«ICA» – DIZIONARIO DI CATECHETICA
<p >Apriamo questa sezione, in principio, mettendo a disposizione il «DIZIONARIO DI CATECHETICA» che L’ISTITUTO editò nel 1986.
In un secondo momento, cercheremo di riscrivere «on line» un nuovo dizionario.
A colloquio con l’arcivescovo Claudio Maria Celli su cinema e fede
Il cinema è un modo per scolpire il tempo scriveva il regista-poeta Andrej Tarkovskij in un saggio del 1988; “è l’unica forma d’arte che, proprio perché operante all’interno del concetto e dimensione di tempo, è in grado di riprodurre l’effettiva consistenza del tempo, l’essenza della realtà, fissandolo e conservandolo”, un’arte che, come gli haiku giapponesi riesce a rendere l’irripetibilità dell’istante, “geneticamente” vicina al mistero e al sacro, secondo l’autore di capolavori come Solaris, Stalker e Andrej Rublev. “Persino la constatazione della mancanza di spiritualità del tempo in cui vive – scriveva il regista russo, sempre in Scolpire il tempo – richiede all’artista la più alta e determinata elevatezza spirituale”. Se la Bellezza, con la “b” maiuscola, parla da sola della sua origine, non c’è bisogno di aggiungere “didascalie religiose” alle opere d’arte; o, per dirla con maggiore sintesi con le parole dell’arcivescovo Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali, usate nel corso di un dibattito durante il convegno “Film and faith” (l’1 e il 2 dicembre alla Pontificia Università Lateranense, organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo): “Non abbiamo bisogno di film catechistici ma di film belli”. Nell’introdurre la sessione dei lavori dedicati al ruolo del critico cinematografico, monsignor Celli ha sottolineato: “Basta guardare alla produzione cinematografica recente per vedere che il sacro emerge da molti film, a volte appena sussurrato, quasi come fosse una traccia da seguire; di là dagli artifici, dagli effetti speciali, percepisco in molti film che quell’elemento spirituale non è separato dal mondo, non è astratto, ma si mescola alle piccole cose di ogni giorno, quasi nascosto, come fosse una luce sottile che le rende speciali. Così si percepisce una certa presenza di Dio in molti film, come una vibrazione appena percettibile che ogni artista suggerisce, affinché lo spettatore la individui da solo”.
Monsignor Celli, una delle malattie più gravi del mondo contemporaneo è lo sfaldamento dell’identità personale; l’arte, e in particolare il buon cinema, può aiutare a contrastare questa crescente “polverizzazione dell’io”?
Al di là del credo religioso e della cultura, la storia di ogni uomo, nei millenni, non può essere annullata, in un percorso che lega le generazioni tra loro, attraverso la tradizione e l’insegnamento. L’arte è da sempre maestra nel trasmettere l’identità di ogni popolo ed epoca. Credo dunque che il senso di appartenenza sia fondamentale per l’identità personale e sia il fulcro del nostro esistere. Il buon cinema, in quanto somma di tante arti, con il suo linguaggio suggestivo può veicolare immagini, idee e valori che riescono a far affiorare dall’intimo delle persone riflessioni fondamentali, suscitando interrogativi, dubbi, ma soprattutto spingendoci a un cammino di ricerca più profonda del nostro io. Di lì il passo è breve, c’è l’altro e c’è Dio.
Non c’è solo banalità e volgarità sul grande schermo, c’è anche una settima arte che affronta la profonda crisi esistenziale e la costante – per quanto spesso confusa e contraddittoria – ricerca di senso dell’uomo contemporaneo. Cosa fare per favorire la diffusione di quello che lei chiama “un cinema ad alto voltaggio morale”?
