Il pellegrinaggio dei musulmani a La Mecca

I musulmani di tutto il mondo si apprestano a celebrare l’hajj, quinto pilastro dell’islam, ovvero l’annuale pellegrinaggio a La Mecca, in Arabia Saudita.
Per domani, primo dei cinque giorni del rito, è atteso l’arrivo di circa due milioni e mezzo di pellegrini.
Le autorità di Riyadh, custodi dei principali luoghi santi dell’islam (La Mecca e Medina), hanno schierato un impressionante apparato di sicurezza e di soccorso per evitare attentati ma soprattutto la serie di incidenti mortali avvenuti negli ultimi anni per le situazioni di panico createsi a causa del grande affollamento.
Una delle grandi novità di quest’anno è l’Al Mashaar al-Muqadassah, o “metropolitana dei luoghi santi”, che entrerà in funzione domenica e grazie alla quale i fedeli potranno spostarsi con maggiore facilità e rapidità.
Alleggerirà il traffico intorno ai principali siti di almeno trentamila veicoli, stima il Governo saudita, ed è considerata uno dei progetti più significativi del regno nel settore dei trasporti pubblici.
Quest’anno correrà al 35 per cento delle sue capacità, con dieci treni che viaggeranno coprendo il tragitto con corse di circa sette minuti, trasportando a pieno carico 72.000 pellegrini.
L’itinerario si snoderà da Mina, valle dove i musulmani si raccolgono in preghiera, al monte della Misericordia, dove Maometto pronunciò il suo ultimo discorso, fino a Muzdalifah, ultima tappa del pellegrinaggio prima del ritorno a La Mecca.
 L’hajj si svolge tra l’ottavo e il tredicesimo giorno del Dhu l-hijjah, dodicesimo e ultimo mese del calendario islamico, che è un calendario lunare, il che spiega perché la data del pellegrinaggio a La Mecca – che i musulmani devono compiere almeno una volta nella propria vita – varia di anno in anno.
Si tratta di un evento fondamentale, in quanto rappresenta il più grande mezzo di purificazione:  nel viaggio verso e attorno la Ka’aba, la “casa di Dio”, il fedele chiede perdono per i suoi peccati e viene purificato attraverso il suo pentimento e la celebrazione dei riti.
Il pellegrinaggio comincia infatti con la proclamazione delle sue intenzioni di compiere il rito spirituale e, quando giunge in un perimetro fissato attorno a La Mecca, la persona deve purificarsi attraverso un lavacro:  l’uomo deve indossare l’ihram, un indumento bianco privo di cuciture fatto di due pezzi di stoffa, la donna un semplice abito che lascia scoperti il viso e le mani.
Ognuno procede quindi con circonvoluzioni facendo sette volte il giro della Ka’aba, la costruzione a forma di cubo che si trova al centro de La Mecca e che costituisce il luogo più sacro dell’islam, in direzione della quale i musulmani pregano cinque volte al giorno.
Se può, tocca e bacia la pietra nera incrostata in uno degli angoli della Ka’aba, per l’occasione ricoperta dalla tradizionale kiswa.
In seguito i pellegrini si recano, raccolti in preghiera, nella valle di Mina, un piccolo villaggio disabitato a est della città.
Quindi lasciano Mina per ritrovarsi nella piana di Arafat per il wuquf, il rito centrale dell’hajj, il più intenso, caratterizzato da un’immobile meditazione.
In molti si riversano sul vicino monte della Misericordia, dove Maometto pronunciò il suo sermone d’addio.
Poi, tra Mina e Muzdalifah, si celebrano il rito del sacrificio (Aid al-Adha) – un montone, o una pecora, viene immolato a Dio ricordando l’obbedienza di Abramo pronto a uccidere uno dei figli pur di adempiere alla volontà del Creatore – e quello della lapidazione di Satana, attraverso il lancio di sette sassolini.
Il ritorno alla Ka’aba conclude il pellegrinaggio.
(©L’Osservatore Romano – 14 novembre 2010)

La nuova scuola del primo ciclo

LA SCUOLA DELL’INFANZIA La scuola dell’infanzia è il “primo segmento del percorso di istruzione” nella vita di una persona.
Si rivolge a tutti i bambini italiani e stranieri di età compresa fra i tre e i cinque anni.
Ha durata triennale e non è obbligatoria.
I suoi obiettivi: “Concorre all’educazione e allo sviluppo affettivo, psicomotorio, cognitivo, morale, religioso e sociale dei bambini promuovendone le potenzialità di relazione, autonomia, creatività apprendimento, e ad assicurare un’effettiva eguaglianza delle opportunità educative”.
Nel rispetto della responsabilità educativa dei genitori, la scuola dell’infanzia contribuisce alla formazione integrale dei bambini e realizza la continuità educativa con la scuola primaria.
LA SCUOLA PRIMARIA La scuola primaria è il primo segmento di istruzione obbligatoria.
Segue la scuola dell’infanzia e precede la secondaria di primo grado.
Si svolge in cinque anni e fornisce al bambino non solo l’alfabetizzazione, ma anche gli strumenti per sviluppare le competenze di base.
Le materie insegnate sono italiano, inglese, storia, geografia, matematica, scienze, tecnologia e informatica, arte, musica, scienze motorie e religione cattolica (non obbligatoria).
LA SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO La scuola secondaria di primo grado è la “vecchia” scuola media.
Il nuovo nome è stato introdotto dalla riforma Morati, nel 2003.
dura tre anni e la frequenza è obbligatoria.
Rappresenta la chiusura del primo ciclo dell’istruzione, e si conclude con l’esame di Stato per la licenza: di fatto, l’unica prova sopravvissuta nella scuola dell’obbligo.
La licenza di terza media è il prerequisito fondamentale per iscriversi alla secondaria di secondo grado.
Rispetto alla scuola elementare, ci sono ovviamente differenze nella didattica: se prima l’attenzione era rivolta agli elementi base della conoscenza, ora i bambini vengono messi di fronte a un corpo di discipline più strutturato e approfondito.
Il numero di materie aumenta, insieme con quello dei docenti, che sono tutti specialisti nel proprio settore.
Alla media, inoltre, viene introdotto l’insegnamento della seconda lingua comunitaria.
Per la consultazione dell’intero documento: la nuova scuola primaria.pdf 296K

62ma Assemblea generale dei vescovi italiani

La 62ª Assemblea Generale della CEI si è aperta nel pomeriggio dell’8 novembre 2010, ad Assisi, con la prolusione del Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI.
Subito dopo il Nunzio Apostolico in Italia, S.E.
Mons.
Giuseppe Bertello, ha letto ai Vescovi il saluto del Papa.
Il giorno seguente, dopo la Celebrazione Eucaristica nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, si è passati all’esame della prima parte dei materiali della terza edizione italiana del Messale Romano.
Il 10 novembre il Presidente della CEI presiederà la celebrazione eucaristica nella Basilica Inferiore di Assisi.
La riflessione dei Vescovi si porterà poi sul ruolo e i rapporti fra le Chiese e l’Unione Europea.
Sarà presentata una proposta di rilancio delle erogazioni liberali per il sostentamento del clero e il Libro bianco informatico delle opere realizzate grazie all’otto per mille.
Saranno fornite informazioni circa lo stato di avanzamento della rilevazione delle opere sanitarie e sociali ecclesiali in Italia, la XXVI Giornata mondiale della gioventù (Madrid, 16-21 agosto 2011), il XXV Congresso Eucaristico Nazionale (Ancona, 3-11 settembre 2011), il VII Incontro mondiale delle famiglie (Milano, 30 maggio – 3 giugno 2012).
Suddivisi in piccoli gruppi, i Vescovi si confronteranno sulle proposte di attuazione pratica degli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020, recentemente pubblicati.
   Comunicato Stampa 62a Assemblea Generale CEI.doc    Prolusione card.
Bagnasco
   Messaggio Benedetto XVI    Omelia Card.
Bagnasco
 Crociata: «Vescovi vicini al sentire della gente» Crociata: attenzione maggiore per la famiglia I vescovi italiani reclamano «un’attenzione maggiore e una cura più grande» nei confronti delle famiglia in una situazione economica nella quale «rischiano di essere quelle più dimenticate».
E ricordano che le scelte elettorali dei cattolici debbono basarsi su una attenta vautazione «delle prese di posizione e delle iniziative» dei partiti, nella quale il criterio suggerito dalla Chiesa è quello «culturale e valoriale, più e prima che direttamente politico».
Lo afferma il segretario della Cei,mons.
Mariano Crociata,  che nella prima conferenza stampa ad Assisi per fare il punto sui lavoro dell’assemblea della Conferenza episcopale, ha ricordato che la Cei è preoccupata per «i problemi concreti, quelli del lavoro, della disoccupazione, un dramma di cui le famiglie si fanno carico in tanti modi non trovando sostegno altrove».
Crociata ha sottolineato anche che  «chi è più in evidenza, chi sta più in primo piano ha un’incidenza maggiore, sul piano della comunicazione, per lo stile di vita e i valori».
Ma ha tenuto a prendere le distanze dalla ricerca di «capri espiatori» nell’uno o nell’altro dei partiti: «ad avere una rilevanza pubblica, a proiettare un’immagine pubblica siamo in tanti, a diversi livelli.
Anche noi vescovi, voi giornalisti, i vostri direttori».
«Solo così – ha scandito – il nostro discorso non è moralismo ma richiamo alle gravi responsabilità che tutti abbiamo nei confronti della collettività».
No allo scaricabarile delle responsabilità «Potrà apparire troppo generico, spero non qualunquistico – ha aggiunto il vescovo – ma ritengo che il senso della democrazia sia proprio questo sentirci tutti corresponsabili, anche se non nella stessa misura e modo».
«Se tante cose non funzionano – ha aggiunto – è perchè continuiamo a fare questo gioco di scarico delle responsabilità, la ricerca di un solo responsabile, di un capro espiatorio.
La prospettiva di un’antropologia negativa, di un cambiamento costume degli italiani è una cosa che tocca profondamente noi vescovi, una cosa che ci diciamo tra preti.
Ma dobbiamo anche dirci – ha detto ancora Crociata – che tutto questo non è il prodotto di una sola causa, per quanto le cause non sono tutte uguali.
Dobbiamo essere onesti nel guardare a tutte le cause nella loro articolazione, perchè solo così riusciremo ad affrontare i problemi».
Quanto alla nuova leva di politici cattolici richiesta da Benedetto XVI, Crociata ha confermato l’impegno della Chiesa per la formazione dei cattolici impegnati in politica che, ha detto, «deve essere rivisitato e riformulato nel nostro tempo che chiede risposte sempre nuove», mentre fin da subito «ci sono persone che hanno responsabilità pubblica ed hanno bisogno di essere accompagnati come credenti impegnati in politica.
Una presenza che – ha assicurato il presule – non vogliamo trascurare insieme all’accompagnamento di chi va avanti».
Vescovi vicini al sentire della gente I vescovi riuniti ad Assisi per la loro Assemblea straordinaria «si ritrovano – dunque – nell’orizzonte tracciato dal card.
Angelo Bagnasco nella sua prolusione di ieri con varietà e vivacità di voci ma con intento unitario e costante che trova nel magistero del Santo Padre un punto sentito di unità e di accordo».
Anche se è emersa, e non poteva essere altrimenti, una «varietà di sensibilità nell’unitarietà della premura» in quanto come è noto anche all’interno dell’Episcopato italiano oggi «lo spettro di sensibilità è abbastanza variegato».
Tutti i vescovi, comunque, «sono preoccupati di trovare nella radice pastorale del loro ministero la motivazione da cui partire e da tenere sempre presente per guardare ai problemi sociali, economici e culturali che il paese vive e che tutti stiamo attraversando».
Essi, del resto, «vivono un rapporto diretto con il territorio e la gente.
I loro interventi sono il riflesso della riflessione su quanto hanno ascoltato dal cardinale presidente Bagnasco e sui problemi di carattere nazionale, ma, nello stesso tempo, sono espressione di un’esperienza che raccoglie le domande, le attese, i problemi che la gente delle tante diocesi d’Italia si trova a vivere in una sintesi che permette di cogliere una nazione reale, un popolo cristiano molto unitario ma anche con molta complessità e varietà dei mille territori e comuni in cui si articola il Paese».
Ieri la prolusione del cardinale Bagnasco «La politica deve interessare i cattolici, e deve entrare nella loro mentalità un’attitudine a ragionare delle questioni politiche senza spaventarsi dei problemi seri che oggi, non troppo diversamente da ieri, sono sul tappeto».
È questo uno dei passi salienti della prolusione tenuta del card.
Angelo Bagnasco, presidente della Cei, alla 62ma Assemblea generale dei vescovi italiani, che si è aperta ieri, lunedì, ad Assisi, fino all’11 novembre.
Nel testo, il cardinale esorta i cattolici ad adottare in politica «un giudizio morale che non sia esclusivamente declamatorio, ma punti ai processi interni delle varie articolazioni e responsabilità sociali e istituzionali».
«Famiglie in difficoltà, adulti che sono estromessi dal sistema, giovani in cerca di occupazione stabile anche in vista di formare una propria famiglia»: queste, per il card.
Bagnasco, le «situazioni che continuano a farsi sentire», in tempo di crisi.
Di qui la richiesta che «le riforme in agenda siano istruite nelle maniere utili», in modo da assicurare «maggiore stabilità per il Paese intero».
Per quanto riguarda la «scena politica», il presidente della Cei parla di «caduta di qualità, che va soppesata con obiettività, senza sconti e senza strumentalizzazioni, se davvero si hanno a cuore le sorti del Paese, e non solamente quelle della propria parte».
  «Se la gente perde fiducia nella classe politica, fatalmente si ritira in se stessa», l’ammonimento della Cei, che in politica raccomanda una «tensione necessaria tra ideali personali, valori oggettivi e la vita vissuta, tra loro profondamente intrecciati».
Per i vescovi italiani, «non è più tempo di galleggiare», perché il rischio «è che il Paese si divida non tanto per questa o quella iniziativa di partito, quanto per i trend profondi che attraversano l’Italia e che, ancorandone una parte all’Europa, potrebbero lasciare indietro l’altra parte.
Il che sarebbe un esito infausto per l’Italia, proprio nel momento in cui essa vuole ricordare – a 150 anni dalla sua unità – i traguardi e i vantaggi di una matura coscienza nazionale».
Il presidente della Cei chiede quindi un «esame di coscienza» e propone di «convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione».
«Grande vicinanza», poi, nei confronti delle «popolazioni che di recente sono state colpite da esondazioni e allagamenti».
«Calamità naturali», ma anche «incuria e imperizia troppo spesso riservate all’habitat umano» dimostrano che l’Italia ha bisogno «di un piano puntuale di messa in sicurezza del territorio», cui va data priorità.
Aspettarci che i cattolici circoscrivano il loro apporto nell’ambito sempre importante della carità – ha ribadito il presidente della Cei – significa scadere in una visione utilitaristica, quando non anche autoritaria.
I cattolici non possono consegnarsi all’afasia, ideologica o tattica: se lo facessero tradirebbero le consegne di Gesù ma anche le attese specifiche di ogni democrazia partecipata.
«Dobbiamo muoverci senza complessi di inferiorità», questa l’esortazione del card.
Bagnasco: «Siamo, e come, interessati alla vita della società; in essa ci si coinvolge con stile congruo, ma a determinarci non solo l’istinto di far da padroni né le logiche di mera contrapposizione».
Di qui l’invito a reagire al «conformismo»: «Se i credenti conoscono solo le parole del mondo, e non dispongono all’occorrenza di parole diverse e coerenti, verranno omologati alla cultura dominante o creduta tale, e finiranno per essere anche culturalmente irrilevanti».
«La mitezza non è scambiabile con la mimetizzazione, l’opportunismo, la facile dimissione dal compito», ha proseguito il cardinale, che ha esortato a salvare «l’autonomia della coscienza credente rispetto alle pressioni pubblicitarie, ai ragionamenti di corto respiro, ai qualunquismi, alle lusinghe».
Cattolici «scomodi»? Talvolta forse sì, ma «non per posa o per pregiudizio, quanto per sofferta, umile, serena coerenza».
Infine Bagnasco chiede un «piano emergenziale sull’occupazione» messo a punto da governo, forze politiche, sindacati e parti sociali in spirito di collaborazione.
«È possibile – chiediamo rispettosi – convocare ad uno stesso tavolo governo, forze politiche, sindacati e parti sociali e, rispettando ciascuno il proprio ruolo ma lasciando da parte ciò che divide, approntare un piano emergenziale sull’occupazione? Sarebbe un segno – osserva Bagnasco – che il Paese non potrebbe non apprezzare».
Il messaggio del Papa: nella famiglia si plasma il volto di un popolo È all’interno della famiglia «che si plasma il volto di un popolo».
Per questo «è quanto mai opportuna» la scelta dei vescovi italiani di «chiamare a raccolta intorno alla responsabilità educativa tutti coloro che hanno a cuore la città degli uomini e il bene delle nuove generazioni».
E di porre questa «alleanza» accanto alla famiglia, al fine di riconoscerne e sostenerne «il primato educativo».
Lo scrive il Papa nel messaggio inviato ieri all’Assemblea dei vescovi italiani riuniti ad Assisi e letto in aula dal nunzio in Italia, monsignor Giuseppe Bertello.

