Costruire il volto di Dio a scuola

 In questa fase conclusiva di riordino strutturale del sistema di Istruzione e Formazione italiano, che sta ridisegnando i traguardi di competenza e gli obiettivi di apprendimento delle discipline scolastiche e dell’IRC, l’intervento si propone innanzitutto di  affrontare alcune emergenze educative che possono incidere sulla costruzione di un volto di Dio nel processo di apprendimento scolastico.
Viene poi sinteticamente esaminata la possibilità di alcuni modelli di apprendimento di rispondere alle attuali emergenze educative  del mondo studentesco per arrivare infine a tratteggiare la proposta di un modello che sia in grado di accompagnare lo studente nel suo sforzo di costruzione di un volto di Dio a scuola.

Per la consultazione dell”intervento

VOLTO DI DIO

Ecosocialismo o barbarie.

UN PREMIO PLURALE di Luiz Flávio Cappio Quando mi è giunta la notizia del Premio “Cittadino del Mondo” della Fondazione Kant, mi sono subito chiesto il perché.
Quale legame dovrebbe avere la nostra lotta nella Vale do Rio São Francisco, nel Nordest del Brasile, con la filosofia di Immanuel Kant e i propositi della Fondazione che ne custodisce gli ideali? Sono andato a rivedere i miei studi di Filosofia dei lontani anni ’60.
Non è stato difficile cogliere l’intenzione della Fondazione nelle proposizioni etico-filosofiche di Kant, luminosamente attuali, di una cittadinanza cosmopolita, basata su diritti umani universalizzati, sull’unione di morale e politica.
Il fatto di venire associato a questa filosofia mi onora, ma non mi rende superbo.
Perché l’oggetto della premiazione non è una persona o quello che da sé, in maniera solitaria, avrebbe fatto.
Non è merito di uno solo, ma di una legione di uomini e di donne, di giovani e di anziani, di movimenti, di organizzazioni e di organismi sociali, che operano – potremmo dire – sotto l’imperativo categorico kantiano: cercare per tutti quello che desidereremmo che tutti facessero a tutti.
Atteggiamento che direi rivoluzionario, considerando l’estensione e la profondità della crisi che viviamo, crisi di civiltà, di paradigma, in fondo la più grave crisi etica.
È il fatto di non lasciarsi guidare da principi universali (in quanto fondamentali), ma da fini meramente individualisti e utilitaristi che ha disumanizzato l’essere umano e lo ha condotto a corrompere la natura.
Stiamo sotto il giogo di un inedito relativismo di valori e punti di riferimento dell’esistenza umana, una perdita collettiva del senso della vita, della società, dell’umanità.
Realmente, senza esagerazioni, non siamo lontani da uno stato di anomia e di barbarie.
  Verso un ecosocialismo Come e perché siamo arrivati a questo punto? Dobbiamo avere il coraggio di rispondere e non temere la risposta.
Il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2007/2008, del Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) rivela: il 20% più ricco del mondo assorbe l’82,4% di tutte le ricchezze del pianeta a fronte del 20% più povero che deve accontentarsi appena dell’1,6%.
Questa macchina di produzione di disuguaglianza non si sostiene più politicamente, né si accetta eticamente.
È evidente che la sua radice affonda nel sistema dell’eco-nomia di libero mercato autoregolato e assoluto – il cosiddetto neoliberismo con la sua globalizzazione mercantile – eretto sul dogma del massimo profitto a qualunque costo, anche al costo della malattia e della morte di milioni di esseri umani (come avviene in Africa con l’Aids, come minaccia di avvenire con l’Influenza A).
Questa pretesa a-etica non si arresta di fronte alla dannazione dei simili.
Ma i limiti della natura, l’esaurimento delle risorse naturali e il riscaldamento globale causato da questo modello di civiltà si incaricano di offrire all’umanità un’occasione, forse l’ultima, per rivedere questo sistema di morte e reinstaurare relazioni libere e solidali con tutte le forme di vita.
Come dice il mio maestro e fratello Leonardo Boff, “la nuova era o sarà l’era dell’etica o non sarà”.
Questo il compito a cui tale premiazione ci convoca.
