Che cosa significa essere autentici? L’autenticità è la prima qualità della persona. Autentici equivale a veri. Fin dall’infanzia la realtà ci inclina a degli adattamenti: la mamma è una donna debole e quindi quando voglio ottenere qualcosa da lei so come fare perché il no diventi sì; il papà è un uomo che si arrabbia ed è arrivato a picchiarmi. Così imparo a nascondergli quello che penso, dico e faccio. Crescendo mi rendo conto che questa è la legge del vivere sociale. Mi avvicino alla autenticità quando un grande ideale dirige le mie energie interiori e le concentra in un punto. Non conosco una definizione della persona autentica migliore di quella data da Paolo nella lettera agli Efesini (4,15): fare la verità nell’amore.
Come ci si educa all’autenticità? Ci si educa attraverso la fedeltà. Io credo che l’autenticità sia un valore religioso nel senso che la prima coerenza dobbiamo averla con Dio, che non si può ingannare. Questo non vuol dire non commettere peccati perché dobbiamo sempre riconoscere la nostra fragilità e la nostra debolezza, ma quando non vi è coerenza tra ciò che siamo e ciò che appare di noi è la prova che non amiamo seriamente le persone che ci circondano. È il fallimento della vita, E purtroppo capita spesso.
Ma esiste la possibilità di cambiare? Penso che la Chiesa allontani le persone per la sua eccessiva intransigenza su certi principi che la persona non è in condizione di seguire. Non significa lasciar andare le cose, ma accettare la debolezza della persona umana, invece di respingerla attraverso l’affermazione intransigente dei principi cristiani. Il nostro fratello Giorgio Gonella, nel suo libro sul deserto, ha scritto un bellissimo capitolo sulla misericordia di Dio: Dio non dice va tutto bene, ma il suo atteggiamento è espresso perfettamente dall’episodio di Gesù in casa del fariseo quando entra la donna peccatrice. Il fariseo si scandalizza, gli dice: se tu conoscessi questa donna, Gesù in effetti la conosce ma conosce anche il suo dolore, la sua sofferenza, il suo pianto che ha una forza di conversione e trasformazione della sua vita che lei stessa non si aspettava. Certamente ci sono ambienti in cui si è facilmente trascinati dal negativo, ma c’è sempre la possibilità del ritorno che cancella il passato, una possibilità di cambiamento.
A proposito di luoghi dove cercare la propria autenticità: tu sei stato diverse volte a Romena, che impressione ne hai ricavato? Una impressione ottima perché la forza di aggregazione che ha don Gigi è piuttosto singolare, ed essa si deve alla sua ampiezza di vedute, alla sua libertà di accoglienza per cui la persona sente di andare in un luogo che non lo costringe ad assumere forme inautentiche. Come lui ho sempre desiderato che la gente venga, veda, che non sia obbligata ad assumere atteggiamenti diversi da quelli della vita ordinaria. Tra le tante iniziative che propone ce n’è una molto bella, che ho conosciuto da poco, che è consolare le persone che hanno avuto lutti gravi, perdite laceranti, e che ricevono realmente molto conforto.
Quale contributo può offrire una realtà come Romena alla chiesa e alla società? La Chiesa può ricevere una grande ricchezza: la rinascita della fede da parte di molte persone che sono vissute per anni trascurando la fede e che si riavvicinano perché trovano un ambiente familiare, fatto di semplicità e autenticità a cui possono aderire con entusiasmo.
*Silvia Pettiti, giornalista, ha recentemente pubblicato una bella biografia di Arturo Paoli raccontando i suoi 98 anni di vita spesi per gli altri, specie per i poveri delle favelas del Sudamerica. Il libro si intitola “Ne valeva la pena”, Edizioni Paoline.
NORMAN DONALD A., Vivere la complessità, Pearson 2011, ISBN: 9788871926469,pp. 266, Euro 16,00
titolo originale: Living with complexity, Traduzione di Virginio B. Sala
Recensione del testo
La complessità è nel mondo e si riflette anche nelle nostre tecnologie. Ma i prodotti che ne derivano non devono essere fonte di confusione, perché allora si tratta di “complicazione” inutile, non di complessità. Tuttavia, anche il sistema meglio progettato richiede uno sforzo – nostro – di apprendimento, per dominare la struttura e i modelli concettuali. La comprensione rende i sistemi complessi semplici e dotati di significato. Donald Norman torna a farci riflettere sulle sfide della tecnologia e del design a partire da casi comprensibilissimi (quando non addirittura divertenti), ma illuminanti e rivelatori.
La semplicità è uno stato mentale, fortemente legato alla comprensione. Una cosa viene percepita come semplice quando le sue azioni, le sue opzioni e il suo aspetto corrispondono al modello concettuale della persona.
