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Autore: La redazione
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La centralità della questione morale
La questione morale è la questione, argomenta Roberta De Monticelli, filosofa di statura europea con anni di insegnamento a Ginevra e ora a Milano al San Raffaele, nel suo nuovo libro (La questione morale, Raffaello Cortina).
Sostenendo che la morale non è un´applicazione secondaria ma il punto da cui tutto dipende, l´autrice si pone in pieno contrasto col pensiero dominante in Italia, che concepisce la morale come traduzione pratica di un primato assegnato ad altro, a una dimensione vuoi politica, religiosa, economica, scientifica, teoretica.
Chi assegna il primato alla morale può stare sicuro oggi in Italia di ricevere l´antipatica etichetta di «moralista», sinonimo nel linguaggio comune di persona noiosa e pedante, incapace di fare i conti con la vita concreta.
Contro questo cinismo che conosce solo la logica del potere, De Monticelli scrive pagine di vera passione intellettuale attaccando il potere politico («l´interesse affaristico che si fa partito e prostituisce il nome di libertà»), mediatico («facce patibolari»), ecclesiastico («nichilismo morale»), intellettuale («disprezzo ardente per tutto ciò che è comune»).
Arriva anche alla piaga più dolorosa: «Una sorprendente maggioranza degli italiani che approva, sostiene e nutre» tale logica del potere.
Alla denuncia segue però una proposta costruttiva («tornare a respirare»), dove lo scetticismo pratico viene confutato proprio in base al suo punto forte, cioè il freddo utilizzo della ragione, perché esercizio della ragione ed esperienza dei valori sono strettamente legati: «Alla base della logica c´è l´etica… alla base dell´etica c´è la logica».
Ritrovandomi pienamente d´accordo con la mia illustre collega, intendo onorare il suo pensiero approfondendo il nodo radicale del nostro Paese, cioè la «sorprendente maggioranza di italiani che approva, sostiene e nutre» lo scollamento tra etica e politica.
Il problema è politico nel senso radicale del termine, riguarda cioè la raccolta del consenso.
Come si raccoglie il consenso? Giocando sulle passioni e sugli interessi, quasi per nulla sul senso di giustizia (a meno di farlo diventare a sua volta una passione e un interesse, trasformando così però la giustizia in iniquo giustizialismo).
Da qui una sorta di primordiale conflitto di interessi: da un lato la morale che vive della solitudine della coscienza perché la vita ci mostra che sollevare problemi morali nel nome della coscienza significa spesso rimanere soli; dall´altro la politica che non può permettersi la solitudine.
Da un lato la morale che si gioca in una impolitica solitudine, dall´altro la politica che si gioca nella capacità di raccogliere il consenso, operazione eminentemente sociale e quindi basata di necessità sugli interessi e le passioni (rimando d´obbligo il grosso animale della Repubblica di Platone e le indimenticabili pagine di Simone Weil al riguardo).
La coscienza impone di essere giusti, ma l´essere giusti non paga in termini di fascino sociale e di raccolta del consenso.
In particolare non paga in Italia, dove gli elettori da anni premiano un uomo che sanno bene non essere lo specchio della morale (ma è ricco, fortunato, abile, “tanto simpatico”).
La questione morale quindi, politicamente intesa, è altamente drammatica.
Il problema che essa pone si chiama traducibilità dell´etica a livello politico, o meglio non-traducibilità.
Fate una campagna elettorale all´insegna della giustizia e del rispetto e sarete ricompensati con il minimo dei voti.
È innegabile quanto scrive De Monticelli: «L´imbarbarimento morale e civile si combatte risvegliando le coscienze alla serietà dell´esperienza morale».
Ma purtroppo è altrettanto innegabile che una raccolta del consenso politico oggi in Italia sulla base della serietà dell´esperienza morale è destinata a non oltrepassare la soglia di sbarramento: con quel programma lì si entra in monastero, non nel Parlamento italiano.
Il problema non è etico, è fisico, di quella fisica della politica che Simone Weil attribuiva a Machiavelli.
Ovvero: perché l´aggregazione sociale non avviene nel nome della giustizia e della morale, ma degli interessi e delle passioni, e quindi molto spesso a scapito della giustizia e della morale? Di fronte a questo immenso problema, qui mi limito a dire che a mio avviso lo si può affrontare solo mediante i partiti e i professionisti della politica (la cui importanza vitale appare in particolare oggi, con le nostre classi dirigenti quasi del tutto prive di veri professionisti della politica).