Credo che il cinema, proprio per il suo linguaggio, possa aiutare ogni uomo a rientrare in se stesso, pacificandolo con la propria interiorità e predisponendolo all’altro, nell’accettazione della diversità e nella condivisione della spiritualità. Quando vediamo un film, un buon film, tutto non finisce con i titoli di coda, ma inizia, perché rielaboriamo le emozioni. Dunque, facciamo appello alla grande sensibilità degli artisti che ci illuminano con le loro opere, ma allo stesso tempo credo sia fondamentale una vera e propria educazione al linguaggio dell’immagine, un percorso formativo che porti gli spettatori, sin dalla più tenera età, a un’analisi consapevole dei contenuti cinematografici, sviluppando il loro senso critico. Non bisogna demonizzare il film diseducativo, quanto piuttosto aprire spazi di dialogo, ribadendo che l’uomo, creato a immagine di Dio, ha una sua dignità che non può essere oltraggiata, ha una sua aspirazione ben più alta e soprattutto cerca la verità, quella verità che anche un film può contribuire a scoprire. I “miracoli” sono spesso celati tra le piccole cose della nostra quotidianità; non dobbiamo andare lontano, perché lo spirito ci accompagna ogni giorno anche attraverso un’immagine, una nota musicale, una parola. Tutto questo fa un buon film.
In quali opere ha recentemente riscontrato un respiro più grande e un’utilità “educativa”, se così si può chiamare?
È sempre difficile rispondere a questa domanda, perché in tanti film ci sono passaggi a volte inattesi che imprimono la mia anima. È un insieme di sensazioni per cui la spiritualità emerge da una luce, da una musica ed è lì che il film acquista una bellezza difficile da descrivere. Indubbiamente Uomini di Dio, che senza artifici riesce a narrare una storia di fede e dolore, una vera e propria passione, oppure The Tree of Life di Terrence Malick, una vera e propria parabola visiva sulla creazione, il peccato, la redenzione e l’amore. Ma la lista potrebbe essere più lunga. Cito solo questi due esempi perché, pur non essendo film “facili”, hanno conquistato il pubblico. Come vede gli spettatori hanno bisogno che si torni a “narrare” lo spirito.
“L’impatto degli strumenti della comunicazione sulla vita dell’uomo contemporaneo – ha detto Benedetto XVI – pone questioni non eludibili”; quali sono le occasioni di dialogo e riflessione che si sono rivelate più produttive e interessanti all’interno dell’attività del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali?
Il nostro dicastero ha sempre cercato di non “teorizzare” troppo sulla comunicazione, ma di agire, poiché siamo fermamente convinti che l’uomo contemporaneo vive letteralmente la sua vocazione di comunicatore e attraverso gli strumenti creati dal suo genio riesce ad ampliare le sue conoscenze e il suo raggio di azione. Per questo siamo in perenne contatto sinergico con tutte le realtà mondiali che possano aiutarci a rispondere al bisogno di vera comunicazione che il mondo ha. Congressi, incontri, formazione: tutto questo è fondamentale. Quello che però vorrei dire ai giovani che si apprestano a lavorare nel mondo della settima arte è: non tradite voi stessi, il vostro credo, le vostre aspirazioni. Siate veri, della stessa Verità del Vangelo. Ascoltate il mondo e i suoi bisogni, le sue ansie e le sue speranze. Il cuore umano anela a un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità e dove l’identità di ciascuno sia realizzata in una comunione rispettosa. Siate pronti ad accogliere questa sfida con i vostri film! Siate artisti appassionati della verità e della bellezza.
Il festival “Tertio Millennio” vuol essere una tessera di questo mosaico?
Il festival nasce da una sinergia di intenti, alla fine degli anni Novanta. L’Ente dello Spettacolo, il Pontificio Consiglio della Cultura, il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali hanno sentito che era il momento di aprire un dialogo costruttivo tra la Chiesa e il mondo del cinema, considerato un veicolo di cultura e proposta di valori. Questo poteva incoraggiare una produzione dalle grandi possibilità umanizzanti, evidenziando la dimensione spirituale che è in ogni essere umano e che il cinema in moltissimi casi ha dimostrato di saper bene esprimere.
(©L’Osservatore Romano 4 dicembre 2011)
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Buona consultazione La Redazione
Intervento di Telmo Pievani (filosofo)
I fatti.
Gesù si ritrova con i Suoi.
