Il carisma e la passione per la catechesi di San Cesare de Bus

L’Istituto di Catechetica organizza, il 12 aprile alle ore 15, un pomeriggio di studio e approfondimento dal titolo: “Il carisma e la passione per la catechesi di San Cesare de Bus: le Istruzioni familiari tra memoria e attualità prospettica”.

 

 

Cesare De Bus nacque a Cavaillon, nei pressi di Avignone, il 3 febbraio 1544. Era il settimo di tredici figli. Passò la gioventù tra gli ufficiali di Carlo III e la corte reale, lontano dalla pratica religiosa. La conversione avvenne nel 1575, anche grazie alla preghiera e alla penitenza di due umili persone, Antoinette Revillande e Louis Guyot. Fu decisivo nel suo cambiamento il ruolo dei suoi direttori spirituali, prima il gesuita padre Piquet, poi il vescovo diocesano, che lo incaricò di predicare alla gente più umile e bisognosa. Nel 1582, trentottenne, fu ordinato sacerdote, assumendo il ruolo di canonico della cattedrale di Avignone. Nel 1592 intorno a lui si venne a formare una famiglia di sacerdoti che l’aiutarono nell’insegnamento del catechismo: era l’avvio della congregazione dei Padri della Dottrina Cristiana, detti Dottrinari. Gli ultimi anni della sua vita furono contrassegnati da gravi prove morali, come l’abbandono da parte di alcuni dei primi compagni, e dalle malattie, tra cui la cecità. Morì ad Avignone il 15 aprile 1607, domenica di Pasqua. Fu beatificato da san Paolo VI il 27 aprile 1975. Il 26 maggio 2020 papa Francesco autorizzò la promulgazione del decreto relativo a un terzo miracolo per sua intercessione, dopo i due necessari all’epoca per la beatificazione, aprendo quindi la via alla sua canonizzazione, poi celebrata il 15 maggio 2022. I suoi resti mortali sono venerati nella chiesa di Santa Maria in Monticelli a Roma, mentre la sua memoria liturgica cade il 15 aprile, giorno della sua nascita al Cielo.

Programma

Modera: Don Giuseppe Ruta, Direttore ICa

 

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DOMENICA DELLE PALME

Prima lettura: Isaia 50,4-7

 

    Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.

 

  • Il brano apre il terzo dei «Canti del Servo». Il personaggio che parla non è nominato, e non viene usata la parola «servo»; si esprime come un profeta, e presenta le caratteristiche del discepolo, docilità e fedeltà. Alcuni commentatori lo identificano con Zorobabele, il discendente di Davide che aveva acceso le speranze messianiche nel post-esilio. Le difficoltà

che si oppongono alla sua missione, già presenti nel secondo canto (49,1-9), si fanno qui più concrete: gli insulti e gli oltraggi di cui il Servo è fatto segno rientrano in ciò che ci si aspettava dalla vocazione profetica (cf. le Confessioni di Geremia).

Il testo del v. 4, è molto tormentato, alcuni vocaboli dell’ebraico sono di difficile interpretazione, la «lingua da discepolo» (o «discepoli», limûdîm: parola rara nell’AT) potrebbe alludere a una scuola di discepoli che accoglie una tradizione di cui il Secondo e il terzo Isaia sarebbero i continuatori. Enigmatico anche il termine lacût, tradotto con «indirizzare (una parola)», «sostenere», o anche «rispondere» (sulla base del testo greco della Settanta), allo «sfiduciato», o «stanco» (jacef). Il senso può essere «indirizzare una parola allo sfiduciato», o anche «sostenere colui che non ha più parole». L’orecchio (v. 4 e v. 5) è anche la facoltà di intendere. Il Servo è quindi un maestro di sapienza, fedele ascoltatore della Parola, che trasmette l’insegnamento divino ai discepoli.

I vv. 6-7 mostrano la persecuzione, conseguenza di questa docilità alla Parola. È la condizione degli Israeliti, anche dopo il ritorno dall’esilio. Il Servo oppone alla persecuzione la sua fermezza, o anche ostinazione: la «faccia dura come pietra». La sua sicurezza viene dall’aiuto del Signore Dio d’Israele (nominato ben tre volte in questi quattro versetti).

 

Seconda lettura: Filippesi 2,6-11

 

   Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio  l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce. Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.

 

  • In un contesto parenetico, introdotto dal v. 5 — «abbiate fra voi gli stessi sentimenti che in Cristo Gesù» —, Paolo inserisce un inno di alto contenuto cristologico. Si tratta di un testo prepaolino nella sostanza, che si può far risalire agli anni 50, e che ripercorre l’intero cammino di Gesù: pre-esistenza, incarnazione, vita terrena, croce, esaltazione. Seguendo lo

schema abbassamento/esaltazione, risponde alla domanda «chi è Gesù»?.

Due strofe consequenziali (vv. 6-8; 9-11, la seconda introdotta da «Per questo») espongono la storia di Gesù in cinque tappe, scandite da cinque verbi: tre con soggetto Gesù nella prima strofa, due con soggetto Dio nella seconda.

1a  strofa – I tre verbi all’indicativo aoristo dicono le azioni e si riferiscono a fatti circoscritti, accompagnati da participi che ne esprimono le modalità:

  1. a) non ritenne (ouk egesato, v. 6) bottino l’essere simile a Dio, pur essendo radicato di diritto (yparchon) nella forma (morfè) divina: il ragionamento che prelude all’incarnazione è fatto nella condizione di Dio, all’interno della Trinità: la decisione di donarsi è la legge stessa dell’esistenza di Dio.
  2. b) ma svuotò (ekénosen, v. 7) se stesso… La rinuncia globale è scandita da una serie di participi che sottolineano la normalità dell’essere uomo: prendendo la condizione (morfe) di servo, divenuto simile all’uomo, comportandosi alla maniera degli uomini.
  3. c) Umiliò (etapeinosen, v. 8) se stesso, sottoponendosi alle modalità del vivere terreno e divenendo obbediente (ypèkoos = colui che ascolta dal basso) fino a condividere l’esperienza dell’uomo di fronte alla morte.

2a strofa – A queste tre tappe fa riscontro la risposta del Padre: la logica divina della donazione incondizionata è confermata, la croce manifesta il suo carattere rivelativo.

  1. a) Per questo (diò kai) Dio lo esaltò (yperypsosen, v. 9). La via dell’amore si mostra vittoriosa nella sconfitta.
  2. b) L’esaltazione è la conseguenza, il frutto dell’amore, e tuttavia è dono: gli ha donato (echarìsato) un Nome al di sopra di ogni altro nome.

La storia di Gesù si risolve a gloria universale di Dio Padre: ogni ginocchio si pieghi (v. 10) e ogni lingua proclami (v. 11) Gesù Cristo Signore, a gloria (dòxa) di Dio Padre.

Alcune corrispondenze sottolineano l’antitesi: isa theò (v. 6) contrapposto a homoiòmati anthròpon (v. 7), servo (v. 7) contrapposto a Signore (v.11), svuotare-umiliare (vv. 7-8) contrapposti a esaltare (v. 9).

 

Vangelo: Marco 14,1-15,47

 

 Cercavano il modo di impadronirsi di lui per ucciderlo

 Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire. Dicevano infatti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».

 Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura

Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso. Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore. Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo. Ci furono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si poteva venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!». Ed erano infuriati contro di lei. Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me. I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me. Ella ha fatto ciò che era in suo potere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura. In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».

Promisero a Giuda Iscariota di dargli denaro

Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù. Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro. Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.

Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?
Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?». Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uomo con una brocca d’acqua; seguitelo. Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?”. Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi». I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come aveva detto loro e prepararono la Pasqua.

Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà

Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici. Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà». Cominciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?». Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto. Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradito! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».

Questo è il mio corpo. Questo è il mio sangue dell’alleanza

E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo». Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti. In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».

 Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai

Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi. Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”. Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea». Pietro gli disse: «Anche se tutti si scandalizzeranno, io no!». Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò». Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.

Cominciò a sentire paura e angoscia

Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego». Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate». Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora. E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione. Lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole. Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapevano che cosa rispondergli. Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e riposatevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».

Arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta

E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani. Il traditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta». Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò. Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono. Uno dei presenti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio. Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un brigante siete venuti a prendermi con spade e bastoni. Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato. Si compiano dunque le Scritture!». Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.

Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?

Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi. Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco. I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano. Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi. Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”». Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde. Il sommo sacerdote, alzatosi in mezzo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimoniano costoro contro di te?». Ma egli taceva e non rispondeva nulla. Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pare?». Tutti sentenziarono che era reo di morte. Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!». E i servi lo schiaffeggiavano.

Non conosco quest’uomo di cui parlate

Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù». Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa dici». Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò. E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro». Ma egli di nuovo negava. Poco dopo i presenti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo». Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate». E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai». E scoppiò in pianto.

Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?

E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnarono a Pilato. Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose. Pilato lo interrogò di nuovo dicendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!». Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito. A ogni festa, egli era solito rimettere in libertà per loro un carcerato, a loro richiesta. Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio. La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere. Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?». Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia. Ma i capi dei sacerdoti incitarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba. Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?». Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!». Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?». Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!». Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.


Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo

Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa. Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo. Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!». E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui. Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.


Condussero Gesù al luogo del Gòlgota

Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo. Condussero Gesù al luogo del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mirra, ma egli non ne prese.


Con lui crocifissero anche due ladroni

Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso. Erano le nove del mattino quando lo crocifissero. La scritta con il motivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei». Con lui crocifissero anche due ladroni, uno a destra e uno alla sua sinistra.


Ha salvato altri e non può salvare se stesso!

Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!». Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e dicevano: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!». E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.


Gesù, dando un forte grido, spirò

Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!». Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scendere». Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.

Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo. Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.


Giuseppe fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro

Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù. Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo. Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe. Egli allora, comprato un lenzuolo, lo depose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia. Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro. Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.

 

Esegesi

Introdotto da due versetti che svelano l’intenzione omicida di scribi e sacerdoti, tenuta nascosta per timore della folla (è un primo accenno alla Passione), la lunga lettura evangelica di oggi è racchiusa tra due momenti — anticipo e conclusione del dramma — che vedono protagoniste le donne: l’unzione di Betania (14,3-9) e la presenza delle donne ai piedi della croce e al sepolcro (15,40-41.47).