Il partito politico, nella misura in cui è veramente tale e non un semplice cartello elettorale, media gli interessi e le passioni della moltitudine attraverso un progetto più ampio, rivolto al bene comune.
Il partito politico è il luogo in cui gli interessi e le passioni dei singoli vengono veicolati al servizio di un progetto più ampio, lo stato.
Senza la mediazione dei partiti si ha il corto circuito tra leader e interessi e passioni della moltitudine, ovvero il populismo.
Oppure l´altro estremo, il moralismo, che non vede l´inspiegabile ma reale distanza tra la morale e la politica e crea tra le due un impossibile passaggio diretto, finendo per generare costrizioni e violenza, il contrario della morale.
Occorre coltivare insieme il primato della morale e il richiamo della dura realtà.
Una società (e prima ancora una persona) è matura quando ospita dentro di sé il gioco di queste due forze, quando sa porre il primato dell´etica e quando sa mediarlo con l´opacità del reale.
E al riguardo il ruolo dei partiti e dei veri politici è insostituibile.
in “la Repubblica” dell’11 dicembre 2010
Martin Rhonheimer: il papa discute in campo aperto
Intervista con Martin Rhonheimer D.
– Alcuni commentatori cattolici considerano le osservazioni del papa un cambiamento totale; altri dicono che non è cambiato assolutamente nulla.
Qual è la posizione giusta? R.
– Né l’una né l’altra.
Comincerei con la seconda: “Niente è cambiato”.
Non è vero.
Papa Benedetto, immagino dopo un’attenta ponderazione, ha fatto affermazioni pubbliche che hanno cambiato la riflessione su queste materie, sia dentro che fuori la Chiesa.
Per la prima volta è stato detto da parte del papa in persona, sia pure non in un formale atto di insegnamento del magistero della Chiesa, che la Chiesa non “proibisce” incondizionatamente l’uso profilattico del condom.
Al contrario, il Santo Padre ha detto che in certi casi (nel commercio del sesso, ad esempio), il loro uso può essere un segno di un primo passo verso la responsabilità (nello stesso tempo chiarendo che questa non è né una soluzione per vincere l’epidemia dell’AIDS né una soluzione morale; la sola soluzione morale è abbandonare uno stile di vita moralmente disordinato, e vivere la sessualità in un modo realmente umanizzato).
Queste considerazioni accendono molte sensibilità su entrambi i versanti, e questo è il motivo per cui spero che il passo compiuto da papa Benedetto possa cambiare il modo con cui discutiamo questi temi, verso un modo meno teso e più aperto.
Ma l’altra posizione, secondo cui ciò che ha detto il papa è un cambiamento totale, è ugualmente inesatta.
Primo, ciò che egli ha detto non cambia in nessun modo la dottrina della Chiesa sulla contraccezione; semmai conferma questa dottrina, come insegnata dalla “Humanae vitae”.
Secondo, le sue affermazioni non dichiarano che l’uso del condom sia privo di problemi morali o sia in genere permesso, anche per finalità profilattiche.
Papa Benedetto parla di “begründete Einzelfälle”, che tradotto letteralmente significa “giustificati singoli casi” – come il caso di una prostituta – nei quali l’uso del condom “può essere un primo passo nella direzione di una moralizzazione, una prima assunzione di responsabilità”.
Ciò che è “giustificato” non è l’uso del condom come tale: non, almeno, nel senso di una “giustificazione morale” da cui consegua una norma permissiva tipo “è moralmente permesso e buono usare in condom in questo e quel caso”.
Ciò che è giustificato, piuttosto, è il giudizio che ciò può essere considerato un “primo passo” e “una prima assunzione di responsabilità”.
Papa Benedetto certamente non ha voluto stabilire una norma morale che giustifichi eccezioni.
Terzo, ciò che papa Benedetto dice non si riferisce a persone sposate.
Parla solo di situazioni che sono in se stesse intrinsecamente disordinate.
Quarto, come ben mette in chiaro, il papa non difende la distribuzione dei condom, che egli crede portino a una “banalizzazione” della sessualità che è la causa primaria della diffusione dell’AIDS.
Egli semplicemente menziona il metodo “ABC”, insistendo sull’importanza di A e B (astinenza e fedeltà, “be faithful”), considerando C (“condom”) un ultimo ripiego (in tedesco “Ausweichpunkt”) nell’eventualità che delle persone rifiutino di seguire A e B.