Iraq, attentati contro cristiani

Secondo una fonte del ministero della Difesa iracheno, le vittime degli attacchi alle abitazioni dei cristiani a Baghdad nelle ultime 24 ore è di “sei morti e 33 feriti”.
Gli attentati hanno preso di mira anche una “chiesa, che è rimasta danneggiata”.
Diverge il bilancio anche sugli attentati di ieri sera: secondo il vicario episcopale siro-cattolico Mons.
Pios Kasha, nei attacchi contro tre abitazioni dei cristiani sono rimasti ferite tre persone, tra i quali un bimbo di quattro mesi.
Una fonte del ministero dell’Interno aveva riferito invece che gli attacchi, con ordigni artigianali, non avevano provocato vittime.
Gli attacchi arrivano dieci giorni dopo il massacro nella cattedrale siro-cattolica di Baghdad, costato la vita a 46 civili, fra cui due preti, e a sette agenti delle forze di sicurezza.
L’attentato è stato rivendicato dall’ala irachena di al Qaida, che aveva poi minacciato di colpire ancora i cristiani.
   La comunità cristiana di Baghdad, che contava 450 mila fedeli nel 2003, prima del rovesciamento del regime di Saddam Hussein, è ora calata a 150 mila a causa di un massiccio esodo verso i Paesi vicini, l’Europa, il Nord America e l’Australia.
L’appello dell’arcivescovo di Baghdad.
Un accorato appello al Papa, alla Chiesa universale e alla comunità internazionale è stato lanciato attraverso l’agenzia vaticana Fides, da monsignor Atanase Matti Shaba Matoka, arcivescovo siro-cattolico di Baghdad,  “Il terrore – ha detto Matoka – bussa alle nostre porte.
Vogliono cacciarci via, e ci stanno riuscendo.
Il paese è in preda alla distruzione e al terrorismo.
I cristiani soffrono sempre più e vogliono abbandonare il paese.
Non abbiamo più parole”.
Nonostante i proclami, il governo non fa nulla per fermare quest’ondata di violenza che ci travolge – denuncia l’arcivescovo – Ci sono poliziotti davanti alle chiese, ma oggi sono le case dei nostri fedeli a essere aggredite.
Sono state colpite famiglie cristiane caldee, siro-cattoliche, assire e di altre confessioni, nel distretto di Doura”.
Quindi ha affermato: “Un profondo sconforto avvolge la nostra comunità.
L’ondata di attacchi è sempre più forte.
Dieci giorni fa la strage nella nostra cattedrale.
Oggi hanno colpito le nostre case.
Le famiglie piangono, tutti vogliono fuggire.
È terribile”.
Bertone.
Il segretario di Stato vaticano, card.
Tarcisio Bertone, auspica che “le autorità irachene prendano in seria considerazione” la situazione dei cristiani nel Paese, dopo la nuova ondata di attacchi a Baghdad questa mattina.
Rispondendo alle domande dei giornalisti a margine della presentazione a Roma del primo bilancio della fondazione della Casa sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo, il “primo ministro” vaticano ha ricordato che “è una sofferenza indicibile quella delle comunità cristiane sparse nel mondo e in questo momento soprattutto in Iraq”.
L’attentato di oggi, ha proseguito, “è un fatto molto doloroso.
Stiamo riflettendo, come ha già fatto il Sinodo dei vescovi su questo grosso problema della persecuzione dei cristiani.
Questa sofferenza indicibile delle comunità cristiane sparse nel mondo è, in questo momento, soprattutto in Iraq.
Ma pensiamo anche ad altri paesi come il Pakistan e altri”.
Il Vaticano, ha spiegato Bertone, è “riconoscente perchè sia il governo francese che quello italiano hanno messo a disposizione mezzi per trasportare i feriti più gravi”.
Avvenire 9 11 2010