Oltre il dramma, la delusione, l’amarezza è la felicità: la corsa al Sepolcro di Pietro e Giovanni, il ritorno concitato dei discepoli da Emmaus, lo stupore dell’ incontro nelle diverse situazioni di vita: in pianto alla tomba, raccolti in preghiera, sul monte del commiato…
Anche più realistica la concreta partecipazione alle consuete esperienze di vita: pace a voi, avete qualcosa da mangiare, avvicinati, tocca il mio costato… E’ Lui, proprio Lui; quello che hanno veduto e toccato per gli anni duri e luminosi della missione.
E se tratta con qualcuno di loro in particolare, è toccante l’intensità dell’incontro.
Giovanni e Luca ne danno la misura.
L’incontro con Maria di Magdala è di una intensità umana incomparabile.
Maria, suona il richiamo affettuoso alle sue spalle;
Rabbunì risponde di slancio appassionato la prima donna che lo vede risorto.
E nessuno sa narrare la felicità di quel momento nella novità di una presenza, che esalta l’attesa di una donna che ama e contemporaneamente sconvolge la vicenda di ogni uomo che dopo di lei è chiamato ad incrociarlo.
Così il ritorno concitato dei due discepoli da Emmaus verso Gerusalemme con in cuore una notizia sconvolgente: E’ risorto; ha cenato con noi!
Come è difficile misurare la forza rinnovatrice del dialogo di Pietro con Gesù sulle sponde del lago di Tiberiade, al momento della Consegna. Dalla consolazione di sentirsi di nuovo interpellato sulla passione che ormai brucia la sua vita: mi ami? All’insistenza garbata da cui affiora l’ombra amara del tradimento, alla consegna che gli restituisce intatta la fiducia del Maestro.
Il significato.
Insomma nella risurrezione Cristo ricupera in pienezza la quotidianità dell’esperienza vissuta con i Suoi; anzi la fa vibrare di una intensità singolare.
Rivela finalmente il senso di misteriose allusioni che il discepolo prediletto si è preoccupato di raccoglie e segnalare lungo l’intero arco della sua vita terrena.
Quando sarò elevato attirerò tutti a me.
La morte in croce ha segnato il vertice dell’ascesa umana; il compimento di questo sinuoso e talora atroce percorso che l’uomo va conducendo: a Lui possono guardare tutti coloro che vivono la passione per la propria dignità e realizzazione. Che cercano a tentoni di orientarsi, di cogliere un barlume di verità, che rischiari il proprio cammino: sono venuto per rendere testimonianza alla verità…
La sua risurrezione offre il sigillo della’autenticità a tutta la vicenda terrena: nulla di quanto Gesù ha vissuto va perduto; anzi, tutto assume conferma e splendore.
Nella risurrezione rifulge di nuova e imprevedibile luce il senso vero dell’esistenza e del travaglio che l’accompagna. Tutti i segni che hanno segnato la vita terrena di Cristo ritornano; erano espressione di una rivelazione iscritta nel tempo, in un certo senso destinati a tramontare con il tempo: il segno della risurrezione si iscrive nell’eternità, supera il tempo e lo redime con una conferma che ha il carattere della definitività.
Dunque la risurrezione porta per eccellenza il suggello della vita, non perché Gesù ritorna alla vita, ma perché imprime nella vita il segno nuovo dell’immortalità.
Nella ridda concitata di incontri che i Vangeli raccontano con sobrietà ed emozione i primi testimoni fanno un’esperienza sconvolgente: sono proiettati nel tempo nell’intronizzazione di Cristo che li ha salvati oltre il tempo.
Cosicché l’esistenza dell’uomo, tutta la sua esistenza, trova il senso che Dio solo è in grado di imprimervi.
La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte
Mentre il Natale suscita istintivamente l’immagine di chi si slancia con gioia (e anche pieno di salute) nella vita, la Pasqua è collegata a rappresentazioni più complesse. È la vicenda di una vita passata attraverso la sofferenza e la morte, di un’esistenza ridonata a chi l’aveva perduta.
Perciò, se il Natale suscita un po’ in tutte le latitudini (anche presso i non cristiani e i non credenti) un’atmosfera di letizia e quasi di spensierata gaiezza, la Pasqua rimane un mistero più nascosto e difficile. Ma tutta la nostra esistenza, al di là di una facile retorica, si gioca prevalentemente sul
terreno dell’oscuro e del difficile.
