46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani

“Cattolici nell’Italia di oggi.
Un’agenda di speranza per il futuro del Paese” è il tema della 46ma Settima Sociale (Reggio Calabria, 14-17 ottobre 2010), che ha avuto una preparazione di due anni, con circa 100 incontri in tutte le città d’Italia, e che vede la presenza di 1200 partecipanti e la rappresentanza di 177 associazioni.
IL PROGRAMMA 46ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani “Cattolici nell’Italia di oggi.
Un’agenda di speranza per il futuro del Paese” che si terrà a Reggio Calabria (14-17 ottobre 2010).  Si aprirà nel pomeriggio di giovedì 14 ottobre presso il Teatro comunale “Francesco Cilea” di Reggio Calabria con il saluto di S.E.
Mons.
Vittorio Luigi Mondello, Arcivescovo di Reggio Calabria-Bova e Presidente della Conferenza Episcopale Calabra, del sindaco di Reggio Calabria Giuseppe Raffa, del Presidente della Provincia Giuseppe Morabito, del Presidente della Giunta regionale Giuseppe Scopelliti, di S.E.
Mons.
Giuseppe Bertello, Nunzio Apostolico in Italia.
Seguirà l’introduzione di S.E.
Mons.
Arrigo Miglio, Vescovo di Ivrea e Presidente del Comitato scientifico ed organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani.
“Logos e agape.
Intelligenza della fede e trasformazione della società” è il titolo della Prolusione che S.Em.za Card.
Angelo Bagnasco, Arcivescovo di Genova e Presidente della CEI, pronuncerà davanti agli oltre 1200 delegati provenienti da tutte le 227 diocesi italiane.
“Il processo, l’agenda e l’attualità” è il titolo dell’intervento che Luca Diotallevi, Vice Presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, terrà prima della conclusione dei lavori della prima giornata.
“Il tema della 46ª Settimana Sociale può sembrare atipico rispetto a quelli delle ultime Settimane Sociali, ma è scaturito quasi naturalmente dall’esperienza della 45ª Settimana, quella del centenario dedicata a Il Bene comune oggi.
Un impegno che viene da lontano – spiega il Vescovo Arrigo Miglio -.
Tale tema, infatti, ha suscitato interesse e si è rivelato più che mai attuale e urgente, ma ha bisogno di essere declinato in rapporto ad alcuni problemi concreti del Paese.
Di qui è nata l’idea di lavorare per proporre un’agenda di speranza, da compilare non a tavolino ma compiendo un’opera di riflessione che permetta di coinvolgere, da subito, molti di coloro che si stanno impegnando seriamente per il bene comune del Paese e per trovare le vie concrete per conseguirlo.
L’agenda – prosegue il Presidente del Comitato scientifico e organizzatore delle Settimane Sociali – presenta dei problemi e non ha la pretesa di trovare tutte le soluzioni, soprattutto quelle politiche.
Vorremmo invece, alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, incoraggiare e offrire un contributo perché, come scrive Benedetto XVI nella Deus caritas est «le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili»”.

Intervista a René Frydman: “La fecondazione in provetta è il simbolo di una grande trasgressione”

intervista a René Frydman, a cura di Catherine Vincent René Frydman, capo del servizio ostetrico-ginecologico dell’ospedale Antoine-Béclère (AP-HP) è, con il biologo Jacques Testart, il “padre” scientifico di Amandine, primo bebè in provetta francese nato nel 1982.
Come accoglie questo Nobel? Con grande soddisfazione.
Bob Edwards è sempre stato una persona calorosa, direi gioviale, soprattutto aveva uno spirito di apertura abbastanza sorprendente.
Pensare fin dal 1965 alla possibilità delle cellule staminali, non è da tutti! Era molto avanti sul piano scientifico, e ha sempre sostenuto i giovani ricercatori.
Quando sono andato da lui nel 1977, mi ha subito dato dei consigli per cominciare a lavorare.
È quindi tutto un cammino che viene riconosciuto con questo premio Nobel.
Un premio, che, a mio avviso, arriva un po’ tardi.
Perché così tardi? Perché la fecondazione in vitro, e tutte le tecniche che ne sono derivate, ha sempre suscitato molte reticenze.
Ancor oggi, gli sviluppi della procreazione medicalmente assistita, alcuni dei quali non sono del resto sempre giustificati, continuano ad avere odore di zolfo.
Ciò che era invisibile è divenuto visibile, ciò che era intoccabile è divenuto toccabile: in questo, la fecondazione in provetta costituisce il simbolo di una grande trasgressione umana.
Col passare dei decenni, secondo la propria religione o la propria filosofia, questa trasgressione è divenuta più o meno ammessa.
Ma resta tale.
Come spiega la pugnacità di cui Robert Edwards ha dato prova? Credo che fosse animato da una convinzione profonda: aiutare le coppie sterili, era quello che gli importava veramente.
Inoltre era affascinato dai meccanismi che cercava di dominare.
Quando tentava le sue prime fecondazioni in vitro con Patrick Steptoe, il ginecologo della banda, questi faceva i prelievi di ovuli in un ospedale che era a 50 km dal laboratorio.
Ora, all’epoca, le ovulazioni non erano stimolate da trattamento.
Potevano avvenire di giorno o di notte, e bisognava quindi, di giorno e di notte, correre all’ospedale a prelevare un ovulo, poi portarlo d’urgenza a Cambridge…
Era una vera saga! Nel 1978, lei era presente al convegno in cui è stata annunciata la nascita imminente di Louise Brown, primo bebè al mondo ad esser stato concepito in una provetta…
Era un grande convegno di gineco-ostetricia, e quando Bob Edwards ha fatto questa presentazione, nessuno riusciva a crederci! Mentre era l’inizio di una favolosa avventura! Quattro anni dopo, l’ho ritrovato ad un congresso sulla riproduzione umana, con un centinaio di partecipanti.
Ha lanciato allora l’idea di creare un’associazione europea di medici con il suo giornale, Human Reproduction, e l’ultimo congresso equivalente a quello del 1982 ha riunito circa 7000 partecipanti…
Tenuto conto delle legislazioni che inquadrano la ricerca sugli embrioni umani, i lavori che hanno portato alla nascita di Louise Brown e di Amandine sarebbero possibili oggi? Non credo.
All’epoca, ci bastava avere l’accordo del nostro capo-servizio, Emile Papiernik! Certo, lavoravamo contro venti e maree, dovevamo rispondere all’opposizione della Chiesa cattolica e a quella di alcuni scienziati, ma non c’erano divieti.
Oggi, non penso ci sia un sufficiente spirito di apertura e di innovazione perché tale progresso sia possibile.
La filosofia di Bob Edwards non è d’attualità.
in “Le Monde” del 6 ottobre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