La caffettiera del masochista, titolo del libro più celebre di Norman, è diventata negli anni un’immagine proverbiale: una cuccuma con il beccuccio rivolto dalla stessa parte dell’impugnatura, cosi che l’avido consumatore di caffè abbia le braccia ustionate ogni volta che cerca di riempirsi la tazzina. Donald Norman è un designer che da anni scava negli angoli ciechi del design e dei codici di comunicazione propri della nostra era, caratterizzata senz’altro dalla complessità. E proprio alla complessità, alle forme che assume nella vita di tutti i giorni, è dedicata questa sua ultima fatica, un libro che sin dal titolo cerca di fare chiarezza sul compito che ci attende, volenti o nolenti. Non c’è modo di sottrarsi, infatti, a una certa dose di complessità nella vita di tutti i giorni: a casa, per l’utilizzo di elettrodomestici e la gestione di sistemi complessi; al lavoro, per la quantità di operazioni complesse e coordinate che dobbiamo sapere padroneggiare e mettere in atto continuamente; nel tempo libero e in ogni occasione in cui usciamo di casa per interagire con un mondo che alla complessità affida la propria efficienza. Di più: la propria sopravvivenza. Innanzitutto, naturalmente, occorre definire con precisione cos’è la complessità in sé. Nelle prime pagine del suo saggio appassionante, Norman usa la scrivania di Al Gore, già vicepresidente degli Stati Uniti e Premio Nobel, come esempio adatto a tracciare un distinguo fra complicazione e complessità. In mezzo a pile e pile di carta, tre monitor perennemente accesi e una apparentemente incontrollabile entropia, spiega il designer, sembrerebbe impossibile orientarsi rapidamente e trovare ciò di cui si ha bisogno. Ma la questione è posta in modo sbagliato, ci viene spiegato, perché dietro quel modello complesso c’è una logica ferrea, per quanto questa sia conosciuta solo da chi su quella scrivania dovrà lavorare. Come sa bene chiunque lavori in mezzo ad un ordine che è stato lui stesso a disporre e organizzare, anche secondo criteri che al resto del mondo risultano irrazionali, il disordine in cui viviamo e lavoriamo sarà tale solo se qualcun altro vi metterà mano. Quindi il distinguo è fra “complessità” e “complicazione”: una complessità supportata da un modello concettuale appropriato – cioè dalla conoscenza della logica che sottende a quel sistema di relazioni fra cose – sarà una complessità “buona”. L’esempio della scrivania è comprensibile a chiunque, ma Norman ha un fiuto particolare per riuscire a spiegare le sue teorie con l’ausilio di esempi sempre nuovi, stimolanti e accessibili. Così potrà accadere, mentre leggiamo questo libro, di riconoscere aspetti della propria quotidianità nella descrizione fatta di tutti i preparativi necessari ad approntare una cena per gli amici, tipico esempio di raggruppamento di operazioni semplici in insiemi complessi per il conseguimento di un fine sociale. Il “carico cognitivo” cui ci sottopongono tutte le interruzioni che occorrono mentre – ad esempio – affettiamo le verdure in vista della preparazione di un piatto, è oggetto degli studi di questo brillantissimo designer, che ha offerto le sue competenze a molte aziende informatiche (su tutte, Apple, del cui reparto Tecnologie avanzate Norman è stato vicepresidente per lungo tempo) e di telecomunicazioni. Norman osserva le strutture semantiche del mondo in cui vive con un’attenzione continua e affilata: ogni evento è degno di essere preso in considerazione e affrontato, dalla semplice gestione delle attese (la coda) in una filiale bancaria, ai messaggi che i software ci danno a proposito delle operazioni che stanno compiendo. C’è molto da imparare, e come ogni buon docente, Norman sa tenere viva la nostra attenzione, mostrandoci come si possa cercare di decifrare questo intricato mondo, e migliorarne la qualità, ad ogni passo: partendo dalla segnaletica stradale o concentrandosi sugli interruttori posti su di un quadro elettrico; interagendo con una macchina del caffè o osservando con attenzione l’interruttore che spegnerà (o accenderà) la luce in camera nostra. È illuminante.
«Lo predissi oltre dieci anni fa. E avevo ragione: i computer stanno diventando invisibili». Donald A. Norman, ingegnere e psicologo, studioso di Scienze cognitive, tra i nomi più illustri nel campo del design, aggiorna la tesi enunciata nel 1998 nel suo The Invisible Computer (Apogeo). Lo anticipa al «Corriere» in occasione dell’uscita in Italia del nuovo libro, Vivere con la complessità (Pearson) e della partecipazione, questa sera, al ciclo di incontri Meet the media guru a Milano (ore 19, Mediateca Santa Teresa).
La copertina di «Vivere con la complessità» (Pearson)
Il computer però è ancora molto diffuso… «Non dappertutto: in Cina e Giappone, ad esempio, si usano già oggi più smartphone che pc. Le funzioni del computer verranno sempre più inglobate dentro altri dispositivi, come le cosiddette “tavolette”. Userà il pc in senso classico solo chi, come gli scrittori o gli ingegneri, non potrà fare a meno dello schermo e della tastiera. Per tutti gli altri, non sarà più così necessario».