In visita in Spagna, Benedetto XVI

L’architetto Jordi Bonet mette a punto gli ultimi dettagli prima della visita di Benedetto XVI, domenica 7 novembre.
Sicurezza, acustica, visibilità, tutto dev’essere perfetto perché la Sagrada Familia, chiesa cattolica e monumento simbolo di Barcellona, riceva la consacrazione del papa.
In costruzione da centoventotto anni e sempre incompiuto, il luogo sarà aperto al culto (fino ad ora le messe erano celebrate nella cripta) e la chiesa diventerà basilica.
Il monumento di 4500 metri quadrati accoglierà domenica 7000 persone e 700 coristi, spiega Bonet.
È capo architetto da ventisei anni.
“Il numero sette”, precisa, in riferimento al numero di architetti che si sono succeduti dopo la morte di Gaudi nel 1926, ognuno dei quali ha seguito fedelmente le istruzioni e i plastici lasciati dal maestro.
“Non pensavo che un giorno avrei potuto vedere l’interno della chiesa terminato”, ammette commosso quest’uomo di 84 anni, prima di sottolineare l’importanza della consacrazione della chiesa.
“La gente finiva per considerarla un parco di attrazioni…”.
Ora, durante la giornata, ogni mezz’ora, tre minuti di musica d’organo verrà a ricordare ai 2,5 milioni di visitatori annuali che la Sagrada Familia è anche un luogo di preghiera.
Il completamento di quest’opera faraonica nata dall’immaginazione dell’architetto modernista catalano Antoni Gaudi dovrebbe durare ancora quindici anni: il tempo di finire la torre-lanterna centrale dedicata a Cristo, che dominerà la città, a 170 metri d’altezza.
“Gaudi era un uomo molto devoto che voleva che la sua opera riflettesse la sua fede.
Ha concepito tutto il tempio come una catechesi.
Tutto ciò che è costruito esprime e spiega il contenuto della Bibbia”, ricordano all’arcivescovado di Barcellona, che gestisce la chiesa attraverso una fondazione, alimentata da donatori privati e dalle entrate.
Ma per organizzare la visita papale, la Catalogna ha dovuto sborsare un ammontare rimasto segreto, cosa che non a tutti è piaciuta.
Giovedì circa 3000 persone hanno manifestato a Barcellona per la difesa della laicità e contro l’uso di denaro pubblico per accogliere il papa.
Il loro slogan: “Io non ti aspetto”.
Altre manifestazioni sono previste in margine alla visita: omosessuali invitati ad abbracciarsi lungo il corteo papale, conferenza sulla “Santa Mafia: l’impero economico della Chiesa”e altri raduni di femministe “peccatrici”.
A poche settimane dalle elezioni catalane, il 28 novembre, i partiti politici cercano di sfruttare politicamente l’avvenimento.
La consacrazione del monumento catalano più conosciuto al mondo serve di pretesto ai manifestanti nazionalisti.
Il sindaco di Barcellona, Joan Herreu, del Partito socialista catalano (PSC), ha invitato i suoi concittadini ad appendere ai balconi bandiere catalane.
Un manifesto catalano di sostegno e di benvenuto al papa firmato da 36 personalità, tra cui i principali dirigenti di Convergencia i Unio (CiU), partito nazionalista dato per vincitore alle prossime elezioni, è stato inserito questa settimana nel quotidiano italiano Corriere della Sera.
Ricorda che la Catalogna è “una terra con coscienza di nazione” e fa riferimento alla decisione del papa di ufficiare in catalano, oltre che in latino ed in spagnolo.
Il capo del governo, il socialista José Luis Rodriguez Zapatero, non si recherà alla messa celebrata dal papa, che incontrerà invece all’aeroporto di Barcellona, prima della sua partenza.
La legge sul matrimonio omosessuale e la recente liberalizzazione dell’aborto hanno raffreddato le relazioni tra la Chiesa e Madrid.
Sono provvedimenti che hanno fatto scendere in piazza centinaia di migliaia di cattolici, guidati da un clero rappresentato dal conservatore arcivescovo di Madrid, presidente della conferenza episcopale.
In questi due giorni, il papa non mancherà di ricordare le posizioni della Chiesa sull’aborto e sulla famiglia.
In prossimità del viaggio, il Vaticano ha tuttavia definito “corrette” le sue relazioni con il governo spagnolo.
Ma al di là delle considerazioni politiche, il papa si reca soprattutto in un paese di forte tradizione cattolica in via di scristianizzazione.
Per questo viaggio lampo sottolinea ancora una volta la sua preoccupazione per le società europee segnate da una diminuzione della pratica della fede cattolica.
Secondo il Centro di investigazione sociale (CIS), mentre l’80% degli spagnoli si dichiarava cattolico otto anni fa, oggi la fa solo il 72%; il 13% si dichiara praticante ma il 25% dice ormai di essere ateo.
E, nel 2009 il numero dei matrimoni civili ha superato per la prima volta quello dei matrimoni religiosi.
A San Giacomo di Compostela sabato, e a Barcellona domenica, Benedetto XVI avrà l’occasione di mettere in guardia contro il “laicismo” e la secolarizzazione dell’Europa, dimentica, a suo avviso, delle sue radici cristiane.
Ne ha fatto una delle priorità del suo pontificato.
Il papa tornerà in Spagna nell’agosto 2011, per celebrare le Giornate mondiali della gioventù, organizzate e Madrid in “Le Monde” del 7 novembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)  Iniziato da Santiago de Compostela il secondo viaggio di Benedetto XVI in Spagna Possibile in Europa l’incontro tra fede e laicità  Verità sull’uomo, libertà rispettosa, giustizia per tutti a cominciare dai più poveri:  il Papa indica alla Spagna e all’Europa le coordinate su cui edificare il presente e progettare il futuro.
Da Santiago de Compostela, dove è giunto sabato mattina, 6 novembre, Benedetto XVI rilancia la sua convinzione che l’uomo europeo non debba chiudersi nell’orizzonte ristretto del contingente ma aprirsi alla trascendenza, preoccupandosi delle necessità materiali, di quelle morali e sociali, di quelle spirituali e religiose.
Perché – dice al suo arrivo nel capoluogo galiziano – “tutte queste sono esigenze autentiche dell’uomo” e solo in questo modo “si opera in modo efficace, integro e fecondo per il suo bene”.
Così il Papa entra subito nel vivo di un viaggio che egli stesso si incarica di spiegare e di motivare ai giornalisti in volo verso la Spagna.
Si tratta di un cammino – rivela – alla ricerca della fede, per ritrovare in essa il senso della bellezza espresso nella sua forma più alta dall’arte.
Un itinerario che dimostra la possibilità per la fede stessa di entrare in contatto con il mondo di oggi.
“Essere in cammino – confida – è iscritto nella mia biografia”.
Nelle risposte alle domande poste a nome dei cronisti dal direttore della Sala Stampa della Santa Sede, il gesuita Federico Lombardi, il Pontefice anticipa le tematiche delle due fitte giornate in terra spagnola:  il senso del pellegrinaggio; il significato della consacrazione della basilica della Sagrada Familia, capolavoro di Antoni Gaudí; le difficoltà che attraversa l’istituzione familiare; l’efficacia del binomio fede e cultura; la nuova evangelizzazione dell’Europa.
In particolare Benedetto XVI indica nell’esperienza del pellegrinaggio il paradigma della vita dell’uomo alla continua ricerca di Dio.
Essere pellegrino – afferma – è l’essenza della nostra fede.
In questa prospettiva, l’itinerario compostelano è significativo perché ricorda i passi delle moltitudini di fedeli che hanno diffuso la fede cristiana in Europa e, in un certo senso, l’hanno profondamente rinnovata.
Così anche oggi – aggiunge il Papa – si avverte il bisogno di ritrovarsi, di camminare insieme per riscoprire Dio e rinnovare il vecchio continente.
Della necessità di “segni” per il nostro tempo il Pontefice parla riferendosi in particolare alla consacrazione della Sagrada Familia a Barcellona.
E ricorda che tra i motivi ispiratori del genio di Gaudí c’era la volontà di operare una sintesi fra continuità e novità, fra tradizione e creatività.
Il grande architetto catalano – sottolinea – ha avuto il coraggio di inserirsi nella tradizione artistica delle grandi cattedrali e di tradurla in splendida novità, racchiudendo nella sua opera natura, Scrittura e liturgia.
In questo processo di rinnovamento nella continuità si inserisce anche la famiglia, che oggi – riconosce il Papa – ha bisogno di essere rinnovata nella fedeltà alla sua essenza di cellula fondamentale della società.
Proprio per il suo ruolo specifico, essa rappresenta il nucleo fondamentale intorno al quale ricostruire una convivenza civile dove non ci sia spazio per contrapposizioni artificiose tra religione e società.
Per il futuro dell’uomo – si dice certo Benedetto XVI – occorre un incontro e non uno scontro tra fede e laicità, anche laddove le spinte della secolarizzazione si avvertono in forme più aggressive.
Una persuasione, questa, ribadita successivamente durante la visita alla cattedrale compostelana.
La Chiesa – assicura il Papa – “desidera servire con tutte le sue forze la persona umana e la sua dignità”, consapevole che la verità è la condizione per un’autentica libertà.
Servire i fratelli infatti – ribadisce nel pomeriggio celebrando la messa nella piazza dell’Obradoiro – non è per il cristiano una semplice opzione ma una parte essenziale del proprio essere.
Da qui l’appello all’Europa perché sia capace di aprirsi alla trascendenza e alla fraternità:  solo avendo cura di Dio, infatti, si può anche avere cura dell’uomo.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2010)   In cammino Il viaggio in Spagna di Benedetto XVI esprime simbolicamente la realtà più profonda degli itinerari che il vescovo di Roma compie nel mondo.
A dirlo è stato il Papa stesso, nel consueto incontro con i giornalisti, durante il volo che l’ha portato a Santiago de Compostela, quando ha ricordato che il cammino – iscritto nella sua biografia personale già con le tappe in diverse università tedesche – rappresenta l’esperienza di ogni credente.
Nell’instabilità inevitabile della vita e nel passaggio su questo mondo, la fede è infatti innanzi tutto pellegrinaggio, espresso, per chi crede, dalla figura esemplare di Abramo.
Nel medioevo, i diversi cammini di Compostela – quella “via lattea” sulla terra indicata in cielo dal biancore delle stelle – hanno formato spiritualmente l’Europa.
E anche oggi il camino è percorso da chi affronta il pellegrinaggio (o semplicemente la via) per dare il rituale abbraccio al señor Santiago e così lasciarsi abbracciare da Dio stesso.
Come ha fatto il Pontefice nella meravigliosa cattedrale romanica e barocca profumata dall’incenso del botafumeiro, pellegrino insieme a tantissimi altri nella storia e nell’attualità, in un continente e in un mondo che tante volte sembrano dimentichi di Dio ma in realtà ne hanno nostalgia.
Nella visione del Papa infatti il cammino indica proprio questo:  l’uscita dalla quotidianità e dalla logica dell’utile, per trascenderle e trovare una nuova libertà.
Tra Santiago e Barcellona – dove svettano le guglie della Sagrada Familia – il nuovo itinerario di Benedetto XVI si muove fra tradizione e rinnovamento creativo, tra verità e bellezza, secondo la dinamica espressa in modo mirabile e visionario da Antoni Gaudí nel tempio espiatorio a cui lavorò per tutta la vita.
L’edificio, la cui consacrazione è all’origine dell’itinerario papale, è nato dalla devozione ottocentesca a san Giuseppe (il patrono di Joseph Ratzinger) e alla Sacra Famiglia, e anche oggi esprime nell’arte la centralità e l’importanza dell’istituzione familiare, realtà importante non solo per i cattolici, ma per l’intera società, che su di essa si fonda.
Se la ricerca dell’incontro tra fede e arte, parallelo a quello tra fede e ragione, segna la storia cristiana sin dai primi secoli, restando urgente nel tormentato panorama della contemporaneità, a un altro incontro – ha detto il Papa ai giornalisti – deve guardare oggi la Chiesa nel mondo occidentale caratterizzato dal secolarismo:  è quello tra fede e laicità.
In molti Paesi europei, come nella Spagna di oggi, superando la logica dello scontro prevalsa in alcuni periodi dell’Ottocento e del Novecento e che talvolta si riaccende nell’intolleranza.
Ha naturalmente colpito la circostanza di questo ritorno in Spagna di Benedetto XVI dopo la visita a Valencia nel 2006, e mentre già si prepara la giornata mondiale della gioventù di Madrid.
Un segno di amore per il Paese lo ha definito il Papa, sottolineando che le circostanze di questi viaggi mostrano una realtà più profonda:  la forza e il dinamismo attuali della fede in una terra storicamente cristiana.
Il Paese, che nel Cinquecento con “una pleiade di grandi santi” ha saputo rinnovare e dare forma al cattolicesimo moderno, vuole oggi continuare a proporre la via di Cristo, nell’ottica di una “universalità senza confini” rappresentata da Compostela, che nel medioevo era alle sponde dell’oceano, finis terrae.
Per questo il vescovo di Roma, accolto da un calore che ha dissipato la nebbia autunnale, prosegue nella comunione della Chiesa il suo cammino.
g. m. v.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2010)   La cerimonia di benvenuto all’aeroporto internazionale di Santiago de Compostela La Chiesa è trasparenza di Cristo in mezzo agli uomini Benedetto XVI è giunto nella mattina di sabato 6 novembre a Santiago de Compostela, prima tappa del suo diciottesimo viaggio internazionale.
Il velivolo con a bordo il Papa è atterrato intorno alle 11.20 all’aeroporto internazionale della città galiziana, dove si è svolta la cerimonia di benvenuto.
Dopo il saluto rivoltogli dal principe delle Asturie, il Pontefice ha pronunciato il primo discorso in terra spagnola.
Eccone qui di seguito il testo.
Pubblichiamo una nostra traduzione italiana del discorso del Papa.
Altezze Reali, Distinte Autorità Nazionali, Regionali e Locali, Signor Arcivescovo di Santiago di Compostela, Signor Cardinale Presidente della Conferenza Episcopale Spagnola, Signori Cardinali e Fratelli nell’Episcopato, Cari fratelli e sorelle, Amici tutti.
Grazie, Altezza, per le deferenti parole che mi ha rivolto a nome di tutti, e che sono l’eco profondo dei sentimenti di affetto verso il Successore di Pietro dei figli e delle figlie di queste nobili terre.
Saluto cordialmente coloro che sono qui presenti e tutti quelli che si uniscono a noi attraverso i mezzi di comunicazione sociale, ringraziando anche quanti hanno collaborato generosamente, ai diversi livelli ecclesiale e civile, perché questo breve ma intenso viaggio a Santiago di Compostela e Barcellona sia molto fruttuoso.
 Nel più profondo del suo essere, l’uomo è sempre in cammino, è alla ricerca della verità.
La Chiesa partecipa a questo anelito profondo dell’essere umano e si pone essa stessa in cammino, accompagnando l’uomo che anela alla pienezza del proprio essere.
Allo stesso tempo, la Chiesa compie il proprio cammino interiore, quello che la conduce attraverso la fede, la speranza e l’amore, a farsi trasparenza di Cristo per il mondo.
Questa è la sua missione e questo è il suo cammino:  essere sempre più, in mezzo agli uomini, presenza di Cristo, “il quale per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione” (1 Cor 1, 30).