Unzione di Betania (14,3-9)

A differenza del testo di Giovanni la donna qui (come in Matteo) è anonima, mentre è nominato il padrone di casa, un certo Simone, e il luogo, Betania, il villaggio presso Gerusalemme dove Gesù si ritirava la notte per non essere catturato. Comuni gli elementi essenziali del racconto: la sottolineatura dello spreco, con l’indicazione del prezioso alabastro e del costosissimo profumo, oggetti di lusso che sembrano contrastare con lo stile di vita di Gesù; lo scandalo, più o meno sincero, dei discepoli, con l’accenno (forse strumentale?) ai poveri; la sorprendente reazione di Gesù, che accetta l’omaggio e rimprovera i discepoli: la donna ha compiuto una buona opera (kalòn ergon, v. 6); i poveri sono una scusa,

infatti ci sarà sempre tempo per far loro del bene (v. 7); il gesto della donna ha soprattutto significato profetico, annuncia la sepoltura di Gesù (secondo accenno alla Passione, v. 8). Il valore perenne del gesto è sancito dalla consegna alla memoria («sarà narrato in memoria di lei»: presente in Matteo, non in Giovanni).

Al terzo accenno della Passione (racconto del tradimento di Giuda, vv. 10-11) seguono i preparativi della Cena pasquale (vv. 12-16); tutto appare già predisposto, come in un disegno dall’alto, fin nei minimi particolari, e questa Pasqua si preannuncia già con un carattere di unicità.

Ultima Cena (14,17-31)

Il grande quadro della Cena racchiude il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia (vv. 22-25) fra due annunci di Gesù che si corrispondono: il tradimento di Giuda (vv. 17-21), indicato senza nominarlo come «colui che mangia con me», e il rinnegamento di Pietro (vv. 26-31). Quarto e quinto accenno alla Passione, quest’ultimo contiene anche un primo accenno alla resurrezione (v. 28) che passa quasi inosservato, non compreso dai discepoli.

L’istituzione dell’Eucaristia corrisponde sostanzialmente al testo di Matteo, manca però la motivazione «in remissione dei peccati» (Mt 26,28). Diversa, com’è noto, la relazione di Luca (22,15-20) e di Paolo (1Cor 11,23-25): in Marco e Matteo l’alleanza non è chiamata «nuova». Come in Matteo e in Luca, in Marco si parla del compimento escatologico nel Regno, e questo è detto «nuovo»: «non berrò mai più del frutto della vite…».

Getsemani e arresto (14,32-52)

Il racconto appare molto tormentato quanto alla formazione. Si possono riconoscere due tradizioni intrecciate: una cristologica, in risposta alla domanda «chi è Gesù»?; una moraleggiante, che propone un modello di comportamento per i discepoli.

Intorno a un nucleo antichissimo — «il Figlio dell’uomo viene consegnato» (v. 41) — si sviluppa una lettura in profondità, un racconto in cui Gesù manifesta il suo sentimento, e che fa inclusione con il culmine della Passione («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», 15,34). Si susseguono cinque brevi discorsi di Gesù (quattro ai discepoli, quello centrale al Padre). L’azione ha una struttura ternaria: tre volte Gesù prega, tre volte i discepoli dormono, tre volte Gesù va e viene. Anche i verbi si ripetono: pregare (4x), dormire (4x), vegliare (3x). Protagonista è Gesù, il Padre è presente nell’ombra. Gli altri personaggi, poco più che comparse, sono in concentrazione successiva: i discepoli, i tre, Pietro; più tardi il quadro si allarga: Giuda, i Dodici, la folla.

Gesù sceglie i tre, come altre volte prima di compiere un gesto importante (cf. 5,37; 9.2). È rappresentato totalmente dalla parte dell’uomo: si prostra (v. 35), la sua preghiera (v. 36) ha lo svolgimento classico dei salmi (invocazione, professione di fede, supplica, accettazione della volontà di Dio; manca il ringraziamento). La sua tristezza è scandita da due immagini: l’ora e il calice. L’insistenza sul sonno dei discepoli mette in luce la loro lontananza e debolezza. L’invito a pregare per non soccombere alla tentazione, rivolto non solo a Pietro, contrappone la carne e lo spirito non come due sostanze, ma come due tendenze che coinvolgono l’uomo intero: la lacerazione tra volontà e debolezza è interna al cuore dell’uomo (v. 38). Infine, l’accettazione, con una espressione curiosa e rara: apéchei (v. 41), «basta», si trova in calce alle fatture nei papiri, con il senso di «saldato, pagato». L’ora è venuta: il Figlio è consegnato, agli uomini e al compimento del disegno di Dio. Tra i due imperativi: «restate qui» (v. 32) e «andiamo» (v. 42), gli altri personaggi sono immobili e passivi, solo Gesù è in piena luce.

Gesù è protagonista assoluto anche nella scena dell’arresto (vv. 43-52). Giuda crede di condurre l’azione, in realtà è una pedina, come i soldati e lo stesso discepolo che ferisce il servo del sommo sacerdote. È Gesù che domina, mostrando di conoscere tutto da principio e che tutto si svolge secondo il progetto annunciato dalle Scritture (v. 49). Rimane a conclusione l’immagine del giovinetto che fugge nudo (51-52): secondo la tradizione lo stesso evangelista Marco, in realtà figura di tutti noi, nudi come Adamo ed Eva di fronte al momentaneo trionfo del peccato (Gn 3,7), inermi e affidati solo alla gratuita misericordia di Dio.

Gesù davanti al sinedrio (14,53-65)

Due racconti si annunciano nel primo versetto, con uno svolgimento parallelo: Gesù è portato davanti al sinedrio, Pietro si scalda al fuoco in cortile.

La prima scena si apre con l’affannosa ricerca dei falsi testimoni, confusi e contraddittori (vv. 55-59). Segue l’interrogatorio, cui Gesù oppone prima il silenzio (v. 61), poi la citazione di Dan 7,13. La testimonianza di Gesù, a differenza di quella dei suoi avversari, è chiara e inequivocabile, e la sentenza di condanna — del resto già decisa — è immediata.

La seconda scena, contemporanea, vede snodarsi il dramma di Pietro: la prima negazione, il primo canto del gallo (v. 68), la seconda e la terza negazione, ancor più decisa (vv. 70-71). Infine, il secondo canto del gallo e il pianto liberatorio di Pietro, ormai consapevole e convertito (v. 72).

Gesù davanti a Pilato (15,1 -20a)

Mentre davanti al sommo sacerdote Gesù passa dal silenzio alla parola, davanti a Pilato, dopo una prima lapidaria risposta — «Tu lo dici» (v. 2) — sceglie il silenzio. Rimane tuttavia protagonista della storia, colui che, contro le apparenze, conduce il gioco. Pilato si affanna a cercare una via d’uscita non troppo disonorevole da quella che per lui è solo una seccatura; Barabba è un fantoccio nelle mani dei potenti; la folla, manovrata dai capi, grida senza comprendere ciò che dice. Da tutta questa pericope (vv. 6-15) Gesù è assente, altri decidono di lui; e tuttavia si intuisce che tutto avviene secondo la sua consonanza con la volontà del Padre.

La scena seguente (vv. 16-20) lo mostra paradossalmente vincitore proprio nella massima umiliazione. Rivestito di porpora, incoronato di spine (v. 17), salutato re dei Giudei (v. 18), omaggiato per scherno (v. 19): con un procedimento di ironia tragica, appare qui oltraggiato e torturato, e proprio così, secondo la logica della croce (sub contraria specie), manifesta la sua regalità.

Crocifissione, morte, sepoltura (15,20b- 47)

Il racconto si snoda sempre più drammatico, allineando con precisione i particolari. Per aiutare il condannato viene chiamato un contadino, individuato con nome, provenienza, parentado; il luogo della crocifissione è segnalato con la denominazione aramaica e greca (vv. 21-22). Il seguito è registrato con una preoccupazione quasi cronachistica: Gesù rifiuta il vino drogato che si dava ai condannati per renderli incoscienti; i soldati sorteggiano le sue vesti; si indicano l’ora — la terza —, l’iscrizione con il motivo della condanna, i briganti compagni di sventura (vv. 23-27).

Da questo primo livello di cronaca il racconto passa a uno stile narrativo più ricco, e riporta i commenti sarcastici dei passanti e degli avversari. Per l’ultima volta, si chiede inutilmente a Gesù un segno straordinario che renda obbligata, e quindi inutile, la fede: «scenda ora dalla croce»! (v. 32). Ancora una precisazione temporale: l’ora sesta, quando la terra si oscura fino all’ora nona (v. 33). Ed ecco il grido di Gesù, riportato anche in ebraico: è l’incipit del salmo 22, il lamento del giusto perseguitato, che si conclude con la lode e il ringraziamento al Dio d’Israele. In bocca a Gesù, il grido ha probabilmente una duplice valenza: è il lamento profondamente umano e autentico di chi appare veramente abbandonato e vede il fallimento della sua missione, nella fuga dei suoi; ma è difficile negare che ci sia l’eco del salmo, e quindi la conferma della speranza in Dio.

Infine, con un grido, Gesù muore (v. 37), uomo fino all’ultimo: proprio qui si rivela in lui una potenza riconosciuta proprio dal testimone che sembrerebbe più lontano, il centurione pagano cui si deve la più alta professione di fede: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!». Dei seguaci di Gesù sono presenti qui solamente, ma in disparte, le donne, fra cui non è nemmeno nominata la madre (vv. 40-41). Tolto dalla croce, il corpo viene avvolto in un lenzuolo e deposto in un sepolcro nuovo, in fretta perché il sabato sta per iniziare. Le donne che osservano da lontano chiudono il racconto, e lo riapriranno, tornando alla tomba vuota, all’alba del primo giorno dopo il sabato (16,1).

 

L’immagine della domenica

 

 

«L’uomo abita

sulla riva del mare infinito

del mistero».