Se le alternative storiche al capitalismo si sono rivelate frustranti, riproducendo la dominazione umana e la devastazione della natura, si tratta, apprendendo dall’esperienza storica, di reinventare il nostro modo di vita sulla terra.
Credo fermamente che una società internazionale giusta, sostenibile e pacifica, che viva e consenta di vivere, sia possibile solo in una prospettiva ecosocialista.
Un modello di produzione ecologico e un accesso solidale ai beni necessari, in condizioni socialiste, sono ciò che ci condurrà al superamento dell’attuale crisi.
Credo che l’Europa, malgrado le contraddizioni del colonialismo, per la sua tradizione di democrazia e di rispetto dei diritti umani, abbia in tutto questo un ruolo importante.
Credo anche che i popoli originari, sopravvissuti alla co-lonizzazione e in resistenza, e le comunità impoverite del Sud e di tutto il mondo abbiano un enorme contributo da dare.
Perché nutrono il desiderio di cambiamento e conservano pratiche tradizionali di relazione con la natura e tra di essi, mostrando i più nitidi segnali di interazione rispettosa e solidale.
  Cittadini del mondo È per questo che intendo e accetto il Premio “Cittadino del Mondo” della Fondazione Kant: perché nella mia persona voi e io vediamo tutti coloro che incarnano questa utopia, ideale di vita e impegno storico.
Concretamente, siamo Cittadini del Mondo tutti noi che ci uniamo nella difesa del “São Francisco – terra e acqua, fiume e popolo”, ci mobilitiamo attorno ad un modello di vita comunitaria nell’impo-verito Semiarido brasiliano, ci dedichiamo a riscattare la di-gnità dei poveri esigendo con loro, attivamente e pacificamente, la giustizia e il diritto, giustizia e diritto che dovrebbero esistere universalmente.
Ho cercato questi Cittadini del Mondo nella mia traiettoria di vita degli ultimi 40 anni, da quando, rispondendo alla chiamata di Gesù ad uno stile di vita proposto e testimoniato da Francesco di Assisi, lasciai il ricco Sudest del Brasile per l’impoverito Nordest.
Li ho trovati nelle comunità e nei popoli impoveriti e in resistenza del sertão semiarido del fiume São Francisco.
Ho compreso che i Cittadini del Mondo qui premiati sono i poveri di questa regione, con cui ho imparato, più che insegnarle, la dignità del lavoro, la gioia della condivisione anche nella più grande povertà, la cura dei doni della terra, delle acque, delle foreste e degli animali, il diritto alle condizioni materiali e immateriali imprescindibili a una vita in abbondanza e in pace.
Per esempio, i ribeirinhos (popoli tradizionali ai margini dei fiumi, ndt) in lotta per il fiume e per i propri diritti che abbiamo incontrato tra il 1993 e il 1994 peregrinando per un anno per le sponde dei quasi 3 mila chilometri del terzo maggiore fiume del Brasile.
O gli abitanti del Semiarido che, malgrado gli abusi e la corruzione, imparano e insegnano a convivere con il clima, in condizioni ambientali avverse.
I Cittadini del Mondo premiati dalla Fondazione Kant sono anche le innumerevoli persone e organizzazioni, molte delle quali qui in Germania, che hanno espresso solidarietà alle iniziative di digiuno e di preghiera che abbiamo intrapreso, nel 2005 e nel 2007, contro il Progetto di Trasposizione delle acque del fiume São Francisco.
Hanno compreso il nostro gesto: tale progetto riassume la fallacia del sistema, poiché in nome dei poveri e assetati intende creare sicurezza idrica per grandi imprese private di produzione ed esportazione di prodotti ad alto consumo d’acqua e socialmente dannosi, come la canna da zucchero per l’etanolo.
È per me sempre motivo di angoscia questa domanda: perché dobbiamo lottare contro quando abbiamo molte più cose a favore delle quali lottare? Ma, se è vero che “un fiume è come uno specchio che riflette i valori di una società”, la nostra non vale quello che beve e mangia…
Si resiste all’evidenza della fallacia di questo modello.
In Brasile, con tante benedizioni della natura, potenziale straordinario per servire il popolo, l’umanità e il pianeta in questo momento difficile, la crisi economica e quella ecologica sono state affrontate persino entusiasticamente come opportunità di lucro: una posizione cieca, meschina e irresponsabile.