Penso soprattutto, in questo momento, ai malati, a coloro che soffrono sotto il peso di diagnosi infauste, a coloro che non sanno a chi comunicare la loro angoscia, e anche a tutti quelli per cui vale il detto antico, icastico e quasi intraducibile, senectus ipsa morbus , «la vecchiaia è per sua natura una malattia ». Penso insomma a tutti coloro che sentono nella carne, nella psiche o nello spirito lo stigma della debolezza e della fragilità umana: essi sono probabilmente la maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo. Per questo vorrei che la Pasqua fosse sentita soprattutto come un invito alla speranza anche per i sofferenti, per le persone anziane, per tutti coloro che sono
curvi sotto i pesi della vita, per tutti gli esclusi dai circuiti della cultura predominante, che è (ingannevolmente) quella dello «star bene» come principio assoluto. Vorrei che il saluto e il grido che i nostri fratelli dell’Oriente si scambiano in questi giorni, «Cristo è risorto, Cristo è veramente risorto», percorresse le corsie degli ospedali, entrasse nelle camere dei malati, nelle celle delle prigioni; vorrei che suscitasse un sorriso di speranza anche in coloro che si trovano nelle sale di attesa per le complicate analisi richieste dalla medicina di oggi, dove spesso si incontrano volti tesi,
persone che cercano di nascondere il nervosismo che le agita.
La domanda che mi faccio è: che cosa dice oggi a me, anziano, un po’ debilitato nelle forze, ormai in lista di chiamata per un passaggio inevitabile, la Pasqua? E che cosa potrebbe dire anche a chi non condivide la mia fede e la mia speranza? Anzitutto la Pasqua mi dice che «le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rom 8,18). Queste sofferenze sono in primo luogo quelle del Cristo nella sua Passione, per le quali sarebbe difficile trovare una causa o una ragione se non si guardasse oltre il muro della morte. Ma ci sono anche tutte le sofferenze personali o collettive che gravano sull’umanità, causate o dalla cecità della natura o dalla cattiveria o negligenza degli uomini. Bisogna ripetersi con audacia, vincendo la resistenza interiore, che non c’è proporzione tra quanto ci tocca soffrire e quanto attendiamo con fiducia. In occasione della Pasqua vorrei poter dire a me stesso con fede le parole di Paolo nella seconda Lettera ai Corinzi: «Per questo non ci scoraggiamo, ma anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno. Infatti il momentaneo,
leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne». Tutto questo richiede una grande tensione di speranza.
Perché, come dice ancora san Paolo, «nella speranza noi siamo salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza» (Rom 8,24). Sperare così può essere difficile, ma non vedo altra via di uscita dai mali di questo mondo, a meno che non si voglia nascondere il volto nella sabbia e non voler vedere o pensare nulla.
Più difficile è però per me esprimere che cosa può dire la Pasqua a chi non partecipa della mia fede ed è curvo sotto i pesi della vita. In questo mi vengono in aiuto persone che ho incontrato e in cui ho sentito come una scaturigine misteriosa, che le aiuta a guardare in faccia la sofferenza e la morte anche senza potersi dare ragione di ciò che seguirà. Vedo così che c’è dentro tutti noi qualcosa di quello che san Paolo chiama «speranza contro ogni speranza» (Lettera ai Romani, 4,18), cioè una volontà e un coraggio di andare avanti malgrado tutto, anche se non si è capito il senso di quanto è avvenuto. È così che molti uomini hanno dato prova di una capacità di ripresa che ha del miracoloso. Si pensi a tutto quanto è stato fatto con indomita energia dopo lo tsunami del 26 dicembre 2004 o dopo l’inondazione di New Orleans provocata dall’uragano Katrina nell’agosto successivo. Si pensi alle energie di ricostruzione che sorgono come dal nulla dopo la tempesta delle guerre. Si pensi alle parole che la ventottenne Etty Hillesum scrisse il 3 luglio 1942, prima di essere portata a morire ad Auschwitz: «Io guardavo in faccia la nostra distruzione imminente, la nostra prevedibile miserabile fine, che si manifestava già in molti momenti ordinari della nostra vita quotidiana. È questa possibilità che io ho incorporato nella percezione della mia vita, senza sperimentare quale conseguenza una diminuzione della mia vitalità. La possibilità della morte è una presenza assoluta nella mia vita, e a causa di ciò la mia vita ha acquistato una nuova dimensione».