(K. Rahner)

 

Meditazione

Con la celebrazione delle Palme si apre la grande e santa settimana della passione, morte e risurrezione del Signore. La settimana santa non è semplicemente un momento importante dell’anno liturgico, è la sorgente di tutte le altre celebrazioni dell’anno. Tutte, infatti, si riferi­scono al mistero della Pasqua da cui scaturisce la salvezza nostra e del mondo. Durante tutta la Quaresima abbiamo compiuto uno spirituale pellegrinaggio, che ci ha portato fino a questa domenica delle Palme. La nostra meta era Gerusalemme, e così la liturgia della Chiesa ci ha accompagnato perché fossimo pronti ad accogliere il mistero della morte e risurrezione di Gesù, che celebriamo nel Triduo Santo. Nei giorni prossimi siamo chiamati a intensificare la presenza della Parola di Dio in mezzo a noi. Vogliamo infatti seguire Gesù da vicino. Non si stacchino i nostri occhi da lui perché dai suoi gesti apprendiamo il suo grande amore per tutti. Sì, dobbiamo tener fissi i nostri occhi sul volto di Gesù che accetta anche la morte, pur di salvarci. Gli occhi del Signore, affranti dal dolore ma sempre pieni di misericordia e di affet­to, ci guarderanno come guardarono Pietro che pure lo aveva negato; e sentiremo nel profondo del nostro cuore un nodo di dolore e insie­me di tenerezza. Possa ognuno di noi, in questi giorni, accogliere il dono delle lacrime come l’ebbe il primo degli apostoli quella notte nel Getzemani perché, assieme a lui, anche noi ci accostiamo nuovamente al Signore e iniziamo a seguirlo con un cuore nuovo.

Questi santi giorni si aprono con la memoria dell’ingresso di Gesù in Gerusalemme. L’ultima tappa sono Betfage e Betania, paesi sul monte degli Ulivi, menzionati nel Vangelo di Marco (11, 1). Gesù manda avanti due discepoli perché procurino per lui una cavalcatura. Vuole entrare in Gerusalemme come mai aveva fatto prima. Fino a quel momento, infatti, tutte le volte che era venuto a Gerusalemme, si era tenuto nella discrezione di una predicazione non sempre riuscita: «Gerusalemme, Gerusalemme… quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto!» (Mt 23, 37). Ora, invece, entra nella città santa e nel Tempio per l’ultima volta e vuole rivelare con chiarezza la sua missione di vero e nuovo pastore d’Israele, anche se pesavano su di lui minacce di morte da parte delle autorità del popolo. Era dunque il momento decisivo per la sua missione e per la sua stessa vita. Era la sua ora; quell’ora per la quale era venuto in mezzo agli uomini.

Gesù non entra, però, a Gerusalemme su un carro a cavalli come farebbe il capo di un potente esercito, ma su un asino come un re di pace. Scrive il profeta Zaccaria: «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso, umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina» (9, 9). Gesù entra nella città santa come re, ossia come il salvatore che Dio ha inviato per la liberazione del suo popolo. E la gente sembra intuirlo. Infatti, gli corrono incontro perché il suo ingresso sia una festa regale: tutti si mettono a stendere i mantelli lungo la strada ove lui passa e con le mani agitano verdi rami di ulivo cantando: «Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore». È il canto di gioia che esprimiamo anche noi in ogni santa liturgia, dopo il prefazio, assieme agli angeli mentre entriamo nella memoria della cena del Signore. E la gioia che avvolge i discepoli e la folla ogni volta che il Signore si fa presente in mezzo a noi. E la stessa gioia che ebbe quella donna di Betania, Maria, mentre era prostrata ai piedi di Gesù. E una gioia eccessiva? Qualcuno forse potrebbe pensarlo. I farisei sono indi­spettiti della festa che si crea attorno a Gesù. Sono loro, infatti, che chiedono a Gesù di far tacere i discepoli. Ma Gesù benedice la gioia di coloro che lo accolgono a Gerusalemme: «Io vi dico che, se questi tace­ranno, grideranno le pietre». Pure le pietre avrebbero voce per cantare la gloria del re che viene nel nome di Dio.

Gesù entra nelle città di questo nostro mondo mentre la vita degli uomini è tragicamente segnata da conflitti e da violenze di ogni gene­re. È un inizio di millennio davvero buio: le ombre tragiche della guerra sembrano estendersi invece che diminuire, come del resto la violenza diffusa nella vita quotidiana. Abbiamo bisogno di un libera­tore. Gesù è il solo che può liberare gli uomini dalla guerra, dalla violenza, dall’ingiustizia, dalla schiavitù; è l’unico che può far allonta­nare gli uomini dell’amore solo per se stessi e renderli operatori di una vita più umana e più solidale. Può farlo perché lo mostra anzitut­to con la sua stessa vita, con il suo modo di vivere e di camminare tra gli uomini. Il suo volto non è quello di un potente o di un forte, bensì di un mite e umile di cuore. Gesù non è venuto per salvare se stesso, ma per salvare gli uomini. Non è venuto a distruggere ma a salvare. Non è venuto a condannare ma a redimere. E di questo ha fatto lo scopo unico della sua vita.

Passano pochi giorni da quell’ingresso trionfale in Gerusalemme e subito Gesù diviene il crocifisso, il vinto. Egli, che aveva fatto bene ogni cosa, viene portato fuori dalla città e ucciso. Ormai sembra tutto finito per lui: non può più né parlare né guarire. Quella morte agli occhi dei più sembrò una sconfitta. In realtà era una vittoria: era la logica conclu­sione di una vita spesa per il Padre, per il Vangelo, per i discepoli, per i poveri. Davvero solo Dio poteva vivere e morire in quel modo, ossia dimenticando se stesso per donarsi totalmente agli altri. E se ne accorse un militare pagano. L’evangelista Marco scrive: «Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”» (Mc 15, 39). E Dio, Padre buono, risuscitò il suo Figlio. Non permise alla morte di vincere il Suo amore. La vittoria dell’amore di Dio sulla morte continua a guidare ancora oggi quel piccolo corteo di discepoli che si raccolgono sotto le tante croci di oggi e avvolgono i corpi crocifissi con il lenzuolo della misericordia e dell’amore. Il male e la morte non sono l’ultima parola. I discepoli di Gesù continuano ad amare i poveri, i vinti, i malati, i sof­ferenti, gli anziani, quelli che non hanno nulla da dare in cambio, perché l’amore vince il male e la morte. Questa santa liturgia che ci introduce nei giorni santi ci aiuti a comprendere che il male non ha l’ultima parola sulla nostra vita e su quella del mondo: la nostra salvez­za sta nel restare accanto a Gesù che dona la sua vita per tutti e per tutte. A ognuno di noi la scelta di non abbandonare quel crocifisso, di non tradirlo per paura o per interesse, perché la possiamo trovarci tra coloro che gusteranno la gioia della vita senza fine.

 

Preghiere e racconti

 

La processione e la passione

Molti furono stupiti della sua gloria, simile a quella di un trionfatore vittorioso, nel momento in cui entrava in Gerusalemme, ma poco dopo, nel momento in cui affrontava la passione, il suo volto era privo di gloria e umiliato. […] Se dunque si considera a un tempo la processione di quest’oggi e la passione, Gesù appare sublime e glorioso da una parte e umiliato e sofferente dall’altra. La processione fa pensare all’onore riservato ai re; la Passione mostra la punizione riservata al ladrone. Qui lo circondano gloria e onore, là «non ha né  forma né bellezza» (Is 53,2). Qui è la gioia degli uomini e il vanto del popolo, «là l’obbrobrio degli uomini, l’oggetto di disprezzo del popolo» (Sal 21 [22], 7). Qui lo si acclama: «Osanna al figlio di David! Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore» (Mc 11,10); là lo si proclama degno di morte e lo si deride perché si è fatto re di Israele. Qui gli si va incontro con rami di palma; là con le loro mani lo percuotono sul volto e gli colpiscono la testa con una canna. Qui è colmo di lodi; là è saziato di insulti. Qui, a gara, si ricopre la sua via con vesti altrui; là è spogliato delle proprie vesti. Qui è accolto a Gerusalemme come il re giusto e il Salvatore (cfr. Zc 9,9) ; là è scacciato da Gerusalemme come un criminale e un impostore. Qui siede sopra un asino, avvolto di onore; là è appeso al legno della croce, straziato dalle verghe, coperto di piaghe, abbandonato dai suoi. […] Fratelli, se vogliamo seguire la nostra guida senza vacillare tanto nei momenti felici che in quelli avversi, contempliamolo avvolto di onore nella processione delle Palme, sottoposto agli oltraggi e alle sofferenze nella passione, ma in tale mutamento di circostanze non mutò i suoi pensieri. […] Signore Gesù, tutti ti benedicano, tu gioia e salvezza di tutti, sia che ti vedano seduto sull’asino, sia che ti vedano sospeso al legno della croce. Vedendoti regnare sul trono ti lodino nei secoli dei secoli. A te lode e onore per tutti i secoli dei secoli.

(GUERRICO D’IGNY, Terzo discorso sulle Palme 2.5, SC 202, pp. 188-192.198-200)

 

L’esempio di Gesù nel Getsèmani

«Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: “Sedetevi qui, mentre io prego”. Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia. Gesù disse loro: “L’anima mia è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate”. Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse da lui quell’ora» (Mc 14,32-35).

[…] Che cosa significano questi sentimenti di angoscia che hanno il culmine nella tristezza “fino alla morte”?. […] Come Gesù reagisce in questa lotta per l’obbedienza della mente, il cui esito, per molti, è di fuggire, di ritirarsi, di abbandonare tutto?

Reagisce restando. Chiede ai discepoli di restare, di non fuggire, di non cambiare situazione, ma di affrontare la lotta. Poi, andato un poco innanzi, si getta a terra e prega perché, se è possibile, passi da lui quell’ora. È molto bello che Gesù affronti direttamente il male ma, a partire dalla propria debolezza, «che passasse da lui quell’ora» (Mc 14,35).

La sua è una lotta col Padre, ed egli vuole ad ogni costo che sia vittoriosa la volontà del Padre. Infatti «diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36).

Egli sa di volere altro, di volere che si allontani da lui quel calice, ma la parola decisiva è «ciò che vuoi tu». È la parola ultima della fede, dell’obbedienza della mente, parola che interpreta Abramo, Giobbe, tutti i santi della via della fede nell’Antico Testamento.

