pagina dopo pagina, vicenda dopo vicenda, il ritratto di Wojtyla diventa sempre più nitido. Riccardi ha trovato la cifra interiore di questo papa nella sua poesia, un aspetto spesso trascurato. Attraverso la poesia, infatti, egli meditava sulla fede e sulla storia, nella sua poesia si fondono il “mistico” e il “politico”, l’uomo di preghiera e colui che crede «nella forza delle energie religiose e spirituali della sua Chiesa e dell’umanità». Il Giovanni Paolo II raccontato da Andrea Riccardi dà del tu alla storia perché dà del tu a Dio. Gli eventi mondiali degli anni Ottanta e Novanta hanno dato ragione alla sua speranza in una «forza disarmata delle convinzioni, più forte dei poteri costituiti e oppressivi».
Vedremo se accadrà di nuovo con la primavera araba emersa nelle ultime settimane .

Enzo Bianchi: Una vita da priore

La campana a Bose suona alle 5.30. Prima un tocco, sospeso nel vuoto. E poi altri, con le campane
che diventano due, a rincorrersi, veloci. È tempo di svegliarsi. I monaci svegli lo sono già, da un’ora.

 

 

Accendono la lampada alle 4.30 e cominciano la giornata con una lectio divina: leggono, meditano, pregano, scrivono, studiano, ridono o piangono nel segreto delle loro celle. «Dall’aurora io ti cerco», dice un verso di un salmo che cantano assieme all’alba nella chiesa al centro del monastero. Nei loro abiti bianchi i monaci siedono nella navata sinistra della chiesa. Le monache con gli stessi abiti e il cappuccio sul capo siedono dall’altro lato. Sono un’ottantina. Al centro c’è un leggio con una bibbia aperta. In fondo il crocifisso e il tabernacolo. Sopra, dalle  finestre, si intravedono nel buio i contorni innevati dei monti del biellese: Mucrone, Mars, Camino.
Bose è un gruppo di case di campagna, un tempo abbandonate, sulle colline piemontesi, tra campi chiazzati, filari di larici, betulle, un bosco di abeti e di cipressi. L’unico rumore, in questi giorni, è quello della neve che si scioglie, l’acqua scorre nelle gronde e nei canali. Alle 8 del mattino, dopo la fine di quello che qui chiamano il Grande silenzio – inizia la sera prima alle 20 dopo la cena – ognuno comincia la propria attività. Tutti hanno un lavoro da svolgere. E lo fanno con cura, con un ordine che sembra prestabilito. Nessuna cosa viene imposta. C’è un senso di libertà e di quiete. «Se vai in capo il mondo, trovi le tracce di Dio. Se scendi nel tuo profondo, trovi lo stesso Dio» è scritto nel foglio del monastero che accoglie gli ospiti.
Enzo Bianchi, 68 anni, per tutti qui “il priore”, ha uno sguardo profondo, la barba lunga bianca su un corpo di quercia. «Sono un figlio della cultura contadina» del Monferrato e delle Langhe. Il suo ultimo libro Ogni cosa alla sua stagione (Einaudi,130 pagine 17 euro) ha venduto in poche settimane oltre 130mila copie. Parla di ricordi, di terra, di spiritualità nascosta nelle persone semplici, di vecchiaia, di vita monastica e di ascesi. Successo editoriale curioso, in un paese come l’Italia dove si legge poco e il volume in cima alle classifiche di vendita è un manuale di ricette di cucina. «Ha stupito anche me questo successo. C’è un forte bisogno di profondità, di cose vere».
Il suo rapporto con la scrittura è strettamente legato alla vita monastica. «La mia scrittura nasce dal silenzio. Ho una cella nel bosco dove regna un grande silenzio e questo mi aiuta molto a dosare le parole, a discernere e a capire… Se non avessi ore e ore di silenzio sarei incapace di parlare e di scrivere».
Quando ha cominciato la vita a Bose, nel 1965, l’anno della fine del Concilio Vaticano II, era solo.
Studente di economia e commercio all’Università di Torino, aveva formato un gruppo di preghiera «ecumenico, prima ancora del concilio» con altri giovani cattolici, valdesi, ortodossi. «Sentivamo il bisogno di far coincidere la spiritualità cristiana e l’umanità». La svolta avviene nel 1965 quando trascorre tre mesi in Francia a fianco dell’Abbé Pierre. «Vivevamo in una catapecchia vicino al fiume, alla periferia di Rouen: io, l’Abbé Pierre, Dominique, un fratello laico, assieme a clochard, ex legionari, ex carcerati. Svuotavamo cantine, raccoglievamo stracci e li  vendevamo». Tornato a Torino non era più lo stesso. «Volevo continuare a vivere così: una vita cristiana radicale». All’inizio erano in quattro, ma rimase subito solo: uno dei compagni perse la fede, due ragazze decisero di sposarsi.
«Mio padre diceva che ero pazzo». Pazzo di Dio.
Nella prima casupola di Bose non c’era l’elettricità, né riscaldamento o acqua calda. Solo una stufa a legna durante i lunghi inverni, l’orto, le traduzioni dal francese per mantenersi e la vita monastica, in solitudine. Per tre anni. «In quel periodo ho toccato con mano quanto sia difficile l’arte di abitare con se stessi. La mia vita era come è adesso, con la liturgia delle ore, il silenzio e il lavoro. Durante l’inverno restavo lunghi mesi da solo senza vedere nessuno. Il sabato e la domenica, nella bella stagione, qualcuno veniva su a trovarmi. Le giornate erano lunghe ma piene. Avevo trovato una ragione per spendere la vita. Non desideravo altro… Quando ci ripenso ho nostalgia di quel tempo».