Per queste cose non ci si può affidare alla scienza, se non per chiederle qualche strumento tecnico: al massimo essa permette un debole prolungamento dei nostri giorni.
L’interrogativo è invece sul senso di quanto sta avvenendo e più ancora sull’amore che è dato di cogliere anche in simili frangenti. C’è qualcuno che mi ama talmente da farmi sentire pieno di vita persino nella debolezza, che mi dice «io sono la vita, la vita per sempre». O almeno c’è qualcuno al quale posso dedicare i miei giorni, anche quando mi sembra che tutto sia perduto. È così che la risurrezione entra nell’esperienza quotidiana di tutti i sofferenti, in particolare dei malati e degli anziani, dando loro la possibilità di produrre ancora frutti abbondanti a dispetto delle forze che vengono meno e della debolezza che li assale. La vita nella Pasqua si mostra più forte della morte ed è così che tutti ci auguriamo di coglierla.
in “Avvenire” del 15 aprile 2011
di Saverio Xeres, presbitero e docente di storia della chiesa presso la facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, e Giorgio Campanini, laico e già professore di Storia delle dottrine politiche, oltre che di teologia del laicato.
È una sensazione condivisa, di questi tempi, nelle nostre comunità cristiane: un senso di oppressione, quasi mancasse il respiro. Come per una Chiesa piuttosto in affanno, fino ad avere il “fiato corto”. Si attribuisce spesso l’inizio di tutti i mali presenti alla svolta segnata dal concilio Vaticano II, ma è una tesi non giustificata. Se ci fu un momento in cui il respiro della Chiesa si fece ampio, fu proprio quello: ricuperando le dimenticate profondità della Scrittura e della Tradizione, riattivando i legami con le altre Chiese cristiane, aprendo le finestre verso un mondo in fermento. Si era tornati, insomma, a respirare a pieni polmoni, utilizzando le molteplici risorse che lo Spirito mette a disposizione del Corpo di Cristo. Poi, per una serie di motivi che qui, almeno in parte, si cerca di individuare e documentare, si ebbe forse timore di osare troppo, impauriti, come l’apostolo Pietro, per un vento che soffiava forte. E ci si è rassegnati ad un piccolo cabotaggio, in un rassicurante andirivieni tra una sponda e l’altra. Eppure il vento soffia ancora.
Recensione
Oggi alla Chiesa manca il respiro
Ormai non ci si presta nemmeno più attenzione, ma nei mezzi di informazione si è ritornati alla «antica e preconciliare identificazione fra chiesa italiana e Conferenza episcopale», anzi sovente addirittura tra cattolici e presidenza della Cei. E questo non dipende in primo luogo da una sbrigativa semplificazione da parte dei mass media, ma da un progressivo dilatarsi della forbice tra la sovraesposizione dei vertici ecclesiastici e l’afasia dell’opinione pubblica nella chiesa. È l’immagine che la chiesa dà di se stessa che in un certo senso autorizza l’osservatore esterno a identificarla con le figure più rappresentative del suo episcopato. Non si tratta quindi di un deplorevole malcostume giornalistico, quanto piuttosto di un serio campanello d’allarme sullo stato di salute della chiesa italiana e sul suo impatto nella società civile.
L’impressione più diffusa all’esterno, ma soprattutto all’interno della chiesa, è quella sinteticamente evidenziata dal titolo di un breve saggio a due voci: Manca il respiro (Ancora, pp. 144, 13,00). Gli autori – Saverio Xeres, presbitero e docente di storia della chiesa presso la facoltà Teologica dell’Italia settentrionale, e Giorgio Campanini, laico e già professore di Storia delle dottrine politiche, oltre che di teologia del laicato – danno voce a un disagio sempre più diffuso tra i cattolici italiani, alla sofferenza di tanti credenti che amano e hanno a cuore la propria chiesa e la vorrebbero in costante riforma per presentarsi al suo Signore «senza macchia né ruga» (Ef 5,27).