Perciò, anch’io mi sono messo in cammino per confermare nella fede i miei fratelli (cfr.
Lc 22, 32).
Vengo come pellegrino in questo Anno Santo Compostelano e porto nel cuore lo stesso amore a Cristo che spingeva l’Apostolo Paolo a intraprendere i suoi viaggi, con l’anelito di giungere anche in Spagna (cfr.
Rm 15, 22-29). Desidero unirmi così alla grande schiera di uomini e donne che, lungo i secoli, sono venuti a Compostela da tutti gli angoli della Penisola Iberica e d’Europa, e anzi del mondo intero, per mettersi ai piedi di san Giacomo e lasciarsi trasformare dalla testimonianza della sua fede.
Essi, con le orme dei loro passi e pieni di speranza, andarono creando una via di cultura, di preghiera, di misericordia e di conversione, che si è concretizzata in chiese e ospedali, in ostelli, ponti e monasteri.
In questa maniera, la Spagna e l’Europa svilupparono una fisionomia spirituale marcata in modo indelebile dal Vangelo.
Proprio come messaggero e testimone del Vangelo, andrò anche a Barcellona, per rinvigorire la fede del suo popolo accogliente e dinamico.
Una fede seminata già agli albori del cristianesimo, e che germinò e crebbe al calore di innumerevoli esempi di santità, dando origine a tante istituzioni di beneficienza, cultura ed educazione.
Fede che ispirò il geniale architetto Antoni Gaudí a intraprendere in quella città, con il fervore e la collaborazione di molti, quella meraviglia che è la chiesa della Sacra Famiglia.
Avrò la gioia di dedicare quella chiesa, nella quale si riflette tutta la grandezza dello spirito umano che si apre a Dio.
Provo una gioia profonda nell’essere di nuovo in Spagna, che ha dato al mondo una moltitudine di grandi Santi, fondatori e poeti, come Ignazio di Loyola, Teresa di Gesù, Giovanni della Croce, Francesco Saverio, fra tanti altri; Spagna che nel secolo xx ha suscitato nuove istituzioni, gruppi e comunità di vita cristiana e di azione apostolica e, negli ultimi decenni, cammina in concordia e unità, in libertà e pace, guardando al futuro con speranza e responsabilità.
Mossa dal suo ricco patrimonio di valori umani e spirituali, cerca pure di progredire in mezzo alle difficoltà e offrire la sua solidarietà alla comunità internazionale.
Questi apporti e iniziative della vostra lunga storia, e anche di oggi, insieme al significato di questi due luoghi della vostra bella geografia che visiterò in questa occasione, mi spronano ad allargare il mio pensiero a tutti i popoli di Spagna e d’Europa.
Come il Servo di Dio Giovanni Paolo ii, che da Compostela esortò il Vecchio Continente a dare nuovo vigore alle sue radici cristiane, anch’io vorrei esortare la Spagna e l’Europa a edificare il loro presente e a progettare il loro futuro a partire dalla verità autentica dell’uomo, dalla libertà che rispetta questa verità e mai la ferisce, e dalla giustizia per tutti, iniziando dai più poveri e derelitti.
Una Spagna e un’Europa non solo preoccupate delle necessità materiali degli uomini, ma anche di quelle morali e sociali, di quelle spirituali e religiose, perché tutte queste sono esigenze autentiche dell’unico uomo e solo così si opera in modo efficace, integro e fecondo per il suo bene.
Cari amici, vi ripeto la mia gratitudine per il vostro cordiale benvenuto e la vostra presenza in questo aeroporto.
Rinnovo il mio affetto e la mia vicinanza agli amatissimi figli di Galizia, di Catalogna e degli altri popoli della Spagna.
Nell’affidare all’intercessione di san Giacomo Apostolo la mia presenza tra voi, supplico Dio che giunga a tutti la sua benedizione.
Molte grazie.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2010)   La visita di Benedetto XVI alla cattedrale di Santiago de Compostela Senza verità non c’è autentica libertà Nella tarda mattinata di sabato 6 novembre il Papa ha visitato la cattedrale di Santiago de Compostela, per pregare davanti alla tomba dell’apostolo Giacomo.
Dopo il saluto rivoltogli dall’arcivescovo Julián Barrio Barrio, il Pontefice ha pronunciato il seguente discorso.
Di seguito una nostra traduzione italiana del discorso del Papa.
Signori Cardinali, Cari Fratelli nell’Episcopato, Distinte Autorità, Cari sacerdoti, seminaristi, religiosi e religiose, Cari fratelli e sorelle, Amici tutti.
Ringrazio Monsignor Julián Barrio Barrio, Arcivescovo di Santiago di Compostela, per le cortesi parole che mi ha appena rivolto e alle quali rispondo con piacere, salutando tutti con affetto nel Signore e ringraziandovi per la vostra presenza in questo luogo così significativo.
Andare in pellegrinaggio non è semplicemente visitare un luogo qualsiasi per ammirare i suoi tesori di natura, arte o storia.
Andare in pellegrinaggio significa, piuttosto, uscire da noi stessi per andare incontro a Dio là dove Egli si è manifestato, là dove la grazia divina si è mostrata con particolare splendore e ha prodotto abbondanti frutti di conversione e santità tra i credenti.
I cristiani andarono in pellegrinaggio, anzitutto, nei luoghi legati alla passione, morte e resurrezione del Signore, in Terra Santa.
Poi a Roma, città del martirio di Pietro e Paolo, e anche a Compostela, che, unita alla memoria di san Giacomo, ha accolto pellegrini di tutto il mondo, desiderosi di rafforzare il loro spirito con la testimonianza di fede e amore dell’Apostolo.
In questo Anno Santo Compostelano, come Successore di Pietro, ho voluto anch’io venire in pellegrinaggio alla Casa del “Señor Santiago” (san Giacomo ndt.), che si appresta a celebrare l’anniversario degli ottocento anni dalla sua consacrazione, per confermare la vostra fede e ravvivare la vostra speranza, e per affidare all’intercessione dell’Apostolo i vostri aneliti, fatiche e opere per il Vangelo.
Nell’abbracciare la sua venerata immagine, ho pregato anche per tutti i figli della Chiesa, che ha la sua origine nel mistero di comunione che è Dio.
Mediante la fede, siamo introdotti nel mistero di amore che è la Santissima Trinità.
Siamo, in un certo modo, abbracciati da Dio, trasformati dal suo amore.
La Chiesa è questo abbraccio di Dio nel quale gli uomini imparano anche ad abbracciare i propri fratelli, scoprendo in essi l’immagine e somiglianza divina, che costituisce la verità più profonda del loro essere, e che è origine della vera libertà.
Tra verità e libertà vi è una relazione stretta e necessaria.
La ricerca onesta della verità, l’aspirazione ad essa, è la condizione per un’autentica libertà.
Non si può vivere l’una senza l’altra.
La Chiesa, che desidera servire con tutte le sue forze la persona umana e la sua dignità, è al servizio di entrambe, della verità e della libertà.
Non può rinunciare ad esse, perché è in gioco l’essere umano, perché la spinge l’amore all’uomo, “il quale in terra è la sola creatura che Iddio abbia voluto per se stessa” (Gaudium et spes, 24), e perché senza tale aspirazione alla verità, alla giustizia e alla libertà, l’uomo si perderebbe esso stesso.
Permettetemi che da Compostela, cuore spirituale della Galizia e, allo stesso tempo, scuola di universalità senza confini, esorti tutti i fedeli di questa cara Arcidiocesi, e tutti quelli della Chiesa in Spagna, a vivere illuminati dalla verità di Cristo, professando la fede con gioia, coerenza e semplicità, in casa, nel lavoro e nell’impegno come cittadini.
Che la gioia di sentirvi figli amati di Dio vi spinga anche ad una amore sempre più profondo per la Chiesa, collaborando con essa nella sua opera di portare Cristo a tutti gli uomini.
Pregate il Padrone della messe, perché molti giovani si consacrino a questa missione nel ministero sacerdotale e nella vita consacrata:  oggi, come sempre, vale la pena dedicarsi per tutta la vita a proporre la novità del Vangelo.
Non voglio concludere senza prima esprimere felicitazione e ringraziamento a tutti i cattolici spagnoli per la generosità con la quale sostengono tante istituzioni di carità e di promozione umana.
Non stancatevi di mantenere queste opere, che apportano beneficio a tutta la società, e la cui efficacia si è manifestata in modo speciale nell’attuale crisi economica, così come in occasione delle gravi calamità naturali che hanno colpito vari Paesi.
Con questi sentimenti, prego l’Altissimo che conceda a tutti l’audacia che ebbe san Giacomo per essere testimone di Cristo Risorto, e così rimaniate fedeli nei cammini della santità e vi spendiate per la gloria di Dio e il bene dei fratelli più abbandonati.
Molte grazie.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2010)   All’arrivo in Galizia l’incontro con il principe ereditario e la preghiera sulla tomba dell’apostolo Giacomo Alla sorgente del fiume di spiritualità che ha reso fertile l’Europa cristiana dal nostro inviato Mario Ponzi Benedetto XVI vive a Santiago de Compostela un’emozione che ha radici antiche.
Nella città di san Giacomo, ai piedi della “Collina della Gioia”, il monte Gozo, nel cuore della Galizia, ha pregato alla sorgente di quel fiume di spiritualità che ha reso fertile l’anima cristiana dell’Europa.
Una fonte alla quale da decenni giungono schiere di fedeli, seguendo un cammino divenuto patrimonio storico dell’umanità.
Essere a Santiago de Compostela per il Papa significa però anche vivere uno di quei ricordi che, come spesso gli accade, lo rimandano alla sua gioventù.
Con suo fratello, monsignor Georg Ratzinger, aveva più volte progettato di percorrere insieme il cammino di Santiago:  un progetto mai giunto a compimento per motivi diversi.
Indubbiamente c’era anche questo nella soddisfazione mostrata dal Papa mentre serrava le braccia attorno al busto della grande statua di san Giacomo.
Un gesto usuale per ogni pellegrino che viene a Santiago.
Come usuale è nella cripta compostelana il riecheggiare della preghiera della Chiesa universale, modulata sulle rime di quella elevata in questo stesso luogo il  7 novembre 1982 da Giovanni Paolo ii:  “Veniamo qui come pellegrini di tutti i cammini del mondo.
Ora vieni con noi all’incontro di tutti i popoli.
Europa ritrova te stessa”.
Ed è forse proprio in questa preghiera il significato più profondo delle poco meno di otto ore che il Papa trascorre in terra galiziana.
 È un viaggio eminentemente pastorale quello iniziato sabato mattina 6 novembre, da Benedetto XVI.
Oltre Santiago de Compostela – dove con la sua presenza il Papa ha inteso onorare la ricorrenza del giubileo giacobeo celebrato il 25 luglio scorso – c’è Barcellona, pronta a vivere una cerimonia attesa da decenni, la consacrazione del simbolo cattolico della Catalogna, la Sagrada Familia.
Il protocollo stesso della visita è stato concepito in modo snello.
Accompagnano Benedetto XVI, oltre al segretario di Stato Tarcisio Bertone, i cardinali spagnoli di curia Cañizares Llovera, Martínez Somalo e Herranz Casado; il sostituto, arcivescovo Filoni; i monsignori Gänswein, segretario particolare, Xuereb, della segreteria particolare; Chica Arellano, officiale della segreteria di Stato; Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche, con i cerimonieri Krajewski e Karcher; il gesuita Federico Lombardi, il medico personale del Pontefice Polisca; l’organizzatore dei viaggi papali Gasbarri e il direttore del nostro giornale.
All’aeroporto internazionale di Lavacolla – dove il velivolo con a bordo il Papa è atterrato attorno alle 11.20 di sabato – Benedetto XVI è stato accolto dal principe delle Asturie Felipe, con la consorte.
Già dalle prime parole, pronunciate all’aeroscalo, il Papa ha lasciato intuire il senso del suo pellegrinare fino a questo luogo, un tempo ritenuto finis terrae.
Parla alla Spagna e all’Europa.
Le invita a edificare il presente e a progettare il futuro “a partire dalla verità autentica dell’uomo, dalla libertà che rispetta questa verità e mai la ferisce”.
Il Papa ribadisce così lo stretto rapporto tra verità e libertà, da lui stesso più volte sottolineato a cominciare dalle pagine della Caritas in veritate, per ripetere che la Chiesa abbraccia entrambe “per servire con tutte le sue forze l’uomo e la sua dignità”.
Un concetto che il Pontefice ha ripetuto più tardi nella cattedrale di Santiago, dove è giunto dopo aver percorso undici chilometri in papamobile, accompagnato dall’arcivescovo Barrio Barrio, dal nunzio apostolico in Spagna, arcivescovo Fratini, e dal presidente della Conferenza episcopale spagnola, il cardinale Rouco Varela.
Lungo il percorso sino a Piazza dell’Immacolata – il luogo del primo appuntamento con la città – la popolazione di Santiago e di buona parte della Galizia si è stretta in massa attorno a lui.
Non si è presentata come una folla anonima.
Ogni tratto dell’itinerario era caratterizzato da una presenza ben identificata:  ai parrocchiani della vicaria di Santiago, come annunciava il primo striscione visibile appena fuori dall’aeroscalo, all’imbocco della carretera 634, l’onore di inaugurare il clima festante.
Più avanti, nella zona della casa per anziani “Asilo di san Marco”, i parrocchiani delle vicarie di Coruña e di Pontevedra.
Nei pressi di Porta Europa si è udito il suono delle gaitas, le famose cornamuse celtiche, suonate da un complesso che indossava i caratteristici costumi neri.
Nei pressi di un grande prato avevano sistemato cannoni di quelli usati per sparare la neve:  lanciavano coriandoli bianchi.
Oltre la porta c’erano i parrocchiani di San Lazaro, di Fotiña, di Os Tilos, e poi studenti di collegi, di scuole cattoliche e pubbliche:  è stato proclamato un giorno di festa per consentire a tutti di vedere il Papa.
E ancora, in località as Cancelas davanti alla parrocchia di San Gaetano, i rappresentanti di tutte le altre parrocchie del centro storico cittadino.
Gremite anche piazza dell’Immacolata e le vie adiacenti.
Tanto che la papamobile ha dovuto fare un giro completo attorno al complesso arcivescovile perché tutti potessero vedere Benedetto XVI.
La ricorrenza giubilare gli ha consentito di entrare in cattedrale attraverso la porta santa.
All’interno lo attendevano, oltre ai membri del capitolo, una folta rappresentanza dell’arcidiocesi, composta da bambini che si stanno preparando a ricevere la prima comunione, insieme con i loro catechisti, alcuni ospiti dell’asilo per anziani “San Marco”, altri del Cottolengo di Santiago, un gruppo di malati e infine i rappresentanti del consiglio pastorale dell’arcidiocesi.
Prima di raggiungerli, il Papa ha compiuto l’ultimo tratto del “cammino”, con la cappa del pellegrino sulle spalle.
È stato un momento intenso.
Come suggestivo è stato il rito del “botafumeiro” con il quale si è conclusa la visita alla cattedrale compostelana.
Si tratta di un’usanza che si rinnova durante le celebrazioni solenni:  un gigantesco turibolo è appeso al soffitto con delle corde.
Riempito di incenso e acceso, viene fatto oscillare lungo l’asse della navata centrale da alcuni addetti.
È uno spettacolo che ha visibilmente impressionato anche il Papa.