Inoltre, molto più importante, egli dichiara che quest’ultima soluzione appartiene propriamente alla sfera secolare, cioè a programmi di governo per combattere l’AIDS.
Ciò che il papa ha detto, quindi, non riguarda come le istituzioni sanitarie guidate dalla Chiesa debbano trattare i condom.
Ha dato una valutazione su che cosa pensare riguardo a una prostituta che abitualmente fa uso di condom, non riguardo a coloro che sistematicamente li distribuiscono al fine di contenere l’epidemia, cosa che è nella responsabilità delle autorità di uno stato.
Da parte sua, la Chiesa continuerà a presentare la verità riguardo all’ esercizio pienamente umano della sessualità.
D.
– Nelle sue osservazioni, papa Benedetto non definisce l’uso del condom da parte di persone infette di HIV un “male minore”, eppure è così che alcuni teologi e leader cattolici spiegano ciò che ha detto.
Sono i preservativi in qualche caso un “male minore”? R.
– Descrivere l’uso del preservativo per prevenire il contagio come un male minore è molto ambiguo e può produrre confusione.
Certo, possiamo dire che quando una prostituta usa un condom, ciò diminuisce il male della prostituzione o del turismo sessuale, dato che diminuisce il rischio di trasmettere il virus HIV a più larghi strati della popolazione.
Ma ciò non significa che sia bene scegliere atti cattivi per conseguire una finalità buona.
Fermo restando che un comportamento sessuale immorale dovrebbe essere evitato in tutto, a mio giudizio il punto giustamente messo in luce dal Santo Padre è che quando una persona che già sta compiendo atti immorali usa un preservativo, egli o ella non scelgono propriamente un male minore, ma semplicemente cercano di prevenire un male, il male del contagio.
Dal punto di vista del peccatore questo ovviamente significa scegliere un bene: la salute.
D.
– Se il papa dice che l’uso del preservativo in alcuni casi può essere un segno di risveglio morale, non è che egli dice che la pratica della contraccezione è talvolta accettabile? O che la pratica della contraccezione è preferibile alla trasmissione dell’HIV? R.
– Un condom è fatto per essere un mezzo per impedire ai fluidi maschili di penetrare nel grembo della donna.
Il suo uso corrente è per la contraccezione.
Nel caso di cui parla il papa, invece, la ragione del loro utilizzo non è di impedire il concepimento, ma di prevenire il contagio.
Non dobbiamo confondere gli atti umani, che possono essere intrinsecamente buoni o intrinsecamente cattivi, con delle “cose”.
Non è il condom come tale, ma il suo uso che presenta problemi morali.
Quindi, ciò che il papa dice non si riferisce anche alla questione della contraccezione.
Sappiamo che alcuni teologi morali sostengono che poiché – eccetto nel caso di partner sessuali sterili – l’effetto dei condom è sempre fisicamente contraccettivo e per questa ragione intrinsecamente cattivo, coloro che li usano necessariamente commettono il peccato della contraccezione, anche se non ne fanno uso per questo scopo.
Questo è il motivo per cui essi argomentano che il loro utilizzo rende un atto già immorale ancora peggiore.
Ma ciò che papa Benedetto ha detto ora – tenuto conto che non ha voluto restringere il caso alla sola prostituzione omosessuale maschile, nella quale la questione della contraccezione ovviamente non si pone – indebolisce in modo decisivo questa argomentazione.
Io penso che la sola via per sfuggire dal bizzarro vicolo cieco a cui portano tali argomentazioni – la tesi, ad esempio, che anche da un punto di vista morale sarebbe meglio per una prostituta essere infettata che utilizzare un condom – è avere ben chiaro che i preservativi, considerati come tali, non sono “intrinsecamente contraccettivi” nel senso di un giudizio morale.
È il loro uso, e l’intenzione implicata in questo uso, che determina se l’uso di un condom equivale a un atto di contraccezione.
D.
– Si può presumere che il papa fosse consapevole della confusione che certe parole possono produrre tra i cattolici.
Non le chiedo di fare congetture indebite sulle sue intenzioni, ma che cosa di buono può venir fuori da questo? R.
– È evidente che il Santo Padre ha voluto portare questa materia in campo aperto.
Sicuramente ha previsto il trambusto, i fraintendimenti, la confusione e anche lo scandalo che avrebbe potuto causare.
E credo che egli abbia giudicato che sia necessario, nonostante tutte queste reazioni, parlare di queste cose, nello stesso spirito di apertura e di trasparenza con il quale, da quando era a capo della congregazione per la dottrina della fede, ha trattato i casi di abuso sessuale tra il clero.