Possiamo restare in contemplazione affettiva di Gesù nel Getsèmani e chiedergli: Che cosa dici tu a me? Come vivo io queste realtà?

Suggerisco tre riflessioni conclusive.

  1. Se c’è una lotta per l’obbedienza della mente, il modello è Gesù nell’orto, Gesù orante; lui è il modello ultimo che riassume tutto il combattimento di Giobbe nella sua violenza e nella sua vittoria, il luogo migliore per rileggere l’insieme del Libro di Giobbe e coglierne lo sbocco nel disegno divino.
  2. Chi prega per non entrare in tentazione ha già vinto per metà. Difatti Gesù supplica i suoi apostoli: «Pregate per non entrare in tentazione» e obbliga noi a ripetere questa incessante domanda nella preghiera domenicale: domanda di cui non sempre comprendiamo l’importanza e che spesso formuliamo a fior di labbra. Con essa si chiede al Padre di cogliere il carattere di lotta e di prova di tante situazioni, di non entrarci a capofitto senza capire che sono una prova, ma di affrontarle nella preghiera. Quando ci si accorge che una certa realtà, un evento, sono una prova in cui Dio ci pone abbiamo già superato per metà la difficoltà; quando invece li si legge come destino cattivo, come malvagità della gente, della società, come ignoranza dei superiori o pigrizia di quanti ci sono affidati, è assai difficile uscirne se non con discorsi razionali o con provvedimenti di tipo programmatico, che però solo in parte risolvono il problema. Se colgo l’aspetto di prova emerge il grido:

«Signore, non permettere che io cada in tentazione! Fammi comprendere che sto vivendo un momento importante della mia vita e che tu sei con me per provare la mia fede e il mio amore».

  1. La vera vittoria è – come insegnano Abramo, Giobbe e soprattutto Gesù – l’abbandono al mistero inesauribile, creativo, sorprendente di Dio che ha risorse al di là di quanto noi possiamo pensare e capire. Non dobbiamo mai credere di essere in un vicolo cieco, perché anche quando ne abbiamo l’impressione la Trinità è talmente capace di creatività da accoglierci; quindi il muro del resistenza, il vicolo cieco in cui ci si sente, viene scavalcato e superato da un abbandono che è l’atto supremo di libertà dell’uomo, l’atto in cui l’uomo per-

viene a essere maggiormente se stesso, cioè creatura fatta per il dialogo con Dio e che si salva nell’affidamento totale a lui come Padre pieno di amore e di misericordia.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 99-102).

 

“Mai più”

Madame Michel è morta stamattina. È stata investita dal camioncino di una tintoria, vicino a rue du Bac. […] E io? Io che cosa provo? Chiacchiero dei piccoli eventi del 7 di rue de Grenelle ma non sono molto coraggiosa. Ho paura di guardare dentro me stessa e vedere cosa sta succedendo. Mi vergogno anche un po’. Credo che in fondo io volessi             morire e far soffrire Colombe, la mamma e papa solo perché ancora non avevo mai sofferto davvero. O meglio: soffrivo senza provare dolore, e tutti i miei bei progetti erano un lusso da ragazzina senza problemi. La lucidità di una bambina ricca che vuole rendersi interessante.

Ma ora, per la prima volta, sono stata male, tanto male. Un pugno nello stomaco, senza respiro, il cuore in poltiglia, lo stomaco completamente spappolato. Un dolore fisico insopportabile. Mi sono chiesta se mai un giorno potrò rimettermi da dolore. Volevo urlare dal dolore. Ma non ho urlato. Adesso la sofferenza c’è ancora, ma non mi impedisce più di camminare o di parlare, mentre provo una sensazione di impotenza e assurdità totali. Allora è proprio così? Di colpo svaniscono tutte le possibilità? Una vita piena di progetti, di discussioni appena abbozzate, di desideri ancora non esauditi si spegne in un secondo, e non rimane più niente, non c’è più niente da fare, non si può più tornare indietro?

Per la prima volta in vita mia ho sperimentato il senso delle parole mai più. Beh, è una cosa terribile. Le pronunciamo cento volte al giorno, ma non sappiamo cosa stiamo dicendo se non ci siamo ancora confrontati con un vero “mai più“. In fondo ci illudiamo sempre di poter controllare ciò che accade; nulla ci sembra definitivo. Anche se in queste ultime settimane dicevo che presto mi sarei suicidata, non so se ci credessi veramente. Ma questa decisione mi faceva davvero provare il senso della parola “mai“? Niente affatto. Mi faceva provare il mio potere di decidere. E penso che, qualche istante prima di mettere fine alla mia vita, “finito per sempre” sarebbe rimasta ancora un’espressione vuota. Ma quando qualcuno a cui vuoi bene muore… allora posso dire che capisci cosa significa, ed è una cosa che fa molto molto male. È come un fuoco d’artificio che si spegne di colpo e tutto diventa nero. Mi sento sola, malata, ho la nausea e ogni movimento mi costa uno sforzo immane. […] Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita è così: molta disperazione, ma anche qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso. È come se le note musicali creassero un specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai. Sì, è proprio un sempre nel mai. Non preoccuparti, Renée, non mi suiciderò e non darò fuoco proprio a un bel niente. Perché d’ora in poi, per te, andrò alla ricerca dei sempre nel mai. La bellezza, qui, in questo mondo.

(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 315-319).

Come vivere la settimana Santa

La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.

Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare. L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino. Questa scena infatti, che vorrebbe essere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme degli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù. Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.

Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”. Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato. In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».

Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusalemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.

La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore. L’entrata in Gerusalemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo. Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo saputo della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23). Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.

(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

Sett santa DOMENICA DELLE PALME (B)

Sett. santa vangelo PALME (B)

V DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Geremia 31,31-34

 

  Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore. Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.

 

  • Gesù Cristo, l’abbiamo constatato, è ormai pronto a consegnarsi al disegno del Padre, perché, come aveva in precedenza detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4,34). Tutto ciò sfocia nell’atto della stipula di una nuova alleanza, di cui ai suoi tempi il profeta Geremia aveva avvertito la necessità: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova. Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore. Oracolo del Signore» (31,31-32).

Infatti Geremia aveva preso coscienza di quanto fosse difficile per il suo popolo vivere da popolo di Dio, nella fedeltà e nel rispetto della legge. D’altra parte, egli stesso era stato rifiutato in qualità di messaggero di Dio da coloro che avrebbero dovuto ascoltarlo. Di che cosa allora si sente la necessità? Dio pensa a dare all’alleanza, atto con cui Egli si è «legato» e fatto «soggiogare» alla fedeltà nei confronti dei discendenti d’Abramo, una forza tale da renderla «più intima dell’intimo dell’uomo». Si tratta di una legge di cui non ci si può accontentare di vedere scritta in codici cartacei o su tavole di pietra o altro materiale, quasi a essere rassicurati sulla sua perennità, bensì di una legge posta nel cuore stesso dell’uomo: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore. Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,33).

Il profeta di Anatot non conosce certamente lo Spirito Santo come noi dopo la rivelazione di Gesù Cristo, benché in quanto profeta ne abbia fatto un’esperienza eccezionale. Eppure è lo Spirito che sarà chiamato «nuova legge» e lo stesso profeta veterotestamentario ne sente come il forte desiderio di attingere a questa maggiore luce. In fondo, anch’egli, come i Greci del Vangelo, domanda più chiarezza e si rallegra nella speranza che un giorno il cuore di ogni uomo, finalmente risanato dal limite del peccato e purificato da tutte le angosce, possa riconoscere in Dio il salvatore e il liberatore senza problemi: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (31,34).

 

Seconda lettura: Ebrei 5,7-9

     Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.

 

  • Il brano evangelico ci presenterà un Gesù perfettamente disposto all’obbedienza di fronte alla volontà salvifica del Padre suo e Padre nostro. Su questo medesimo tenore si situa anche la breve pericope tratta dalla Lettera agli Ebrei. L’autore della Lettera, infatti, non trascura di segnalare quella che è una delle componenti di ogni uomo; l’angoscia di doversi consegnare alla morte, perché da essa «nullo homo vivente può scappare», come dice Francesco d’Assisi. Di tale angoscia fu partecipe anche Gesù e «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7).

Questo senso di solidarietà è totale, perché ci viene prospettato in primo luogo un Gesù che prega e supplica il Padre durante la sua vita terrena, nella quale ha incontrato chissà quante volte il pallore della morte, lo squallore della miseria, la disperazione della malattia incurabile. Inoltre, al suo supplicare egli aggiunse «grida e lacrime», in sequenza incessante, per rimarcare il grado dell’offerta della propria vita, in qualità di “sommo sacerdote” che s’immola a vantaggio dell’umanità. E il Padre, che ha il potere di donare la vita e di riprenderla, esaudì il Figlio, in quanto gli era gradito tutto ciò che da Lui era compiuto. Dunque, per questa sua relazione spirituale, Cristo è stato esaudito, come poi precisano i vv. 8 e 9: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».

L’offerta di Cristo, in realtà costituisce un sacrificio efficace che il Padre ha gradito, poiché la sua volontà è stata rispettata: la stessa disponibilità dimostrata da Cristo gli ha consentito di intervenire trasformandone la vita (Gesù «reso perfetto») in opera di completa mediazione della salvezza divina per quanti, sul modello del Maestro, si faranno “obbedienti”.

 

Vangelo: Giovanni 12,20-33

 

     In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.

 

Esegesi

Prima di entrare nel vivo del brano, proviamo a tracciare, seguendo il racconto dell’evangelista Giovanni, le coordinate entro le quali s’inquadra il brano di questa domenica. Nel primo versetto del capitolo 12 leggiamo: «Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti». Gesù, infatti, a quel che dice il quarto Vangelo, si recava spesso a Gerusalemme per pregare e insegnare nel Tempio, avendo «punto d’appoggio» la casa di Lazzaro, nel villaggio di Betania, distante un paio di chilometri dalla capitale. Durante la cena che fu consumata a casa di Lazzaro, Maria, una delle sue sorelle, compì un gesto «profetico»: l’unzione dei piedi del Maestro. La narrazione prosegue con la descrizione di un altro atto «profetico», che coinvolse parte della folla venuta per il pellegrinaggio pasquale: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!» (12,12-13).