I cristiani spariranno dal Medio Oriente?

La presa in ostaggio di cristiani conclusasi, domenica 31 ottobre, con la morte di 46 fedeli siriacocattolici in una chiesa di Bagdad provocherà una nuova fuga di cristiani dall’Iraq? È ciò che temono alcuni responsabili religiosi del paese.
“Non abbiamo più il nostro spazio qui.
Tutti se ne andranno”, ha affermato il vicario episcopale di Bagdad, Mons.
Pios Kasha, il giorno dopo l’attacco.
Per quindici giorni, in ottobre, il Vaticano si è occupato della sorte di queste minoranze cristiane, col timore di “un esodo mortale”.
Quarantacinque anni fa, durante la sua visita storica in Terra santa, papa Paolo VI aveva già espresso il timore che “i luoghi santi si trasformino in musei” dopo la “scomparsa” dei cristiani d’Oriente che figurano tra le più antiche comunità cristiane del mondo.
“Certi osservatori predicono che nel prossimo secolo la Terra santa potrebbe essersi completamente svuotata dei suoi cristiani”, scrive René Guitton, in Ces chrétiens qu’on assassine (Flammarion, 2009).
dati incerti Di fronte a questi timori, le realtà sono differenziate.
I paesi più colpiti dalle partenze sono tra i più instabili della regione.
L’Iraq, che sembra abbia perso quasi la metà della sua popolazione cristiana in una ventina d’anni, il Libano e i territori palestinesi occupati forniscono i maggiori flussi di migrazione.
Ma sia per i cristiani sul posto, che per quelli che emigrano o per quelli che ritornano al paese, i numeri e le percentuali sono difficili da stabilire con precisione.
In Egitto, il numero di Copti varia da un certo numero al suo triplo, a seconda che si faccia riferimento alle statistiche governative o a quelle delle autorità religiose.
Queste ultime affermano che, da dieci anni, “sono emigrati 1,5 milioni di Copti, principalmente verso gli Stati Uniti o il Canada”, riferisce René Guitton.
In generale tutti ammettono che in un secolo la proporzione di cristiani nella regione abbia continuato a diminuire: oggi rappresenterebbero solo dal 3% al 6% delle popolazioni locali (dal 15% al 20% all’inizio del XX secolo), eccezion fatta per il Libano, dove i cristiani costituiscono ancora una forte minoranza.
La tendenza si spiega sia con l’esodo, sia con la natalità più bassa delle famiglie cristiane.
numerose diaspore Nel XIX secolo i cristiani della Siria, del Libano o della Palestina sono espatriati raggiungendo l’Europa o l’America latina.
Ad esempio, in Cile vivono circa 300 000 palestinesi, e il 10% degli argentini sono di origine siro-libanese.
Oggi, chi può, raggiunge gruppi già stabiliti in Europa, negli Stati Uniti, in Canada, nell’America meridionale o in Australia.
I cristiani dell’Iraq, invece, sono costretti a lasciare le loro città per ragioni di sicurezza e talvolta in tutta fretta.
Alcuni raggiungono le province kurde del nord del paese, con il rischio di crearvi una enclave etnico-religiosa.
Fino ad ora questa regione offre delle condizioni di vita più sicure.
Altri hanno raggiunto la Siria o la Giordania, paesi che, man mano che passano gli anni, si mostrano meno accoglienti.
Una parte dei candidati all’esilio va anche verso l’Occidente.
La Francia e la Germania, in questi ultimi due anni, hanno accolto diverse migliaia di cristiani iracheni minacciati nel loro paese.
le cause dell’esodo “I cristiani emigrano per ragioni economiche, a causa dell’instabilità della regione e dei conflitti”, ha riassunto il patriarca di Alessandria dei Copti, Antonios Naguib, in margine al sinodo di ottobre.
L’erosione si spiega per un insieme di ragioni: economiche, politiche, di sicurezza, demografiche, religiose.
Il conflitto israelo-palestinese e la politica delle grandi potenze occidentali nella regione appaiono come una della principali fonti di questo esodo.
Al di là del contesto di insicurezza, i cristiani pagano a volte la loro supposta vicinanza agli Occidentali.
In Iraq, la relativa protezione di cui hanno goduto sotto Saddam Hussein ha anche alimentato delle tensioni tra le varie comunità, secondo Guitton.
Ma da qualche anno, il clero e i fedeli parlano soprattutto dell’islamizzazione crescente delle società nelle quali vivono.
“I musulmani non distinguono religione e politica”, ricordavano i vescovi durante il sinodo.
Al di là della diffusione dell’islam radicale o del terrorismo islamista, attivo particolarmente in Iraq, le comunità in loco ritengono che il confronto con un islam più affermato e identitario rende difficile mantenere una cultura e una pratica cristiana.
Infine, spesso meglio istruiti della media della popolazione grazie alla loro rete di scuole e di università, i cristiani hanno maggiori facilità nell’ottenimento dei visti per raggiungere gruppi di una diaspora precedente, negli Stati Uniti, in Europa o in America latina, pronti ad accoglierli in “Le Monde” del 4 novembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)