La profezia di Raimon Panikkar

Credo sia doveroso da parte della Cittadella ricordare l’amico Raimon Panikkar morto il 27 agosto sulla soglia dei 92 anni (li avrebbe compiuti il prossimo 3 novembre).
Alla Cittadella aveva affidato la traduzione di un libro prezioso: Dialogo intrareligioso (NY 1978, Assisi 1988), che resta una fedele testimonianza della sua esperienza spirituale.
Egli ha lasciato l’impronta del suo passaggio dove ha sostato nel suo cammino di pensatore profondo e versatile scrittore.
Penso, tuttavia, che il valore più grande della sua vita stia nell’esperienza multi religiosa e multi culturale che è riuscito a compiere.
Una strada aperta che nel futuro dovrà essere battuta da molti altri.
La sua vastissima cultura, la conoscenza e la pratica di molte lingue, la duttilità dell’intelligenza, la finezza dell’intuito gli ha consentito di intessere rapporti e di affrontare esperienze straordinariamente varie.
Quando andò in pensione (1987) gli chiesi cosa pensava di fare: mi guardò con lo sguardo trasparente di chi è abituato a osservare il silenzio e rispose lentamente: «ora semplicemente sono».
Aveva ancora molto da vivere.
Si era stabilito a Tavertet (Osona), un piccolo centro dei pre-Pirenei catalani, dove fondò un centro di studi interculturali chiamato Vivarium e portò a maturazione la sua visione del mondo, espressione della profonda esperienza mistica che stava compiendo.
È stata soprattutto la ricchezza della vita spirituale a consentirgli quella che costituirà certamente la eredità più preziosa lasciata ai posteri.
Egli ha vissuto con profondità e illustrato con la sua intelligenza tre mondi religiosi in contemporanea.
In modo non sincretista o confusionario bensì mantenendo la specificità e la ricchezza delle distinte spiritualità.
Negli ultimi mesi già colpito dal disturbo cardiaco che l’ha condotto alla morte, a Raffaele Luise che lo interrogava attestava: «Io mi sono innamorato di Cristo dalla prima giovinezza e non l’ho mai tradito…
non l’ho mai lasciato» (Un grande maestro del nostro tempo, in L’altro come esperienza di rivelazione, L’altrapagina, Città di Castello 2008, p.
73).
Nella esperienza multireligiosa era stato preceduto da persone profetiche, che egli aveva incontrato.
In particolare egli era stato «il più grande amico di Henri Le Saux» (1910-1973) come ha più volte testimoniato (L’altro.., o.
c., p.
52).
Con lui aveva compiuto diversi pellegrinaggi in luoghi sacri induisti e gli aveva anche affidato una sua casetta sull’Hymalaya, poi travolta da una piena del Gange.
Poteva attestare: «Le Saux si è liberato lentamente, senza rivoluzione, benché con un trauma interiore, da una formazione ristretta, microdossica, per acquistare totalmente la libertà totale.
…Si è sempre considerato cristiano, monaco, benedettino, ma ha lavorato appassionatamente per non essere un cristiano chiuso, un benedettino fanatico, un monaco retrivo» (ib.).
Aveva frequentato anche il monaco Jules Monchanin (1895-1957) che con Le Saux aveva fondato l’asram Satcitananda e più tardi il benedettino Bede Griffits, che ne aveva continuato la tradizione e aveva poi affidato l’asram ai PP.
Camaldolesi, che ora ne garantiscono la continuità nella esperienza del dialogo e della spiritualità multireligiosa.
L’aspetto più significativo della esistenza di Raimon Panikkar è l’esperienza mistica compiuta, la sintesi che egli ha operato tra spiritualità cristiana, induista e buddhista.
Panikkar aveva conoscenza dottrinale approfondita anche di altre religioni, soprattutto dell’ebraismo e dell’Islam, ma dell’induismo e del buddhismo aveva conoscenza vitale, sperimentale.
Egli era giunto a viverle dal di dentro.
Ciò gli era stato reso possibile per il livello spirituale raggiunto, nel quale le differenze dei modelli interpretativi e delle strutture religiose si erano in modo progressivo compenetrate.
Il processo non si è realizzato per sincretismo o per giustapposizione di pratiche diverse, bensì per lo sviluppo di un livello spirituale nel quale le differenze sono divenute compatibili perché la vita si svolge in forma più pura e più sostanziale.
Le modalità contingenti appaiono secondarie e compatibili.
Credo che Panikkar sia stato l’unico nel nostro tempo a immergersi in modo autentico in tre esperienze religiose e sentirsi in grado di farle, parlare dal di dentro.
Era cristiano e sacerdote cattolico ed è rimasto fedele alla sua scelta proprio perché in virtù di questa ha raggiunto l’apertura che gli ha consentito di vivere realmente anche l’esperienza induista e buddhista.
Credo che valga anche per lui quello che aveva detto dell’esperienza dell’amico Henri Le Saux: «È un fenomeno straordinariamente positivo.
Il suo itinerario personale è stato un itinerario di liberazione da una cosa dopo l’altra, senza distruggere nessuna delle sue fedeltà» (ib.).
È frutto di un’autentica esperienza mistica, aperta a tutti coloro che intendono vivere oggi il dialogo interreligioso.
La mistica, come egli la definisce, è: «l’esperienza della Vita» (Vita e Parola.
La mia opera, Jaca Book 2010, p.
12), «l’esperienza integrale della Vita» (ib., p.14), «l’esperienza suprema della realtà» (ib.,p.
21).
La «spiritualità va intesa come cammino per giungere a tale esperienza» (ib., p.
21).
Il termine vita in queste definizioni deve essere inteso nel senso di esistenza, ed appartiene ad ogni essere anche materiale.
Vita e realtà si corrispondono.
Egli spiega: «Abbiamo scritto Vita con la maiuscola per non escludere a priori che la vita può avere altre dimensioni oltre a quelle inerenti ai suoi aspetti fisiologici e psichici.
Esiste anche una vita spirituale: esiste la Vita dell’Essere e quindi la vita della materia» (ib., p.
14).
In questa prospettiva Panikkar distingueva la sostanza della realtà o della vita che è perenne dalle sue forme limitate e transitorie.
Egli chiariva questa distinzione con l’esempio che spesso portava del rapporto tra la goccia (l’uomo) e l’oceano (Dio o la totalità).
«Ognuno di noi è una goccia d’acqua.
Quest’acqua a un certo momento o evapora nel nulla o cade nel mare…
Quando noi moriamo cosa capita alla mia goccia d’acqua? Dipende da chi sono io: la goccia d’acqua o l’acqua della goccia? Se sono la goccia d’acqua, la goccia d’acqua sparisce, muore; se durante la mia vita ho superato il mio individualismo, il mio egoismo e mi sono scoperto acqua e non soltanto goccia, non mi capita niente, anzi divento più acqua, non muoio…
È la tensione superficiale che fa la goccia, è la nostra sostanza che fa l’acqua.
Abbiamo tutti la possibilità di scoprirci acqua» (L’altro come esperienza.., o.
c., p.
59).
Il lavoro spirituale tende appunto a «scoprirci acqua e non accontentarsi di essere soltanto goccia» (ib).
Giunti a questa scoperta l’interpretazione dell’esistenza personale, degli altri, della storia, cambia completamente.
Si apre quello che egli stesso chiama «il terzo occhio».
A questo sguardo la propria esistenza si configura come l’ambito dove la Vita stessa prende coscienza di una sua modalità di apparizione; l’altro, ogni altro, appare come la rivelazione di una modalità della Vita; la storia come il suo dispiegarsi nel tempo.
Panikkar riconosce che «a volte ci costa lasciare che la Vita prenda coscienza di se stessa, proprio per la [nostra] superficialità…
Questa coscienza della vita non è nostra proprietà privata, non appartiene al nostro ego; per questo la mistica ci dirà che, se non si supera l’egoismo, se non si muore all’ego (egoista), non si può godere di questa esperienza» (Vita e Parola, o.
c., p.
14).
In noi la «Vita fa esperienza di se stessa e ognuno di noi partecipa a questa esperienza con maggiore o minore chiarezza e profondità».
Egli precisa: «Quando dico esperienza della Vita non intendo l’esperienza della mia vita, ma della Vita, quella vita che non è mia benché sia in me; quella vita, che, come dicono i Veda, non muore, che è infinita, che alcuni definirebbero divina, Vita tuttavia che si sente palpitare, o per meglio dire, semplicemente vivere in noi.
Le interpretazioni che se ne danno naturalmente spaziano da ciò che è definito sentimento oceanico fino alla sensazione biologica di vivere, passando attraverso l’esperienza di Dio, di Cristo, dell’Amore o anche dell’Essere» (ib., p.
15).
Panikkar introducendo Mistica pienezza di vita, il primo volume dell’Opera Omnia, poteva attestare che esso «tratta del tema più importante della mia vita, che ha ispirato in forma discreta tutti i miei scritti, così da diventarne una chiave ermeneutica indispensabile» (Vita e Parola, o.
c., p.
11).
Ha ispirato tutti i suoi scritti perché rappresentava la sostanza, la trama della sua esistenza.
Il dialogo ormai non può avvenire e svilupparsi che in questa prospettiva.
«Quando le mura delle proprie costruzioni interiori crollano perché esposte al vento del dialogo intrareligioso si può rimanere sepolti sotto le macerie…
ma si può cominciare a costruire la propria dimora in modo che altri possano entrare e uscire» (A.
Rossi, Un artista del dialogo, in L’altro…, o.
c., p.
19).
Allora veramente «la ricerca diventa una preghiera aperta verso tutte le direzioni; aperta anche alle direzioni del prossimo e persino a quelle del lontano’» (R.
Panikkar, Il dialogo intrareligioso, Cittadella 1988, p.
17).
Panikkar ha percorso questi cammini in modo esemplare.
Ora che egli è tornato alla Vita ha affidato a noi la consegna di diffondere la pratica e la spiritualità del dialogo in “Rocca” n.
18 del 15 settembre 2010