L’attuale governo del presidente Lula, frustrando le enormi aspettative della maggioranza che lo ha eletto, si presta a sussidiare la riproduzione del modello fallito.
Il Pac, il Programma di Accelerazione della Crescita (di circa 178 miliardi di euro) dà la priorità a opere di infrastruttura per la crescita economica a qualunque costo, fino a venir meno al rispetto della legge, dei popoli tradizionali, delle istituzioni dello Stato.
Non c’è più posto, in Brasile come in ogni altro luogo, per una crescita illimitata e ossessiva.
È urgente trasformare il nostro modo di produzione e i nostri modelli di consumo, assumendo come criterio quello della destinazione universale dei beni fondamentali.
Dobbiamo apprendere a “vivere di più con meno”.
Per far fronte all’emergenza, dobbiamo ampliare iniziative come la tassazione delle attività distruttive, del capitale speculativo e dei grandi profitti, e l’uso di tali risorse in programmi di prevenzione dei disastri ecologici e in appoggio alle vittime della fame, della sete, delle malattie e dei cambiamenti climatici.
  Ringraziamenti Comprese e condivise le ragioni per cui ci troviamo qui, mi resta solo da ringraziare.
Come riconoscimento e incoraggiamento per la nostra lotta, il premio è giunto nel momento migliore.
Molti – perché non capiscono e minimizzano quello che è in gioco – già davano per perso uno scontro che è impari.
Felice coincidenza: questa settimana abbiamo dato avvio ad una nuova Campagna Internazionale contro la Trasposizione del fiume São Francisco, a cui ha iniziato a lavorare l’Esercito Brasiliano.
Lanciata dai 33 Popoli Indigeni del Bacino del São Francisco colpiti direttamente e indirettamente dal progetto, la campagna esige che essi siano consultati insieme al Congresso Nazionale e che vengano rispettati i loro territori, come prescrive la Costituzione.
Invito tutti a impegnarsi in questa campagna di e-mail al Supremo Tribunale Federale e alle altre autorità brasiliane.
Ringrazio la Fondazione Kant per l’opportunità di far avanzare la coscienza e la lotta.
Associare questa lotta a quella del popolo palestinese, incarnata nella persona di Jeff Harper (docente di Antropologia e difensore dei diritti umani, noto per la sua protesta contro la distruzione di case palestinesi nella Striscia di Gaza, anche lui premiato dalla Fondazione; ndt) la rende più grande e più profonda.
Vi comunico che destineremo il valore economico del Premio all’avvio delle opere del Santuario dei Martiri nella mia diocesi.
Cittadini del Mondo, più che qualsiasi altro, sono stati coloro che hanno dato la propria vita per la causa della Vita.
In vita hanno avuto sofferenza e dolore, che riposino in dignità e pace! (…).
Prima di Kant e della sua entusiastica proposta di una “pace perpetua”, fondata sull’esercizio del Diritto della “comunità universale”, Francesco di Assisi, padre e maestro, quasi 800 anni prima delle attuali catastrofi socio-ambientali, proponeva la fraternità universale come cammino per la salvezza di tutti e la gloria del Creatore.
A tutti e tutte il mio saluto francescano, e che risuoni come una preghiera: pace e bene! Adista Documenti  n.
59 Non capita molto spesso di ascoltare un vescovo che parli di socialismo e di ecosocialismo.
Eppure è questo che è avvenuto a Friburgo, il 9 maggio scorso, durante il conferimento del Premio “Cittadino del mondo” della Fondazione Kant al vescovo brasiliano dom Luiz Cappio, della diocesi di Barra, per la sua lotta in difesa del fiume São Francisco e del popolo che ne abita le sponde.
“Credo fermamente che una società internazionale giusta, sostenibile e pacifica – ha affermato il vescovo francescano nel discorso pronunciato alla cerimonia di premiazione – sia possibile solo in una prospettiva ecosocialista.
Sono un modello di produzione ecologico e un accesso solidale ai beni necessari, in condizioni socialiste, che ci condurranno al superamento dell’attuale crisi”.