In memoria di Alda Merini

Avevo ancora le valigie in mano; ero appena rientrato da un viaggio un po’ spossante da San José di Costa Rica ove avevo presieduto un importante incontro di vescovi delle due Americhe.
Il telefono della mia casa romana squillava con insistenza e a più riprese.
Erano alcuni giornalisti che volevano almeno una battuta su Alda Merini che era scomparsa poche ore prima in quel 1° novembre 2009.
A distanza di un anno, ora che non ho più neppure il legame delle sue chilometriche telefonate, ma solo l’eco dei suo versi, vorrei anch’io affacciarmi in mezzo al coro di quelli – e sono ancora tanti – che la ricordano e che in questi giorni la commemoreranno.
Lo faccio anche per lanciarle un grazie dalla terra agli spazi infiniti del cielo, non soltanto per l’affetto che mi ha riservato per anni, ma anche per aver voluto accompagnare molti momenti della mia vita con la testimonianza personale della sua poesia.
Inizierei con poche righe della raccolta poetica Clinica dell’abbandono, pubblicata da Einaudi nel 2003, un libro che aveva voluto esplicitamente dedicarmi, sorprendendo non pochi lettori.
«Se tu conoscessi / l’ala dell’Angelo / se tu lasci la madre terra / che ti ha così devastato (…) / ora che vedi Dio / riconosci in te stesso / il fiore della sua lingua».
Sì, io penso che ora Alda possa parlare la lingua di Dio e certamente nell’infinita biblioteca paradisiaca (per usare un’immagine di Isaac Bashevis Singer) sono stati collocati molti dei suoi testi poetici, anche quelli che sono rimasti solo nell’aria.
Infatti, spesso a me – ma anche a molti altri suoi interlocutori – durante i dialoghi diretti o telefonici riservava intere poesie che lei, come accadeva agli antichi rapsodi, affidava solo alla parola detta, lasciando che si cristallizzassero soltanto sulla pagina viva dell’anima di chi l’ascoltava.
Sempre in quella raccolta aveva scritto: «Ogni poeta / laverà nella notte / il suo pensiero / ne farà tante lettere / imprecise / che spedirà all’amato / senza un nome».
Non so quando e come avvenne la nostra conoscenza: certamente fu dal momento in cui la vena mistica, che era da sempre in lei, si irrobustì fino ad assumere una forma nettamente cristologica.
Fu così che nel 2001 mi chiese di scrivere la prefazione del suo Corpo d’amore.
Un incontro con Gesù.
La carnaltà, che in lei era spesso intrecciata all’eros, qui si trasfigurava e diventata la sarx giovannea, la “carne” del Verbo, e la Divinità diveniva Umanità gloriosa e dolente.
Aveva, così, voluto che fossi ancora io ad accompagnare una delle sue opere più alte, quel Poema della Croce (2004), non di rado approdato nelle chiese o in spazi religiosi come una moderna rappresentazione sacra.
La poetessa poneva il suo Cristo al centro dello spazio e del tempo in una epifania tragica eppur luminosa.
Attorno allo sperone roccioso del Calvario s’addensava non solo l’odio del mondo, ma si delineava anche «il teatro della derisione», cioè la brutale stupidità e la volgarità dell’umanità che la Merini tanto detestava.
Eppure su quell’asse della derisione e della crudeltà si inaugurava il giudizio definitivo sul male e si apriva il cielo della redenzione.
La croce, ove si raggrumava il dolore di Dio, diventava segno d’amore: «Dio ha espresso il suo amore per l’uomo col pianto».
Cristo è «la lacrima di Dio», una lacrima che «coprì tutta la carne del Figlio».
La colpa e la grazia, l’inferno e la gloria, la tenebra e la luce sono stati i poli della ricerca spirituale di Alda, una ricerca attraversata non di rado dai fulmini della follia che lei non temeva di rappresentare, consapevole – come era accaduto nella grande tradizione mistica e letteraria (si pensi solo all’Idiota di Dostoevskij) – che esiste una possibilità di conoscenza metarazionale che non è sempre e necessariamente irrazionale.
È per questo che nel 2007 aveva voluto che io preparassi un’altra introduzione per il poema consacrato al santo «folle» Francesco d’Assisi, «il liuto di Dio».
Libero e nudo, egli entra agli occhi degli uomini «logici» e calcolatori in quella pazzia che è suprema saggezza, «folle come te, Signore, folle d’amore».
Alda Merini non mi aveva mai perdonato di avere lasciato Milano, la comune città, per Roma (l’inedito che ora pubblichiamo mi fu indirizzato proprio in quell’occasione).
Le sue sterminate telefonate avevano negli ultimi tempi avevano sempre questa stuimmata sanguinante d’amarezza.
Quando l’avevo visitata anni fa per la prima volta nella sua cas ai Navigli, aveva voluto rivestire il terribile abbandono e la povertà con una valanga di fiori, secondo quella generosità che la spogliava perfino del necessario pur di donare qualcosa ad un altro.
Aveva persino convocato un violinista che l’accompagnasse al pianoforte che lei sapeva suonare, mentre il cantore delle sue poesie, Giovanni Nuti, mi avrebbe offerto alcuni versi musicati.
Anche prima che io partissi per quel viaggio in America, chiamandola all’ospedale milanese ove era ricoverata mi aveva strappato la promessa che l’avrei visitata a Natale, quando sarei ritornato lassù, anche perché – mi diceva – «non riuscirò a venire a Roma nella Cappella Sistina per l’incontro del Papa con gli artisti del 21 novembre» del 2009, incontro a cui l’avevo invitata e per il quale aveva già pensato all’abito da indossare.
Ci ritroveremo, invece, su altre strade.
Per me sarà la via della memoria spirituale e del ricordo a Dio, ma anche quella dei molti doni che mi aveva destinato, come il crocifisso di un artista noto che aveva voluto darmi alla vigilia della mia ordinazione episcopale e che ora è nella mia casa romana.
Nata nel primo giorno di primavera, Alda Merini è morta nella solennità di Tutti i Santi.
Vorrei, allora, idealmente ringraziarla e ricordarla applicando a lei quei versi finali d’una poesia inedita che mi aveva inviato proprio nel giorno – più di tre anni fa – del funerale di mio padre: «Non scongiurare la morte / di lasciarlo qui sulla Terra: / ha già sentito il profumo di Dio, / lascialo andare nei suoi giardini».
Alla soglia della sua partenza per Roma ove Benedetto XVI lo avrebbe consacrato arcivescovo e nominato Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Alda Merini aveva indirizzato a monsignor Ravasi questi versi finora inediti.
Chi mi renderà il mio peccato nascosto che sta nelle tue mani: ho amato il tuo grande sapere, oh guida della canzone dall’inferno dei miei peccati guardavo a te che salivi il calvario di una notorietà senza pace.
Non vogliamo perderti Milano non ti dimenticherà mai ma così come i grandi figli vanno a morire lontano sappi che la tua gloria è qui nel nostro quotidiano, morire insieme al desiderio di riaverti.

EDUCARE ALLA VITA BUONA DEL VANGELO

PRESENTAZIONE       Gli Orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020 intendono offrire alcune linee di fondo per una crescita concorde delle Chiese in Italia nell’arte delicata e sublime dell’educazione.
In essa noi Vescovi riconosciamo una sfida culturale e un segno dei tempi, ma prima ancora una dimensione costitutiva e permanente della nostra missione di rendere Dio presente in questo mondo e di far sì che ogni uomo possa incontrarlo, scoprendo la forza trasformante del suo amore e della sua verità, in una vita nuova caratterizzata da tutto ciò che è bello, buono e vero.
È questo un tema a cui più volte ci ha richiamato Papa Benedetto XVI, il cui magistero costituisce il riferimento sicuro per il nostro cammino ecclesiale e una fonte di ispirazione per la nostra proposta pastorale.
La scelta di dedicare un’attenzione specifica al campo educativo affonda le radici nel IV Convegno ecclesiale nazionale, celebrato a Verona nell’ottobre 2006, con il suo messaggio di speranza fondato sul “sì” di Dio all’uomo attraverso suo Figlio, morto e risorto perché noi avessimo la vita.
Educare alla vita buona del Vangelo significa, infatti, in primo luogo farci discepoli del Signore Gesù, il Maestro che non cessa di educare a una umanità nuova e piena.
Egli parla sempre all’intelligenza e scalda il cuore di coloro che si aprono a lui e accolgono la compagnia dei fratelli per fare esperienza della bellezza del Vangelo.
La Chiesa continua nel tempo la sua opera: la sua storia bimillenaria è un intreccio fecondo di evangelizzazione e di educazione.
Annunciare Cristo, vero Dio e vero uomo, significa portare a pienezza l’umanità e quindi seminare cultura e civiltà.
Non c’è nulla, nella nostra azione, che non abbia una significativa valenza educativa.
La scelta dell’Episcopato italiano per questo decennio è segno di una premura che nasce dalla paternità spirituale di cui siamo rivestiti per grazia e che condividiamo in primo luogo con i sacerdoti.
Siamo ben consapevoli, inoltre, delle energie profuse con tanta generosità nel campo dell’educazione da consacrati e laici, che testimoniano la passione educativa di Dio in ogni campo dell’esistenza umana.
A ciascuno consegniamo con fiducia questi orientamenti, con l’auspicio che le nostre comunità, parte viva del tessuto sociale del Paese, divengano sempre più luoghi fecondi di educazione integrale.
Maria, che accompagnò la crescita di Gesù in sapienza, età e grazia, ci aiuti a testimoniare la vicinanza amorosa della Chiesa a ogni persona, grazie al Vangelo, fermento di crescita e seme di felicità vera.
  Roma, 4 ottobre 2010 Festa di San Francesco d’Assisi, Patrono d’Italia                                                                                                      Angelo Card.
Bagnasco                                                                                  Presidente della Conferenza Episcopale Italiana CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA   Orientamenti pastorali 2010.pdf;