L’esperienza di Bose, per niente mondana, ha un qualche successo, lo dimostrano le vendite del suo
libro e le 18mila persone che ogni anno vengono a visitare questo luogo sperduto nella campagna
piemontese. È una storia vera, di identità, di cristianesimo vissuto. «Tanta gente arriva qui, anche non
credenti. Facciamo una vita semplice. Io ho sempre cercato di creare rapporti veri, di comunicazione
sincera».
Rimpianti? No, non ci sono, ricordi piuttosto. «Adesso, con l’età che avanza, si comincia a guardare indietro, sempre più spesso. Quando sono nella solitudine della mia cella, alla sera, ripenso alle persone fondamentali nella mia vita: l’Abbé Pierre, Roger Schutz, Atenagora, ma anche ad alcune persone semplici che sono state importanti nel mio cammino». Nel libro racconta la storia di Teresina del Muchèt. Una donna che viveva sola sul pianoro ai bordi del paese natio, con la compagnia dei suoi animali «ed emanava un odore acre, un misto di stalla, di pecora, di sudore».
Parlava poco Teresina ma quando lo faceva era piena di sapienza, «poche frasi che coglievano sempre nel segno». Tra le pagine scorre anche la storia di Cocco ed Etta, la postina e la maestra del paese. Due donne non sposate, che vivevano insieme dandosi del lei, e che dopo h morte della madre lo hanno cresciuto alla vita, trasmettendogli valori e tolleranza.
«Ho avuto la grazia di trovare chi credeva in me. Avere qualcuno che crede in noi è decisivo  affinché possiamo a nostra volta credere negli altri, è determinante per riuscire a trovare senso nella vita».
Se oggi dovesse lasciare questa terra e le si chiedesse una parola, l’ultima, da lasciare ai suoi, un testamento racchiuso in una parola, cosa direbbe?: «Direi questo: ascoltate. Imparate ad ascoltare.
Per me è la cosa più importante. L’unica cosa che vorrei che si dicesse di me quando non ci sarò più è: “Era un uomo che ascoltava”».

 

in “Il Sole-24 Ore” del 27 marzo 2011

Parlare con gli atei

 

“Ritroviamo il coraggio di parlare con gli atei”
intervista a Gianfranco Ravasi

 

Cattolici e atei, credenti e agnostici: faccia a faccia nella Parigi dei Lumi per un vertice inedito promosso dal cardinale Gianfranco Ravasi, ministro della Cultura vaticano. Partner del dialogo, che si svolgerà tra il 24 e il 25 marzo, sono l’Unesco, la Sorbona, l’Institut de France, il “parlamento dei sapienti” che riunisce le cinque grandi accademie francesi. È una pagina nuova nella storia della Chiesa, il tentativo di affrontare il Terzo millennio smettendola di considerare atei ed agnostici come nemici o handicappati spirituali.“Anticlericalismo e Clericalismo” vanno superati, è l’opinione del porporato. Perché “chiudersi nel proprio recinto è una malattia sia per le religioni che per il mondo laico e per una scienza che pretenda di dare le risposte a tutte le domande”.  L’iniziativa è sorta per impulso di Benedetto XVI, che nel 2009 affermò a Praga che andava stimolato il confronto con i non-credenti e indicò nel Cortile dei Gentili dell’antico Tempio di Gerusalemme lo spazio, dove gli aderenti ad altre religioni potevano accostarsi al Dio Sconosciuto.
Sul sagrato di Notre Dame, dove si terrà uno spettacolo per i giovani, arriverà un videomessaggio del Papa.