Ma se suonano inconsueti gli accenti del vescovo, non meno inconsuete sono state le modalità della sua lotta.
Contro il progetto di deviazione delle acque del São Francisco e in difesa di un progetto alternativo rispettoso delle leggi del fragile ecosistema del Nordest brasiliano, dom Cappio non aveva esitato, per due volte in due anni, a ricorrere allo sciopero della fame.
Nel primo caso, nel settembre del 2005, lo aveva interrotto dopo 11 giorni (v.
Adista nn.
69 e 73/05), in seguito all’impegno di Lula di sospendere il progetto, avviando su di esso un ampio, trasparente e partecipativo dibattito con la società civile.
Dibattito, tuttavia, che era stato interrotto molto presto (v.
Adista n.
85/07).
Il vescovo era tornato allora alla carica, sollecitando il rispetto dell’impegno preso con una lettera al presidente, nel febbraio del 2007 ma, per tutta risposta, il governo aveva mandato l’esercito a iniziare i lavori, incurante del fatto che, nel frattempo, fossero state presentate alternative concrete, praticabili ed economiche, come quelle previste dall’Atlante del Nordest dell’Agenzia nazionale delle Acque: 530 opere per più di mille municipi, destinate a rifornire d’acqua 34 milioni di persone (con un costo di 3,6 miliardi di reais, contro i 6,6 miliardi del progetto di deviazione del corso delle acque).
Una soluzione vantaggiosa da tutti i punti di vista, ma osteggiata dalle imprese legate al capitale internazionale, che del megaprogetto governativo hanno bisogno per promuovere l’allevamento di gamberetti e la produzione di frutta per l’esportazione (secondo gli studi di impatto ambientale, il 70% delle acque sarebbe destinato infatti alla frutticoltura, il 26% al rifornimento delle città e solo il 4% alla popolazione dei campi).
Così il vescovo, nel novembre del 2007, aveva ripreso lo sciopero della fame, stavolta interrompendolo dopo ben 24 giorni, appena prima che la sua salute ne fosse irreversibilmente compromessa, su richiesta della famiglia, degli amici, dei compagni di lotta (difficile valutare quanto abbiano pesato le pressioni del Vaticano, che a sua volta aveva ricevuto quelle del governo Lula; v.
Adista n.
1/08).
La fine del digiuno non aveva però comportato in alcun modo un allentamento della lotta contro il progetto governativo.
Non a caso, dom Cappio, nel suo discorso pronunciato durante la cerimonia di premiazione, rivolge un duro attacco al governo Lula, colpevole ai suoi occhi di aver frustrato “le enormi aspettative della maggioranza che lo ha eletto”, prestandosi “a sussidiare la riproduzione di un modello fallito”.
Adista-documenti n.59

Papa e Islam: un dialogo senza ambiguità

Sul Monte Nebo, in Giordania, Benedetto XVI ha colto l’occasione per ri­badire con solennità quanto ha peraltro già detto e scritto in molte oc­casioni.
Ha affermato con enfasi quanto speciale sia il rapporto fra cristianesi­mo e ebraismo, quanto «inseparabile» sia il vin­colo che li unisce.
Forse non tutte le incompren­sioni spariranno di colpo ma sono state poste le ba­si per un loro superamen­to.
Benedetto XVI ha par­lato così agli ebrei ma an­che, contestualmente, ai cristiani.
Ha voluto dire agli uni e agli altri che an­che gli ultimi detriti so­pravvissuti dell’antico an­tigiudaismo cristiano de­vono essere spazzati via senza indugio dalle co­scienze.
Inoltre, la sua presenza in Israele oggi, nella condizione presen­te, vale più di mille rico­noscimenti diplomatici.
E’ un’implicita affermazio­ne del diritto all’esistenza dello Stato di Israele con­tro coloro che vorrebbero cancellarlo.
Altrettanto delicato, e forse anche più delicato, è il rapporto con l’islam.
E non solo a causa degli eventi che seguirono il di­scorso di Ratisbona.
E’ più delicato anche per­ché il Papa è impegnato in una assai difficile e complessa operazione che investe, al tempo stes­so, la sfera religiosa e quella mondana.