Penso che papa Benedetto creda nella forza della ragione, e che dopo un certo tempo le cose diverranno più chiare.
Egli ha cambiato la riflessione pubblica su questi temi e ha preparato il terreno per una più vigorosa e appropriata comprensione e difesa dell’insegnamento della Chiesa sulla contraccezione, come parte di una dottrina dell’amore coniugale e del vero significato della sessualità umana.
__________ Il settimanale cattolico degli Stati Uniti su cui è uscita l’intervista col professor Rhonheimer, raccolta dal suo direttore, John Nort
L’insegnamento della religione cattolica nella scuola
All’inizio del nuovo anno scolastico desideriamo far pervenire a ognuno di voi, studenti, genitori e docenti, il nostro saluto e il nostro augurio.
est Leggi tutto
“Tornare a desiderare”
La parola d’ordine del 44° rapporto Censis è “tornare a desiderare”.
E’ un’Italia “appiattita”, che stenta a ripartire, appesantita da un inconscio collettivo senza più legge nè desiderio quella che esce dall’analisi del Censis contenuta nel 44/mo Rapporto sulla situazione sociale del Paese 2010.
Il rapporto è stato presentato questa mattina a Roma dal presidente del centro studi, Giuseppe de Rita, e dal direttore Giuseppe Roma.
Abbiamo resistito ai mesi più drammatici della crisi, dice il Censis, seppure con una “evidente fatica del vivere e dolorose emarginazioni occupazionali”.
Sono evidenti manifestazioni di fragilità sia personali sia di massa: comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, passivamente adattativi, prigionieri delle influenze mediatiche, condannati al presente senza profondità di memoria e futuro.
E una società appiattita “fa franare verso il basso anche il vigore dei soggetti presenti in essa”.
Così all’inconscio, ammonisce il Censis, manca oggi la materia prima su cui lavorare: il desiderio.
Ma “tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita”.
E’ questa l’indicazione che viene dalle considerazioni generali che aprono il rapporto di quest’anno, e che costituisce la chiave di lettura delle diverse sezioni in cui esso, come di consueto, si articola.
Torneremo con altre notizie sull’analisi che il volume dedica al settore della formazione.
tuttoscuola.com Comunicato stampa 03/12/2010 Un inconscio collettivo senza più legge, né desiderio 03/12/2010 L’Italia appiattita stenta a ripartire 03/12/2010 Il capitolo «Processi formativi» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 03/12/2010 Il capitolo «Lavoro, professionalità, rappresentanze» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 03/12/2010 Il capitolo «Il sistema di welfare» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 03/12/2010 Il capitolo «Territorio e reti» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 03/12/2010 Il capitolo «I soggetti economici dello sviluppo» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 03/12/2010 Il capitolo «Comunicazione e media» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 03/12/2010 Il capitolo «Governo pubblico» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 03/12/2010 Il capitolo «Sicurezza e cittadinanza» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Download Il capitolo «Le Considerazioni generali» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «La società italiana al 2010» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «Processi formativi» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «Lavoro, professionalità, rappresentanze» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «Il sistema di welfare» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «Territorio e reti» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «I soggetti economici dello sviluppo» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «Comunicazione e media» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «Governo pubblico» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010 Il capitolo «Sicurezza e cittadinanza» del 44° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2010
Università: passa la riforma
La Camera ha approvato il disegno di legge Gelmini sulla riforma universitaria con 307 voti favorevoli , 252 contrari e 7 astenuti.
Il provvedimento ora torna al Senato per l’approvazione definitiva.
Molte sono le novità, dal reclutamento al merito, dai contratti di ricerca alle borse di studio per arrivare alla stretta contro la cosiddetta ‘parentopoli’ all’interno dell’università.
Tra i punti principali della riforma ci sono quelli che riguardano l’organizzazione del sistema universitario: entro sei mesi dall’approvazione della legge le università dovranno approvare statuti con le seguenti caratteristiche: Codice etico: ci sarà un codice etico per evitare incompatibilità e conflitti di interessi legati a parentele.
Alle università che assumeranno o gestiranno le risorse in maniera non trasparente saranno ridotti i finanziamenti del Ministero.
Rettori: limite massimo complessivo di 6 anni al mandato dei rettori, inclusi quelli già trascorsi prima della riforma.