 

 

Cardinale Ravasi, partite dalla Francia, l’Anticristo dell’Illuminismo.
Sì, ho voluto scegliere Parigi proprio perché è un vessillo di laicità, ma devo dire subito che ho trovato un mondo laico interessato a un confronto vero sui grandi temi.

 

Voglia di convertire?
Non è questo lo scopo. Non parliamo di evangelizzazione. L’obiettivo è il dia-logo. Il confronto fra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte dell’esistenza. Quando mi trovo di fronte a un ateo come Nietzsche o al discorso marxista o scientista, io ascolto, rispetto, valuto. Le religioni e i sistemi ideologici sono letture del reale e del cosmo ed è bene che si confrontino.


Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anitra zoppa?

Il credente e l’ateo sono ciascuno portatori di un messaggio, che è ‘performativo’ poiché coinvolge l’esistenza. Sono contento di avere come interlocutori a Parigi personalità come Julia Kristeva, semiologa e psicanalista agnostica o il genetista Axel Kahn.

Su cosa ragionare?
All’Unesco si discuterà tra credenti e laici sul ruolo della cultura ma anche delle donne nella società moderna, sull’impegno per la pace e la ricerca di senso in un mondo che è contemporaneamente secolarizzato e religioso. Alla Sorbona il tema è emblematico: Lumi, religioni, ragione comune.
All’Institut de France il dibattito sarà su economia, diritto, arte.

Sperando di trovare punti di incontro?
Non interessano incontri o scontri generici né di accordarsi su una vaga spiritualità. E non si tratta  nemmeno di un asettico convegno di matematica. Ciò che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative, ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali.
Lei ha detto recentemente che la Chiesa deve imparare ad abbattere i propri muri.
Spesso abbiamo un linguaggio eccessivamente connotato ed escludente. Dobbiamo riconoscere che esistono visioni diverse della realtà e che dal mondo laico ci vengono rivolte domande profonde rispetto alle quali non possiamo essere evasivi.

Quali questioni considera capitali?
Le domande sul senso dell’esistenza, sull’oltre-vita, sulla morte. E ancora, la domanda sulla categoria di verità.

C’è già nel processo a Gesù: cos’è la verità?
È qualcosa che ci precede, che è ‘in sé’? Oppure, come affermano i moderni, è l’elaborazione del soggetto secondo i differenti contesti?

Immagina Parigi come tappa di una ricerca sull’etica universale, quel Weltethos che il teologo Hans Kueng espose a Benedetto XVI a Castegandolfo dopo la sua elezione?
Penso piuttosto che si possa aprire il discorso, senza sincretismi, su ciò che significa Natura e legge naturale.
Vale la pena di indagare sulle radici ultime, che precedono le ragioni delle religioni e delle ideologie. Porre a confronto le differenti concezioni di essere ed esistere significa mettersi autenticamente a ricercare, senza pretendere di sapere a priori.
Troppe volte si è diffusa la sensazione che con l’arrivo del pensiero scientifico moderno sia stato segnato un anno zero, che annulli le elaborazioni della cultura precedente, specie quella greca e cristiana.

Invece?
Trovo tanti scienziati aperti a riflettere sulle categorie filosofiche dell’esistenza.

C’è un tema su cui si dovrebbe riflettere di più nella civiltà contemporanea?
La potenza del male. Bisogna esserne consapevoli. Gli atteggiamenti susseguenti possono essere diversi. Per Albert Camus, nell’assenza di Dio, la risposta finale è il suicidio. Per George Bernanos, al di là di tutte le difficoltà e fragilità, la presenza divina non abbandona mai l’umano.

La Chiesa è pronta a fare i conti con la decristianizzazione in atto nel continente europeo?
Le categorie statistiche sono insufficienti per misurare il reale. Serve un metodo qualitativo per misurare dall’interno i comportamenti sociali e personali. Harvey Cox, che aveva scritto la ‘Città secolare’, ora sostiene di  essersi sbagliato. Assistiamo ad un ritorno del Sacro e a una nostalgia del Religioso, che però non trova una risposta nel istituzioni religiose. Così si manifesta in varie espressioni: movimenti, New Age, devozionalismo, spiritualismo.