Una ope­razione complessa che na­sce dal riconoscimento, più volte ribadito da Bene­detto XVI, che il rapporto fra il cristianesimo e l’islam è di natura diversa da quello che lega il cri­stianesimo e l’ebraismo.
Quella relazione speciale che c’è, e va riconosciuta, fra cristianesimo ed ebrai­smo, non c’è, non ci può essere, fra cristianesimo e islam.
Ciò che il Papa sta cercando di fare (un aspetto che era rimasto non chiarito, irrisolto, al­l’epoca del pontificato di Giovanni Paolo II, e an­che in occasione del viag­gio che quel Papa fece in Terra santa) è di togliere ogni ambiguità al dialogo con il mondo musulma­no, in modo da renderlo davvero proficuo sgom­brando il campo dai ma­lintesi.
Ciò che il Papa vuol fare è di chiarire che fra cristianesimo e islam non ci può essere dialogo religioso (le due fedi sono, su questo terreno, inconciliabili) ma ci deve essere invece, fra cristiani e musulmani, un incontro inter-culturale e civile (un dialogo che potremmo anche definire laico).
Anche per ribadire questo il Pontefice è rimasto in meditazione ma non ha pregato durante la sua visita alla moschea Hussein.
E’ un mo­do, l’unico modo, per spazzare via equivoci e ipocrisie rendendo possibile il rispetto reciproco e un dialogo forse foriero di buone conseguenze per le persone, cristiani e musulmani, coinvolte.
In Giordania, per lo meno, il senso della presenza del Papa sembra essere stato compre­so dagli islamici che lo hanno accolto.
Così come sono state comprese le parole che il Papa ha dedicato alla condanna della violenza ammantata di motivi religiosi.
Benedet­to XVI, naturalmente, è stato attento a non mettere a carico del solo mondo islamico (oltre a tutto, ciò non sarebbe stato nemmeno veritiero) la tentazione e la pratica della violenza.
Ma è certo che le sue parole sulla violenza (così come quelle rivolte ai cristia­ni del Medio Oriente sul ruolo delle donne) rappresentano una sponda che il capo della cristianità ha offerto a quella parte del mondo islamico che patisce la violenza dei fondamentalisti ancor più di quanto la patiscano gli occidentali.
La presenza del Papa, e i suoi atti e le sue parole, sono assai dispiaciute ai fondamentalisti, nonché a quei personaggi ambigui, di confine (il più celebre dei quali è Tariq Ramadan), che circola­no e predicano in Occidente.
Ed è un bene che sia così.
Il viaggio del Papa può aiutare l’azione degli uomini, musulmani, ebrei o cristiani, alla ricerca di una pacifica convi­venza proprio perché ricorda a tutti quanta mistificazione ci sia nell’uso a scopi politici della religione e nella violenza che quell’uso porta sempre con sé.
Angelo Panebianco 11 maggio 2009 Non è la religione all’origine della divisione nel mondo, ma la sua “manipolazione ideologica, talvolta a scopi politici”.
Il Papa lo denuncia chiaramente durante l’incontro di sabato mattina, 9 maggio, all’esterno della moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman, invitando tutti i credenti a “essere fedeli ai loro principi” per dare pubblica “testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono”.
Benedetto XVI si rivolge in particolare a cristiani e musulmani: li esorta a liberarsi dal peso delle incomprensioni che hanno segnato secoli di “storia comune” e a riconoscere “la comune origine e dignità di ogni persona umana”.
Ma ricorda anche “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo”.
E manifesta – durante il pellegrinaggio sul monte Nebo col quale si apre la seconda giornata della sua visita in Terra Santa – “il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nel rispetto reciproco e nella cooperazione al servizio della pace”.
Nelle parole del Pontefice si delinea così quel “dialogo trilaterale” tra le grandi religione monoteiste evocato venerdì mattina durante la conferenza stampa in volo verso Amman.
Un dialogo – aveva puntualizzato il Papa – che “deve andare avanti”, perché “è importantissimo per la pace e anche per vivere bene ciascuno la propria religione”.
Benedetto XVI loda perciò gli sforzi del regno hascemita per far sì che “il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura”, dando “un contributo positivo e creativo” a settori cruciali della vita civile, culturale, sociale.