Governance: distinzione netta di funzioni tra Senato Accademico e Consiglio d’Amministrazione, il primo organo accademico, il secondo di alta amministrazione e programmazione.
Il Senato avanzerà proposte di carattere scientifico, ma sarà il Cda ad avere la responsabilità chiara delle assunzioni e delle spese, anche delle sedi distaccate.
Il Cda avrà un massimo di tre componenti esterni.
Parentopoli: la Camera ha approvato un subemendamento della maggioranza che rende ancora più duro un emendamento proposto dall’Idv contro la ‘parentopoli’ all’interno dell’università.
In particolare, non si potranno avere parentele fino al quarto grado per partecipare ai concorsi, anche per ricercatori e assegnisti.
L’Idv aveva proposto fino al terzo grado.
Fusione atenei: gli atenei avranno la possibilità di fondersi tra loro o aggregarsi su base federativa per evitare duplicazioni e costi inutili.
Riduzione facoltà: riduzione molto forte delle facoltà che potranno essere al massimo 12 per ateneo.
Questo per evitare la moltiplicazione di facoltà inutili o non richieste dal mondo del lavoro.
tuttoscuola.com martedì 30 novembre 2010
Protestanti in Francia: famiglia ricomposta.
Protestanti sono tra il 2,5% e il 2,8% dei francesi.
Vent’anni fa erano circa il 2%.
Questa crescita si spiega con l’esplosione delle Chiese evangeliche.
È vero che gli evangelici fanno più discepoli dei luterano-riformati, ma questi ultimi restano ancora nettamente la maggioranza (56%).
Come succede per molti giovani cattolici, i luterano-riformati si ispirano sempre più ai modi di espressione degli evangelici, al loro senso della comunità e si impegnano in campagne di evangelizzazione.
Il che potrebbe delineare un futuro molto diverso dagli scenari tratteggiati negli anni ’80 sotto il regno assoluto del paradigma della secolarizzazione e dell’ineluttabile scomparsa del religioso.
Questi sono in poche parole i principali insegnamenti del convegno “I protestanti in Francia, una famiglia ricomposta.
Analisi e punti di riferimento”, che si è svolto a Parigi dal 18 al 20 novembre.
Era organizzato dal Groupe Sociétés Religions Laïcités (Ecole pratique des hautes études et CNRS) con il sostegno dell’Institut européen en Sciences des religions e sotto il patrocinio della Fédération protestante de France.
Un convegno particolarmente vivace, con decine di interventi limitati a venti minuti, dibattiti con la sala e talvolta tra relatori.
Tra questi ultimi: Claude Baty, presidente della Federazione protestante, Etienne Lhermeneault, presidente del Consiglio nazionale degli evangelici francesi e Laurent Schlumberger, presidente del Consiglio nazionale della Chiesa riformata.
La “religione come memoria in una discendenze di credenti”, caratteristica di una certa cultura luterano-riformata, sembra lasciare il posto alla “religione per la speranza con pellegrini e convertiti”.
Sembra anche che si vada verso una nuova situazione ecumenica, poiché gli incontri tra i cristiani di Chiese diverse, ad esempio attraverso il parcours Alpha, si moltiplicano.
In altri termini,: la tesi del “blocco dell’ecumenismo” non sta proprio più in piedi.
Ora, questo nuovo “cristianesimo di convinzione” e assertivo che corrisponderebbe all’individualizzazione si sviluppa in una società in cui il numero di atei e di non cristiani tende ad aumentare in questi ultimi trent’anni.
La ricomposizione del protestantesimo si inscriverebbe quindi nella ricomposizione della società.
Queste sono alcune delle formule utilizzate dai due responsabili scientifici del convegno: Sébastien Fath, ricercatore al CNRS al Groupe Sociétés Religions Laïcités, et Jean-Paul Willaime, direttore di studi alla sezione delle Sciences religieuses de l’école pratique des hautes études.
Numeri Per avere un quadro generale delle nuove tendenze, la cosa migliore è consultare un sondaggio effettuato dall’Ifop per Réforme e La Croix: “I protestanti fotografati dalle inchieste IFOP del 2010”.
Il documento è particolarmente ricco, tanto per i risultati grezzi, che per l’originalità del metodo.
I sondaggisti hanno interrogato per telefono negli scorsi mesi di maggio e di giugno 702 persone selezionate dall’Ifop.
Quest’ultimo, guidato dal gruppo GSRL, ha preso in considerazione le persone che si sono dichiarate “protestanti” e quelle che si sono dichiarate “cristiani evangelici”.