Anche i libri e i giornali saranno letti sui supporti elettronici? «Il futuro è digitale. Io uso il Kindle, dove posso raccogliere tantissimi saggi e romanzi dentro un unico strumento. Anche il giornale non ha più bisogno di essere stampato: scaricando un’applicazione su un dispositivo elettronico si hanno le notizie del giorno e delle settimane precedenti, con più foto, filmati e mappe interattive».
Fin da «La caffettiera del masochista» (1988, edito in Italia da Giunti), si è battuto contro le tecnologie troppo elaborate che non consentono la facilità d’uso. In «Vivere con la complessità» sostiene che quest’ultima è inevitabile. Ha cambiato idea? «Il mio messaggio è solo diventato più sofisticato. Ho capito che la complessità è necessaria in un mondo sempre più articolato e interconnesso. Per questo agli utenti non bisogna offrire semplicità ma comprensibilità: oggetti, cioè, con molte funzioni ma intellegibili già dopo la prima lettura delle istruzioni. A questo scopo, designer e ingegneri devono praticare l’empatia e studiare le scienze sociali. I singoli individui devono applicarsi nell’apprendimento, come fecero in passato con il telefono o la televisione».
È stato vicepresidente del settore Tecnologie avanzate alla Apple. Nel suo libro racconta il passaggio dell’azienda dal mouse a un tasto a quello a due tasti: è stata una buona scelta? «Suggerii la soluzione a più tasti già negli anni 90. Il mouse con un pulsante infatti era una proposta corretta negli anni 80, per favorire la facilità d’uso. Una volta che gli utenti avevano capito il funzionamento del nuovo strumento, però, non serviva aspettare il 2005 per il design a più tasti».
Da sempre sostiene le nuove iniziative imprenditoriali. Si può rischiare nell’attuale situazione economica? «Dipende dai luoghi. Sì negli Stati Uniti, dove anche un fallimento è giudicato positivamente, perché segue un’idea e un tentativo. No in Italia: i vostri migliori designer sono costretti ad andare all’estero; i vostri prodotti sono belli ma non sempre funzionali».
L’emergenza nucleare in Giappone, le rivolte in Nord Africa e la guerra in Libia. Quali saranno le conseguenze, dal punto di vista cognitivo e tecnologico, nel mondo interconnesso? «La catastrofe di Fukushima comprometterà per qualche tempo la fiducia degli individui nelle macchine, ma il genere umano è abbastanza arrogante per superare lo choc. Ciò che tutti questi eventi dovrebbero infondere, invece, è l’umiltà: la natura trionfa sulla tecnologia; le esigenze politiche e culturali possono vincere sulla logica e la razionalità».
Il 9 – 10 aprile si è tenuto a Roma un Corso di aggiornamento per insegnati di Religione su L’etica nell’orizzonte del pluralismo culturale. Il corso è stato promosso dall’Istituto di Catechetica della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’UPS.
IL PROGRAMMA DEL CORSO
Presentazione
La realizzazione di una propria identità è l’assillo che il giovane vive. E rischia pure di risultare il processo più occasionale e dispersivo: la personalità di ciascuno si attua in un clima di improvvisazione e di incertezza. E’ possibile offrirle bussola e timone per un orientamento morale credibile? E’ la domanda che muove il Convegno.
Sabato, 9 aprile 2011
Ore 9.00 Introduzione e Lodi
0re 9.30 Etica in contesto cristiano. Quale proposta? Prof. Paolo Carlotti
Ore 11.00 Intervallo
Ore 11.30 Fasi e processi della vita morale. Il giovane fra adesione e rifiuto: Prof. Massimo Diana
Ore 13.00 Pranzo
Ore 15.00 Crisi ecologica e responsabilità morale: Prof. Johstrom Kureethadam
Ore. 16.00 La formazione della coscienza morale. Dalla contraffazione alla vita autentica:
Prof. Michele Marchetto
Ore 17.00 Intervallo
Ore 17.30 Impatto dei media sul mondo giovanile : Prof. Pier Cesare Rivoltella
Ore 20.00 Cena
Domenica, 10 aprile
Ore 9.00 Lodi
Ore 9.15 Un’etica a misura giovane. Dalla norma all’utopia: Prof. Zelindo Trenti
della Facoltà di Scienze dell’Educazione di Roma, in collaborazione con il Servizio Nazionale per l’Insegnamento della Religione Cattolica,
riprende l’attività del Master universitario di 2° livello in Pedagogia Religiosa, valorizzando soprattutto i tempi delle ferie estive in montagna.
PROFILI
Profilo dell’esperto di Formazione degli IdR
Il Master propone un processo di qualificazione di responsabili della formazione degli IdR nelle Diocesi. Si tratta di formare una figura di riferimento che abbia competenze quale Formatore dei formatori.