Il deserto fiorito di fratel Carlo

 «Avevo fatto del treno il “luogo” della mia preghiera.
Facevo il pendolare per motivi di lavoro e tu sai cos’è un vagone ferroviario che parte e arriva in città, al mattino e alla sera, stracarico di operai e di studenti.
Chiasso, risate, fumo, trambusto, pigia-pigia.
Io mi sedevo in un angolo e non sentivo nulla.
Leggevo il Vangelo.
Chiudevo gli occhi.
Ascoltavo Dio.
Che dolcezza, che pace, che silenzio! La potenza dell’amore superava la dispersione che cercava di penetrare nella mia fortezza».
Secoli fa correvano nelle aspre solitudini del deserto egiziano, eppure gli eremiti si accorgevano spesso che la città li aveva seguiti col suo frastuono e le sue seduzioni.
Ora forse è possibile il movimento inverso, diventare monaci urbani, creando aree di silenzio nel fragore assordante della modernità.
È ciò che testimoniava autobiograficamente già nel titolo Il deserto nella città, oltre che nel brano sopra citato, Carlo Carretto, una delle figure suggestive della spiritualità italiana contemporanea.
Lo rievochiamo anche noi nel centenario della sua nascita, affidandoci a due suoi ritratti biografici pubblicati proprio per questo anniversario.
La sua vicenda è, per certi aspetti, la  rappresentazione della Chiesa italiana del Novecento in alcuni suoi ambiti rilevanti.
Presidente nazionale della Gioventù Italiana di  Azione Cattolica nel periodo effervescente post-bellico, egli si batterà poi per la “scelta religiosa” di questa associazione, in quegli anni ancora poderosamente influente nel tessuto civile, e la sua Lettera a Pietro divenne una sorta di manifesto per coloro che sostenevano tale opzione, da altri contrastata come rinunciataria e passiva.
In realtà, la presenza di Carretto nell’agorà sociale ed ecclesiale era tutt’altro che arrendevole: le sue scelte talora si scostarono dalla linea ufficiale della Chiesa italiana, come nel caso del referendum sul divorzio, quando aderì al gruppo dei “cattolici per il No”.
Tuttavia il suo itinerario aveva ormai imboccato un’altra direzione, emblematicamente illustrata proprio dal deserto.
Infatti egli si era avviato sulle orme di Charles de Foucauld, il mistico del Sahara algerino, incontrato attraverso la biografia e gli scritti del discepolo René Voillaume, fondatore della congregazione religiosa dei Piccoli Fratelli del Vangelo.
Così, Carretto divenne fratel Carlo, aderendo a quella comunità che egli trapiantò anche in Italia nella Spello umbra, immersa nell’atmosfera francescana.
Da quel momento la sua vita, la sua parola, i suoi scritti furono un riferimento per molti cattolici italiani che sostanzialmente condividevano la famosa esclamazione della citata Lettera a Pietro: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo!».
Cercare una sigla riassuntiva per questo eremita nel mondo risulta difficile, proprio per il suo attestarsi sul crinale tagliente tra fede e storia, tra mistica e impegno civile, tra contemplazione e azione.
Si potrebbe accostare fratel Carlo – pur nelle molteplici distanze culturali e spirituali – alla francese Madeleine Delbrêl che si fece assistente sociale per vivere un’esperienza di “mistica quotidiana” nella tormentata banlieue di Ivry, nella cintura parigina, ove morirà sessantenne nel 1964.
Essa scriveva nei suoi Poemetti di Alcide: «Coloro che amano Dio hanno sempre sognato il deserto; per questo a coloro che lo amano Dio non può rifiutarlo».
È il deserto del treno affollato, del quartiere operaio, del romitorio incastonato nella politica e nella vita sociale.
In questo senso può essere adottata per fratel Carlo la definizione che appare già nel titolo della biografia di Gianni Di Santo, Il profeta di Spello.
Certo, è un po’ abusata e crea qualche equivoco, ma la profezia biblica è per eccellenza l’incrocio tra spiritualità e storia, senza il timore di impolverarsi il mantello nelle strade della città degli uomini.
Questa classificazione è, comunque, sostenuta da un’analisi accurata della vicenda personale di Carretto, della sua corrispondenza e delle relazioni che egli intratteneva con le più diverse personalità e tutti coloro che rendevano Spello un crocevia di incontri, sempre però alonati dal silenzio dell’adorazione e della contemplazione.
A questo riguardo è significativa l’altra biografia, affidata a un giornalista, Alberto Chiara, il quale propone una sorta di galleria di testimonianze di figure che hanno avuto la loro vita segnata dall’ascolto di Carretto, pur procedendo poi su percorsi più ramificati: Oscar Luigi Scalfaro, Rosy Bindi, Gian Carlo Sibilia, ma anche curio Colombo e Gianni Vattimo.
Certo, l’eredità di fratel Carlo è custodita da un filone minoritario del complesso panorama dell’attuale cattolicesimo italiano e può rivelare anche profili datati.
Rimane, però, ancor vivo il suo appello alla fedeltà pura e nuda al Vangelo, all’attaccamento sincero alla Chiesa senza però ipocrisie, all’aderenza alla lezione del Concilio Vaticano II ma soprattutto all’amore per Dio e per il prossimo.
L’oasi del silenzio non isola ma feconda la città degli uomini.
E così possiamo ritornare alla scena del treno da cui siamo partiti.
«Ero veramente uno con me stesso e nulla mi poteva distrarre.
Sotto la presa dell’amore divino ero in pace.
Sì, doveva essere proprio l’amore a creare l’unità in me.
Difatti gli innamorati che si trovavano sul treno bisbigliavano tra di loro in perfetta armonia, senza preoccuparsi di ciò che capitava attorno.
Io bisbigliavo col mio Dio».

Gianni Di Santo, «Carlo Carretto il profeta di Spello», San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pagg. 174, € 12,00;

Alberto Chiara, «Carlo Carretto. L’impegno, il silenzio, la speranza», Paoline, Milano, pagg. 168, € 16,50.