In questo contesto avviene l’incontro tra Gesù e i Greci, i quali chiedono a Filippo di essere presentati al Maestro. Il Vangelo, però, si nota subito, purtroppo non ci dice se il dialogo tra Gesù e coloro che hanno chiesto di vederlo si sia verificato, tuttavia ci riferisce le parole pronunciate da Lui appena Andrea e Filippo lo informano della richiesta espressa da questi Greci: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (12,23-28a).

Dal tenore di queste parole emerge un Gesù perfettamente cosciente non solo della morte imminente (i suoi avversari hanno tramato di ucciderlo dopo Pasqua, ma Gesù li «costringerà» ad anticipare), bensì anche del fatto che la morte non costituisce affatto una sconfitta. Anzi, Gesù adopera termini che fanno presagire, da parte sua, l’ansia di portare a compimento quella missione, affidatagli dal Padre, di cui più volte ha parlato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17). Che il Padre desideri salvare l’umanità attraverso suo Figlio Gesù è la «buona notizia» da annunciare, ossia la glorificazione da rendere manifesta mediante il mistero pasquale che Gesù è, in un certo qual senso, ansioso di adempiere, come dimostra l’espressione: «Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!».

Perciò Egli, che è il Rivelatore, allude appena a una parabola, quella del chicco di grano caduto in terra: esso produce molto frutto qualora muoia. Detto altrimenti, soltanto l’obbedienza alla volontà salvifica del Padre si rivela feconda di «risultati» positivi, che operano la trasformazione dal chicco singolo a una spiga carica di chicchi, risorgendo da quella stessa terra in cui è morto il chicco originario. Ad accompagnare questa parabola c’è un detto che ne ricorda di analoghi presso i Sinottici. Il senso non è difficile: di fronte a Gesù, che muore per poi risorgere, ciascun credente viene sollecitato a valutare la vita attuale in rapporto a quella eterna. E perdere la vita significa mettersi al servizio di Gesù, per essere là dove Lui si trova, sulla croce come nella gloria, per godere della riconoscenza del Padre.

Alla fine delle parole di Gesù si sente una «voce dal cielo». Non ci soffermiamo molto su questo, ricordando casi analoghi nella Bibbia (ad esempio in Es 19, At 2, Ap 5, i racconti del battesimo di Gesù e la trasfigurazione), in cui la voce divina, in relazione a teofanie, risulta indescrivibile e irriferibile per gli esseri umani. Ma tale voce è proprio rivolta alla folla e non a Gesù. È questo il motivo per cui Egli si preoccupa subito di «interpretarla»: Gesù sa già perché è venuto nel mondo, mentre chi lo circonda non si rende conto del valore e della sostanza della sua missione. In realtà, il compimento del mistero pasquale si caratterizza per il giudizio che esprime sul principe di questo mondo, ossia su Satana e su tutto il complesso della sua negatività.

Dal desiderio espresso dai Greci di incontrarlo, dunque, emerge la prontezza di Gesù nel dichiararsi disponibile, nonostante la sofferenza che ne seguirà, a morire, perché quel desiderio è segno di un’umanità che ha sete della salvezza e della conoscenza della verità.

 

Meditazione

Siamo ormai alle soglie della Settimana Santa. La quinta domenica di Quaresima ci viene incontro quasi per un ultimo momento di sosta e di raccoglimento prima di stringerci attorno al Signore Gesù che entra in Gerusalemme. Sono gli ultimi giorni terreni di Gesù; domenica prossi­ma lo accompagneremo agitando con le nostre mani le palme mentre entra nella città santa; passeranno alcuni giorni e verrà prima catturato, poi condannato e quindi messo a morte. Sono gli eventi della settimana centrale nella vita delle comunità cristiane. La Chiesa, che già da molti giorni ci sta preparando a questi eventi, insiste perché ciascuno di noi sia pronto per la celebrazione del grande mistero della morte e risurre­zione di Gesù.

La proposta di questa domenica, attraverso il Vangelo di Giovanni, pone sulle nostre labbra la stessa domanda che alcuni greci, presenti tra la folla dei pellegrini recatasi a Gerusalemme per la Pasqua, posero a Filippo e Andrea: «Vogliamo vedere Gesù». È una richiesta che faccia­mo nostra particolarmente in questo tempo e in questi giorni. C’è una spiritualità dei giorni della Passione, che è anzitutto non tralasciare la persona di Gesù, il Signore. Perciò, in questa settimana è bene che i nostri occhi possano ogni giorno leggere una pagina evangelica, maga­ri del racconto della Passione, per poter comprendere il cuore, i pen­sieri, i sentimenti e l’amore di Gesù. È un momento di grazia per cia­scuno di noi. Quando Filippo e Andrea riferiscono a Gesù la richiesta dei due greci, egli risponde che è giunta la sua «ora». Quell’ora che «non era ancora arrivata» durante le nozze di Cana, che «stava venen­do» nell’incontro con la samaritana al pozzo di Giacobbe, quella «ora» per cui Gesù era venuto sulla terra, ora sta per giungere nella sua pie­nezza. È un’ora del tutto diversa da quella che aspettiamo noi, quella del trionfo, della riscossa, dell’affermazione di se stessi, della vittoria sugli altri.

Per Gesù è l’ora della sua passione e morte. Non c’era mai stata per lui l’ora dell’interesse per sé, sebbene più volte avesse subito la tentazione di fuggire il pericolo della cattura che vedeva avvicinarsi sempre più, oppure di allontanarsi da Gerusalemme come gli stessi discepoli più volte lo avevano esortato a fare. L’ora, ormai giunta, non era certo un momento facile per Gesù. Era anzi fortemente drammatico, tanto da fargli esclamare: «L’anima mia è turbata; e che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». E decise di restare, anzi di entrare a Gerusalemme anche se questo gli sarebbe costato la morte. Ne era ben consapevole. Più volte l’aveva detto, scandalizzando anche i più vicini a lui. Nel tempio lo ripete a tutti i presenti, sotto forma di parabola: «Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto». Per lui non era bastato venire sulla terra, era necessario donare la vita sino alla fine, sino all’ultimo istante, sino all’ultima goccia. Bisognava che apparisse dinanzi a tutti l’incredi­bile amore del Padre e del Figlio.

Gesù non ha cercato la morte. Al contrario, ha condiviso l’angoscia di ogni uomo davanti l’ultimo atto dell’esistenza. Nella Lettera agli Ebrei abbiamo ascoltato: «Cristo, nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva sal­varlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito». Tuttavia — ed è qui il grande mistero della Croce — l’obbedienza al Padre e l’amore per gli uomini erano per Gesù più preziosi della sua stessa vita. Non era venuto sulla terra per «rimanere solo», bensì per portare «molto frutto». L’unica via per portare frutto, ossia per racco­gliere i dispersi, viene indicata da Gesù nel brano evangelico: «Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna». Sono parole che sembrano incompren­sibili, e per certi versi lo sono; esse suonano totalmente estranee al comune sentire, da risultare indecifrabili dal punto di vista del linguag­gio. Tutti amiamo conservare la vita, custodirla, preservarla, risparmiar­la dalla fatica; nessuno è portato ad «odiarla», come invece sembra suggerire il testo evangelico. Basti pensare alle cure che abbiamo per il nostro corpo. E non parlo di quella ordinaria attenzione per la salute. Mi riferisco a quelle sofisticate attenzioni che riserviamo all’estetica e all’apparire, e per le quali non badiamo a spese né ad energie.

Il Vangelo parla un altro linguaggio; potrebbe apparire duro, eppu­re a guardarci bene dentro è profondamente realista Il senso dei due termini (odiare e amare) è da intendersi sulla scia della stessa vita di Gesù, del suo modo di comportarsi e di voler bene, del suo modo di impegnarsi, di pensare e di preoccuparsi. Insomma, Gesù ha vissuto tutta la sua vita amando gli uomini più di se stesso. La morte in croce rappresenta l’ora in cui questo amore si manifesta nella sua pienezza. Sì, la croce è l’ora della salvezza; potremmo dire che è il momento culminante dell’intera storia umana, il punto più alto di amore che l’uo­mo ha potuto e possa esprimere.

E forse è proprio questa l’ora di cui parla la profezia di Geremia quando prevede «giorni nei quali il Signore con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderà un’alleanza nuova» (31, 31). Sono poche parole, ma rappresentano uno dei vertici spirituali del Primo Testamento: l’antico patto del Sinai giunge al suo compimento in una «alleanza nuova» che il Signore stabilisce con il suo popolo. Gesù stesso rievocherà durante l’ultima cena questa profezia di Geremia, quando definirà la coppa pasquale come «il calice della nuova alleanza». Tale nuova alleanza non sarà più scritta su tavole di pietra ma nel cuore stesso degli uomini, come aveva annunciato Geremia. E il primo cuore su cui essa è scritta è quello stesso di Gesù sulla croce, squarciato dalla lancia, quel cuore effonde tutto il suo sangue sino all’ultima goccia. Come restare distanti e freddi di fronte a tale amore? Come dimentica­re quest’uomo appeso sulla croce e passare oltre? Come resistere ad una passione così alta che ha portato un uomo a dare tutta la sua vita sino alla morte in croce? Ecco perché Gesù può dire: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me!» (Gv 12, 32). È la grazia che chie­diamo in questi giorni. La chiediamo per ciascuno di noi personalmen­te e per tutte le nostre comunità cristiane perché si lascino conformare il cuore da quell’amore. È la grazia che chiediamo anche per il mondo perché gli uomini, guardando quel volto crocifisso, si commuovano e possano scoprire che l’amore è più forte di ogni presunta forza umana, è più forte di ogni potere violento, è più forte di ogni egocentrismo nazionale o di gruppo. Da quella croce, da quel cuore squarciato, sgor­ga la fonte della salvezza per il mondo intero.

 

L’immagine della domenica

 

CAMMINO DI CARABIAS (MORAL DE HORNUEZ-SEGOVIA)    –    2015

 

«Esistere è un fatto,

vivere è un’arte».