Profilo economico
tassa di iscrizione: 1500 Euro
in una unica soluzione o in due rate da 750 Euro (la prima entro aprile 2011, la seconda entro aprile 2012). Le due settimane residenziali in Montagna sono integralmente finanziate dal sussidio CEI.
>Profilo organizzativo
Il Master comporta tre momenti residenziali:
– Incontro di impostazione: 13-15 maggio 2011;
– Settimana residenziale a Pozza di Fassa: 26 giugno/2 luglio 2011;
– Seconda settimana residenziale a Pozza di Fassa, di verifica e conclusione: inizio luglio 2012.
La sede organizzativa
Il Master è presso l’Università Pontificia Salesiana
Porta la data dell’8 aprile 2011 l’ordinanza ministeriale che regola la mobilità interdiocesana degli Idr.
Nonostante sia uscita con un certo ritardo rispetto al passato, per una curiosa combinazione burocratica l’atto reca lo stesso numero dell’anno scorso, il 29, e di fatto propone pochissime novità: segno di una procedura che si può considerare ormai stabilizzata, nonostante equivoci e forzature interpretative che ogni anno si ripropongono, nel vano tentativo di modificare un impianto che trova le sue inderogabili radici nel sistema concordatario.
Anche se ormai dovrebbe trattarsi di materia abbastanza nota e consolidata, conviene ricordare alcuni aspetti generali. In primo luogo, l’OM 29/11 dà disposizioni sulla mobilità territoriale e professionale degli Idr, intendendo nel primo caso il trasferimento in una diversa diocesi (anche di altra regione) e nel secondo caso il passaggio dall’uno all’altro dei due ruoli previsti per l’Irc (primaria e secondaria). Ovviamente, nel caso del trasferimento in altra diocesi si deve essere in possesso dell’idoneità valida nella diocesi di destinazione e nel caso di passaggio di ruolo anche il vescovo deve convalidare la propria idoneità per il diverso ordine di scuola cui si intende passare.
In realtà si tratta di un numero limitato di casi, dato che il grosso della mobilità territoriale si svolge all’interno della stessa diocesi e i passaggi di ruolo sono pochi perché pochi sono gli Idr che hanno superato entrambi i concorsi per il ruolo. L’attesa per questa ordinanza è però sempre alta per coloro che intendono partecipare a queste operazioni di mobilità, anche se il restringimento degli organici non consente facili trasferimenti da un territorio all’altro, come del resto accade per tutti gli altri insegnanti.
Ciò che coinvolge invece indistintamente tutti gli Idr di ruolo è l’aggiornamento del punteggio nella graduatoria regionale, fermo restando che continuano a permanere equivoci sulla sua funzione: da un lato, il testo dell’ordinanza è chiarissimo fin dalla sua prima edizione nell’attribuire a tale graduatoria solo la finalità di individuare gli eventuali soprannumerari a livello regionale, ovvero diocesano (art. 10, c. 4); dall’altro, c’è chi continua ad estendere impropriamente la funzione di questa graduatoria anche alla determinazione di precedenze tra Idr al di fuori della finalità istituzionale, introducendo meccanismi automatici che sono però estranei alla logica concordataria e alla discrezionalità riservata all’autorità ecclesiastica.
In attesa che si diffonda una corretta interpretazione delle procedure, si può solo ribadire che lo stato giuridico di ruolo non ha minimamente intaccato il regime concordatario, che vede la gestione degli Idr governata dai due requisiti dell’idoneità e della nomina d’intesa. Sull’idoneità non ci sono problemi, ma sulla nomina d’intesa non tutti sono d’accordo ad applicarla anche alle operazioni di mobilità. È però la legge 186/03 a prevederlo, quando nell’art. 4, commi 1 e 2, dispone che la mobilità professionale e quella territoriale sono subordinate «al riconoscimento di idoneità rilasciato dall’ordinario diocesano competente per territorio e all’intesa con il medesimo ordinario».
Poste queste premesse, possiamo solo riassumere le principali scadenze fissate dall’OM 29, scadenze che non si discostano molto da quelle dell’anno scorso:
– dal 13 aprile al 12 maggio presentazione delle domande alla propria scuola;
– entro il 20 maggio invio delle domande all’USR da parte delle scuole;
– entro il 15 giugno comunicazione del punteggio assegnato dall’USR a ogni Idr;
– entro il 30 giugno possibilità di revoca delle domande presentate;
– entro il 4 luglio pubblicazione della graduatoria regionale da parte dell’USR;
– entro il 15 luglio pubblicazione di tutti i movimenti da parte dell’USR;
– entro il 31 luglio assegnazione di sede d’intesa tra USR e ordinario diocesano.