Qual via d’uscita propone?
Il cristianesimo deve tornare alle sue grandi risposte. Riuscendo a guarire il palato della società, deformato da una secolarizzazione che cerca spiritualità a basso profilo.

Non pensa che vi sia nella Chiesa ancora troppa paura della modernità?
Io nutro rispetto per la modernità, ma rivendico la legittimità di criticare una modernità superficiale, inodore, incolore, nemmeno immorale bensì a-morale. Come dice Goethe nel Faust: abbiamo dimenticato il Grande Maligno, sono rimasti i Piccoli Mascalzoni.

in “il Fatto Quotidiano” del 20 marzo 2011

 

 

Parlare con gli atei


 

di Paolo Flores d’Arcais

 

Stimato cardinal Ravasi, ho letto con crescente interesse l’intervista – impegnata e soprattutto impegnativa – che ha concesso a Marco Politi per questo giornale. Le sue parole mi hanno colpito, tra l’altro, per un tono appassionato di autenticità che non sempre si avverte in altri uomini di Chiesa del suo altissimo livello gerarchico. Lei enuncia come obiettivo delle sue iniziative “il dialogo” con gli atei, dunque un parlarsi-fra che non aggiri la controversia, anzi, visto che lo intende come “il confronto tra due Logoi, tra visioni del mondo che si misurano sulle questioni alte
dell’esistenza”. E perché non ci siano dubbi che tali “Logoi” debbano essere anche quelli più radicalmente conflittuali con la fede cattolica, esemplifica con gli ateismi di stampo nicciano, marxista, scientista: insomma tutto il “vade retro” del moderno relativismo (condannato dagli ultimi due Pontefici come incubatore di nichilismo). Ateismi radicali che, aggiunge, “io ascolto, rispetto, valuto”.

 

DI PIÙ

Marco Politi molto opportunamente insiste: “Superando l’atteggiamento classico secondo cui il non-credente è un’anatra zoppa?”. Bella metafora, in effetti, per stigmatizzare l’atteggiamento paternalistico che spinge ancora troppo spesso la Chiesa a scegliere come interlocutori solo quei “gentili” (“Cortile dei gentili” si intitola la sua iniziativa) che sembrano soffrire la condizione della mancanza di fede come un’amputazione ontologica o esistenziale. “Atei” sì, ma “alla ricerca di Dio”. Sembra proprio che invece lei questa volta voglia promuovere il confronto con l’intera costellazione dell’ateismo hard: “non interessano incontri o scontri generici, né di accordarsi su una vaga spiritualità” perché “quel che conta è mettere a confronto visioni di vita alternative” smettendola di “essere evasivi” rispetto alle “profonde domande che ci vengono rivolte dal mondo laico”. Apprezzo “toto corde”. Del resto dirigo da un quarto di secolo una rivista di adamantina laicità (tanto che viene spesso tacciata di “laicismo” proprio perché non è laicità “rispettosa”, da anatre zoppe) che del confronto senza diplomatismi con uomini di fede, anche della Chiesa gerarchica, si è fatta un punto d’onore. Praticandolo.
Spero perciò sinceramente che alle sue parole seguano i fatti. Non solo a Parigi, anche in Italia.
Negli ultimi anni l’atteggiamento è stato però di segno opposto. Il dia-logo con l’ateismo è stato sistematicamente rifiutato dalla Chiesa gerarchica e anche da lei personalmente. Si tratta di una verità inoppugnabile, di cui purtroppo posso dare testimonianza diretta. Quando nell’anno del giubileo MicroMega pubblicò un almanacco di filosofia dedicato a Dio, con saggi in maggioranza di ispirazione atea, l’allora prefetto della Congregazione per la dottrina  della fede, cardinal Ratzinger, non solo accettò di collaborare con un suo testo, ma anche di presentare il numero in una controversia pubblica con me al teatro Quirino di Roma, gremito all’inverosimile e con duemila persone che seguirono il dibattito sulla strada attraverso altoparlanti di fortuna. Se guardo ai due o tre anni successivi, posso constatare che accettarono pubbliche controversie i cardinali Schönborn, Tettamanzi, Piovanelli, Caffarra, Herranz e infine nel 2007, presso la Scuola normale superiore di Pisa, il patriarca di Venezia Angelo Scola.
Da allora l’atteggiamento della Chiesa gerarchica si è rovesciato. MicroMega ha proseguito nella volontà di un confronto franco, “ragionando in ultima istanza su alcune domande capitali”, secondo quanto lei dice di auspicare. Ma ci siamo trovati di fronte al muro di un sistematico rifiuto. Sia chiaro, un Principe della Chiesa ha tutto il diritto di rifiutare il confronto se non ritiene l’interlocutore all’altezza, senza con ciò smentire la sua volontà di dia-logo. Pretende solo atei più autorevoli. Ma visti i precedenti fin troppo lusinghieri in fatto di porporati che hanno accettato la discussione con Micro-Mega e con me, non è certo questo il motivo del rifiuto.