(Frédéric Lenoir)

 


Preghiere e racconti

La potatura

«D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino. Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento. Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile. Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo. E lí, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lí, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande. Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può».

(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).

 

Il chicco di grano, icona di una vita che si fa feconda

In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.

In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (…). Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!» (…). Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (…).

Alcuni stranieri chiedono agli apostoli: Vogliamo vedere Gesù. Una richiesta dell’anima eterna dell’uomo che cerca, che arriva fino a noi, sulla bocca di molti, spesso senza parole, e ci chiede: Mostrami il tuo Dio, fammi vedere in chi credi davvero. Perché Dio non si dimostra, con alte catechesi o ragionamenti, si mostra. Mostrando mani d’amore e occhi limpidi, una vita abitata da lui.

Gesù risponde portando gli interlocutori su di un altro piano, oltre il suo volto, proponendo una immagine indimenticabile: Volete capire qualcosa di me? Guardate un chicco di grano. Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Il vero volto, la verità del chicco consiste nella sua storia breve e splendida.

È bellissimo che Gesù adoperi il paragone del seme di frumento: non si tratta di un’allegoria esterna, lontana, separata, ma significa che ciò che Gesù sta dicendo, ciò che con la sua vita sta mostrando è inscritto nelle leggi più profonde della vita. La vita delle creature più semplici risponde alle stesse leggi della nostra vita spirituale: Vangelo e vita sono la stessa cosa, reale e spirituale coincidono. E come il chicco di grano è profezia di pane, così Gesù afferma: anch’io sono un pane per la fame del mondo.

Se cerchiamo il centro della piccola parabola del seme, la nostra attenzione è subito attratta dal forte verbo «morire»: Se il chicco non muore, se invece muore… Ma l’accento logico e grammaticale della frase cade invece su due altri verbi, sono loro quelli principali: Rimanere solo o produrre molto frutto. Il senso della vita di Cristo, e quindi di ogni uomo, si gioca sul frutto, sulla fecondità, sulla vita abbondante che lui è venuto a portare (Gv 10,10). Non è il morire che dà gloria a Dio, ma la vita in pienezza.

Fiorire non è un sacrificio. Il germe che spunta dal chicco altro non è che la parte più intima e vitale del seme; non uno che si sacrifica per l’altro, ma l’uno che si trasforma nell’altro; non perdita ma incremento. Seme e germe non sono due entità diverse, ma la tessa cosa: muore una forma ma per rinascere in una forma più piena ed evoluta. In una logica pasquale.

La seconda immagine che Gesù offre di sé, oltre al chicco, è la croce: Quando sarò innalzato da terra attirerò tutti a me. Io sono cristiano per attrazione, sedotto dalla bellezza dell’amore di Cristo. La suprema bellezza del mondo è quella accaduta sulla collina fuori Gerusalemme, quando l’infinito amore si lascia inchiodare in quel niente di legno e di terra che basta per morire. E poi risorgere, germe di vita immortale. Perché ciò che si oppone alla morte non è la vita, è l’amore.

(Ermes Ronchi)

 

Tutti attirati da lui

Come domenica scorsa, anche il brano del vangelo secondo Giovanni previsto per oggi dalla liturgia ci presenta una riflessione sulla passione e morte di Gesù. Il contesto è quello della terza e ultima Pasqua vissuta da Gesù a Gerusalemme, quando ormai i sommi sacerdoti hanno preso la decisione di condannarlo a morte (cf. Gv 11,53), e dopo il suo ingresso messianico nella città santa acclamato da molta folla (cf. Gv 12,12-19).

Come in occasione di ogni grande festa, erano saliti a Gerusalemme anche dei greci (héllenes), dei non ebrei, dunque dei pagani, i quali avevano certamente sentito parlare di Gesù, del suo carattere profetico, della sua autorevolezza nel rivolgersi alla gente. Gesù ha conosciuto un certo successo, che gli ha procurato fama, oltre che acerrimi nemici.

Questo successo inquieta soprattutto gli uomini religiosi, impazienti di frenare ed estinguere il movimento nato dalla predicazione di Gesù. Costoro poco prima erano arrivati a dire: “Ecco, tutto il mondo gli va dietro!” (Gv 12,19), chiedendo dunque di fare qualcosa di definitivo riguardo a Gesù, di risolvere la questione una volta per tutte.

I pagani presenti a Gerusalemme, interessati a incontrare Gesù, avvicinano Filippo (il discepolo con un nome greco, proveniente da Betsaida di Galilea, città abitata da molti greci) e gli chiedono: “Vogliamo vedere Gesù”. Ciò però non è facile, perché incontrare dei pagani nella città santa, da parte di un rabbi, non è conforme alla Legge, non rispetta le regole di purità.

Filippo, titubante, va a riferirlo ad Andrea, il discepolo più intimo di Gesù, il primo chiamato alla sequela secondo il quarto vangelo (cf. Gv 1,37-40); poi, insieme, i due decidono di presentare la richiesta a Gesù. Quest’ultimo, ascoltandoli, nella sua capacità di riflettere e di leggere gli avvenimenti percepisce che tale domanda è una profezia che riguarda i pagani: anche loro potranno essere suoi discepoli, credere in lui e fare parte della sua comunità.

La sua vita sta volgendo alla fine, la morte è decretata dalle legittime autorità della comunità religiosa, della sua “chiesa”, ma Gesù riesce a vedere oltre la morte, anzi riesce a vedere nella sua morte una fecondità inaudita: “È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”. L’ora della morte in croce è l’ora della gloria, dell’epifania del suo amore vissuto all’estremo per gli uomini tutti (cf. Gv 13,1).

Quell’ora di cui a Cana aveva detto alla madre: “La mia ora non è ancora giunta” (Gv 2,4), quell’ora che aveva annunciato come prossima e verso la quale andava con desiderio, quell’ora che era “la sua ora” (Gv 7,30; 8,20), finalmente è arrivata. Questa è l’ora decisiva, che inaugura un nuovo tempo per la fede, per l’adorazione di Dio (cf. Gv 4,21.23), per la salvezza dei morti e dei vivi (cf. Gv 5,25-29).

Per rivelarla, Gesù ricorre a una breve similitudine, pronunciata con grande autorità: “Amen, amen io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto”. Ecco la necessitas della passione e morte, della croce. La sua morte è una semina, nella quale il seme deve cadere a terra, essere sotterrato, morire come seme e dare origine a una nuova pianta che moltiplica i semi nella spiga. Così Gesù legge la propria morte e così ci rivela che anche per noi, uomini e donne alla sua sequela, diventa necessario morire, cadere a terra e anche scomparire per dare frutto.

È una legge biologica, ma è anche il segno di ogni vicenda spirituale: la vera morte è la sterilità di chi non dà, di chi non spende la propria vita ma vuole conservarla gelosamente, mentre il dare la vita fino a morire è la via della vita abbondante, per noi e per gli altri. Il cristiano che vuole essere servo del Signore, che dice di amare il Signore, deve semplicemente accogliere questa morte, accettare questa caduta, abbracciare questo nascondimento. E allora non sarà solo, ma avrà Gesù accanto a sé, sarà preceduto da Gesù, che lo porterà dove egli è, cioè nel grembo di Dio, nella vita eterna.

Con questa fede, con questa convinzione Gesù, anche se turbato dalla morte imminente, sa dire “amen”, sa dire “sì” a quell’ora che è la sua. Per questo anche la preghiera di Gesù così espressa dai sinottici: “Abba! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36; cf. Mt 26,39; Lc 22,42), nel quarto vangelo diventa un grido di vittoria: “Per questo sono giunto a quest’ora” e un’invocazione: “Padre, glorifica il tuo Nome”. Ed ecco che, in risposta, scende su di lui dal cielo una voce, come promessa e sigillo: “L’ho glorificato e lo glorificherò presto!”.

È la voce del Padre il quale conferma al Figlio Gesù che quell’ora della croce è l’ora della gloria. Per questo Gesù può esclamare: “Ora avviene il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo è gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra”, come il serpente innalzato da Mosè (cf. Nm 21,4-9; Gv 3,14), “attirerò tutti a me”. Tutti, giudei e greci, tutti attirati da lui potranno vederlo, ma sulla croce, mentre dona la vita l’umanità intera. Questa la risposta di Gesù a chi vuole vederlo!

(Enzo Bianchi)

 

Grande albero e piccolissimo grano

«[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf. Mc 4,31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale. Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».

(J. RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia. Studi in onore del Card. Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).

 

II seme delle domande

Dio mio, sono venuto con il seme delle domande!

Le seminai e non fiorirono.

Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte,

ma il vento non le sfoglia!

Dio mio, sono Lazzaro!

Piena d’aurora, la mia tomba

dà al mio carro neri puledri.

Dio mio, resterò senza domanda e con risposta

vedendo i rami muoversi!

(F. Garcia Lorca).

 

Il seme e il frutto

Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra

nel grembo materno

e aspetta devotamente: esso comincia a lottare,

un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole

cresce, diventa grande e forte

abbraccia con la corona verde delle sue foglie

finché tutto intero splende al sole

diventa gemma e fiorisce un fiore.

E nella fioritura, seme dopo seme,

c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.

E tu pianti nuovamente i mille semi,

e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.

Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli

abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro

guida verso casa i pensieri e pensa:

tutto ciò era nel primo seme.

(Christian Morgenstern).

 

La croce

“La croce -scriveva Simone Weil-  è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va. In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere. Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”.

 

Chi mi vuol servire mi segua

«Chi mi vuoi servire mi segua» (Gv 12,26). Che cosa significa «mi segua», se non mi imiti? «Cristo, infatti, patì per noi», dice l’apostolo Pietro, «lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme» (1Pt 2,21). Questo è il senso delle parole: «Chi mi vuol servire mi segua». E con quale frutto? con quale ricompensa? con quale premio? «E dove sono io, dice, là sarà anche il mio servo». Amiamolo disinteressatamente e la ricompensa del nostro servizio sarà quella di essere con lui. Come si può star bene senza di lui, o male con lui? Ascolta ciò che vien detto in maniera più chiara. «Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26). Con quale onore, se non con quello di poter essere suo figlio? Ciò che ha detto sopra: «Dove sono io, là sarà anche il mio servo» è la spiegazione delle parole: «II Padre mio lo onorerà». Quale maggior onore può ricevere il figlio adottivo che quello di essere là dove è il Figlio unico, non fatto uguale a lui nella divinità, ma associato a lui nell’eternità?