Xeres analizza in modo sintetico ma esauriente «La Chiesa italiana nel passaggio culturale degli ultimi decenni», esaminando in particolare l’articolazione tra postconcilio e postmoderno, mentre Campanini guida il lettore «Alla riscoperta della categoria conciliare di “popolo di Dio”».
L’immagine che emerge da questo doppio, appassionato sguardo non è delle più incoraggianti: sempre più fedeli assistono scoraggiati e impotenti a un progressivo depotenziamento dei documenti conciliari, specie di quelli portatori di un nuovo soffio vitale nella chiesa. Sembra quasi che le decisioni collegiali assunte dai padri conciliari che, non si dimentichi, costituiscono la più alta espressione del magistero ecclesiale – siano equiparati ai molteplici pronunciamenti di singole conferenze episcopali e di uffici nazionali che finiscono per esprimere una sempre più accentuata autoreferenzialità della chiesa. Così si arriva ad «assimilare le grandi prospettive conciliari alle
patetiche velleità postconciliari».
Il criterio di lettura della situazione della «Chiesa nel mondo contemporaneo», offerta dal Vaticano II e consistente nel «vedere-giudicare-agire», sembra ormai aver lasciato il posto a una prelettura di eventi e circostanze che viene poi calata dall’alto nelle singole realtà regionali o diocesane.
Anche il laicato, quando è preso in considerazione, viene pensato come un sostituto di un clero in costante diminuzione e non come una diaconia con un ruolo specifico nel mondo. Così assistiamo a interventi di organismi episcopali che si sostituiscono ai laici nel leggere la situazione sociale proprio mentre prestano sempre meno ascolto alla voce dei laici stessi: questa è l’analisi dei due autori, che tuttavia non si ferma all’amara costatazione di «un diffuso senso di frustrazione all’interno stesso della chiesa», ma aprono con fiducia a una nuova stagione di presenza cristiana nella società: «Sono questi tempi di marginalità per la chiesa i più preziosi: la bellezza del Vangelo infatti appare limpidamente quando esso non ha altro sostegno se non la propria, intrinseca fecondità». Sì, anche quando «manca il respiro», lo Spirito non cessa di soffiare.
di Enzo Bianchi
in “La Stampa” del 16 aprile 2011
video realizzato in occasione del Convegno nazionale direttori di IRC
Non si può certo negare: molte componenti della Chiesa appaiono e si dicono stanche, comunque prive di attesa. Molti presbiteri e religiosi si lamentano sovente, molti semplici fedeli prendono, ogni giorno di più, distanza dalle forme visibili dell’appartenenza alla Chiesa.
Lo sappiamo bene dai vescovi stessi: in Germania, in Austria, in Francia e in Belgio non sono pochi quelli che con rumore lasciano la Chiesa, che addirittura vorrebbero cancellare il loro nome dall’elenco di appartenenza alla parrocchia o persino dai registri del Battesimo. In Italia, con meno clamore, senza più le contestazioni conosciute negli anni ’70 del secolo scorso, si registra il fenomeno di quelli che semplicemente continuano a vivere la loro fede etsi ecclesia non daretur, anche se la Chiesa non ci fosse».
Sì, siamo di fronte a una Chiesa affaticata, anzi, usando un’espressione del magistero papale vorrei parlare di una ecclesia afflicta. Più volte in questi tempi leggo e rileggo san Basilio, il grande padre della Chiesa che nel De iudicio Dei cercava di comprendere la situazione ecclesiale del suo tempo: i suoi giudizi, le sue sofferenze sono simili a quelli che anch’io porto nel cuore, nella preghiera, nel confronto con gli uomini e le donne che incontro. Non è un momento facile per la Chiesa, perché la Chiesa stessa si trova lacerata, divisa: in essa «troppi si mordono a vicenda», come ha scritto Benedetto XVI, trasformando ogni diversità, anche legittima, in aspro conflitto, in condanna, in censura, o addirittura in interventi ossessivi che fanno la caricatura dell’altro – il quale resta pur sempre un fratello o una sorella per il quale Cristo è morto, un appartenente alla Chiesa cattolica – fino al disprezzo e alla delegittimazione… Nell’epoca culturale in cui si è fatto debole e svanisce il senso dell’appartenenza, occorrerebbe vigilare e quindi reagire a questa deriva che può aprire a uno «scisma muto», che non solo indebolisce la Chiesa, ma la riduce a un «movimento», come ha analizzato recentemente con intelligenza il segretario della Cei, monsignor Crociata.