SUL QUALE

non provo neppure ad avanzare ipotesi. Mi interessa il futuro. Vorrei prenderla in parola, nella sua volontà di “dia-logo”, e organizzare con lei occasioni di confronto proprio con il metodo e sui temi che lei illustra nell’intervista. Discutere tra atei-atei e Chiesa gerarchica per “ricercare senza pretendere di sapere a priori”, su questioni che spaziano dal “senso dell’esistenza” alla “oltrevita, la morte, la categoria della verità” o “su ciò che significa Natura e legge naturale”, visto che da qui nascono le questioni eticamente sensibili che sempre più affollano l’agenda politica non solo italiana.
Si tratta, del resto, di temi previsti nel confronto con il cardinal Ratzinger, che non fu possibile affrontare per mancanza di tempo (vi era anche quello del Gesù storico, che certamente a lei, biblista di fama, interesserà). La invito dunque alle “Giornate della laicità” che si svolgeranno a Reggio Emilia dal 15 al 17 aprile, a cui hanno rifiutato di partecipare i quindici cardinali che abbiamo invitato, e nelle quali potrà discutere con atei non “anatre zoppe” come Savater, Hack, Odifreddi, Giorello, Pievani, Luzzatto, e buon ultimo il sottoscritto. Se poi la sua agenda non le
consentisse di accogliere questo invito, le propongo di organizzare insieme, lei ed io, una serie di confronti nei tempi e luoghi che riterrà opportuni. Devo però dirle, in tutta franchezza, che non riesco a liberarmi dalla sensazione – negli ultimi anni empiricamente suffragata – che il “dia-logo” che lei teorizza voglia invece eludere il confronto proprio con l’ateismo italiano più conseguente.

Con la speranza che i fatti mi smentiscano e che lei possa accettare la mia proposta, le invio intanto i miei più sinceri auguri di buon lavoro.

in “il Fatto Quotidiano” del 22 marzo 2011

 

 

La Chiesa in dialogo

 

di Jacques Noyer

 