Dobbiamo chiederci che cosa si intenda per servire Cristo, servizio al quale viene riservata una così grande ricompensa. […] Servono Gesù Cristo coloro che non cercano i propri interessi, ma quelli di Gesù Cristo. «Mi segua» vuol dire: segua le mie vie, non le sue, così come altrove sta scritto: «Chi dice di essere in Cristo, deve camminare come egli ha camminato» (1Gv 2,6). Così, ad esempio, se uno porge il pane a chi ha fame, deve farlo animato dalla misericordia, non per vanità, non deve cercare in quel gesto nient’altro che l’opera buona, senza che la sinistra sappia ciò che fa la destra (cfr. Mt 6,3), in modo che l’opera di carità non debba essere sciupata da secondi fini. Chi opera in questo modo, serve Cristo e giustamente sarà detto di lui: «Ogni volta che avete fatto questo a uno dei miei più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). Chi compie per Cristo non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona – e qualsiasi opera è buona quando obbedisce alle parole «il fine di tutta la Legge è Cristo, a giustizia di ognuno che crede» (Rm 10,4) — egli è servo di Cristo e giungerà fino a quella grande opera di carità che consiste nel dare la propria vita per i fratelli, che equivale a darla a Cristo.

(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 51,11,12, NBA XXIV, pp. 1022-1024).

 

Io pure sarò vigna

Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.

Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.

Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».

E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».

E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».

E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.

(K. GIBRAN, Il Profeta).

 

Piccolo seme

Ho imparato

che non muore

chi lascia dietro di sé

un seme

se c’è qualcuno a custodire

il piccolo seme verde

e a crescerlo nel cuore

sotto un dolore di neve

e a lasciarlo crescere ancora

nel sole senza tramonto dell’amore

finché diventa

un albero grande che da ombra e frutti

e altri semi.

Signore, vorrei lasciargli

un piccolo seme verde

e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.

(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).

 

Preghiera

Anche noi ti vogliamo vedere, Gesù, in quest’ora in cui, come seme, affondi nella terra del nostro dolore e germogli in turgida spiga, speranza di messe abbondante. Tu sveli come è dolce morire per chi ama e si dona con gioia. Perdere la vita con te e per te è trovarla. Allora anche il pianto fiorisce in sorriso.

Nelle tue piaghe troviamo rifugio e in esse trova senso ogni umano patire. Solo guardando te, troviamo la forza di un abbandono fidente nelle mani paterne di Dio. Purifica gli occhi del nostro cuore, fino a che non come in uno specchio né in maniera confusa, ma in un eterno e amoroso faccia a faccia ti vedremo così come tu sei. Amen.

 

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Bertorello.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

V DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

IV DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: 2Cronache 36,14-16.19-23

 

In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme. Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora. Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio. Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e diedero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.

  Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, essa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni». Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pronunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Persia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra. Egli mi ha incaricato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».

 

  • È Il brano che conclude la storia d’Israele scritta dal Cronista. È una specie di grido di trionfo per la restaurazione della casa del Signore, il suo tempio. Egli ricorda innanzi tutto la situazione degli ultimi anni di vita della città di Gerusalemme prima del 587 a.C. al tempo del re Sedecia (vv. 14-16). È un tempo di vera apostasia dalla religione dei padri, dal culto del vero Dio. Si disprezza la parola di Dio annunciata dai profeti; il luogo santo, dove si adora l’unico Dio, viene profanato. Nonostante la premura di Dio e il suo costante amore per il popolo, questi non volle convertirsi. La situazione si fece talmente tragica che il Signore dovette intervenire.

Egli li abbandonò in mano ai babilonesi che incendiarono la città massacrarono la popolazione e il resto lo deportarono in esilio, lontano dalla patria. Ma anche nelle tenebre più fitte, appare la misericordia del Signore che dona ancora una parola per mezzo del profeta Geremia, il quale annuncia il termine dell’esilio (vv. 19-21).

Nella terza parte del brano si riporta l’editto di Ciro, re di Persia, che proclamava nel 538 a.C. la liberazione degli ebrei e l’ordine di ricostruire il tempio. La storia del popolo, eletto da Dio, continua, perché la misericordia di Dio rimane stabile nonostante l’enormità del peccato del popolo e dei suoi capi. Un segno di questa risurrezione del popolo è il nuovo tempio ricostruito, in cui saranno riportati i vasi sacri custoditi in Babilonia (cf. v. 18), rendendo possibile nuovamente il culto a Dio (vv. 22-23).

 

Seconda lettura: Efesini 2,4-10

 

   Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.  Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù. Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.

 

  • Paolo pone la bontà di Dio all’origine della sua azione salvifica: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato» (v. 4). Il luogo dove si può sperimentare ora questa misericordia è la Chiesa. La salvezza è descritta come un passaggio dalla morte alla vita. Questa ci viene donata «per grazia», gratuitamente, per pura bontà di Dio (vv. 5-6).

Noi siamo solidali con Cristo. Mediante il battesimo, partecipiamo già alla sua vittoria sulla morte e abbiamo una vita nuova, ma la forza della sua risurrezione si estenderà anche ai nostri corpi (v. 6). Quest’opera salvifica in Gesù Cristo ha come scopo la maggior gloria di Dio. Nell’eternità sarà manifesto ciò che già ora è realizzato (v. 7).

Dando uno sguardo al passato, Paolo annuncia il suo vangelo: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede» (v. 8). L’uomo con le sue forze non riesce ad uscire dalle sabbie mobili del peccato. Solo la mano di Dio può risollevarlo. L’agire di Dio è del tutto gratuito (v. 9).

Le opere non sono il principio, ma il fine dell’esistenza cristiana: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (v. 10). Anche le nostre «opere buone», che faremo, procedono dalla grazia e sono state «preparate» da Dio per facilitarne l’adempimento. Dio ha voluto la nuova condizione perché l’uomo potesse realizzarle.

 

Vangelo: Giovanni 3,14-21

 

    In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

 

Esegesi

 

Con questo brano inizia la rivelazione del piano salvifico del Padre: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (vv. 14-15). Si notino due verbi: «bisogna» e «sia innalzato». Il primo verbo «bisogna» esprime la volontà salvifica di Dio di donarci la vita in Cristo: la croce non è un incidente di percorso. Il secondo verbo «sia innalzato» indica appendere ad una croce, ma anche innalzare su un trono, la pienezza della regalità. L’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,8-9) è presentato da Giovanni come segno tipico dell’innalzamento del Figlio dell’uomo e della vita eterna donata a chi guarda, vale a dire a chi crede in lui.

Segue una meditazione pasquale dell’evangelista sulla parola di Gesù, avendo anche sullo sfondo la figura di Isacco. Contemplando Gesù innalzato sulla croce, si scopre l’amore sorprendente di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v. 16). È un amore che si concretizza nel dare e nel mandare (v. 17). Dio ama il mondo come si trova ora, lontano da lui e in pericolo di perire.

Quello che può privare gli uomini della vita, il loro grande peccato, è il rifiuto di credere in Gesù. Di fronte alla sua missione si opera la discriminazione tra gli uomini, che credono e si salvano, o non credono e si condannano. Ma il kerygma di Giovanni ha proprio lo scopo di portare alla fede chi non crede.

Il giudizio è in rapporto alla rivelazione personale di Cristo. È lui la luce: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (v. 19). Le tenebre sono la situazione di rifiuto di Dio e la chiusura dell’uomo schiavo del suo egoismo. Gli uomini scelgono. Chi si pone dalla parte della luce, sperimenta un giudizio di salvezza. Chi invece si colloca dalla parte delle tenebre, sperimenta un giudizio di condanna: un’esistenza destinata alla perdizione, perché le sue opere sono malvagio. La luce è una forza giudicante e a nessuno piace sentirsi rinfacciare le proprie opere cattive. Ma c’è anche «chi fa la verità» (v. 21). Questi è colui che rinnega la sua situazione di peccato, accoglie la parola di Gesù e crede in lui. Queste sono le opere che l’uomo può compiere solo con l’aiuto di Dio (v. 21).

 

Meditazione

 

Siamo oltre la metà del pellegrinaggio quaresimale e la liturgia della Chiesa, interrompendo per un momento l’austerità di questo tempo, ci invita a ‘rallegrarci’. La liturgia della Chiesa attenua persino il colore dei paramenti liturgici, dal viola passa al ‘rosaceo’, per sottolineare questo stacco di letizia che annuncia la Pasqua del Signore. Tale esor­tazione, se in passato comportava la sospensione dell’austerità, non vuole comunque spingere verso un senso di spensieratezza o di super­ficiale e ottimistico senso della vita. Al contrario, la liturgia conoscendo bene le difficoltà e i problemi dei giorni degli uomini, è consapevole del bisogno che abbiamo di un annuncio di letizia vera. Ed ecco, nel mezzo del cammino quaresimale, l’esortazione a rallegrarsi; il motivo è l’avvicinarsi della Pasqua, ossia la vittoria del bene sul male, della vita sulla morte. Questo è il vero annuncio di gioia che la liturgia ci porta. La vittoria del bene sul male deve risuonare ovunque, e in particolare su quei popoli che sono straziati dalla guerra e dalla violenza; come pure sui numerosi poveri e abbandonati che popolano il nostro piane­ta. È necessario ridare speranza anche alle città del mondo ricco, spesso stravolte da un clima di violenza e di aggressività. La mentalità consu­mista, che porta a centrare tutto su se stessi e sulla propria immediata soddisfazione, ha come sbocco inevitabile uno stile di vita concorren­ziale e violento. L’uomo e la donna consumisti, costretti a vivere in una perenne corsa a consumare e a soddisfare qualsiasi desiderio, sono travolti dalla spirale inarrestabile dell’amore per se stessi, che è sempre radice di violenza. Si rallegra colui che trova un senso nella sua vita e porta avanti una speranza che non si arresta davanti il male. Ricordiamo sempre il detto di Gesù ricordato negli Atti degli Apostoli, che la gioia viene dal dare più che dal ricevere (At 20,35).