Ore 23: Notte bianca di preghiera S. Agnese in Agone p.za Navona
1 maggio
Ore 10 P.za San Pietro
Una grande opportunità offerta dalla Pastorale Giovanile della Diocesi di Roma
In occasione della beatificazione di Giovanni Paolo II il Vicariato di Roma ha organizzato una veglia di preghiera che si terrà al Circo Massimo sabato 30 aprile dalle ore 20.
A seguire, a partire dalle ore 22,30, ci sarà la Notte Bianca di Preghiera animata dai gruppi giovanili di varie realtà ecclesiali della Diocesi di Roma. Otto chiese del centro storico, situate nel percorso tra il Circo Massimo e Piazza San Pietro, rimarranno aperte per permettere a tutti i pellegrini presenti di attendere la beatificazione in un clima di preghiera e di amicizia. Delle otto chiese, nelle quali ci sarà l’adorazione eucaristica con la possibilità di confessarsi, quella affidata ai giovani del Rinnovamento del Lazio, chiamati per l’occasione dal Vicariato per animare il momento, è la Chiesa di Sant’Agnese in Agone a Piazza Navona.
CARI FRATELLI È LA CHIESA CHE CHIAMA: “DÀMOSE DA FA’ SEMO ROMANI !” (GPII).
Torneremo a far sentire la nostra voce, ricordando le parole di Giovanni Paolo II nel 2000 a Tor Vergata: “Vedo in voi le sentinelle del mattino, questo chiasso ha sentito Roma e non lo dimenticherà mai”. Uniamoci nella preghiera notturna con canti di lode e di adorazione per un Papa che ci ha amato in modo speciale e che ha lasciato ai giovani il suo grazie: “Vi ho cercato, siete venuti, vi ringrazio!”.
Le critiche mostrano un concetto inadeguato di azione creatrice, non considerano il tempo come struttura necessaria delle creature e valutano il loro divenire come un dato secondario. Non tengono conto che il fascino della teoria evoluzionista non sta tanto nelle molte prove documentarie accumulate negli ultimi secoli, quanto nella spiegazione che offre di molti fenomeni altrimenti inspiegabili.
In questa rubrica ho illustrato più volte la prospettiva evolutiva nella convinzione che oggi essa sia necessaria per una corretta formulazione della dottrina cristiana. Siccome non mancano gli oppositori dell’evoluzionismo e alcuni di loro si richiamano alle dottrine di fede, credo sia utile esaminare le argomentazioni con le quali essi negano la solidità della teoria evolutiva e fondano la loro credenza in un Dio creatore che opera in modo perfetto e interviene nei momenti cruciali. Il 26 febbraio 2009 si è svolto a Roma un convegno a porte chiuse «per offrire un contributo scientifico al dibattito in corso nell’anno darwiniano». L’iniziativa era del Vice presidente del Consiglio Nazionale delle ricerche, lo storico Roberto De Mattei. Il volume che ne rende pubbliche le undici relazioni già nel titolo indica l’orientamento comune degli scienziati, scrittori e filosofi intervenuti: Evoluzionismo: il tramonto di una ipotesi (Cantagalli, Siena 2009).
Non esamino gli argomenti scientifici degli altri interventi. Mi limito alle prime due relazioni che presentano soprattutto riflessioni di tipo filosofico e teologico. De Mattei sostiene che il darwinismo non è «scienza» bensì una «cosmogonia capovolta». Mentre i miti di tutti i popoli considerano «perfetti» gli inizi del cosmo, della vita e della specie umana, gli evoluzionisti pongono «l’archetipo della perfezione non nel passato, ma nel futuro, non nelle sfere celesti, ma nel processo immanente della storia» (p. 30). La cosmogonia evoluzionista, quindi è una «narrazione fantasiosa di un passato, immaginato per sorreggere una radicale avversione ai principi metafisici di trascendenza e di causalità» (p. 30). Anche secondo gli evoluzionisti «nell’impresa scientifica l’onere della prova spetta allo sfidante» (Pievani T., Creazione senza Dio. n. 84). Ora. argomenta De Mattei «la ‘sfida’ di Darwin e dei suoi seguaci alla scienza tradizionale non è mai stata suffragata da prove» (p. 29). Per questo conclude: «il tramonto dell’ipotesi evoluzionista è un processo ormai irreversibile» (p. 30). Se però si esamina come vengono affrontati i problemi che hanno stimolato la soluzione evoluzionista si resta delusi. De Mattei non dice nulla del disordine presente nei processi naturali, degli sprechi enormi che essi comportano, dei molti vicoli ciechi imboccati dalla vita nella sua diffusione sulla terra, dei suoi rami secchi e improduttivi, del male presente in tutte le