A molti evangelici – in questo caso il 18% degli intervistati – non piace presentarsi come “protestanti”.
Un fatto che gli istituti di sondaggio ignoravano fino a quel momento.
E che cambia notevolmente i risultati.
Inoltre, non si parla più qui di “persone vicine al protestantesimo”, un’espressione simpatica ma inadatta.
Secondo Sébastien Fath permette a molti cattolici liberali di esprimere la loro prossimità a ciò che percepiscono del protestantesimo (che raramente corrisponde alla realtà).
Ma queste persone sono cattoliche, non protestanti.
I risultati del sondaggio sono dunque, ai nostri occhi, molto sorprendenti.
Citiamo ad esempio il fatto che il 39% dei protestanti è “praticante regolare” (si reca al culto almeno una volta al mese).
Confrontiamo questa cifra con il 7% dei cattolici praticanti regolari (cioè che vanno a messa almeno una volta al mese).
Citiamo un altro indicatore, molto protestante: il 46% dei protestanti francesi legge la Bibbia almeno una volta al mese.
Quasi la metà! Ma i numeri più spettacolari, a nostro avviso, sono quelli che si ottengono confrontando il profilo dei luterano-riformati e quello degli evangelici.
Il 60% degli evangelici si reca al culto una volta alla settimana, contro…
il 9% dei luterano-riformati.
Il 74% degli evangelici legge la Bibbia almeno una volta alla settimana, contro il 17% dei luterano-riformati.
Una differenza che si ritrova in ambito teologico.
Il 70% degli evangelici dice di contare su guarigioni miracolose contro il 13% dei luterano-riformati.
Si può anche citare il profilo demografico dell’evangelico tipo: è più giovane e più cittadino del riformato tipo.
Il suo statuto sociale è generalmente meno elevato di quello del riformato.
In materia di etica sessuale (e bioetica), le differenze sono importanti (non è necessariamente una sorpresa), ma meno caratterizzanti di quanto si pensava.
Il 46% dei luterano-riformati è a favore della benedizione delle coppie omosessuali da parte delle Chiese, ma una maggioranza – il 54% – è contraria.
Questa opinione è condivisa per il 14% degli evangelici, mentre l’85% è contrario.
Quanto alle convergenze, evidentemente numerose, e sottolineate in particolare dai responsabili della Federazione protestante, si possono citare le preferenze in materia di etica sociale e di politica.
Il 61% dei luterano-riformati è contrario all’affermazione: “Ci sono troppi immigrati in Francia”.
Esattamente come il 62% degli evangelici.
Ci sarebbe anche una correlazione positiva tra atteggiamento favorevole all’accoglienza degli immigrati e lettura della Bibbia.
A rifiutare l’affermazione che ci sono troppi immigrati in Francia è il 71% dei lettori settimanali della Bibbia.
Ecumenismo Destra o sinistra? Alla pari.
Il 53% dei luterano-riformati sono di sinistra (PS e Verdi) e di sinistra si dice anche il 46% degli evangelici.
Il 34% dei luterano-riformati sono di destra (UMP e FN), tale opinione è condivisa “solo” dal 32% degli evangelici.
Si può pensare (e altri sondaggi lo confermano) che i partiti centristi siano molto popolari tra i protestanti.
In ogni caso, come precisa Jean-Paul Willaime nel documento consegnato ai giornalisti, bisogna abbandonare un preconcetto: “Gli orientamenti politici dei luterano-riformati e degli evangelici non differiscono molto.
La contrapposizione corrente tra riformati di sinistra ed evangelici di destra non corrisponde alla realtà.” Altro preconcetto che occorrerebbe rivedere: “l’ecumenismo” attira ancora un numero di luteranoriformati un po’ più alto rispetto agli evangelici.
Ma quando si osservano gli scambi concreti tra cristiani, si scopre che gli evangelici partecipano a incontri ecumenici proporzionalmente più dei luterano-riformati! La differenza è marginale, e si può invece notare la convergenza.
Gli evangelici sono “aperti” al dialogo con gli altri cristiani quasi quanto i luterano-riformati.
Al termine del convegno che aveva lui stesso aperto, Claude Baty ci ha manifestato la sua reazione rispetto ai numeri e alle analisi presentate.
Ha refutato sicuramente la tesi della polarizzazione tra evangelici e luterano-riformati e insistito al contrario su tutto ciò che unisce i protestanti.
“A mio avviso è sbagliato spiegare il protestantesimo diviso in fratture e in blocchi contrapposti.