Il messaggio del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente,

Il messaggio del Sinodo Pubblichiamo il testo italiano del messaggio del Sinodo dei vescovi per il Medio Oriente, approvato durante la tredicesima congregazione generale di venerdì pomeriggio, 22 ottobre.
“La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola” (At 4, 32) Ai nostri fratelli presbiteri, diaconi, religiosi, religiose, alle persone consacrate e a tutti i nostri amatissimi fedeli laici e a ogni persona di buona volontà.
Introduzione 1.
La grazia di Gesù nostro Signore, l’amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo sia con voi.
Il Sinodo dei Vescovi per il Medio Oriente è stato per noi una novella Pentecoste.
“La Pentecoste è l’avvenimento originario, ma anche un dinamismo permanente.
Il Sinodo dei Vescovi è un momento privilegiato nel quale può rinnovarsi il cammino della Chiesa e la grazia della Pentecoste” (Benedetto XVI, Omelia della Messa d’apertura del Sinodo, 10.10.2010).
Siamo venuti a Roma, noi Patriarchi e vescovi delle Chiese cattoliche in Oriente con tutti i nostri patrimoni spirituali, liturgici, culturali e canonici, portando nei nostri cuori le preoccupazioni dei nostri popoli e le loro attese.
Per la prima volta ci siamo riuniti in Sinodo intorno a Sua Santità il Papa Benedetto XVI con i cardinali e gli arcivescovi responsabili dei Dicasteri romani, i presidenti delle Conferenze episcopali del mondo toccate dalle questioni del Medio Oriente, e con rappresentanti delle Chiese ortodosse e comunità evangeliche, e con invitati ebrei e musulmani.
 A Sua Santità Benedetto XVI esprimiamo la nostra gratitudine per la sollecitudine e per gli insegnamenti che illuminano il cammino della Chiesa in generale e quello delle nostre Chiese orientali in particolare, soprattutto per la questione della giustizia e della pace.
Ringraziamo le Conferenze episcopali per la loro solidarietà, la presenza tra noi durante i pellegrinaggi ai Luoghi santi e la loro visita alle nostre comunità.
Li ringraziamo per l’accompagnamento delle nostre Chiese nei differenti aspetti della nostra vita.
Ringraziamo le organizzazioni ecclesiali che ci sostengono con il loro aiuto efficace.
Abbiamo riflettuto insieme, alla luce della Sacra Scrittura e della viva Tradizione, sul presente e l’avvenire dei cristiani e dei popoli del Medio Oriente.
Abbiamo meditato sulle questioni di questa parte del mondo che Dio, nel mistero del suo amore, ha voluto fosse la culla del suo piano universale di salvezza.
Da là, di fatto, è partita la vocazione di Abramo.
Là, la Parola di Dio si è incarnata nella Vergine Maria per l’azione dello Spirito Santo.
Là, Gesù ha proclamato il Vangelo della vita e del regno.
Là, egli è morto per riscattare il genere umano e liberarlo dal peccato.
Là è risuscitato dai morti per donare la vita nuova a ogni uomo.
Là, è nata la Chiesa che da là è partita per proclamare il Vangelo fino alle estremità della terra.
Il primo scopo del Sinodo è di ordine pastorale.
È per questo che abbiamo portato nei cuori la vita, le sofferenze e le speranze dei nostri popoli e le sfide che si devono affrontare ogni giorno, convinti che “la speranza non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5).
È per questo che vi rivolgiamo questo messaggio, amatissimi fratelli e sorelle, e vogliamo che sia un appello alla fermezza della fede, fondata sulla Parola di Dio, alla collaborazione nell’unità e alla comunione nella testimonianza dell’amore in tutti gli ambiti della vita.
i.
La Chiesa nel Medio Oriente:  comunione e testimonianza attraverso la storia Cammino della fede in Oriente 2.
In Oriente è nata la prima comunità cristiana.
Dall’Oriente partirono gli Apostoli dopo la Pentecoste per evangelizzare il mondo intero.
Là è vissuta la prima comunità cristiana in mezzo a tensioni e persecuzioni, “perseverante nell’insegnamento degli apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere” (At 2, 42).
Là i primi martiri hanno irrorato con il loro sangue le fondamenta della Chiesa nascente.
Alla loro sequela gli anacoreti hanno riempito i deserti col profumo della loro santità e della loro fede.
Là vissero i Padri della Chiesa orientale che continuano a nutrire con i loro insegnamenti la Chiesa d’Oriente e d’Occidente.
Dalle nostre Chiese partirono, nei primi secoli e nei secoli seguenti, i missionari verso l’estremo Oriente e verso l’Occidente portando la luce di Cristo.
Noi ne siamo gli eredi e dobbiamo continuare a trasmettere il loro messaggio alle generazioni future.
Le nostre Chiese non hanno smesso di donare santi, preti, consacrati e di servire in maniera efficace in numerose istituzioni che contribuiscono alla costruzione delle nostre società e dei nostri paesi, sacrificandosi per l’uomo creato all’immagine di Dio e portatore della sua immagine.
Alcune delle nostre Chiese non cessano ancora oggi di mandare missionari, portatori della Parola di Cristo nei differenti angoli del mondo.
Il lavoro pastorale, apostolico e missionario ci domanda oggi di pensare una pastorale per promuovere le vocazioni sacerdotali e religiose e assicurare la Chiesa di domani.
Ci troviamo oggi davanti a una svolta storica:  Dio che ci ha donato la fede nel nostro Oriente da 2000 anni, ci chiama a perseverare con coraggio, assiduità e forza, a portare il messaggio di Cristo e la testimonianza al suo Vangelo che è un Vangelo di amore e di pace.
Sfide e attese 3.1.
Oggi siamo di fronte a numerose sfide.
La prima viene da noi stessi e dalle nostre Chiese.
Ciò che Cristo ci domanda è di accettare la nostra fede e di viverla in ogni ambito della vita.
Ciò che egli domanda alle nostre Chiese è di rafforzare la comunione all’interno di ciascuna Chiesa sui iuris e tra le Chiese cattoliche di diversa tradizione, inoltre di fare tutto il possibile nella preghiera e nella carità per raggiungere l’unità di tutti i cristiani e realizzare così la preghiera di Cristo:  “perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17, 21).
3.2.
La seconda sfida viene dall’esterno, dalle condizioni politiche e dalla sicurezza nei nostri paesi e dal pluralismo religioso.
Abbiamo analizzato quanto concerne la situazione sociale e la sicurezza nei nostri paesi del Medio Oriente.
Abbiamo avuto coscienza dell’impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese che soffre le conseguenze dell’occupazione israeliana:  la mancanza di libertà di movimento, il muro di separazione e le barriere militari, i prigionieri politici, la demolizione delle case, la perturbazione della vita economica e sociale e le migliaia di rifugiati.
Abbiamo riflettuto sulla sofferenza e l’insicurezza nelle quali vivono gli Israeliani.
Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa.
Siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto.
Di fronte a tutto questo, vediamo che una pace giusta e definitiva è l’unico mezzo di salvezza per tutti, per il bene della regione e dei suoi popoli.
3.3.
Nelle nostre riunioni e nelle nostre preghiere abbiamo riflettuto sulle sofferenze cruente del popolo iracheno.
Abbiamo fatto memoria dei cristiani assassinati in Iraq, delle sofferenze permanenti della Chiesa in Iraq, dei suoi figli espulsi e dispersi per il mondo, portando noi insieme con loro le preoccupazioni della loro terra e della loro patria.
I padri sinodali hanno espresso la loro solidarietà con il popolo e le Chiese in Iraq e hanno espresso il voto che gli emigrati, forzati a lasciare i loro paesi, possano trovare i soccorsi necessari là dove arrivano, affinché possano tornare nei loro paesi e vivervi in sicurezza.
3.4.
Abbiamo riflettuto sulle relazioni tra concittadini, cristiani e musulmani.
Vorremmo qui affermare, nella nostra visione cristiana delle cose, un principio primordiale che dovrebbe governare queste relazioni:  Dio vuole che noi siamo cristiani nel e per le nostre società del Medio Oriente.
Il fatto di vivere insieme cristiani e musulmani è il piano di Dio su di noi ed è la nostra missione e la nostra vocazione.
In questo ambito ci comporteremo con la guida del comandamento dell’amore e con la forza dello Spirito in noi.
Il secondo principio che governa queste relazioni è il fatto che noi siamo parte integrale delle nostre società.
La nostra missione basata sulla nostra fede e il nostro dovere verso le nostre patrie ci obbligano a contribuire alla costruzione dei nostri paesi insieme con tutti i cittadini musulmani, ebrei e cristiani.
ii.
Comunione e testimonianza all’interno delle Chiese cattoliche del Medio Oriente Ai fedeli delle nostre Chiese 4.1.
Gesù ci dice:  “Voi siete il sale della terra, la luce del mondo” (Mt 5, 13.14).
La vostra missione, amatissimi fedeli, è di essere per mezzo della fede, della speranza e dell’amore nelle vostre società, come il “sale” che dona sapore e senso alla vita, come la “luce” che illumina le tenebre e come il “lievito” che trasforma i cuori e le intelligenze.
I primi cristiani a Gerusalemme erano poco numerosi.
Nonostante ciò, essi hanno potuto portare il Vangelo fino alle estremità della terra, con la grazia del “Signore che agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano ” (Mc 16, 20).
4.2.
Vi salutiamo, cristiani del Medio Oriente, e vi ringraziamo per tutto ciò che voi avete realizzato nelle vostre famiglie e nelle vostre società, nelle vostre Chiese e nelle vostre nazioni.
Salutiamo la vostra perseveranza nelle difficoltà, pene e angosce.
4.3.
Cari sacerdoti, nostri collaboratori nella missione catechetica, liturgica e pastorale, vi rinnoviamo la nostra amicizia e la nostra fiducia.
Continuate a trasmettere ai vostri fedeli con zelo e perseveranza il Vangelo della vita e la Tradizione della Chiesa attraverso la predicazione, la catechesi, la direzione spirituale e il buon esempio.
Consolidate la fede del popolo di Dio perché essa si trasformi in una civiltà dell’amore.
Dategli i sacramenti della Chiesa perché aspiri al rinnovamento della vita.
Radunatelo nell’unità e nella carità con il dono dello Spirito Santo.
Cari religiosi, religiose e consacrati nel mondo, vi esprimiamo la nostra gratitudine e ringraziamo Dio insieme con voi per il dono dei consigli evangelici – della castità consacrata, della povertà e dell’obbedienza – con i quali avete fatto dono di voi stessi, al seguito del Cristo cui desiderate testimoniare il vostro amore e predilezione.
Grazie alle vostre iniziative apostoliche diversificate, siete il vero tesoro e la ricchezza delle nostre Chiese e un’oasi spirituale nelle nostre parrocchie, diocesi e missioni.
Ci uniamo in spirito agli eremiti, ai monaci e alle monache che hanno consacrato la loro vita alla preghiera nei monasteri contemplativi, santificando le ore del giorno e della notte, portando nella loro preghiera le preoccupazioni e i bisogni della Chiesa.
Con la testimonianza della vostra vita voi offrite al mondo un segno di speranza.
4.4.
Fedeli laici, noi vi esprimiamo la nostra stima e la nostra amicizia.
Apprezziamo quanto fate per le vostre famiglie e le vostre società, le vostre Chiese e le vostre patrie.
State saldi in mezzo alle prove e alle difficoltà.
Siamo pieni di gratitudine verso il Signore per i carismi e i talenti di cui vi ha colmato e con i quali voi partecipate per la forza del Battesimo e della Cresima al lavoro apostolico e alla missione della Chiesa, impregnando l’ambito delle cose temporali con lo spirito e i valori del Vangelo.
Vi invitiamo alla testimonianza di una vita cristiana autentica, a una pratica religiosa cosciente e ai buoni costumi.
Abbiate il coraggio di dire la verità con obbiettività.
Portiamo nelle nostre preghiere voi, sofferenti nel corpo, nell’anima e nello spirito, voi oppressi, espatriati, perseguitati, prigionieri e detenuti.
Unite le vostre sofferenze a quelle di Cristo Redentore e cercate nella sua croce la pazienza e la forza.
Con il merito delle vostre sofferenze, voi ottenete per il mondo l’amore misericordioso di Dio.
Salutiamo ciascuna delle nostre famiglie cristiane e guardiamo con stima la vocazione e la missione della famiglia, in quanto cellula viva della società, scuola naturale delle virtù e dei valori etici e umani, e chiesa domestica che educa alla preghiera e alla fede di generazione in generazione.
Ringraziamo i genitori e i nonni per l’educazione dei loro figli e dei loro nipoti, sull’esempio del fanciullo Gesù che “cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2, 52).
Ci impegniamo a proteggere la famiglia con una pastorale familiare grazie ai corsi di preparazione al matrimonio e ai centri d’accoglienza e di consultazione aperti a tutti e soprattutto alle coppie in difficoltà e con le nostre rivendicazioni dei diritti fondamentali della famiglia.
Ci rivolgiamo ora in modo speciale alle donne.
Esprimiamo la nostra stima per quanto voi siete nei diversi stati di vita:  come ragazze, educatrici, madri, consacrate e operatrici nella vita pubblica.
Vi elogiamo perché proteggete la vita umana fin dall’inizio, offrendole cura e affetto.
Dio vi ha donato una sensibilità particolare per tutto ciò che riguarda l’educazione, il lavoro umanitario e la vita apostolica.
Rendiamo grazie a Dio per le vostre attività e auspichiamo che voi esercitiate una più grande  responsabilità  nella  vita  pubblica.
Guardiamo a voi con amicizia, ragazzi e ragazze, come ha fatto Cristo con il giovane del Vangelo (cfr.
Mc 10, 21).
Voi siete l’avvenire delle nostre Chiese, delle nostre comunità, dei nostri paesi, il loro potenziale e la loro forza rinnovatrice.
Progettate la vostra vita sotto lo sguardo amorevole di Cristo.
Siate cittadini responsabili e credenti sinceri.
La Chiesa si unisce a voi nelle vostre preoccupazioni di trovare un lavoro in funzione delle vostre competenze; ciò contribuirà a stimolare la vostra creatività e ad assicurare l’avvenire e la formazione di una famiglia credente.
Superate la tentazione del materialismo e del consumismo.
Siate saldi nei vostri valori cristiani.
Salutiamo i capi delle istituzioni educative cattoliche.
Nell’insegnamento e nell’educazione ricercate l’eccellenza e lo spirito cristiano.
Abbiate come scopo il consolidamento della cultura della convivialità, la preoccupazione dei poveri e dei portatori di handicap.
Malgrado le sfide e le difficoltà di cui soffrono le vostre istituzioni, vi invitiamo a mantenerle vive per assicurare la missione educatrice della Chiesa e promuovere lo sviluppo e il bene delle nostre società.
Ci rivolgiamo con grande stima a quanti lavorano nel settore sociale.
Nelle vostre istituzioni siate al servizio della carità.
Noi vi incoraggiamo e sosteniamo in questa missione di sviluppo, che è guidata dal ricco insegnamento sociale della Chiesa.
Attraverso il vostro lavoro, voi rafforzate i legami di fraternità tra gli uomini, servendo senza discriminazione i poveri, i marginalizzati, i malati, i rifugiati e i prigionieri.
Voi siete guidati dalla parola del Signore Gesù:  “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25, 40).
Guardiamo con speranza i gruppi di preghiera e i movimenti apostolici.
Sono scuole di approfondimento della fede per viverla nella famiglia e nella società.
Apprezziamo le loro attività nelle parrocchie e nelle diocesi e il loro sostegno ai pastori in conformità con le direttive della Chiesa.
Ringraziamo Dio per questi gruppi e questi movimenti, cellule attive della parrocchia e vivai per le vocazioni sacerdotali e religiose.
Apprezziamo il ruolo dei mezzi di comunicazione scritta e audio-visiva.
Ringraziamo voi, giornalisti, per la vostra collaborazione con la Chiesa per la diffusione dei suoi insegnamenti e delle sue attività, e in questi giorni per aver diffuso le notizie dell’Assemblea del Sinodo sul Medio Oriente in tutte le parti del mondo.
Ci felicitiamo del contributo dei media internazionali e cattolici.
Per il Medio Oriente merita una menzione particolare il canale Télé Lumière-Noursat.
Speriamo che possa continuare il suo servizio di informazione e di formazione alla fede, il suo lavoro per l’unità dei cristiani, il consolidamento della presenza cristiana in Oriente, il rafforzamento del dialogo inter-religioso e la comunione tra gli orientali sparsi in tutti i continenti.
Ai nostri fedeli nella diaspora 5.
L’emigrazione è divenuta un fenomeno generale.
Il cristiano, il musulmano e l’ebreo emigrano e per le stesse cause derivate dall’instabilità politica ed economica.
Il cristiano, inoltre, comincia a sentire l’insicurezza, benché a diversi gradi, nei paesi del Medio Oriente.
I cristiani abbiano fiducia nell’avvenire e continuino a vivere nei loro cari paesi.
Vi salutiamo amatissimi fedeli nei vostri differenti paesi della diaspora.
Chiediamo a Dio di benedirvi.
Noi vi domandiamo di conservare vivo nei vostri cuori e nelle vostre preoccupazioni il ricordo delle vostre patrie e delle vostre Chiese.
Voi potete contribuire alla loro evoluzione e alla loro crescita con le vostre preghiere, i vostri pensieri, le vostre visite e con diversi mezzi, anche se ne siete lontani.
Conservate i beni e le terre che avete in patria; non affrettatevi ad abbandonarli e a venderli.
Custodite tali proprietà come un patrimonio per voi e una porzione di quella patria alla quale rimanete attaccati e che voi amate e sostenete.
La terra fa parte dell’identità della persona e della sua missione; essa è uno spazio vitale per quelli che vi restano e per quelli che, un giorno, vi ritorneranno.
La terra è un bene pubblico, un bene della comunità, un patrimonio comune.
Non può essere ridotta a interessi individuali da parte di chi la possiede e che da solo decide a proprio piacimento di tenerla o di abbandonarla.
Vi accompagniamo con le nostre preghiere, voi figli delle nostre Chiese e dei nostri Paesi, forzati a emigrare.
Portate con voi la vostra fede, la vostra cultura e il vostro patrimonio per arricchire le vostre nuove patrie che vi procurano pace, libertà e lavoro.
Guardate all’avvenire con fiducia e gioia, restate sempre attaccati ai vostri valori spirituali, alle vostre tradizioni culturali e al vostro patrimonio nazionale per offrire ai paesi che vi hanno accolto il meglio di voi stessi e il meglio di ciò che avete.
Ringraziamo le Chiese dei paesi della diaspora che hanno accolto i nostri fedeli e che non cessano di collaborare con noi per assicurare loro il servizio pastorale necessario.
Ai migranti nei nostri paesi e nelle nostre Chiese 6.
Salutiamo tutti gli immigrati delle diverse nazionalità, venuti nei nostri paesi per ragioni di lavoro.  Noi vi accogliamo, amatissimi fedeli, e vediamo nella vostra fede un arricchimento e un sostegno per la fede dei nostri fedeli.
È con gioia che vi forniremo ogni aiuto spirituale di cui voi avete bisogno.
Noi domandiamo alle nostre Chiese di prestare un’attenzione speciale a questi fratelli e sorelle e alle loro difficoltà, qualunque sia la loro religione, soprattutto quando sono esposti ad attentati ai loro diritti e alla loro dignità.
Essi vengono da noi non soltanto per trovare mezzi per vivere, ma per procurare dei servizi di cui i nostri paesi hanno bisogno.
Essi ricevono da Dio la loro dignità e, come ogni persona umana, hanno dei diritti che è necessario rispettare.
Non è permesso a nessuno di attentare a tali dignità e diritti.
È per questo che invitiamo i governi dei paesi di accoglienza a rispettare e difendere i loro diritti.
iii.
Comunione e testimonianza con le Chiese ortodosse e le Comunità evangeliche nel Medio Oriente 7.
Salutiamo le Chiese ortodosse e le Comunità evangeliche nei nostri paesi.
Lavoriamo insieme per il bene dei cristiani, perché essi restino, crescano e prosperino.
Siamo sulla stessa strada.
Le nostre sfide sono le stesse e il nostro avvenire è lo stesso.
Vogliamo portare insieme la testimonianza di discepoli di Cristo.
Soltanto con la nostra unità possiamo compiere la missione che Dio ha affidato a tutti, malgrado la diversità delle nostre Chiese.
La preghiera di Cristo è il nostro sostegno, ed è il comandamento dell’amore che ci unisce, anche se la strada verso la piena comunione è ancora lunga davanti a noi.
Abbiamo camminato insieme nel Consiglio delle Chiese del Medio Oriente e vogliamo continuare questo cammino con la grazia di Dio e promuovere la sua azione, avendo come scopo ultimo la testimonianza comune alla nostra fede, il servizio dei nostri fedeli e di tutti i nostri paesi.
Salutiamo e incoraggiamo tutte le istanze di dialogo ecumenico in ciascuno dei nostri paesi.
Esprimiamo la nostra gratitudine al Consiglio Mondiale delle Chiese e alle diverse organizzazioni ecumeniche, che lavorano per l’unità della Chiesa, per il loro sostegno.
iv.
Cooperazione e dialogo con i nostri concittadini ebrei 8.
La stessa Scrittura santa ci unisce, l’Antico Testamento che è la Parola di Dio per voi e per noi.
Noi crediamo in tutto quanto Dio ha rivelato, da quando ha chiamato Abramo, nostro padre comune nella fede, padre degli ebrei, dei cristiani e dei musulmani.
Crediamo nelle promesse e nell’alleanza che Dio ha affidato a lui.
Noi crediamo che la Parola di Dio è eterna.
Il Concilio Vaticano ii ha pubblicato il documento Nostra aetate, riguardante il dialogo con le religioni, con l’ebraismo, l’islam e le altre religioni.
Altri documenti hanno precisato e sviluppato in seguito le relazioni con l’ebraismo.
C’è inoltre un dialogo continuo tra la Chiesa e i rappresentanti dell’ebraismo.
Noi speriamo che questo dialogo possa condurci ad agire presso i responsabili per mettere fine al conflitto politico che non cessa di separarci e di perturbare la vita dei nostri paesi.
È tempo di impegnarci insieme per una pace sincera, giusta e definitiva.
Tutti noi siamo interpellati dalla Parola di Dio.
Essa ci invita ad ascoltare la voce di Dio “che parla di pace”:  “ascolterò che cosa dice Dio, il Signore:  egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore” (Sal 85, 9).
Non è permesso di ricorrere a posizioni teologiche bibliche per farne uno strumento a giustificazione delle ingiustizie.
Al contrario, il ricorso alla religione deve portare ogni persona a vedere il volto di Dio nell’altro e a trattarlo secondo gli attributi di Dio e i suoi comandamenti, vale a dire secondo la bontà di Dio, la sua giustizia, la sua misericordia e il suo amore per noi.
v.
Cooperazione e dialogo con i nostri concittadini musulmani 9.
Siamo uniti dalla fede in un Dio unico e dal comandamento che dice:  fa’ il bene ed evita il male.
Le parole del Concilio Vaticano ii sul rapporto con le religioni pongono le basi delle relazioni tra la Chiesa Cattolica e i musulmani:  “La Chiesa guarda con stima i musulmani che adorano il Dio uno, vivente […] misericordioso e onnipotente, che ha parlato agli uomini” (Nostra aetate, 3).
Diciamo ai nostri concittadini musulmani:  siamo fratelli e Dio ci vuole insieme, uniti nella fede in Dio e nel duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo.
Insieme noi costruiremo le nostre società civili sulla cittadinanza, sulla libertà religiosa e sulla libertà di coscienza.
Insieme noi lavoreremo per promuovere la giustizia, la pace, i diritti dell’uomo, i valori della vita e della famiglia.
La nostra responsabilità è comune nella costruzione delle nostre patrie.
Noi vogliamo offrire all’Oriente e all’Occidente un modello di convivenza tra le differenti religioni e di collaborazione positiva tra diverse civiltà, per il bene delle nostre patrie e quello di tutta l’umanità.
Dalla comparsa dell’islam nel vii secolo fino ad oggi, abbiamo vissuto insieme e abbiamo collaborato alla creazione della nostra civiltà comune.
È capitato nel passato, come capita ancor’oggi, qualche squilibrio nei nostri rapporti.
Attraverso il dialogo noi dobbiamo eliminare ogni squilibrio o malinteso.
Il Papa Benedetto XVI ci dice che il nostro dialogo non può essere una realtà passeggera.
È piuttosto una necessità vitale da cui dipende il nostro avvenire (cfr.
Discorso ai rappresentanti delle comunità musulmane a Colonia, 20.08.2005).
È nostro dovere, dunque, educare i credenti al dialogo inter-religioso, all’accettazione del pluralismo, al rispetto e alla stima reciproca.
vi.
La nostra partecipazione alla vita pubblica:  appelli ai governi e ai responsabili pubblici dei nostri paesi  10.
Apprezziamo gli sforzi che dispiegate per il bene comune e il servizio delle nostre società.
Vi accompagniamo con le nostre preghiere e domandiamo a Dio di guidare i vostri passi.
Ci rivolgiamo a voi a riguardo dell’importanza dell’uguaglianza tra i cittadini.
I cristiani sono cittadini originali e autentici, leali alla loro patria e fedeli a tutti i loro doveri nazionali.
È naturale che essi possano godere di tutti i diritti di cittadinanza, di libertà di coscienza e di culto, di libertà nel campo dell’insegnamento e dell’educazione e nell’uso dei mezzi di comunicazione.
Vi chiediamo di raddoppiare gli sforzi che dispiegate per stabilire una pace giusta e duratura in tutta la regione e per arrestare la corsa agli armamenti.
È questo che condurrà alla sicurezza e alla prosperità economica, arresterà l’emorragia dell’emigrazione che svuota i nostri paesi delle loro forze vive.
La pace è un dono prezioso che Dio ha affidato agli uomini e sono gli “operatori di pace [che] saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5, 9).
vii.
Appello alla comunità internazionale 11.
I cittadini dei paesi del Medio Oriente interpellano la comunità internazionale, in particolare l’Onu, perché essa lavori sinceramente ad una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e attraverso l’adozione delle misure giuridiche necessarie per mettere fine all’Occupazione dei differenti territori arabi.
Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità.
Lo Stato d’Israele potrà godere della pace e della sicurezza all’interno delle frontiere internazionalmente riconosciute.
La Città Santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni ebraica, cristiana e musulmana.
Noi speriamo che la soluzione dei due Stati diventi realtà e non resti un semplice sogno.
L’Iraq potrà mettere fine alle conseguenze della guerra assassina e ristabilire la sicurezza che proteggerà tutti i suoi cittadini con tutte le loro componenti sociali, religiose e nazionali.
Il Libano potrà godere della sua sovranità su tutto il territorio, fortificare l’unità nazionale e continuare la vocazione a essere il modello della convivenza tra cristiani e musulmani, attraverso il dialogo delle culture e delle religioni e la promozione delle libertà pubbliche.
Noi condanniamo la violenza e il terrorismo, di qualunque origine, e qualsiasi estremismo religioso.
Condanniamo ogni forma di razzismo, l’antisemitismo, l’anticristianesimo e l’islamofobia e chiamiamo le religioni ad assumere le loro responsabilità nella promozione del dialogo delle culture e delle civiltà nella nostra regione e nel mondo intero.
Conclusione:  continuare a testimoniare la vita divina che ci è apparsa nella persona di Gesù 12.
In conclusione, fratelli e sorelle, noi vi diciamo con l’apostolo san Giovanni nella sua prima lettera:  “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita – la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi -, quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi.
E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo” (1Gv 1, 1-3).
Questa Vita divina che è apparsa agli apostoli 2000 anni fa nella persona del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, della quale la Chiesa è vissuta e alla quale essa ha dato testimonianza in tutto il corso della sua storia, rimarrà sempre la vita delle nostre Chiese nel Medio Oriente e l’oggetto della nostra testimonianza.
Sostenuti dalla promessa del Signore:  “ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20), proseguiamo insieme il nostro cammino nella speranza, e “la speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5, 5).
Confessiamo che non abbiamo fatto fino ad ora tutto ciò che era in nostra possibilità per vivere meglio la comunione tra le nostre comunità.
Non abbiamo operato a sufficienza per confermarvi nella fede e darvi il nutrimento spirituale di cui avete bisogno nelle vostre difficoltà.
Il Signore ci invita ad una conversione personale e collettiva.
Oggi torniamo a voi pieni di speranza, di forza e di risolutezza, portando con noi il messaggio del Sinodo e le sue raccomandazioni per studiarle insieme e metterci ad applicarle nelle nostre Chiese, ciascuno secondo il suo stato.
Speriamo anche che questo sforzo nuovo sia ecumenico.
Noi vi rivolgiamo questo umile e sincero appello perché insieme condividiamo un cammino di conversione per lasciarci rinnovare dalla grazia dello Spirito Santo e ritornare a Dio.
Alla Santissima Vergine Maria, Madre della Chiesa e Regina della pace, sotto la cui protezione abbiamo messo i lavori sinodali, affidiamo il nostro cammino verso nuovi orizzonti cristiani e umani, nella fede in Cristo e con la forza della sua parola:  “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21, 5).
(©L’Osservatore Romano – 24 ottobre 2010)