fasi dei processi vitali, delle numerosissime catastrofi naturali che hanno fatto scomparire la stragrande maggioranza delle specie viventi, non dice nulla delle immani sofferenze e tragedie della storia. Non offre nessuna spiegazione di come tutto ciò possa attribuirsi a un Dio buono e provvidente. Propone una figura di Creatore senza alcuna spiegazione delle caratteristiche della sua azione. Non esamina nessuna riflessione dei teologi evoluzionisti su questi temi. Egli afferma solo che «le posizioni dei teoevoluzionisti sono confuse» (p. 24 n. 73). Scendendo ad alcuni nomi ricorda che: «antesignano degli evoluzionisti cattolici è il gesuita Vittorio Marcozzi (1908-2005)» e che «oggi si distinguono l’ex-sacerdote Francesco Ayala, il sacerdote paleoantropolgo mons. Fiorenzo Facchini e, in parte, il filosofo della scienza, Don Stanley L. Jaki (1924-2009)» (ib). Non menziona neppure Teilhard de Chardin (1882-1955), e il profondo influsso che egli ha esercitato anche nel mondo laico. De Mattei non sembra neppure ammettere la presenza di eventi «casuali», quelli cioè che non hanno alcuna finalità in ordine alla vita, ma che fanno parte dei processi e sono oltreché imprevedibili anche ineliminabili. Per lui: «il ‘caso’ diviene la ‘spiegazione’ dell’inspiegabile, ossia dell’assurdo… La scienza diviene storia dove `tutto è permesso’ e dove «non vi sono più leggi divine che assegnino limiti all’esperimento» (Jacob F., La logica dei viventi, Einaudi, Torino 1971, p. 215)» (o. c. p. 27). De Mattei non sembra dare alcun rilievo al principio di indeterminazione dei processi fisici elementari e soprattutto non richiama il valore della libertà che Dio è in grado di suscitare nelle creature. Molto più coerentemente il filosofo Robert Spaeman ha osservato nel Convegno Cei del dicembre 2009: «Dio agisce tanto attraverso il caso quanto attraverso leggi naturali» (La ragionevolezza della fede in Dio, in Dio oggi, Cantagalli, Siena 2010, p.75). Questa è una caratteristica del creatore: offre contemporaneamente diverse possibilità tra le quali scegliere. Nello stesso volume Joseph Seitert, Direttore della Accademia internazionale di Filosofia del Liechtenstein, membro della Pontificia Accademia della Vita, propone una riflessione filosofica con alcuni cenni teologici: Riflessioni critiche sull’evoluzionismo come teoria scientifica o pseudscientifica e come ideologia atea (pp. 31-64). Egli presenta tre forme di l’evoluzionismo: atea, teista e limitata. 1.Circa la prima inanella una serie impressionante di affermazioni critiche: «non è una teoria scientifica, ma un’ideologia pseudo-metafisica» (p. 34). «Essendo falsa, non può passare il ‘test di realtà’, nel senso che non soddisfa i criteri propri per la conoscenza oggettiva e inoltre i test empirici contraddicono le sue false affermazioni scientifiche e filosofiche» (p. 35). «Tale evoluzionismo ideologico, materialista ed ateo non è solamente una tesi impossibile, ma realmente stupida, per non dire idiota» (p. 39). «Non esiste assolutamente alcuna prova né alcuna plausibilità che tutte le specie di animali, dalle amebe agli elefanti, si siano sviluppate l’una dall’altra tramite una qualche evoluzione» (p. 39). «Una delle obiezioni filosoficamente più importanti della teoria dell’evoluzione… consiste nella intuizione dell’assoluta irriducibilità della vita alla materia inerte» (p. 50); «l’essenza della vita è irriducibile a sistemi fisici di qualunque tipo» (p. 53). Il passaggio dagli animali all’uomo «per lo meno per quanto riguarda l’anima umana… è realmente impossibile metafisicamente» (ib. p. 38). «Una promessa o qualsiasi atto libero è necessariamente impossibile, se non assurdo, se tale atto è identico a, o determinato da, un processo materiale o organico, o se è un semplice prodotto causale dello sviluppo evoluzionistico» (p. 56). E «la conoscenza contraddice la possibilità di essere un epifenomeno del cervello o delle sue funzioni» (p. 57). 