E chiama cristiani e musulmani a promuovere “una maggiore conoscenza reciproca” e “un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente”.
Solo andando all'”essenziale del rapporto fra Dio e il suo mondo”, infatti, è possibile rispondere alla sfida di “coltivare il vasto potenziale della ragione” per il bene dell’intera umanità.
Così il Papa rilancia il discorso a lui caro della possibilità di un incontro fecondo tra fede e ragione.
In realtà – assicura – la prima non indebolisce ma purifica la seconda; anzi, le consente di “resistere alla presunzione di andare oltre i propri limiti”.
In questo modo “la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità”.
E gli orizzonti della comprensione si allargano, permettendo alla libertà di esprimersi in sintonia con la verità.
Tutto ciò richiede speranza e, al tempo stesso, prudenza.
Cristiani e musulmani – dice Benedetto XVI – devono impegnarsi a “oltrepassare gli interessi particolari” per “servire il bene comune, anche a spese personali”.
Il Pontefice rimette sul tappeto la questione dei diritti umani fondamentali e avverte, in particolare, che il diritto alla libertà religiosa va oltre la questione del culto e include anche quello di un “equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile”.
Di questi temi il Papa aveva fatto cenno anche nel precedente incontro all’università del Patriarcato latino a Madaba, sottolineando in particolare che “la fede in Dio non sopprime la ricerca della verità, al contrario l’incoraggia” e rafforza “la fiducia nel dono della libertà”.
Benedetto XVI aveva messo in guardia contro la tentazione di sfigurare la religione, mettendola al servizio di ignoranza, pregiudizi, violenza o abusi.
E aveva sottolineato la centralità della “sapienza religiosa ed etica” nella formazione dei giovani.
In questo senso – aveva affermato – le università devono garantire la “giusta formazione professionale e morale” per dare una solida base ai “costruttori di una società giusta e pacifica, composta di genti di varia estrazione religiosa ed etnica”.
Al termine della mattinata il pensiero del Papa va agli abitanti del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato accoglienza proprio in Giordania.
L’appello alla pace e alla riconciliazione si unisce, nelle sue parole, alla richiesta del “fondamentale diritto alla pacifica convivenza” per i cristiani.
Nel Paese vanno rimesse in piedi istituzioni e infrastrutture – ricorda – ma soprattutto va ricostruita la fiducia delle persone per il bene della società irachena.
(©L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009) Benedetto XVI è giunto oggi a Tel Aviv dopo la sua prima tappa in Giordania.
Questo lungo viaggio in Terra santa del Papa avrà certamente an­cora molti momenti sa­lienti ma un primo bilan­cio è reso possibile dal­l’accoglienza che gli è sta­ta fin qui riservata e dalle parole, forti e inequivoca­bili, che egli ha già pro­nunciato sui rapporti fra il cristianesimo, l’ebrai­smo e l’islam.
Il viaggio del Papa è di estrema delicatezza.
Non solo perché si svolge nei luoghi che sono, oggi co­me mille anni fa, il terre­no di incontro/scontro fra le tre religioni mono­teiste.
E non solo perché è proprio lì, in Medio Oriente, che si addensa­no, si sovrappongono e si intrecciano i più gravi ele­menti di conflitto che mi­naccino oggi la stabilità mondiale.
E’ di estrema delicatezza anche perché il Papa vi è giunto prece­duto da una lunga scia di polemiche e incompren­sioni che hanno fin qui se­gnato i suoi rapporti sia con l’ebraismo che con l’islam.

“Angeli e demoni”: il rapporto fra scienza e fede.

Demoni confusi nel parco giochi di Ron Howard di Luca Pellegrini I santi di travertino che ornano il colonnato di piazza San Pietro ne hanno certamente viste tante, nei secoli.
Questa volta, però, impietriti davvero, non si sarebbero mai immaginati che tra quelle colonne e pilastri si potesse scatenare una frenetica ricerca, senza esclusione di colpi: da qualche parte sul colle Vaticano è pronta a esplodere un’ampolla di ipotetica antimateria a confronto della quale l’atomica assomiglia a un petardo.