 

in “Il Sole 24 Ore” del 26 settembre 2010

Chiara Luce Badano

A Sassello, ridente paese dell’Appennino ligure appartenente alla diocesi di Acqui, il 29 ottobre 1971 nasce Chiara Badano, dopo che i genitori l’hanno attesa per 11 anni.
Il suo arrivo viene ritenuto una grazia della Madonna delle Rocche, alla quale il papà è ricorso in preghiera umile e fiduciosa.
Chiara di nome e di fatto, con occhi limpidi e grandi, dal sorriso dolce e comunicativo, intelligente e volitiva, vivace, allegra e sportiva, viene educata dalla mamma –attraverso le parabole del Vangelo- a parlare con Gesù e a digli «sempre di sì».
È sana, ama la natura e il gioco, ma si distingue fin da piccola l’amore verso gli «ultimi», che copre di attenzioni e di servizi, rinunciando spesso a momenti di svago.
Fin dall’asilo versa i suoi risparmi in una piccola scatola per i suoi «negretti»; sognerà, poi, di partire per l’Africa come medico per curare quei bambini.
Chiara è una ragazzina normale, ma con un qualcosa in più: ama appassionatamente; è docile alla grazia e al disegno di Dio su di lei, che le si svelerà a poco a poco.
Dai suoi quaderni dei primi anni delle elementari traspare la gioia e lo stupore nello scoprire la vita: è una bambina felice.
Nel giorno della prima Comunione riceve in dono il libro dei Vangeli.
Sarà per lei un «magnifico libro» e «uno straordinario messaggio»; affermerà: «Come per me è facile imparare l’alfabeto, così deve esserlo anche vivere il Vangelo!».
A 9 anni entra come Gen nel Movimento dei Focolari e a poco a poco vi coinvolge i genitori.
Da allora la sua vita sarà tutta in ascesa, nella ricerca di «mettere Dio al primo posto».
Prosegue gli studi fino al Liceo classico, quando a 17 anni, all’improvviso un lancinante spasimo alla spalla sinistra svela tra esami e inutili interventi un osteosarcoma, dando inizio a un calvario che durerà circa tre anni.
Appresa la diagnosi, Chiara non piange, non si ribella: subito rimane assorta in silenzio, ma dopo soli 25 minuti dalle sue labbra esce il sì alla volontà di Dio.
Ripeterà spesso: «Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io».
Non perde il suo luminoso sorriso; mano nella mano con i genitori, affronta cure dolorosissime e trascina nello stesso Amore chi l’avvicina.
Rifiutata la morfina perché le toglie lucidità, dona tutto per la Chiesa, i giovani, i non credenti, il Movimento, le missioni…, rimanendo serena e forte, convinta che «il dolore abbracciato rende libero».
Ripete: “Non ho più niente, ma ho ancora il cuore e con quello posso sempre amare”.
La cameretta, in ospedale a Torino e a casa, è luogo di incontro, di apostolato, di unità: è la sua chiesa.
Anche i medici, talvolta non praticanti, rimangono sconvolti dalla pace che le aleggia intorno, e alcuni si riavvicinano a Dio.
Si sentivano “attratti come da una calamita” e ancor oggi la ricordano, ne parlano e la invocano.
Alla mamma che le chiede se soffre molto risponde: «Gesù mi smacchia con la varechina anche i puntini neri e la varechina brucia.
Così quando arriverò in Paradiso sarò bianca come la neve».E’ convinta dell’amore di Dio nei suoi riguardi: afferma, infatti: «Dio mi ama immensamente», e lo riconferma con forza, anche se è attanagliata dai dolori: «Eppure è vero: Dio mi vuole bene!».
Dopo una notte molto travagliata giungerà a dire: «Soffrivo molto, ma la mia anima cantava…».
Agli amici che si recano da lei per consolarla, ma tornano a casa loro stessi consolati, poco prima di partire per il Cielo confiderà: «…Voi non potete immaginare qual è ora il mio rapporto con Gesù…
Avverto che Dio mi chiede qualcosa di più, di più grande.
Forse potrei restare su questo letto per anni, non lo so.
A me interessa solo la volontà dì Dio, fare bene quella nell’attimo presente: stare al gioco di Dio”.
E ancora: “Ero troppo assorbita da tante ambizioni, progetti e chissà cosa.
Ora mi sembrano cose insignificanti, futili e passeggere… Ora mi sento avvolta in uno splendido disegno che a poco a poco mi si svela.
Se adesso mi chiedessero se voglio camminare (l’intervento la rese paralizzata), direi di no, perché così sono più vicina a Gesù”.
Non si aspetta il miracolo della guarigione, anche se in un bigliettino aveva scritto alla Madonna: «Mamma Celeste, ti chiedo il miracolo della mia guarigione; se ciò non rientra nella volontà di Dio, ti chiedo la forza a non mollare mai!» e terrà fede a questa promessa.
Fin da ragazzina si era proposta di non «donare Gesù agli amici a parole, ma con il comportamento».
Tutto questo non è sempre facile; infatti, ripeterà alcune volte: «Com’è duro andare contro corrente!».
E per riuscire a superare ogni ostacolo, ripete: «E’ per te, Gesù!».
Chiara si aiuta a vivere bene il cristianesimo, con la partecipazione anche quotidiana alla S.
Messa, ove riceve il Gesù che tanto ama; con la lettura della parola di Dio e con la meditazione.
Spesso riflette sulle parole di Chiara Lubich: “Sono santa, se sono santa subito”.
Alla mamma, preoccupata nella previsione di rimanere senza di lei, continua a ripete: «Fídati di Dio, poi hai fatto tutto»; e «Quando io non ci sarò più, segui Dio e troverai la for¬za per andare avanti».
A chi va a trovarla esprime i suoi ideali, mettendo gli altri sempre al primo posto.
Al “suo” vescovo, Mons.
Livio Maritano, mostra un affetto particolarissimo; nei loro ultimi, brevi ma intensi incontri, un’atmosfera soprannaturale li avvolge: nell’Amore diventano una cosa sola: sono Chiesa! Ma il male avanza e i dolori aumentano.
Non un lamento; sulle labbra: «Se lo vuoi tu, Gesù, lo voglio anch’io».
Chiara si prepara all’incontro: «E’ lo Sposo che viene a trovarmi», e sceglie l’abito da sposa, i canti e le preghiere per la “sua” Messa; il rito dovrà essere una «festa», dove «nessuno dovrà piangere!».
Ricevendo per l’ultima volta Gesù Eucaristia appare immersa in Lui e supplica che le venga recitata «quella preghiera: Vieni, Spirito Santo, manda a noi dal Cielo un raggio della tua luce».
Soprannominata “LUCE” dalla Lubich, con la quale ha un intenso e filiale rapporto epistolare fin da piccina, ora è veramente luce per tutti e presto sarà nella Luce.
Un particolare pensiero va alla gioventù: «…I giovani sono il futuro.
Io non posso più correre, però vorrei passare loro la fiaccola come alle Olimpiadi.
I giovani hanno una vita sola e vale la pena di spenderla bene!».
Non ha paura di morire.
Aveva detto alla mamma: «Non chiedo più a Gesù di venire a prendermi per portarmi in Paradiso, perché voglio ancora offrirgli il mio dolore, per dividere con lui ancora per un po’ la croce».
E lo «Sposo» viene a prenderla all’alba del 7 ottobre 1990, dopo una notte molto sofferta.E’ il giorno della Vergine del Rosario.
Queste le sue ultime parole: “Mamma, sii felice, perché io lo sono.
Ciao”.
Ancora un dono: le cornee.
Al funerale celebrato dal Vescovo, accorrono centinaia e centinaia di giovani e parecchi sacerdoti.
I componenti del Gen Rosso e del Gen Verde elevano i canti da lei scelti.