2.Anche «l’evoluzionismo teista, o ‘deista’ (o cripto-atea essendo panteista)… è insostenibile in virtù del fatto che dimentica le differenze insuperabili tra le sfere e gli ordini di esseri che non potranno mai evolvere l’uno dall’altro: il vivente dal morto, il personale dall’impersonale, lo spirito dalla materia» (p. 40 si riferisce esplicitamente al paleontologo gesuita Pierre Teilhard de Chardin). Seifert non sembra tenere conto della notevole differenza tra evoluzionismo ateo e teista. Chi crede in Dio ritiene che la perfezione iniziale contiene già tutte le qualità che nel tempo fioriranno nelle creature. Le sue difficoltà non considerano che nella prospettiva teista tutto il processo è alimentato e sostenuto da Dio, perfezione compiuta, per cui non è lo spirito a derivare dalla materia, ma viceversa questa deriva dallo Spirito. Quando le strutture materiali lo consentono il pensiero, la consapevolezza, la libertà possono emergere ed esprimersi perché già presenti alla radice di tutto. Siefert si chiede: «Per quale motivo mai avrebbe Egli [Dio] usato leggi tanto primitive come `la sopravvivenza del più forte», la `selezione naturale’, ‘l’adattamento’, che in realtà sono del tutto prive di significato, e perché egli avrebbe impiegato un tempo senza fine per permettere a tali assurde cause di produrre il mondo, osservando e aspettando innumerevoli incidenti di percorso in tale processo?» (p. 42). Questo modo di argomentare suppone che le creature (cioè il vuoto o caos iniziale) siano in grado di accogliere la perfezione divina in modo istantaneo. Non tiene conto che l’azione creatrice alimenta il processo del divenire perché le creature non vengono prodotte o fatte, come l’artigiano modella una statua da materia preesistente, bensì create: esse diventano nel tempo. 3.Della forma limitata di evoluzionismo egli ammette qualche possibilità, ma sempre condizionata dagli interventi puntuali di Dio. «È piuttosto probabile che abbia avuto luogo un qualche processo evolutivo limitato e sviluppo trans-specifico, ad es. dai lupi a certi tipi di cani, ed è certo che le pratiche di allevamento possono condurre a nuove razze canine, le cui caratteristiche sono trasferite alle generazioni successive» (p. 39; cfr p. 41). In conclusione le critiche mostrano un concetto inadeguato di azione creatrice, non considerano il tempo come struttura necessaria delle creature e valutano il loro divenire come un dato secondario. Non tengono conto che il fascino della teoria evoluzionista non sta tanto nelle molte prove documentarie accumulate negli ultimi secoli, quanto nella spiegazione che offre di molti fenomeni altrimenti inspiegabili. In particolare dà ragione della casualità, del lungo tempo necessario ai processi cosmici e vitali, della distruzione della maggioranza delle specie un tempo viventi, della imperfezione cronica e del male smisurato che accompagna il divenire del creato e la storia umana.
Noi missionari comboniani, impegnati in Europa nel servizio agli immigrati e riuniti in questi giorni a Roma (31marzo-3 aprile), abbiamo riflettuto sulla grave situazione creatasi in questi giorni a Lampedusa. Siamo testimoni, tramite una piccola presenza comboniana sull’isola, dell’arrivo massiccio di immigrati nord africani e dell’inadeguata risposta del governo italiano. Siamo altresì testimoni della generosità del popolo lampedusano, come dell’impegno della chiesa locale di Agrigento.
Vogliamo esprimere la nostra solidarietà e vicinanza a quanti oggi rendono meno gravosa e meno disumana una tale drammatica situazione.
Come missionari siamo vicini agli immigrati, che da Lampedusa sono stati e saranno trasferiti nelle varie regioni italiane, e chiediamo che vengano accolti come soggetti di diritto.
Facciamo appello alla sensibilità del popolo italiano, alle autorità civili e alla chiesa in Italia, perché sappiano accogliere questi nostri fratelli e sorelle nonché minori (circa 378 minori a Lampedusa), memori delle parole dell’Esodo:”Non molesterai il forestiero, né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto” (Es. 22,20)
Come missionari sentiamo che questa nostra difesa degli immigrati è parte integrante della nostra missione, che diventa oggi sempre più una missione globale.
I missionari comboniani p. Enrique Sánchez González, superiore Genérale, p. Alberto Pelucchi, vicario Genrale, p. Arlindo Pinto, p. Mariano Tibaldo, p. Jorge Garcia, p. Alejandro Maza Canales, p. Fernando Zolli, p. Franco L. Conrado, p. Claudio Crimi, p. Alexandre Da Rocha Ferreira, p. Frigerio Daniele, p. Carmelo Del Rio Sanz, fr. Enrico Gonzales y Reyero, p. Juan Manuel Rodriguez Martin, fr. Eduard Nagler, p. Antonio Bonato, p. Alex Zanotelli, p. Domenico Guarino.