La Chiesa cattolica vuole entrare in dialogo tanto nel cammino ecumenico quanto negli incontri interreligiosi. Vuole perfino aprire il dialogo con gli atei. Non si può che essere contenti di queste iniziative, totalmente in armonia con quel Dio di dialogo di cui Gesù ci ha rivelato il volto. La Trinità è dialogo. La Rivelazione è dialogo. L’evangelizzazione è dialogo.
Ma il dialogo presuppone che gli interlocutori accettino tra loro una certa uguaglianza e riconoscano in sé una certa fragilità. Ci si ritrova sotto lo sguardo di una ragione, di uno spirito di cui si accetta l’arbitraggio e si rinuncia così a conoscere in anticipo l’ultima parola verso cui ci si mette in cammino. Ma non si capisce bene come le istituzioni possano dialogare. Nazioni, partiti, organizzazioni diverse possono avere negoziati di pace, trattative d’alleanza, complicità d’azione.
Ma non possono dialogare. Se un rappresentante fosse colpito dalle argomentazioni dell’altro, non potrebbe più rappresentare la sua organizzazione. Si è condannati ad avere solo dei dialoghi tra sordi. Questo non significa che questi dibattiti non possano condurre, in seguito, nelle istituzioni, ad un’evoluzione del loro punto di vista, ma per niente al mondo accetteranno di dire che il cambiamento è avvenuto ascoltando l’altro: sarebbe ammissione di debolezza!
Le Chiese e le religioni possono dialogare ancor meno di altre istituzioni poiché le loro convinzioni sono presentate come sacre e quindi intangibili. Bloccate nelle loro certezze, possono al massimo cercare insieme delle formule sottili che nascondano le differenze. La stagnazione dell’ecumenismo, il blocco del dialogo teologico interreligioso ne sono la prova. Ugualmente, è proprio l’impossibilità del dialogo tra l’islam e l’ebraismo a rendere impossibile la pace in Israele. Le religioni sono più atte a fare la guerra, o almeno ad incoraggiarla, che a vivere il dialogo della comunità fraterna.
Se le religioni non possono dialogare, invece lo possono fare gli uomini, credenti o non credenti.
Ed è proprio quello che accade in tutti i quartieri in cui vivono credenti di diverse religioni o semplicemente in tutti  gli incontri amichevoli che accompagnano la vita sociale quotidiana. Sono molteplici le testimonianze sull’esistenza  e sulla fecondità di questi luoghi informali di parola.
Quando vediamo le folle dei paesi arabi sollevarsi in nome dei diritti umani per esigere un po’ più di democrazia, come non ammirare la forza del dialogo condiviso nell’ambito della mondializzazione o della laicità? Dio mi guardi dal vedervi il risultato di una certa evangelizzazione! Sarebbe un recupero odioso. Ma nessuno può negare di potervi  vedere il lavoro dello Spirito, e il Dio in cui credo certo ne è felice!
Sì, la Chiesa, questo popolo in cui vive lo Spirito, perché è fatta di uomini e di donne immersi nel mondo, può  dialogare col mondo. E lo fa da venti secoli. Lo fa oggi come ieri. Ma se la Chiesa è quell’istituzione gerarchica dalla  dottrina intangibile e dalla Verità Posseduta, allora non può farlo.
Se l’istituzione organizzasse il dialogo invece di averne paura, se essa stessa fosse dialogo tra i suoi membri, se la Chiesa si assumesse il rischio di desacralizzare il suo discorso di ieri e i suoi orpelli storici per cercare, oggi, adesso, la Verità con tutte le nazioni, essa potrebbe essere, come la sua Vocazione le chiede, il dialogo in cui lo Spirito fa nuove tutte le cose.

in “Témoignage chrétien” n° 3436 del 17 marzo 2011 (traduzione: finesettimana.org)

 

 

RASSEGNA  STAMPA

 

25 marzo 2011

“Per i cristiani, la Verità ci precede, nella persona di Cristo. Mentre agli occhi della cultura contemporanea, ciascuno di noi la costruisce. Da questa differenza derivano concezioni diverse del bene e del male, della libertà, della giustizia”
“L’esigenza di razionalità – che è essenziale – non fa scomparire quelle dimensioni del vissuto che sono il sacro, l’immaginario, l’istintivo o anche l’affettivo e evidentemente la credenza… (che non ha un significato univoco, perché mescola rappresentazioni più o meno razionali, credenze affettive, fede, fiducia, nel senso della fides latina)”
“«’L’incontro è differente e più profondo del dialogo. Questo è uno scambio che si situa al livello delle idee e della visione del mondo. L’incontro riguarda la nostra umanità nel suo cuore più profondo, la realtà della nostra persona con tutto quello che essa ha di debole e bello»”
“il dialogo costringe ciascuno ad essere méthorios, … cioè «colui che sta sulla frontiera», ben radicato nel suo territorio, ma con lo sguardo che si protende oltre il confine e l’orecchio che ascolta le ragioni dell’altro

 

“La circostanza non va giù a un gruppo di fedeli… «Le parole e gli atti di Gentilini sono incompatibili con il messaggio evangelico»… E lo sceriffo padano [discusso esponente leghista, noto per le sue pesanti esternazioni contro immigrati e omosessuali]? Non si scompone: «Dicano quello che vogliono… sono un cattolico praticante io, mica un comunista»”
“Il Cortile dei Gentili è cominciato ieri alle 15 nella sala XI dell’Unesco, a Parigi… si succedono autorità… ambasciatori… Getachew Engida… Gianfranco Ravasi… Giuliano Amato, protagonista di un intervento che fa pensare [che] evidenzia lo spostamento dei confini del bene e del male che è in atto… Fabrice Hadjadjj, filosofo e scrittore, che [invita] a cercare l’uomo non nell’efficienza ma «nell’epifania del suo volto»”
“«Mi interessa l’umanesimo, la differenza tra l’umanesimo cristiano e quello dei Lumi, e come quest’ultimo può rispondere alle questioni della nostra epoca… Non si tratta di distruggere la religione, come hanno tentato di fare i totalitarismi, ma neanche di accettarla: serve un lavoro di rivalutazione della memoria»”