E in queste condizioni, credo che la mia responsabilità sia di non voler fratturare per esistere, ma al contrario gestire la diversità per dare all’esterno una testimonianza che sia coerente”, ci dice.
Una cosa è certa: durante questi tre giorni di convegno, ci sono stati dibattiti, ma non aprioristicamente tra evangelici e luterano-riformati.
O tra carismatici e tradizionalisti.
Ci sono stati degli scambi tra scienziati, pastori e teologi su fatti osservabili, non dibattiti sterili.
“Non ci si è accontentati di commemorare Calvino”, si rallegra Claude Baty.
E manifesta un punto di vista che sembra nettamente condiviso dagli altri attori del protestantesimo contemporaneo: “Bisogna uscire da una identità storica che ha come finalità solo la commemorazione.
Bisogna uscire da una storia ideale, per entrare in un ritratto realistico”.
in “www.temoignagechretien.fr” del 22 novembre 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
«Neoassunti a Fort Alamo».
Assunti, finalmente.
Con quel contratto a tempo indeterminato in tasca che li salva dalla roulette delle supplenze e dall’ansia per le graduatorie.
Uno se li aspetterebbe carichi di entusiasmo, almeno fiduciosi, come minimo sereni.
E invece i nuovi insegnanti d’Italia giocano già in difesa, avvertono un senso di isolamento, addirittura di arroccamento.
Al punto che la Fondazione Giovanni Agnelli ha scelto un titolo western per lo studio che ne spiega le sensazioni: «Neoassunti a Fort Alamo».
È il terzo anno che la fondazione «interroga» gli insegnanti che hanno appena terminato il primo anno in cattedra dopo l’immissione in ruolo.
Grazie alla collaborazione con gli uffici regionali, hanno risposto in 7.700, dagli asili ai licei, il 96% in dodici regioni.
Un lavorone ma pagina dopo pagina non c’è nemmeno una risposta che indichi un miglioramento.
Rispetto ai loro colleghi entrati in ruolo negli anni precedenti, i neoassunti 2010 faticano di più a mantenere la disciplina: lo ammettono i professori delle superiori (il 53,1% contro il 32,2% di due anni fa) e anche quelli degli asili, raddoppiati in due anni e arrivati al 48,6%.
Moltiplicati per due pure gli insegnanti che non riescono a spingere i ragazzi a studiare: in due anni siamo passati alle elementari dal 20,5 al 42,4%, alle medie dal 36,2 al 53,4%.
Se poi si chiede qual è la causa di questi guai, sembra di sentire una sola voce: tre insegnanti su quattro dicono che la colpa è tutta dello scarso interesse dei ragazzi per lo studio e dell’ancor più scarso valore che le famiglie danno al successo scolastico.
Sul ruolo dei genitori il giudizio è davvero severissimo.
Quattro insegnanti su cinque dicono che è diminuita la stima e la fiducia dei genitori.
E praticamente tutti, si oscilla tra il 96% al 98% a seconda delle regioni, dicono che mamma e papà sono più interessati a proteggere i figli piuttosto che a sapere come vanno a scuola.
«Chiedono di non farli lavorare troppo – sintetizza il direttore della fondazione Agnelli, Andrea Gavosto -, di non dare troppi compiti d’estate o nel fine settimana.
Ma per il resto…».
Insomma, baby sitter e distributori di pezzi di carta più che insegnanti.
In queste condizioni non è certo facile trovare l’entusiasmo necessario.
Anche perché quelli della scuola sono neoassunti molto particolari.
Al momento del passaggio di ruolo in media hanno già lavorato nelle scuole per 10 anni.
Naturalmente da precari, un percorso non sempre formativo e una vera tortura sul piano umano.
C’è il rischio che in alcuni casi, una volta assunto e finito il calvario, l’insegnante possa tirare i remi in barca? «A volte succede» dice Laura Gianferrari, curatrice della ricerca insieme a Stefano Molina e dirigente dell’ufficio scolastico dell’Emilia Romagna.
Secondo lei, però, il vero problema è un altro: «Ormai i ragazzi apprendono seguendo le modalità del pensiero veloce usato con il computer mentre gli insegnanti hanno sempre la stessa cassetta degli attrezzi di una volta: spiegazione, interrogazione, compito in classe…».
Così i ragazzi smanettano con il cellulare sotto il banco.
E i professori si chiudono a Fort Alamo.