Dal quel giorno la sua tomba è meta di pellegrinaggi: fiori, pupazzetti, offerte per i bambini dell’Africa, letterine, richieste di grazie… E ogni anno, nella domenica prossima al 7 ottobre, i giovani e le persone presenti alla Messa in suo suffragio aumentano sempre di più.
Vengono spontaneamente e si invitano a vicenda per partecipare al rito che, come voleva lei, è un momento di grande gioia.
Rito preceduto, da anni dall’intera giornata di “festa”: con canti, testimonianze, preghiere… La sua “fama di santità” si è estesa in varie parti del mondo; molti i “frutti”.
La scia luminosa che Chiara “Luce” ha lasciato dietro di sé porta a Dio nella semplicità e nella gioia di abbandonarsi all’Amore.
è un’esigenza acuta della società di oggi e, soprattutto, della gioventù: il significato vero della vita, la risposta al dolore e la speranza in un “poi”, che non finisca mai e sia certezza della “vittoria” sulla morte.
Spunti bibliografici a cura di LibreriadelSanto.it Roberto Olivato, Sacrari, santi patroni e preghiere militari, Edizioni Messaggero, 2009 – 312 pagine F.
Agnoli, M.
Luscia, A.
Pertosa, Santi & rivoluzionari, SugarCo, 2008 – 184 pagine Benedetto XVI, I santi di Benedetto XVI.
Selezione di testi di Papa Benedetto XVI
, Libreria Editrice Vaticana, 2008 – 151 pagine Lanzi Fernando, Lanzi Gioia, Come riconoscere i santi e i patroni nell’arte e nelle immagini popolari, Jaca Book, 2007 – 237 pagine Maria Vago, Piccole storie di grandi santi, Edizioni Messaggero, 2007 – 64 pagine Piero Lazzarin, Il libro dei Santi.
Piccola enciclopedia
, Edizioni Messaggero, 2007 – 720 pagine Ratzinger J., Santi.
Gli autentici apologeti della Chiesa
, Lindau Edizioni, 2007 – 160 pagine KLEINBERG A., Storie di santi.
Martiri, asceti, beati nella formazione dell’Occidente
, Il Mulino, 2007 – 360 pagine Mario Benatti, I santi dei malati, Edizioni Messaggero, 2007 – 224 pagine Sicari Antonio M., Atlante storico dei grandi santi e dei fondatori, Jaca Book, 2006 – 259 pagine Dardanello Tosi Lorenza, Storie di santi e beati e di valori vissuti, Paoline Edizioni, 2006 – 208 pagine Butler Alban, Il primo grande dizionario dei santi secondo il calendario, Piemme, 2001 – 1344 pagine Giusti Mario, Trenta santi più uno.
C’è posto anche per te
, San Paolo Edizioni, 1990 – 220 pagine www.chiaralucebadano.it Visse a Sassello con il padre Ruggero, camionista, e la madre Maria Teresa, casalinga.
Volitiva, tenace, altruista, di lineamenti fini, snella, grandi occhi limVisse a Sassello con il padre Ruggero, camionista, e la madre Maria Teresa, casalinga.
Volitiva, tenace, altruista, di lineamenti fini, snella, grandi occhi limpidi, sorriso aperto, ama la neve e il mare, pratica molti sport.
Ha un debole per le persone anziane che copre di attenzioni.
A nove anni conosce i ‘Focolarini’ di Chiara Lubich ed entra a fare parte dei ‘Gen’.
Dai suoi quaderni traspare la gioia e lo stupore nello scoprire la vita.
Terminate le medie a Sassello si trasferisce a Savona dove frequenta il liceo classico.
A sedici anni, durante una partita a tennis, avverte i primi lancinanti dolori ad una spalla: callo osseo la prima diagnosi, osteosarcoma dopo analisi più approfondite.
Inutili interventi alla spina dorsale, chemioterapia, spasmi, paralisi alle gambe.
Rifiuta la morfina che le toglierebbe lucidità.
Si informa di tutto, non perde mai il suo abituale sorriso.
Alcuni medici, non praticanti, si riavvicinano a Dio.
La sua cameretta, in ospedale prima e a casa poi, diventa una piccola chiesa, luogo di incontro e di apostolato: “L’importante è fare la volontà di Dio…è stare al suo gioco…Un altro mondo mi attende…Mi sento avvolta in uno splendido disegno che, a poco a poco, mi si svela…Mi piaceva tanto andare in bicicletta e Dio mi ha tolto le gambe, ma mi ha dato le ali…” Chiara Lubich, che la seguirà da vicino, durante tutta la malattia, in un’affettuosa lettera le pone il soprannone di ‘Luce’.
Mons.
Livio Maritano, vescovo dicocesano, così la ricorda: “…Si sentiva in lei la presenza dello Spirito Santo che la rendeva capace di imprimere nelle persone che l’avvicinavano il suo modo di amare Dio e gli uomini.
Ha regalato a tutti noi un’esperienza religiosa molto rara ed eccezionale”.
Negli ultimi giorni, Chiara non riesce quasi più a parlare, ma vuole prepararsi all’incontro con ‘lo Sposo’ e si sceglie l’abito bianco, molto semplice, con una fascia rosa.
Lo fa indossare alla sua migliore amica per vedere come le starà.
Spiega anche alla mamma come dovrà essere pettinata e con quali fiori dovrà essere addobbata la chiesa; suggerissce i canti e le letture della Messa.
Vuole che il rito sia una festa.
Le ultime sue parole: “Mamma sii felice, perché io lo sono.
Ciao!”.
Muore all’alba del 7 ottobre 1990.
E’ “venerabile” dal 3 luglio 2008.pidi, sorriso aperto, ama la neve e il mare, pratica molti sport.
Ha un debole per le persone anziane che copre di attenzioni.
A nove anni conosce i ‘Focolarini’ di Chiara Lubich ed entra a fare parte dei ‘Gen’.
Dai suoi quaderni traspare la gioia e lo stupore nello scoprire la vita.
Terminate le medie a Sassello si trasferisce a Savona dove frequenta il liceo classico.
A sedici anni, durante una partita a tennis, avverte i primi lancinanti dolori ad una spalla: callo osseo la prima diagnosi, osteosarcoma dopo analisi più approfondite.
Inutili interventi alla spina dorsale, chemioterapia, spasmi, paralisi alle gambe.
Rifiuta la morfina che le toglierebbe lucidità.
Si informa di tutto, non perde mai il suo abituale sorriso.
Alcuni medici, non praticanti, si riavvicinano a Dio.
La sua cameretta, in ospedale prima e a casa poi, diventa una piccola chiesa, luogo di incontro e di apostolato: “L’importante è fare la volontà di Dio…è stare al suo gioco…Un altro mondo mi attende…Mi sento avvolta in uno splendido disegno che, a poco a poco, mi si svela…Mi piaceva tanto andare in bicicletta e Dio mi ha tolto le gambe, ma mi ha dato le ali…” Chiara Lubich, che la seguirà da vicino, durante tutta la malattia, in un’affettuosa lettera le pone il soprannone di ‘Luce’.
Mons.
Livio Maritano, vescovo dicocesano, così la ricorda: “…Si sentiva in lei la presenza dello Spirito Santo che la rendeva capace di imprimere nelle persone che l’avvicinavano il suo modo di amare Dio e gli uomini.
Ha regalato a tutti noi un’esperienza religiosa molto rara ed eccezionale”.
Negli ultimi giorni, Chiara non riesce quasi più a parlare, ma vuole prepararsi all’incontro con ‘lo Sposo’ e si sceglie l’abito bianco, molto semplice, con una fascia rosa.
Lo fa indossare alla sua migliore amica per vedere come le starà.
Spiega anche alla mamma come dovrà essere pettinata e con quali fiori dovrà essere addobbata la chiesa; suggerissce i canti e le letture della Messa.
Vuole che il rito sia una festa.
Le ultime sue parole: “Mamma sii felice, perché io lo sono.
Ciao!”.
Muore all’alba del 7 ottobre 1990.
E’ “venerabile” dal 3 luglio 2008 e beata dal 25 settembre 2010.