 

“Il Gesù di cui parla Joseph Ratzinger nel suo libro appena uscito (Gesù di Nazaret – Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, che segue il primo volume pubblicato nel 2007) non è invece Gesù, bensì il Cristo dogmatizzato dai Concili di Nicea (325) e Calcedonia (451), dominati e decisi dagli imperatori di Roma, che con il Gesù della storia nulla ha a che fare e anzi contraddice e nega sotto ogni aspetto essenziale.” (ndr.: diversità non vuol dire per forza di cose opposizione. Certamente permane il problema di come far interagire l’ermeneutica storica con l’ermeneutica della fede)

 

24 marzo 2011

  • Ragione comune di Dominique Greiner in La Croix del 24 marzo 2011 (nostra traduzione)
“coloro che non credono, coloro che si dicono senza Dio non sono necessariamente indifferenti. Capaci di mobilitarsi per la promozione di valori universali, possono anche essere interessati a sentir parlare di Dio. Allo stesso tempo, il loro impegno può anche essere stimolante per quello dei cristiani”
“Fino agli anni ’70 del secolo scorso coloro che rifiutavano Dio lo facevano in maniera argomentata, proponendo un sistema costruito in parallelo – o in opposizione – al cristianesimo. Quindi c’era una base comune a partire dalla quale era possibile il dialogo. “Oggi le giovani generazione non conoscono veramente il termine Dio. Non esiste nella loro cultura””

 

“Dopo l’annuncio avvenuto a Roma nel dicembre del 2009 da parte di Benedetto XVI, il Cortile dei gentili… prende il via ufficialmente a Parigi, giovedì 24 e venerdì 25 marzo… Una scommessa in società fortemente secolarizzate… Per il cardinale Gianfranco Ravasi… questo dialogo è tuttavia possibile… malgrado la persistenza di forti sospetti tra i due mondi

 

 

“L’idea del Cortile dei Gentili corrisponde sicuramente ad un bisogno autentico sentito dai credenti illuminati e dalle persone di buon senso in ricerca. Benedetto XVI lo situa accanto al dialogo con le religioni.”

 

In Libia una guerra giusta?

 

Il dibattito sull’intervento militare in Libia coinvolge vari piani: politico,  economico, filosofico, morale, religioso, ecc.

 

Vogliamo qui presentare una documentazione del dibattito così come appare sugli organi di comunicazione ufficiali per aiutare una personale  riflessione:

 

 

 

Un orizzonte di pace per la Libia   dall’Osservatore romano  

A ll’Angelus Benedetto XVI chiede che siano garantiti  l’incolumità dei cittadini e l’accesso ai soccorsi umanitari


| Le parole del cardinale Bagnasco | Le voci del mondo cattolico

 


Oltre la logica del gendarme di Andrea Lavazza



– La “campagna” francese in Italia di Giancarlo Galli

 


Guerra o giusta ingerenza umanitaria? La Chiesa divisa sull’attacco alla Libia di Roberto Monteforte in l’Unitàdel 27 marzo 2011

“Si è fatto tutto il possibile prima di arrivare all’uso delle armi? Quali sono le responsabilità dell’Occidente verso questi regimi? Il popolo della pace si interroga e si divide. Come la Chiesa. Stretta tra le esigenze diplomatiche, la tutela dei cristiani in zone difficili e la difesa della vita e della dignità della persona, della giustizia e della libertà.”

 

Cattolici divisi anche sulla Libia? di Angelo Bertani in Europa del 25 marzo 2011

“Di fronte alle tragedie in Giappone e in Libia sembra naturale attendersi uno sforzo globale. Noi siamo caduti così in basso anche perché abbiamo accettato per troppo tempo una politica egoista, dominata dalla banalità e dalla menzogna.”
“Nei silenzi e nei tormenti della chiesa cattolica romana e dei cattolici di fronte alla guerra in Libia c’è di più dell’imbarazzo di fronte ad una guerra in bilico tra intervento umanitario ed eliminazione del dittatore libico. C’è anche un imbarazzo intellettuale e teologico di fronte alla questione della democrazia nel mondo occidentale e non”

 

 