Lorenzo Salvia Per la consultazione Fondazione_Agnelli_-_Indagine_Neoassunti_2010_-_Anticipazione.pdf
Intervista a Giuseppe De Rita: «Il terziario senza più valori È questo a preoccupare la Chiesa»
L’intervista «Bisogna essere sinceri.
Certe volte è un po’ difficile interpretare correttamente le parole del Santo Padre».
No, per carità, nessuna polemica.
Il professor Giuseppe De Rita è da sempre un cattolico molto attento e consapevole: quindi osservante e molto rispettoso ma anche abituato ad esprimere il suo parere con molta tranquillità e libertà intellettuale.
In che senso difficile, professore? «Perché parliamo del Pontefice della Chiesa universale.
Ed è complicato capire se si riferisca all’intero pianeta o alla crisi della civiltà occidentale, all’Africa sub-sahariana o alla vecchia Europa, o addirittura alla nostra Italia».
Fatto sta, professore, che Benedetto XVI ha proposto una riflessione sulla necessità di cambiare i nostri stili di vita…
«Come non dargli ragione? Lui stesso deve essersi reso conto di aver messo un po’ tutto in quell’elenco.
La fame, lo squilibrio tra poveri e ricchi, la carenza delle materie prime nel Pianeta, l’emergenza ecologica.
È il fascino di questi discorsi.
Ed è, insieme, il loro limite.
Cioè il non fermarsi di volta in volta su un punto, uno solo…
Mi pare chiaro che siamo tutti chiamati a mutare il modo di vivere, di modificare i consumi.
La crisi è evidente a chiunque.
Così come è chiaro che non si può continuare a consumare nel modo che abbiamo conosciuto per decenni» In questo quadro il Pontefice insiste su un punto: la rivalutazione dell’agricoltura «non in senso nostalgico ma come risorsa del futuro».
Lei, professor De Rita, pensa che sia un’esortazione realizzabile in un mondo come il nostro? «Guardi, qui mi piacerebbe soffermarmi sul caso italiano.
Il nostro è stato un Paese per secoli a tradizione agricola.
Ma ora non si può ragionevolmente immaginare un ritorno a un mondo che non c’è più.
L’agricoltura funziona, in una realtà contemporanea come quella italiana, quando si intreccia con altri tre mondi.
Cioè con la stessa industria, e allora abbiamo l’agro-industria, uno dei settori di eccellenza dell’Italia.
Quando si collega al turismo, ed eccoci all’agri-turismo, che si è ormai sviluppato ovunque, dai masi nel Trentino alle masserie pugliesi».
Infine, sottolinea De Rita, c’è un’altra realtà: «Quel tipo di agricoltura che si intreccia con la realtà urbana.
Parlo delle coltivazioni curate dai pendolari, dai pensionati che hanno comprato un piccolo terreno e lo coltivano.
Come si vede osservando queste tre diramazioni, se si dice “agricoltura” in Italia non si indica più una zona economica composta da poveracci e da emarginati sociali.
Forse, qualche difficoltà possono averla quei coltivatori a lungo “protetti” dagli incentivi dell’Unione Europea.
Ma non è una realtà così corposa da trasformarsi in fenomeno sociale».
Una piccola pausa: «Certo, se l’analisi del Papa va poi applicata, come dicevo, a quelle aree africane semidesertiche dove l’agricoltura è una necessità primaria ma stenta, per ragioni climatiche e geologiche, a sfamare le popolazioni, il discorso cambia radicalmente…» Un dubbio.
Il richiamo dell’Angelus di ieri non svela forse quell’antico sospetto con cui la Chiesa sembra aver guardato per decenni alla civiltà industriale? Non c’è veramente il rimpianto per il mondo agricolo regolato da leggi morali precise? «Ritengo che a pensarla così sia rimasto solo qualche parroco in pensione novantacinquenne di chissà quale piccolo paese….
In realtà mi pare che dalle parole del Santo Padre emerga un’altra questione.
Cioè che la Chiesa vede concludersi un mondo “certo”, sicuro, cioè il grande sviluppo legato all’industria così come l’abbiamo conosciuta.
E di conseguenza si interroga sulla nuova zona di incertezza sociale costituita oggi da un terziario dove inevitabilmente vince il personalismo e la soggettività.
Ed è in quell’area che affondano le radici del relativismo contemporaneo e quindi della secolarizzazione.
Lì tutto diventa opinabile…
E la Chiesa, giustamente, si preoccupa».
in “Corriere della Sera” del 15 novembre 2010