Attacco a Ratzinger

PAOLO RODARI, ANDREA TORNIELLI, Attacco a Ratzinger, Piemme, Milano, pagg.
322, € 18,00.
Londra la fredda e l’indifferente si sta riscaldando alla vigilia della visita di stato di Benedetto XVI.
La regina Elisabetta che ha invitato il Pontefice – una prima in assoluto, Wojtyla ci andò nel 1982 ma in visita pastorale – ha predisposto un gesto mai verificatosi con altri capi di stato, quello di inviare il principe Filippo all’aeroporto a ricevere il papa.
Così tutta la classe politica, dal neocattolico Tony Blair al presbiteriano GordonBrown e al premier anglicano praticante David Cameron, freme per gli incontri ufficiali.
E fuori dai palazzi la temperatura sale: c’è chi chiede le dimissioni di Ratzinger per lo scandalo pedofilia, domani su Channel 4 ci sarà un documentario di Peter Tatchell, attivista gay, di sicura contestazione.
E lo scienziato Stephen Hawking con The Grand Design, appena pubblicato, ha corretto le sue tesi sulla compatibilità tra scienza e fede: la nascita del mondo non ha bisogno di Dio.
Ma Londra, culla della religione di stato, farà comunque gli onori all’anziano papa che, appena eletto, aveva chiesto: «Pregate per me, perché io non fugga, per paura davanti ai lupi».
Certo il suo pontificato avrebbe dovuto essere breve, «due o tre anni, durerà solo due tre anni…» confidava un cardinale e oggi i vaticanisti Paolo Rodari e Andrea Tornielli lo ricordano nel loro saggio sulle tempeste che regolarmente si abbattono su Benedetto XVI cui «l’unica vera cosa che non gli si perdona è quella di essere stato eletto papa».
Ricordiamo alcuni episodi: la citazione «politicamente scorretta» sull’islam pronunciata a Ratisbona; il vescovo negazionista Williamson; il dialogoriavvicinamento con i lefèvriani; il Motu proprio sulla messa in latino; la crisi diplomatica sul condom e l’Aids durante il viaggio in Africa.
E poi la madre di tutte le tensioni: la pedofilia del clero che partita dagli Stati Uniti si è allargata a macchia d’olio in Europa e sulla quale Ratzinger è intervenuto con determinazione.
Realismo nell’allontanamento dei colpevoli, invito alla vigilanza e alla severità nella selezione dei sacerdoti, richiesta di perdono e offerta di aiuto alle vittime.
E per tutta la Chiesa un richiamo: purificazione.
D’altra parte era stato lui, da cardinale nel marzo 2005, a dire «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui».
Una determinazione e una lucidità, quelle del Pontefice, che il libro Attacco a Ratzinger di Rodari- Tornielli mette in luce percorrendo tutte le accuse, gli scandali, le profezie e i complotti contro il papa.
Certo non brilla molto la gestione vaticana delle crisi con una comunicazione presa spesso in contropiede.
Ma parlare di attacco non è esagerato.
Se spostiamo l’attenzione al campo editoriale troviamo il 2010 disseminato da Tutto quello che il Vaticano non vuole farvi sapere (Paul Jeffers, Castelvecchi), La crociata di Benedetto (ovvero il Vaticano in guerra contro la modernità di Alan Posener, Garzanti), I segreti del Vaticano (un Corrado Augias sul “potere millenario”, Mondadori), Propaganda Fide R.E.
Un intrigo clerical vip (Andrea Gagliarducci, il Saggiatore).
Fermiamoci qui.
Benedetto XVI, da intellettuale e teologo, non tace.
Editorialmente risponde con il primo di sedici volumi della sua Opera omnia dedicato alla liturgia che aiuta a capire la domanda «Perché crediamo?» (Libreria vaticana), annuncia la pubblicazione il marzo prossimo del secondo volume su Gesù di Nazaret e conferma che entro l’anno arriverà un libro-intervista con il giornalista tedesco Peter Seewald, già autore del colloquio Il sale della terra.
Cristianesimo e Chiesa cattolica nel XXI secolo (Edizioni San Paolo).
Un contrattacco di idee e di diritti.
D’autore.
in “Il Sole 24 Ore” del 12 settembre 2010

Mons. Ablondi

Il vescovo dell’ecumenismo e del dialogo religioso.
Ma anche il punto di riferimento pastorale, per più di trent’anni, di un’intera città.
Ed un ecclesiastico capace di svestire i panni “istituzionali” per mettersi in ascolto della sua comunità.
Malato di Parkinson, costretto da tempo in carrozzella, mons.
Alberto Ablondi è morto il 21 agosto scorso, nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Livorno.
A dicembre avrebbe compiuto 86 anni.
Livorno città aperta.
Al dialogo Nato a Milano da una famiglia di umili origini (il nonno, lo zio e il padre avevano esercitato la professione di cuoco), si era laureato in Lettere con indirizzo archeologico nel 1947, lo stesso anno in cui fu ordinato sacerdote.
Nel 1950 prese una seconda laurea, in Filosofia; e nel 1955 la terza, in Giurisprudenza.
Alla dimensione intellettuale, Ablondi univa però in quegli anni una forte carica pastorale: fu parroco, insegnante di religione, assistente della Fuci e dei Laureati Cattolici.
Dopo il Concilio Vaticano II ricevette (1966) l’incarico di vescovo ausiliare di Livorno (a fianco di mons.
Emilio Guano, altro esponente di spicco del rinnovamento ecclesiale) ed amministratore apostolico di Massa Marittima.
Il 26 settembre 1970 divenne vescovo della città portuale.
Lo rimase per 30 anni, fino al 2000: anni durante i quali Ablondi divenne, all’interno dell’episcopato italiano, una delle punte più avanzate del dialogo ecumenico ed interreligioso.
E del dialogo con il mondo laico e con la sinistra.
Del resto, la cattedra di Livorno si prestava bene allo slancio umano e pastorale di Ablondi: città di forti tradizioni operaie e comuniste, a Livorno convivono da secoli diverse confessioni cristiane (ortodossi, cattolici di rito bizantino, armeno, maronita) e altre comunità religiose (numerosa quella ebraica, ma nutrita anche la presenza musulmana), all’interno di una cittadinanza cosmopolita, che porta tracce evidenti dell’integrazione avvenuta, nei secoli, tra diversi gruppi etnici (olandesi, inglesi, greci, francesi, portoghesi, corsi).
E particolarmente significativo ed intenso fu il rapporto di Ablondi con la comunità ebraica, che a Livorno ha una radicata e significativa presenza e dove Ablondi istituì, nel 1989, la Giornata dell’ebraismo – la prima iniziativa del genere, non solo in Italia – da celebrarsi il 17 gennaio di ogni anno all’inizio della Settimana per l’unità dei cristiani.
Simbolo del riavvicinamento tra ebrei e cattolici, uno dei frutti più evidenti della stagione postconciliare, fu la sua amicizia con il rabbino capo di Roma (ma nato e cresciuto a Livorno), Elio Toaff.
Ma Ablondi ebbe anche relazioni fraterne con numerosi esponenti del mondo musulmano.
Nel 1984 fu nominato presidente mondiale della Federazione Universale per l’apostolato Biblico; nel 1988 vicepresidente mondiale delle Società Bibliche.
Il 1984 fu anche un anno chiave per la vita ecclesiale livornese.
Quell’anno infatti, mons.
Ablondi convocò il sinodo diocesano, incentrato, non a caso, sul rapporto Chiesa-mondo e che contribuì al ripensamento del modo di essere Chiesa di altre diocesi italiane.
(valerio gigante) in “Adista” Notizie n.
68 del 18 settembre 2010 Fronte del porto Considerato, insieme a mons.
Luigi Bettazzi e mons.
Clemente Riva, tra i vescovi italiani più aperti e disponibili al confronto “a sinistra”, Ablondi fu una figura molto vicina al mondo del lavoro.
L’ex sindaco Gianfranco Lamberti ha ricordato infatti nei giorni scorsi che quando una fabbrica viveva un periodo di difficoltà “il vescovo era sempre presente”.
Nel 1989, ad esempio, Ablondi volle essere a fianco del leader dei portuali livornesi, Italo Piccini (suo amico personale, scomparso nel marzo di quest’anno), nella protesta contro i “decreti Prandini”, che davano avvio al processo di liberalizzazione del lavoro nei porti.
Anni dopo, nel 2002, ormai in pensione, fece tutto il possibile, per scongiurare la crisi dello storico cantiere navale Luigi Orlando e tutelare le centinaia di operai che vi lavoravano e le loro famiglie.
Intervenne, conducendo con sé il suo successore, mons.
Diego Coletti, al Consiglio Comunale che ebbe luogo, eccezionalmente, all’interno del Cantiere.
Una voce forte, ma isolata Sul fronte pastorale, nel 1993, Ablondi lanciò l’idea di un dialogo con i giovani che non consistesse più nel “fargli la predica” dall’alto, ma nel fare “due passi insieme”, come recitava il titolo della lettera che il vescovo inviò ai giovani della città, con lo scopo di attivare un dialogo aperto e fecondo anche con i più lontani dalla vita ecclesiale, a partire da una domanda essenziale: “Che cosa cercate?”.
Il resoconto dell’intreccio di questa relazione è contenuto in un volume, No, una predica no! Dialogo fra giovani e il vescovo Ablondi (Editrice Borla), che raccoglie le lettere dei giovani e le risposte del vescovo.
Firmati a titolo personale, o come gruppo, gli scritti affrontavano temi scottanti e problematici, come contraccezione, aborto, legame Dc-Chiesa, sessualità.
Nel 1995 Ablondi venne eletto numero due dei vescovi italiani (lo rimmarrà fino al 2000).
La sua presenza ai vertici della Conferenza episcopale rappresentava l’anima più conciliare e aperta dell’episcopato italiano.
Ma la sua restò una voce isolata dentro una Cei ormai egemonizzata dal card.
Camillo Ruini.
Così ad esempio, nel 1997, all’Assemblea ecumenica di Graz, Ablondi non riuscì ad evitare l’astensione della delegazione cattolica sul documento finale, per un dissenso su un passaggio dedicato al ruolo delle donne nella Chiesa, giudicato troppo aperto al tema dei “ministeri ordinati” (v.
Adista n.
53/97).
Non mancarono momenti difficili anche in diocesi, come quando, nel 1997, una donna dichiarò al settimanale Oggi di aver avuto una relazione con lui; o quando, tre anni più tardi, alla guida della sua auto, investì ed uccise una donna.
Dopo il pensionamento (lasciando l’incarico, in una lettera alla città che era una dichiarazione d’amore scrisse: “Resterò uno di voi”), mons.
Ablondi non abbandonò lo slancio pastorale, favorito anche da una successione, quella di mons.
Coletti, che si poneva sulla linea del suo magistero.
A Livorno fondò ed animò il Cedomei, il Centro di Documentazione del Movimento Ecumenico Italiano; continuò a scrivere e ad intervenire nel dibattito pubblico.
Diverso invece il rapporto con l’attuale vescovo, mons.
Simone Giusti, la cui azione, di segno nettamente opposto a quello di Ablondi, lo aveva progressivamente posto ai margini della vita diocesana (non a caso la diocesi non ha finora organizzato alcuna iniziativa per ricordare la figura e l’opera del vescovo scomparso).
Nel 2009 insieme ai suoi collaboratori, Ablondi fece partire, nella semiclandestinità ecclesiale, un progetto di una catechesi nuova, “una catechesi senza catechisti e anche senza catechismi”, fatta di fogli di riflessione da far circolare fra la comunità livornese, di un sito internet (http://nuke.versoildivino.it) e di incontri cui Ablondi partecipava in carrozzina.
Il materiale fu poi raccolto nello stesso anno nel libro A passo d’uomo verso il divino (Morcelliana 2009), un testo di riflessione teologica finito a sorpresa fra i bestseller della città, e che prendeva spunto dalla quotidianità per elaborare riflessioni su questioni anche spinose, come la sessualità, la malattia, la morte.
(valerio gigante) in “Adista” Notizie n.
68 del 18 settembre 2010