Il nuovo “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”.

LETTERA APOSTOLICA in forma di MOTU PROPRIO UBICUMQUE ET SEMPER del Sommo Pontefice BENEDETTO XVI CON LA QUALE SI ISTITUISCE IL PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE La Chiesa ha il dovere di annunciare sempre e dovunque il Vangelo di Gesù Cristo.
Egli, il primo e supremo evangelizzatore, nel giorno della sua ascensione al Padre comandò agli Apostoli: “Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28,19-20).
Fedele a questo comando la Chiesa, popolo che Dio si è acquistato affinché proclami le sue ammirevoli opere (cfr 1Pt 2,9), dal giorno di Pentecoste in cui ha ricevuto in dono lo Spirito Santo (cfr At 2,14), non si è mai stancata di far conoscere al mondo intero la bellezza del Vangelo, annunciando Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, lo stesso “ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8), che con la sua morte e risurrezione ha attuato la salvezza, portando a compimento la promessa antica.
Pertanto, la missione evangelizzatrice, continuazione dell’opera voluta dal Signore Gesù, è per la Chiesa necessaria ed insostituibile, espressione della sua stessa natura.
Tale missione ha assunto nella storia forme e modalità sempre nuove a seconda dei luoghi, delle situazioni e dei momenti storici.
Nel nostro tempo, uno dei suoi tratti singolari è stato il misurarsi con il fenomeno del distacco dalla fede, che si è progressivamente manifestato presso società e culture che da secoli apparivano impregnate dal Vangelo.
Le trasformazioni sociali alle quali abbiamo assistito negli ultimi decenni hanno cause complesse, che affondano le loro radici lontano nel tempo e hanno profondamente modificato la percezione del nostro mondo.
Si pensi ai giganteschi progressi della scienza e della tecnica, all’ampliarsi delle possibilità di vita e degli spazi di libertà individuale, ai profondi cambiamenti in campo economico, al processo di mescolamento di etnie e culture causato da massicci fenomeni migratori, alla crescente interdipendenza tra i popoli.
Tutto ciò non è stato senza conseguenze anche per la dimensione religiosa della vita dell’uomo.
E se da un lato l’umanità ha conosciuto innegabili benefici da tali trasformazioni e la Chiesa ha ricevuto ulteriori stimoli per rendere ragione della speranza che porta (cfr 1Pt 3,15), dall’altro si è verificata una preoccupante perdita del senso del sacro, giungendo persino a porre in questione quei fondamenti che apparivano indiscutibili, come la fede in un Dio creatore e provvidente, la rivelazione di Gesù Cristo unico salvatore, e la comune comprensione delle esperienze fondamentali dell’uomo quali il nascere, il morire, il vivere in una famiglia, il riferimento ad una legge morale naturale.
Se tutto ciò è stato salutato da alcuni come una liberazione, ben presto ci si è resi conto del deserto interiore che nasce là dove l’uomo, volendosi unico artefice della propria natura e del proprio destino, si trova privo di ciò che costituisce il fondamento di tutte le cose.
Già il Concilio Ecumenico Vaticano II assunse tra le tematiche centrali la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo.
Sulla scia dell’insegnamento conciliare, i miei Predecessori hanno poi ulteriormente riflettuto sulla necessità di trovare adeguate forme per consentire ai nostri contemporanei di udire ancora la Parola viva ed eterna del Signore.
Con lungimiranza il Servo di Dio Paolo VI osservava che l’impegno dell’evangelizzazione “si dimostra ugualmente sempre più necessario, a causa delle situazioni di scristianizzazione frequenti ai nostri giorni, per moltitudini di persone che hanno ricevuto il battesimo ma vivono completamente al di fuori della vita cristiana, per gente semplice che ha una certa fede ma ne conosce male i fondamenti, per intellettuali che sentono il bisogno di conoscere Gesù Cristo in una luce diversa dall’insegnamento ricevuto nella loro infanzia, e per molti altri” (Esort.
ap.
Evangelii nuntiandi, n.
52).
E, con il pensiero rivolto ai lontani dalla fede, aggiungeva che l’azione evangelizzatrice della Chiesa “deve cercare costantemente i mezzi e il linguaggio adeguati per proporre o riproporre loro la rivelazione di Dio e la fede in Gesù Cristo” (Ibid., n.
56).
Il Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo II fece di questo impegnativo compito uno dei cardini del suo vasto Magistero, sintetizzando nel concetto di “nuova evangelizzazione”, che egli approfondì sistematicamente in numerosi interventi, il compito che attende la Chiesa oggi, in particolare nelle regioni di antica cristianizzazione.
Un compito che, se riguarda direttamente il suo modo di relazionarsi verso l’esterno, presuppone però, prima di tutto, un costante rinnovamento al suo interno, un continuo passare, per così dire, da evangelizzata ad evangelizzatrice.
Basti ricordare ciò che si affermava nell’Esortazione postsinodale Christifideles Laici: “Interi paesi e nazioni, dove la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti e capaci di dar origine a comunità di fede viva e operosa, sono ora messi a dura prova, e talvolta sono persino radicalmente trasformati, dal continuo diffondersi dell’indifferentismo, del secolarismo e dell’ateismo.
Si tratta, in particolare, dei paesi e delle nazioni del cosiddetto Primo Mondo, nel quale il benessere economico e il consumismo, anche se frammisti a paurose situazioni di povertà e di miseria, ispirano e sostengono una vita vissuta «come se Dio non esistesse».
Ora l’indifferenza religiosa e la totale insignificanza pratica di Dio per i problemi anche gravi della vita non sono meno preoccupanti ed eversivi rispetto all’ateismo dichiarato.
E anche la fede cristiana, se pure sopravvive in alcune sue manifestazioni tradizionali e ritualistiche, tende ad essere sradicata dai momenti più significativi dell’esistenza, quali sono i momenti del nascere, del soffrire e del morire.
[…] In altre regioni o nazioni, invece, si conservano tuttora molto vive tradizioni di pietà e di religiosità popolare cristiana; ma questo patrimonio morale e spirituale rischia oggi d’essere disperso sotto l’impatto di molteplici processi, tra i quali emergono la secolarizzazione e la diffusione delle sette.
Solo una nuova evangelizzazione può assicurare la crescita di una fede limpida e profonda, capace di fare di queste tradizioni una forza di autentica libertà.
Certamente urge dovunque rifare il tessuto cristiano della società umana.
Ma la condizione è che si rifaccia il tessuto cristiano delle stesse comunità ecclesiali che vivono in questi paesi e in queste nazioni” (n.
34).
Facendomi dunque carico della preoccupazione dei miei venerati Predecessori, ritengo opportuno offrire delle risposte adeguate perché la Chiesa intera, lasciandosi rigenerare dalla forza dello Spirito Santo, si presenti al mondo contemporaneo con uno slancio missionario in grado di promuovere una nuova evangelizzazione.
Essa fa riferimento soprattutto alle Chiese di antica fondazione, che pure vivono realtà assai differenziate, a cui corrispondono bisogni diversi, che attendono impulsi di evangelizzazione diversi: in alcuni territori, infatti, pur nel progredire del fenomeno della secolarizzazione, la pratica cristiana manifesta ancora una buona vitalità e un profondo radicamento nell’animo di intere popolazioni; in altre regioni, invece, si nota una più chiara presa di distanza della società nel suo insieme dalla fede, con un tessuto ecclesiale più debole, anche se non privo di elementi di vivacità, che lo Spirito Santo non manca di suscitare; conosciamo poi, purtroppo, delle zone che appaiono pressoché completamente scristianizzate, in cui la luce della fede è affidata alla testimonianza di piccole comunità: queste terre, che avrebbero bisogno di un rinnovato primo annuncio del Vangelo, appaiono essere particolarmente refrattarie a molti aspetti del messaggio cristiano.
La diversità delle situazioni esige un attento discernimento; parlare di “nuova evangelizzazione” non significa, infatti, dover elaborare un’unica formula uguale per tutte le circostanze.
E, tuttavia, non è difficile scorgere come ciò di cui hanno bisogno tutte le Chiese che vivono in territori tradizionalmente cristiani sia un rinnovato slancio missionario, espressione di una nuova generosa apertura al dono della grazia.
Infatti, non possiamo dimenticare che il primo compito sarà sempre quello di rendersi docili all’opera gratuita dello Spirito del Risorto, che accompagna quanti sono portatori del Vangelo e apre il cuore di coloro che ascoltano.
Per proclamare in modo fecondo la Parola del Vangelo, è richiesto anzitutto che si faccia profonda esperienza di Dio.
Come ho avuto modo di affermare nella mia prima Enciclica Deus caritas est: “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n.
1).
Similmente, alla radice di ogni evangelizzazione non vi è un progetto umano di espansione, bensì il desiderio di condividere l’inestimabile dono che Dio ha voluto farci, partecipandoci la sua stessa vita.
Pertanto, alla luce di queste riflessioni, dopo avere esaminato con cura ogni cosa e aver richiesto il parere di persone esperte, stabilisco e decreto quanto segue: Art.
1.
§ 1.
È costituito il Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, quale Dicastero della Curia Romana, ai sensi della Costituzione apostolica Pastor bonus.
§ 2.
Il Consiglio persegue .la propria finalità sia stimolando la riflessione sui temi della nuova evangelizzazione, sia individuando e promuovendo le forme e gli strumenti atti a realizzarla.
Art.
2.
L’azione del Consiglio, che si svolge in collaborazione con gli altri Dicasteri ed Organismi della Curia Romana, nel rispetto delle relative competenze, è al servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione.
Art.
3.
Tra i compiti specifici del Consiglio si segnalano: 1°.
approfondire il significato teologico e pastorale della nuova evangelizzazione; 2°.
promuovere e favorire, in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate, che potranno avere un organismo ad hoc, lo studio, la diffusione e l’attuazione del Magistero pontificio relativo alle tematiche connesse con la nuova evangelizzazione; 3°.
far conoscere e sostenere iniziative legate alla nuova evangelizzazione già in atto nelle diverse Chiese particolari e promuoverne la realizzazione di nuove, coinvolgendo attivamente anche le risorse presenti negli Istituti di Vita Consacrata e nelle Società di Vita Apostolica, come pure nelle aggregazioni di fedeli e nelle nuove comunità; 4°.
studiare e favorire l’utilizzo delle moderne forme di comunicazione, come strumenti per la nuova evangelizzazione; 5°.
promuovere l’uso del Catechismo della Chiesa Cattolica, quale formulazione essenziale e completa del contenuto della fede per gli uomini del nostro tempo.
Art.4 § 1.
Il Consiglio è retto da un Arcivescovo Presidente, coadiuvato da un Segretario, da un Sotto-Segretario e da un congruo numero di Officiali, secondo le norme stabilite dalla Costituzione apostolica Pastor bonus e dal Regolamento Generale della Curia Romana.
§ 2.
Il Consiglio ha propri Membri e può disporre di propri Consultori.
Tutto ciò che è stato deliberato con il presente Motu proprio, ordino che abbia pieno e stabile valore, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgato mediante la pubblicazione nel quotidiano “L’Osservatore Romano” e che entri in vigore il giorno della promulgazione.
Dato a Castel Gandolfo, il giorno 21 settembre 2010, Festa di san Matteo, Apostolo ed Evangelista, anno sesto di Pontificato.
BENEDICTUS PP.
XVI Un dicastero per la dottrina Ratzinger di Massimo Faggioli Papa Benedetto XVI ha pubblicato il motu proprio Ubicumque et semper che istituisce il nuovo “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione”.
Il documento era atteso, e la sorpresa potrebbe riguardare la struttura data dal papa al nuovo organismo della Curia romana, che al momento prevede alla sua guida “un Arcivescovo Presidente” e non (come invece ci si attendeva per mons.
Fisichella) la porpora di un cardinale.
Il linguaggio usato dal motu proprio dice molto dell’impostazione data a questo nuovo strumento di evangelizzazione della Curia romana.
Benedetto XVI parla di “fenomeno del distacco della fede”, di “perdita del senso del sacro”, e coniuga al negativo (come liberazione dalla fede, dalla morale naturale, dalla rivelazione divina) il termine “liberazione” – un termine che nella storia della politica dottrinale di Ratzinger ricopre un ruolo preciso, specialmente negli anni Ottanta della repressione della teologia latinoamericana postconciliare.
Benedetto XVI fa un implicito accenno alla Gaudium et spes del Vaticano II “per la questione della relazione tra la Chiesa e questo mondo contemporaneo”, e ricostruisce la storia dell’idea di una “nuova evangelizzazione” tra i pontificati di Paolo VI e di Giovanni Paolo II.
Quanto all’ambito della missione di questo nuovo Pontificio Consiglio, il motu proprio del papa indica “le chiese di antica fondazione” e “che vivono in territori tradizionalmente cristiani”.
Il nuovo organismo è presieduto da un arcivescovo (e non da un cardinale, diversamente dalle altre Congregazioni e Consigli della Curia romana) e dovrà lavorare “in stretta collaborazione con le Conferenze Episcopali interessate”.
Non molte indicazioni in più sono venute da mons.
Fisichella, che ha presentato il motu proprio del papa rimarcando gli elementi dell’analisi della situazione della chiesa oggi in Occidente: distacco dalla fede, indifferenza religiosa, ateismo di fatto, relativismo, secolarismo, individualismo, soggettivismo.
In risposta a questa situazione, che coinvolge specialmente “soprattutto le chiese di antica tradizione” ma non solo, il nuovo Pontificio Consiglio dovrà “elaborare un pensiero forte in grado di sostenere un’azione pastorale corrispondente”, in particolare facendo ricorso ai “contenuti teologici e pastorali del magistero degli ultimi decenni” e al Catechismo della Chiesa Cattolica, definito “uno dei frutti più maturi delle indicazioni conciliari”.
Alcune domande rimangono per ora senza una chiara risposta.
La prima riguarda le coordinate geografiche di questo “nuovo slancio missionario”: solo le chiese d’Occidente (Europa, Americhe, Australia?), così da creare un contrappeso al ruolo storico della Congregazione di Propaganda Fide creata da Gregorio XV nel 1622? La struttura in dote al nuovo Pontificio Consiglio per ora non sembra paragonabile alla potenza di Propaganda Fide.
Una seconda questione riguarda il rapporto tra il nuovo organismo e le conferenze episcopali nazionali e i vescovi locali, dato che il magistero papale di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ha limitato  drasticamente (specialmente dal motu proprio del 1998 Apostolos Suos in poi) la voce degli episcopati locali: sarà interessante vedere come questo nuovo organismo inciderà su episcopati (come quello degli Stati Uniti) teologicamente in linea con la lettura dell’Occidente data da Benedetto XVI, ma non sempre felici di vedere la  propria autorità ulteriormente limitata da quella di Roma.
Indicativa è la citazione del 2012 non come il cinquantesimo anniversario del Vaticano II, ma il ventennale del Catechismo universale.
La proposta di un nuovo Catechismo era stata ignorata dal concilio, e ripresa da Giovanni Paolo II dopo il Sinodo straordinario del 1985, che contribuì ad elevare la “dottrina Ratzinger” a caposaldo della politica dottrinale della chiesa post-conciliare.
In attesa del nuovo libro-intervista di Benedetto XVI con Peter Seewald, per ora basti rileggere un passaggio di un articolo del teologo Ratzinger del 1975: “La mancanza di chiarezza circa il vero significato del Vaticano II è strettamente legata alla diagnosi del mondo moderno data dalla costituzione Gaudium et spes”.
Il motu proprio papale sottende questa lettura di Gaudium et spes e fa del Catechismo universale (per tramite del nuovo Pontificio Consiglio) la reazione contro “l’ingenuo ottimismo” che Ratzinger ha sempre rimproverato a Gaudium et spes.
Il giovane Karol Wojtyła fu uno dei più importanti autori di quel documento conciliare: da oggi hanno altra materia da romanzo i cultori del dibattito su cattolicesimo ed “ermeneutica della continuità/discontinuità in “Europa” del 13 ottobre 2010