Ma da dove deriva questo affaticamento? Esistono cause leggibili? Certamente la diminutio della comunità cristiana in termini di appartenenti, e in particolare di vocazioni alla vita presbiterale e religiosa – almeno nell’Occidente in cui si colloca l’Italia, perché è a questa realtà che va il nostro sguardo –, anche se non minaccia le convinzioni, rende però più difficile la vita ecclesiale e, soprattutto, affatica i presbiteri – sempre più oberati di servizi e lavoro, con un’età media sempre più alta – ed espone la vita religiosa alla tentazione di non sperare più in sé stessa. Non dimentico
neppure il clima culturale in cui viviamo, o meglio siamo precipitati, sempre più contrassegnato da valori che sono all’opposto di quelli cristiani: l’affievolimento dei principi etici, la scomparsa dell’orizzonte comunitario, l’individualismo crescente, il nichilismo, I’egolatria, la dittatura delle emozioni e dei sentimenti, l’incapacità di perseveranza, la perdita del senso della fedeltà.
Conosciamo ormai tutti bene e a memoria questo elenco che dice la realtà del clima attuale, dell’aria che si respira.
Credo però che occorra riconoscere che anche aspetti di vita interna della Chiesa contribuiscono ad affaticarci. Quando penso allo sforzo che la mia generazione ha fatto in obbedienza alla Chiesa per un rinnovamento attraverso il Concilio, e poi constato che oggi nella Chiesa molti lavorano contro il Vaticano II, criticandolo e prendendone le distanze, operano contro l’ecumenismo e la riforma liturgica, allora osservo che in molti altri si fa largo un sentimento di confusione. Alcuni dicono con molto rispetto: «Non capisco più!»; altri finiscono per soffrire fino alla frustrazione…
Tanta fatica per cambiare, quasi cinquant’anni fa – uno sforzo compiuto con entusiasmo ma a volte anche a prezzo di sofferenza e sottomettendo le nostre nostalgie personali al bene della vita ecclesiale – secondo le indicazioni del Concilio e del Papa: e oggi? Perché ci sono presenze nella Chiesa che vorrebbero spingerci a essere con il Papa contro i vescovi oppure con i vescovi contro il Papa, persino quando si tratta di celebrare l’Eucaristia, luogo per eccellenza della comunione ecclesiale? Si dice che il cammino ecumenico è irreversibile, ma poi vediamo che molti vorrebbero
correggere la sua comprensione consegnataci dal Vaticano II. Papi e vescovi ci hanno insegnato che il vero ecumenismo non significava ritorno alla Chiesa cattolica, bensì cammino verso un’unità che i cattolici confessano essere un principio già presente nella loro Chiesa, ma che deve essere ancora completata, in quanto mai piena nelle diverse forme e convergenze. Abbiamo forse avuto vescovi e Papi come «cattivi maestri»? E i “gesti” così eloquenti compiuti dagli ultimi Papi erano forse temerari, favole da non prendere sul serio?
Ho quasi settant’anni, ho lavorato tutta la mia vita per l’unità delle Chiese e la comunione nella mia Chiesa, ma oggi sento e constato tante contraddizioni. Sì, faccio fatica anch’io, sono stanco di queste guerre tra fazioni ecclesiali combattute sui blog per mezzo di giornalisti compiacenti; sono stanco di accuse che mostrano come non si voglia né ascoltare né conoscere la verità ma soltanto far tacere l’altro. E mi chiedo con molti altri: dove va la Chiesa? Questa nostra Chiesa che abbiamo tanto amato e vogliamo ancora amare in un’appartenenza leale, non adulatrice e che non cerca né privilegi né promozioni… Questa Chiesa che amiamo, più di noi stessi.
in “Jesus” dell’aprile 2011