Il cattolico post moderno e lo scarso peso in politica

A chi frequenta la realtà cattolica italiana desta un po’ di sconcerto la superficialità con cui di essa si parla e con essa si vuole dialogare.
La persistente diaspora elettorale, seguita alla fine della Dc, istiga qualcuno a tentativi di nuova unità o convergenza, magari di stampo minoritario; ma ne istiga molti di più a tentativi di appropriazione, di alleanze, di consonanze programmatiche e/o etiche nei confronti delle sue diverse componenti.
Tutti tentativi, però, che, al di là della loro reiterazione e del loro rifiuto, declinano verso una evidente confusione.
Per tentare di fare un passo in avanti occorre partire dalla considerazione che in ogni realtà complessa (e quella cattolica lo è più di quanto sembri) bisogna privilegiare una linea interpretativa che parta non dall’alto dei principi ideologici o di alleanze politiche, ma dal basso, cioè dalla fenomenologia quotidiana del popolo cattolico.
È qui, in questa fenomenologia quotidiana, che sta maturando un’evoluzione profonda e importante anche se ancora senza esiti di incisività sociopolitica.
È una maturazione che parte dalla tradizionale ma non scontata consistenza quantitativa del popolo cattolico, dalla sua diffusione capillare sul territorio, dal suo costante vivere in orizzontale senza coazioni di verticismo mediatico.
Chi lo frequenta e lo «conta» verifica ogni domenica che i partecipanti alle funzioni di quattro-cinque parrocchie dell’Umbria (regione non solo piccolissima, ma da sempre segnata da forte tradizione comunista e massonica) equivalgono ai numeri dei rumorosi cortei che in varie occasioni attraversano Roma; e coloro che in quelle funzioni «fanno la comunione» sono più numerosi dei partecipanti ai vari reclamizzati raduni che ogni tanto occupano le piazze romane.
Facendo la somma delle 25.000 parrocchie italiane, si riscontra una totale copertura del territorio e delle sue dinamiche; non c’è gara rispetto alle ambizioni di metter su circoli e squadre da parte di chi sente di non avere un suo quotidiano radicamento nel reale quotidiano.
Ma l’importanza sempre più centrale del popolo cattolico la si riscontra specialmente sul piano qualitativo, quasi socio-antropologico: per la sua eredità e testimonianza di fede, visto che «credere» in qualcosa è oggi cosa rara e forse essenziale; per la sua quotidiana capacità di vivere non facendosi prendere dalla bulimia di quell’edonismo banale e facile (per cui delle cose si gode anche senza averne avuto il desiderio); per la sua quotidiana capacità di vivere il territorio (la terra, l’ambiente, il paesaggio) come un valore aggiunto, rispetto alla pura localizzazione del vivere; per la sua quotidiana capacità di produrre significative relazioni interpersonali e una tendenziale vita comunitaria; per la sua quotidiana capacità di fare integrazione e coesione sociale (con gli anziani non meno che con i lavoratori stranieri, con gli emarginati non meno che con i depressi più o meno soli); per la sua capacità di fare cittadinanza attiva (nel volontariato, come nelle iniziative culturali, come nell’associazionismo di vario tipo).
Si tratta, in ultima analisi e interpretazione, della emergente capacità del popolo cattolico di essere post moderno, cioè post industriale, post urbano, post mediatico, anche post secolarizzato; peraltro senza cadere in tentazione di una regressione verso nostalgie del passato, modelli identitari consolidati, antiche prigionie archetipiche.
È quindi verosimile che si sia di fronte a una importanza del popolo cattolico più interessante di quanto pensano coloro che con esso vogliono far politica.
Ma perché tale sommersa importanza non riesce a esprimersi nella dialettica socio-politica? La risposta più immediata potrebbero essere quella che si tratta di un obiettivo che la maggior parte dei cattolici italiani non ritiene più meritevole d’impegno; ma sarebbe una risposta parziale.
La verità è che mancano al popolo cattolico i livelli intermedi prima di condensazione della propria forza poi di finalizzazione allo sviluppo collettivo del Paese.
Non è che manchino in proposito  movimenti, associazioni, gruppi di aggregazione intermedia; ma si tratta di strutture dove il fondo identitario è più religioso e spirituale che d’impegno civile; e dove quindi si formano carismi «caldi» ma non spendibili sul piano sociopolitico.
E anche sul piano più tradizionalmente ecclesiastico non è che manchino diocesi capaci di guidare il cammino dei propri fedeli, ma in genere i loro vescovi restano incapaci (per propria carenza personale e/o perché abituati a «far fare» ai superiori gerarchici) di elaborare il collegamento delle dinamiche del loro popolo con le grandi tematiche del momento sociopolitico.
Non essendoci dunque un tessuto e una dinamica di tipo intermedio, si capisce come su tali tematiche gli orientamenti della base cattolica non arrivino affatto; o arrivino distorti dalle convinzioni di chi presume di parlare in suo nome; o arrivino sì corrette, ma quasi casuali e quindi senza adeguato seguito (si pensi all’ultima presa di posizione del Papa sul problema dell’immigrazione).
Chi voglia allora far partecipe il popolo cattolico dello sviluppo complessivo della nostra società deve lavorare sulla crescita del suo tessuto intermedio e delle sue dinamiche intermedie; vale per le gerarchie ecclesiastiche e per l’associazionismo ecclesiale, ma vale anche per chi vuole chiamarlo a responsabilità collettive, magari anche politiche.
Altrimenti rischiamo le chiacchiere inutili e confuse che oggi occupano titoli, articoli, dichiarazioni, annunci, siti e circuiti mediatici, verso cui il popolo cattolico si dimostra progressivamente indifferente.
in “Corriere della Sera” del 31 agosto 2010