“Altra è la questione dell’uso della forza per impedire genocidi e altre nefandezze o minacce alla pace, previsto dal capitolo VII della Carta dell’ONU. Esso è legittimo non per il semplice fatto che l’ONU lo decida e lo affidi all’esecuzione di questa o quella potenza, ma per il fatto che non abbia altre finalità che quelle ammesse dalla Carta (e non ad esempio rovesciamento di regimi o assassinio dei loro capi) e che in nessun modo sia assimilabile alla guerra.”
“un grappolo di problemi di coscienza, sufficienti per togliere convinzione all’azione di sbarramento militare contro il ritorno del leader libico al potere pieno e dittatoriale; ma anche per consentire che la guerra metta radici sotto le finestre di casa nostra senza che ce ne rendiamo pienamente conto”
“Il copione dei pacifisti e degli interventisti si replica come le sedie di Ionesco. Si può davvero dubitare del dovere di aiutare, o chiamare aiuto, quando il crimine si compie sotto i nostri occhi?” … “Ci sono state guerre inevitabili e giustificate, come contro il nazifascismo. “Umanitarie” no.” … “A volte c’è una sola via. La sera di Bengasi, la mattina di Srebrenica. Lì non si può dire “Né… né…”, né con i ribelli né con Gheddafi…Si deve stare con qualcuno e contro qualcun altro. Con l’aggredito contro chi lo aggredisce, in una infame sproporzione di forze.”
“Proprio perché i faticosi passi del nuovo Egitto verso un sistema democratico vanno incoraggiati, è bene non tenere basso l’allarme che merita una denuncia di Amnesty International su «test di verginità» ai quali sarebbero state sottoposte donne scese in piazza… il 9 marzo scorso”

 

“Non è mai cosa semplice giustificare una guerra… Frasi del tipo… nessuna guerra va chiamata guerra… Il governo italiano è specialista di quest’ultima menzogna… equivoco è il ritardo con cui l’Onu interviene… Nel mondo arabo… una vera discussione sulla democrazia è in corso, e a questa discussione gli occidentali non partecipano, per ignoranza o disprezzo… Pensando all’Italia, ho avuto l’impressione che anche noi avremmo bisogno di partecipare… Forse impareremmo qualcosa sulle nostre democrazie fast-food: dove regnano i clan, le cerchie di amici, i capipopolo…”
“stavolta, si dirà, si interviene in difesa dei principi, non degli interessi. Ne siamo proprio sicuri?… Il colonnello Gheddafi massacra la sua gente: non sarebbe giusto rallegrarsi di poterglielo impedire?… L’inconveniente sta però nel fatto che la guerra è un mezzo tanto potente da far dimenticare il proprio obiettivo… I massacri commessi in nome della democrazia non addolciscono la vita più di quelli perpetrati per fedeltà a Dio o ad Allah, alla Guida o al Partito…”


– DOSSIER Le domande chiave di un conflitto dalle mille incognite di V.E.Parsi


– Lega araba a denti stretti, al Palazzo di vetro crescono i pentiti


“Mentre parlano solo le armi, si resta senza parole. Ammutoliti, sconcertati. Anche noi di Pax Christi, come tante altre persone di buona volontà….”

 

“L’essenziale è quel principio della «responsabilità di proteggere» che Benedetto XVI evocò nel discorso all’Onu del 18 aprile 2008. Bisogna partire da qui, fanno notare Oltretevere, per capire le parole che il Papa ha pronunciato ieri all’Angelus sulla Libia”

 

“tutti rilanciano sul «Gheddafi tiranno che va fermato», ma molti appuntano… che «i vertici del Pd dovrebbero lasciare libertà di coscienza ai parlamentari… Follini: «Che ci possano essere obiezioni di coscienza, questo è nello stato delle cose, ma la scelta fatta sino ad oggi mi pare fosse obbligata»… D’Alema: «La comunità internazionale è intervenuta per proteggere la popolazione civile, non per sconfiggere Gheddafi. Ora si lavori… per una transizione pacifica».”

 

La chiesa prende posizione a favore dell’azione in Libia ma emergono freddezze e distinguo.

 

“le ragioni e le obiezioni hanno la stessa età dell’uomo… Monsignor Paglia: «Ogni guerra è una sconfitta… Nel caso libico, e non solo, non possiamo non esaminare i comportamenti scorretti del passato che hanno indebolito la ragione: c’è quindi bisogno di un serio esame di coscienza. Non si doveva forse intervenire prima?»”

«È una guerra che si appoggia su un’insurrezione nascente, aiuta i libici a liberare la Libia». Il filosofo, che ha spinto Sarkozy, spiega le ragioni del conflitto Bernard-Henri Lévy