Minaccia direttamente il conclave e con questo il futuro della Chiesa, mentre un assassino pazzoide scatena il panico volendosi sbarazzare, con molta fantasia e crudeltà, di alcuni eminenti cardinali in nome della difesa della scienza e della verità scientifica, contro (ancora una volta) il supposto oscurantismo ecclesiastico.
L’eroe senza fede, ma con intelletto fino e intuito da vendere, chiamato di gran fretta in Vaticano per dare una mano, è il professore americano Robert Langdon, imbattibile quando si tratta di decifrare simboli e svelare misteri: si muove agevolmente tra manoscritti e antichi libri, si trasforma in coraggioso avventuriero nell’Urbe – splendidamente fotografata da Salvatore Totino – e in un cauto investigatore tra i Sacri Palazzi, intercetta fantomatiche minacce, decodifica complotti secolari, insegue i cattivi e salva il futuro Papa, preparandosi forse a nuove avventure.
Certamente è un personaggio utile più al cinema che alla Chiesa, il protagonista di Angeli e demoni.
Può rimanere comodamente negli interstizi della storia dello spettacolo, forse sarà a breve dimenticato, così come la scaltra operazione letteraria da cui proviene – ossia il fortunato, sbilenco e inverosimile romanzo di Dan Brown, solo leggermente adattato e limato alle esigenze della pellicola – che non porta certo il sigillo della cultura, semmai quello della gigantesca e furbesca operazione commerciale.
Il grossolano impianto immaginativo serve a Ron Howard per imbastire un film pretenzioso, eppure ben alimentato da una regia dinamica e attraente – l’americano è un artista eclettico di innegabili qualità, soprattutto quando affronta generi più seri e di dimensione cameristica, come il recente Frost/Nixon – che strizza l’occhio ai fumetti, al thriller e al fantasy.
Langdon – ancora Tom Hanks, migliore che nell’irritante e irriverente Codice da Vinci – è un frullato di personaggi stereotipi: Hercules Poirot, James Bond, Indiana Jones, Ethan Hunt, l’agente di Mission impossible, e Ben Gates, l’eroe che svela Il mistero dei templari e Il mistero delle pagine perdute.
Questa volta lascia da parte, fortunatamente, i dogmi della fede cristiana e si cala coraggioso in una realtà sconosciuta e che non gli appartiene: la Santa Sede, della quale sono stati ricostruiti magnificamente in studio e con il computer alcuni ambienti topici come la Basilica Vaticana e la Cappella Sistina, dove avvengono fatti per nulla abituali.
È un addensarsi di secoli di storia e di riti quello che si trova a fronteggiare per oltre due ore di innocuo intrattenimento, che scalfisce ben poco il genio e il mistero del cristianesimo, attenendosi anche questa volta a sbrigativi (e manichei) luoghi comuni.
Il Vaticano con i suoi monumenti, palazzi, uffici e residenze, è rappresentato come un condensato di arte inespugnabile, un’area geografica diversa da tutte le altre e spesso invalicabile ai più.
Viene invaso dalle teorie farneticanti e dalle vendette imminenti di una fantomatica setta segreta (gli Illuminati) mentre sul piano temporale è concentrato sulla storia delle successioni papali: l’inizio del conclave e la scelta del successore di Pietro.
Spazio e tempo collimano generando un immenso – e per Hollywood assai redditizio – parco giochi, un cinema opulento, effimero e accattivante nel quale tutti trovano il loro spazio: sacerdoti e alti prelati, guardie svizzere e gendarmi vaticani, carabinieri e popolo di Roma, figurine di un videogame che accende prima di tutto la curiosità, e poi, forse, diverte anche un po’.
Non vale la pena elencare le incongruenze storiche e le iperboliche cerimonie che si susseguono irreversibili nel film (il camerlengo, i cardinali “preferiti”, l’assassinio di un Papa, i riti e i ruoli), anzi può essere un divertimento aggiuntivo quelle di scoprirle, annotarle e vincere come in un gioco.
Mentre scorrono i titoli di coda, sarebbe però utile riflettere sul perché la cultura cattolica – così vicina al cinema che è stato uno dei suoi strumenti prediletti – sembra oggi quasi avere lasciato alla finzione d’oltreoceano e alla falsità storica il compito di parlare sui grandi media della Chiesa e della sua realtà più profonda.