Perché il potere ha perso sacralità

Il teologo interviene sulla laicità alle “Parole della politica” Qual è l’esperienza concreta da cui è sorto il concetto di laicità? Io credo che sia la consapevolezza della complessità del rapporto tra il proprio mondo mentale e quello di altri.
Intendo quindi per laicità il metodo che governa il rapporto tra dimensione interiore e dimensione esteriore della vita: la laicità è un metodo che si applica alla relazione tra il foro interiore delle convinzioni ideali e il foro esteriore della convivenza con chi è diverso da noi.
Questa precisazione è essenziale per capire come agire rispetto ai cosiddetti “principi non negoziabili” di cui parla spesso Benedetto XVI.
A mio avviso la non negoziabilità dei principi si dà a livello di foro interiore, nel senso che non si devono tradire i propri ideali, soprattutto quando si agisce in prima persona.
Ma la realtà di un mondo sempre più plurale fa sì che il foro interiore della prima persona singolare non sia mai perfettamente traducibile nel foro esteriore della prima persona plurale.
Perché si possa pronunciare un armonioso noi, ogni singolo io deve modulare la sua musica interiore con quella degli altri.
Solo a questa condizione si avrà una sinfonia e non la cacofonia del conflitto sociale.
Ne viene che a livello di foro esteriore non c’è nulla che non sia negoziabile, perché la negoziazione è l’anima del diritto e della politica nella misura in cui essi sono elaborati all’insegna della democrazia.
Quindi riassumo: nessuna negoziazione a livello interiore dove è in gioco l’anima e l’adesione alla verità; ma concrete negoziazioni a livello di foro esteriore dove è in gioco la relazione armoniosa della convivenza tra uomini sempre più diversi.
Riuscire a mediare queste due dimensioni significa praticare la laicità.
Quanto detto finora però non è sufficiente.
La modernità è stata l’epoca delle distinzioni: la spiritualità dalla religione, la religione dall’etica, l’etica dal diritto, il diritto dalla politica.
Occorreva farlo per fondare su basi razionali la convivenza sociale.
Alla fine però ne è risultata una politica separata dalla spiritualità, dall’etica e ora sempre più anche dal diritto.
Per questo io penso che occorra qualcosa di diverso.
Guardando alla nostra società, a me pare infatti che più laica di così, più priva di sacralità di così, la politica non potrebbe essere.
Separata dalla spiritualità e dall’etica, la politica oggi si ritrova del tutto priva di sacralità, completamente profana, anzi così profana da essere ormai profanata.
Aristotele scriveva che «il vero uomo politico è colui che vuole rendere i cittadini persone dabbene e sottomessi alle leggi» (EN, 135).
Quanti sono i politici così? È stato messo in piedi un meccanismo che esclude quasi automaticamente chi si vorrebbe avvicinare alla politica con questi ideali, una specie di selezione naturale al ribasso.
A mio parere il nostro tempo ha bisogno di un ritorno alla dimensione sacrale della politica.
Non sto certo auspicando il ritorno alle teocrazie, meno che mai collateralismi neoguelfi di sorta e presenze di cardinali a cene di uomini di potere.
So solo che le grandi civiltà del passato non conoscevano la rigida separazione tra Cesare e Dio e l’avrebbero trovata innaturale.
Sono certo che neppure Gesù l’avrebbe praticata se sulla moneta ci fosse stata l’effigie del re Davide e non quella di un re straniero.
E quando Roma perse la sua sacralità e si laicizzò al punto da risultare del tutto profana agli occhi dei cittadini, perse anche la sua forza politica e militare.
Scriveva Hegel due secoli fa: «Ci potrebbe venire l’idea di istituire un paragone con il tempo dell’Impero romano quando il razionale e necessario si rifugiava solo nella forma del diritto e del benessere privato, perché era scomparsa l’unità generale della religione e altrettanto era annullata la vita politica generale, e l’individuo, perplesso, inattivo e sfiduciato, si preoccupava solamente di se stesso…
Come Pilato domandò: “che cos’è la verità?”, così al giorno d’oggi si ricerca il benessere e il godimento privato.
È oggi corrente un punto di vista morale, un agire, opinioni e convinzioni assolutamente particolari, senza veridicità, senza verità oggettiva.
Ha valore il contrario: io riconosco solo ciò che è una mia opinione soggettiva».
Nella stessa prospettiva oggi Eugenio Scalfari parla dei contemporanei come di barbari: «I contemporanei sono i nostri barbari».
Al cospetto di una politica ormai priva di sacralità, io avverto il bisogno di un movimento contrario rispetto alla laicità come separazione: c’è bisogno di reciproca fecondazione tra dimensione spirituale e politica.
Se la politica vuol tornare a essere capace di toccare la mente e il cuore degli uomini (e non solo le loro tasche) deve ricollegarsi organicamente al diritto, all’etica, alla religione, alla spiritualità.
Come debba fare non so perché non sono un politico, ma credo che il vero problema da affrontare non siano le piccole rivendicazioni del neoguelfismo all’italiana.
Queste sono manovre di poco conto, a loro volta segno di decadenza.
Il vero problema è il nichilismo che dilaga nelle anime, il bisogno dell’uomo di sacralità e la politica che non sa più neppure cosa sia la sacralità.
L’anima della nostra civiltà è malata, intendendo con anima della civiltà ciò che tiene unite le persone al di là degli interessi immediati, quel senso ideale per cui il singolo percepisce di essere al cospetto di una realtà più importante di lui nella quale però si identifica e quindi serve con onestà.
Di fronte a questa situazione penso che ogni persona responsabile debba cercare di capire in che modo la propria area di appartenenza possa servire il paese con equità.
E al riguardo mi permetto di ritenere inadeguata l’impostazione della Chiesa cattolica.
Essa infatti pensa i cattolici come interessati solo ad alcuni aspetti della vita quali bioetica, scuole cattoliche, famiglia, e non invece all’insieme della società.
Che le questioni ricordate siano importanti è ovvio, ma esse non possono rappresentare l’unico punto di vista in base al quale giudicare la politica perché il cristiano deve essere fedele al mondo nella sua integralità e non crearsi un mondo a parte.
Dietro l’impostazione del Magistero c’è invece l’idea che i cattolici siano una realtà estranea rispetto al mondo e vi si rapportino solo per trarne più benefici possibili per il loro piccolo mondo particolare.
Questo però è teologicamente sbagliato perché significa trasformare i cattolici in una delle tante lobby del mondo e far perdere sapore al sale: «ma se il sale perde il sapore, a null’altro serve che a essere gettato via» (Mt 5,13).
in “la Repubblica”del 14 luglio 2010