A questa domanda di Gesù, è Pietro, voce unificante del gruppo degli apostoli, a rispondere: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,15-16). Se ci pensiamobene, è proprio innanzitutto a questo interrogativo essenziale che il successore di Pietro è chiamatoin ogni tempo e ancora oggi a rispondere, facendosi interprete della fede della chiesa tutta. Ed èquanto papa Benedetto XVI fa anche con la seconda parte della sua opera su Gesù di Nazaret. (Libreria Editrice Vaticana, pp. 380, € 20), affrontando la vicenda di Gesù e della fede dei discepoli«dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione». Come già per la prima parte di quest’opera di ampio respiro, l’approccio mira a far emergere quelconsenso ecclesiale, quel sensus fidei nel leggere la figura di Gesù che ha attraversato la storia dellachiesa e che, nel corso dei secoli e fino ai decenni più recenti, ha saputo far tesoro di studi,commenti, interpretazioni, metodologie anche assai diverse tra loro. Qualcuno si è chiesto se vale lapena che un Papa metta tante energie nello scrivere libri, magari sottraendo tempo al suo«governo», pensato secondo i criteri politici di tutti i governi del mondo. Ma Benedetto XVI fa ciòche gli compete ed è decisivo per il suo ministero petrino: confermare la fede in Gesù Cristo. Questo è l’insegnamento determinante per un papa: perciò un atto deliberatamente non magisterialecome il libro, è tuttavia una confessione di fede fatta dalla chiesa oggi, in sinfonia con la grandetradizione cattolica. Anche il linguaggio volutamente piano e pedagogico, capace di distillare gli elementi piùconsolidati dell’esegesi storico-critica e di fonderli con la lettura sapienziale propria della grandetradizione patristica e spirituale, rende quest’opera di Benedetto XVI particolarmente appetibileanche per il largo pubblico: un ragionare discorsivo che viene incontro alla sete di conoscenza e aldesiderio di comprensione che è presente anche in molte persone lontane o marginali rispetto allacompagine ecclesiale. Ora, si tratta di un approccio fondamentale proprio per i capitoli conclusividei Vangeli, che trattano la passione, morte e risurrezione di Gesù: brani che affrontano da un lato il cuore dell’incontro-scontro tra la figura e la predicazione di Gesù e le istituzioni religiose giudaichee l’autorità politica romana e, dall’altro, il nodo stesso dell’interpretazione degli scritti del NuovoTestamento. Semplice rielaborazione storica di eventi accaduti o non piuttosto riflessione interpretativa che riesce a coniugare l’esperienza vissuta dai primi discepoli con la fede della chiesa nascente? Inquesto senso alcuni critici dell’opera del papa finiscono per incespicare nelle loro stesseargomentazioni: non si può infatti invocare la «storicità» di alcuni brani evangelici per contrapporlaall’interpretazione teologica della prima comunità cristiana di cui risentirebbero altri passaggi neotestamentari. Non solo lo studioso, ma anche il lettore ordinario sa che l’intero Nuovo Testamento è stato scritto dopo la risurrezione di Gesù o, se si vuole, dopo la predicazione di questo evento sconvolgente adopera dei primi discepoli. È quindi questo dato «di fede» a costituire da subito il criterio interpretativo di tutta la vicenda storica di Gesù. Questo non significa – e il lavoro di Benedetto XVI lo evidenzia con singolare efficacia – che la dimensione storica non abbia spazio nell’ambito della predicazione e dell’autocomprensione della chiesa, ma piuttosto che «l’incarnazione», il calarsi del Figlio di Dio nella condizione umana abbraccia non solo le debolezze della carne umana ma anche la fragilità di un annuncio non scrutabile esaurientemente alla luce dei soli dati storico-critici. Per i cristiani non è decisiva innanzitutto la parola «Dio», bensì la conoscenza di Gesù Cristo, coluiche ha «narrato Dio», come testimonia il prologo del quarto Vangelo. È attraverso la conoscenza di Gesù Cristo, della sua vita, delle sue parole, della sua passione, morte e risurrezione che si giunge ad aver fede e a conoscere il «Dio che nessuno ha mai visto». Sovente i cristiani, soprattutto nel recente passato erano istruiti intellettualmente su Dio, la sua esistenza, la sua provvidenza: erano credenti in un Dio attorniato da santi con cui avevano maggiore familiarità e di cui conoscevano le «storie», ma pochi tra di loro arrivavano ad avere fede in Gesù Cristo attraverso la conoscenza della sua vita e morte narrate dai Vangeli. Benedetto XVI con questa sua rilettura di Gesù Cristo apre, forse come mai avvenuto prima, una conoscenza essenziale alla fede dei cristiani che non sono teisti, né in certo senso monoteisti, ma aderenti a un Dio unico che è una comunione di amore e che si è rivelato pienamente e definitivamente nella vita umana di Gesù Cristo suo Figlio. La fede cristiana, allora, non è meno solida per il fatto di fondarsi non su una prova incontrovertibile – almeno secondo i criteri moderni – della risurrezione di Gesù, bensì sulla testimonianza di uomini e donne semplici ma divenuti «affidabili» per quanti ne hanno ascoltato la predicazione. Ammettere che la fede si basa non sull’aver visto o toccato con mano alcunché, bensì sulle umanissime parole e sui gesti concreti di persone «normali» dotate di risorse intellettuali e di patrimoni culturali più o meno ricchi, significa compiere il primo passo nella comprensione che la rivelazione, l’invito pressante all’amore rivolto da Dio al suo popolo e portato a compimento nella vita di Gesù e nella sua morte per gli altri «non è nel cielo, perché tu dica: Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire?… Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica (Dt 30,12-14)». Con il suo Gesù di Nazaret, Benedetto XVI ha reso «vicina» questa parola.