Nella quale gli angeli le sono vicini.
E i demoni? Sono confusi, come il film ai quali si ispira.
(©L’Osservatore Romano – 7 maggio 2009) Angeli e demoni: il titolo è ben scelto, ma il romanzo è modesto, così come il film, salvato solo dalla presenza di Tom Hanks, attore di consumata bravura.
Il vero problema, allora, è quello di capire le ragioni di tanto successo, ragioni che interessano i cattolici perché le opere di Dan Brown trattano della Chiesa, e più precisamente si inseriscono nel filone del fantavaticano, che però lo scrittore americano ha portato a successi mai visti.
Cosa piace tanto di Dan Brown? Senza dubbio, che tratti di religione e di mistero, cioè di quei temi che la secolarizzata cultura contemporanea, tutta ragione e scienza, evita sempre con cura, ma che rimangono sempre vivi, se pure apparentemente dimenticati, nell’immaginario contemporaneo.
Che la religione affronti il mistero della vita e della morte, e dunque il senso del nostro vivere e morire, è indubbio: proprio per questo una società che sembra felicemente assestata su una cultura materialista e superficiale – fondata su una fede nella possibilità di spiegare ogni cosa con la scienza, e forse anche di vincere la morte – ne è in fondo assetata.
Questo innanzi tutto rivelano i successi di Dan Brown.
Ma allora perché tale successo non arride alla Chiesa, che diffonde il messaggio evangelico con ben altra profondità e levatura? Perché pochi hanno il coraggio di mettere in discussione un’identità così come vuole il politically correct del contesto di oggi, e Dan Brown offre religione e mistero all’interno di questo rassicurante recinto.
Il mistero che inserisce nei suoi intrecci, infatti, evita le questioni profonde, limitandosi a lambirle: è un mondo fantastico di sette segrete e misteriose che combattono all’interno della Chiesa, ridotta in fondo a setta anch’essa.
La tradizione cristiana vi è raffigurata come un patrimonio di simboli e di testi occulti, che la scienza – ben rappresentata dall’eroe, l’agnostico professore americano – sa decifrare, a differenza dei suoi rappresentanti ufficiali, che hanno dimenticato la loro storia per cancellare il sangue di cui sarebbe intrisa.
Quello che si vuole dimenticare è infatti sempre legato a menzogne e a sanguinose repressioni, che svelerebbero il volto nero e crudele della Chiesa, sempre in bilico fra purezza evangelica ed efferato delitto.
Il tema dunque è in fondo sempre lo stesso, nei due romanzi: una setta contro la Chiesa, anche se le parti dei buoni e dei cattivi si distribuiscono diversamente.
Questa volta, con Angeli e demoni, la Chiesa è dalla parte dei buoni, anche se paga il prezzo di immaginarie efferatezze passate.
Nel Codice da Vinci i buoni, invece, erano fuori della Chiesa, e ne minavano, addirittura, la base.
Piuttosto innocuo, dunque, è questo secondo romanzo (e film), che però era stato scritto prima, a dimostrare che il vero successo poteva venire solo dal rovesciamento della tradizione osato nel Codice da Vinci.
In entrambi – con una certa grossolanità ma non senza acutezza – si affrontano questioni chiave per la Chiesa contemporanea: nel Codice la sessualità, in Angeli e demoni il rapporto fra scienza e fede.
Il punto di vista è quello meno problematico possibile: i buoni sono sempre i progressisti a favore del sesso e della scienza, siano essi eretici o Papi, e cattivi quanti si oppongono in nome della fedeltà a una tradizione dura e chiusa, che si sarebbe sempre macchiata di delitti.
Che questa semplicistica e parziale visione della Chiesa abbia tanto successo, tanto da corrispondere – almeno così pare – a un senso comune piuttosto generalizzato, deve fare pensare e riflettere.
Sarebbe probabilmente esagerato considerare i libri di Dan Brown come un campanello di allarme, ma forse sono uno stimolo a rivedere e vivificare le forme e le modalità mediatiche attraverso le quali la Chiesa spiega le sue posizioni sui temi più scottanti di attualità.