Il bisogno di ritrovare una dimensione religiosa ed etica, che inter­rompa in qualche modo il circolo vizioso della violenza e che dia senso alla vita, si fa sempre più urgente, e non solo per la salvezza di ogni singola persona ma anche per quella della stessa società. Il secondo libro delle Cronache (la prima lettura della liturgia) ci aiuta a leggere la situazione odierna. L’autore sacro lega la caduta di Gerusalemme e il susseguente periodo di schiavitù in Babilonia all’infedeltà del popolo ai comandi del Signore: «In quei giorni tutti i capi di Giuda, i sacerdo­ti e il popolo moltiplicarono le loro infedeltà… si beffarono dei messag­geri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il suo culmi­ne, senza più rimedio». I nemici di Israele incendiarono il Tempio, demolirono le mura di Gerusalemme e gli scampati alla morte furono deportati. Con il linguaggio proprio della teologia della storia, la Scrittura sottolinea lo stretto rapporto tra il calo della tensione morale dell’intero popolo, con la conseguente degenerazione e fine della con­vivenza civile. L’esempio di quello che accade con Israele ci aiuta a ritornare al Signore, a riprendere in mano le Scritture e a riflettere sul senso vero della vita, del proprio agire e del proprio operare. Per que­sto il tempo quaresimale torna opportuno ogni anno.

Il Vangelo di Giovanni che viene annunciato in questa domenica dà una risposta alla domanda che scaturisce da una storia travagliata come quella di Israele: la riposta è Gesù, morto e risorto, mandato dal Padre per salvare il mondo. Anche Nicodemo si sentì rispondere in questo modo con il richiamo all’episodio del serpente innalzato da Mosè nel deserto che salvò la vita degli israeliti morsi dai serpenti velenosi: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna». Già il libro della Sapienza aveva intuito in quell’episodio un segno della salvezza e dell’amore di Dio quando aveva cantato il serpente di bronzo definendolo «un segno di salvezza a ricordo del precetto della tua legge. Infatti, chi si volgeva a guardar­lo era salvato non per mezzo dell’oggetto che vedeva ma da te, salva­tore di tutti» (16, 6-7).

Quel serpente posto sull’asta anticipa il segno della croce di Cristo ‘innalzata’ in mezzo all’umanità. Gesù ‘innalzato’, nel linguaggio di Giovanni, non è un’immagine tesa a suscitare commiserazione. Quell’asta innalzata, quella croce piantata sul Golgota è, soprattutto, fonte di vita, una fonte generosa, gratuita e abbondante. Quella croce è la risposta di Dio ai serpenti di oggi e di sempre, allo smarrimento e alla confusione, all’odio tra fratelli, alla morte come unico sbocco appa­rente: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna». Chiunque viene colpito dai morsi velenosi dei serpenti, basta che rivol­ga gli occhi verso quell’uomo ‘innalzato’ e trova guarigione. Gesù stes­so dirà più avanti proprio a Gerusalemme: «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32).

La salvezza, come anche il senso della vita, non viene da noi. Ci è donata dall’alto. La presenza del male è una realtà a tal punto persi­stente da indurre ad un ragionevole fatalismo pessimista. In effetti, con le sole nostre forze come potremmo sradicare il male e la sua più terri­bile conseguenza che è la morte? C’è da dire che il male nel mondo non è uno sfortunato destino che si abbatte sul mondo, contro cui è impossibile intervenire. Il male nasce dalle oscurità profonde del prin­cipe del male e dalle sue opere di morte, che spesso popolano la vita degli uomini. Sembrano risuonare le parole scritte nel Prologo: «Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo… venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto» (1, 9.11). Così anche nelle parole rivolte a Nicodemo leggiamo: «La luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvage» (3, 19). C’è pertanto una responsabilità nell’allargare o nel perpetuare la presenza del male nel mondo che va compresa e quindi recisa. Agli uomini non è chiesto l’impossibile opera di un’auto liberazione dal male. È chiesto solo di alzare lo sguardo da se stessi e di guardare un po’ più in alto, di non restare nel buio dell’egocentrismo e accogliere quella luce che Dio ha inviato nel mondo, di non bloccar­si nell’amore per sé e accorgersi che il vero amore arriva da Dio e scen­de sulla terra.

Anche l’apostolo Paolo, nella lettera agli Efesini, ci ricorda l’irruzio­ne di questo amore: «Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche risusci­tato e ci ha fatto sedere nei cieli» (2,4). Come non ‘rallegrarsi’ di que­ste parole? La liturgia di questa domenica, piena della letizia dell’amo­re di Dio, continua a guidarci verso l’avvenimento della salvezza del mondo, il mistero pasquale della morte e risurrezione di Gesù.

 

L’immagine della Domenica

Il Gran Sasso d’Italia    –    2005

 

«Se un uomo viene a chiederti aiuto e assistenza, non dirgli “Abbi fede in Dio”. Fa come se Dio non esistesse e come se, sulla terra, ci fossi soltanto tu a poterlo aiutare».

(Rabbi Moshe Lev di Sasov)

 

 


Preghiere e racconti

Il miracolo sempre rinnovato

Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più in una divinità personale, ma saremo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del miracolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione.

(D. Hammarskjold)

 

Ognuno di noi è il figlio prediletto del Padre

In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna (…). Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio. Questo versetto è il punto sorgivo e il perno attorno al quale danza la storia di Dio con l’uomo. Dio ha amato, un passato che perdura e fiorisce nell’oggi, verità che assorbe ogni cosa: tutta la storia biblica inizia con un “sei amato” e termina con un “amerai” (P. Beauchamp). È la lieta notizia da ripeterci ad ogni risveglio, ad ogni difficoltà, ad ogni sfiducia. Noi non siamo cristiani perché amiamo Dio. Siamo cristiani perché crediamo che Dio ci ama. Che cos’è l’amore? Ossigeno della vita. Il nucleo incandescente del Vangelo è la bellezza dell’amore di Dio (Ev. Ga. 36) che Gesù ha mostrato, vissuto, donato. È questo il fuoco che deve entrare in noi, la cosa più bella, più grande, più attraente, più necessaria, più convincente e radiosa (Ev. Ga.35).

Tanto da dare suo Figlio. Nel Vangelo “amare” si traduce sempre con un altro verbo, umile, breve, di mani e non di emozioni: “dare”. Dio altro non fa che eternamente considerare ogni uomo più importante di se stesso. «Il mondo sappia che li hai amati come hai amato me» (Gv 17,23), il Padre ama me come ha amato Cristo, con la stessa passione, la stessa fiducia, la stessa gioia, con in più tutte le delusioni che io so procurargli. Ognuno è il figlio prediletto di Dio. Cristo, venuto dal Padre come intenzione di bene, nella vita datore di vita, ci chiama ad escludere dall’immagine che abbiamo di Lui, a escludere per sempre, qualsiasi intenzione punitiva, qualsiasi paura. L’amore non fa mai paura, e non conosce altra punizione che punire se stesso. E non solo l’uomo, è il mondo intero che è amato, dice Gesù, la terra, gli animali e le piante e la creazione tutta. E se Egli ha amato il mondo e la sua bellezza fragile, allora anche tu amerai il creato come te stesso, lo amerai come il prossimo tuo.

Dio non ha mandato il Figlio per giudicare il mondo, ma perché il mondo sia salvato. A Dio non interessa istruire processi contro di noi, neppure per assolverci, ora o nell’ultimo giorno. La vita degli amati non è a misura di tribunale, ma a misura di fioritura e di abbraccio. Dio ha tanto amato, e noi come lui: quando amo in me si raddoppia la vita, aumenta la forza, sono felice. Ogni mio gesto di cura, di tenerezza, di amicizia porta in me la forza di Dio, spalanca una finestra sull’infinito. Dio ha tanto amato, e noi come Lui: ci impegniamo non per salvare il mondo, l’ha già salvato Lui, ma per amarlo; non per convertire le persone, lo farà Lui, ma per amarle. Se non c’è amore, nessuna cattedra può dire Dio, nessun pulpito. Non c’è più il ponte che ricollega la terra al cielo, il motore che fa ripartire la storia, una storia con sapore di Dio.

(Ermes Ronchi)

 

Cristo, dono per la vita degli uomini

La storia di salvezza è guidata dall’amore misericordioso di Dio per il suo popolo peccatore. Questa misericordia si manifesta nell’evento che segna la fine dell’esilio babilonese (I lettura), conosce il suo vertice nel dono del Figlio a un’umanità peccatrice (vangelo) e trova un suo sacramento nel battesimo: esso infatti situa il cristiano nell’orizzonte del dono incommensurabile di Dio (II lettura). “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito”. Cristo, come dono di Dio, è sacramento e narrazione dell’amore di Dio e, nell’itinerario da Dio all’uomo, l’amore del Padre (il Donatore) diviene l’amore del Figlio (il Dono che dona se stesso) e diviene amore nell’uomo (il donatario). Il dono che Cristo è, è asimmetrico, non cerca reciprocità: “Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi” (Gv 15,9); “Come io ho amato voi, così voi amatevi gli uni gli altri” (Gv 13,34): il movimento della donazione divina non diviene un circolo asfittico e chiuso nell’infernale bipolarità “io-tu, tu-io” sempre esposta al rischio della violenza e della sopraffazione, ma resta aperto a un terzo di cui tende a far fiorire la soggettività e a servire la vita. Questo dono è decentrante rispetto al Donatore e si risolve in vita del donatario. L’amore che tale dono narra non è totalitario e obbligante, non pretende gratitudine, ma rispetta la libertà e la vita dell’uomo. La salvezza, non la condanna, è il fine dell’invio del Figlio da parte del Padre (cf. Gv 3,17). Questa è l’intenzione paterna di Dio, il senso del suo amore che si esprime nel dono del Figlio. E questo agire divino è normante per la chiesa. Anch’essa è mandata tra gli uomini non per giudicarli, ma per essere segno di salvezza e per narrare loro l’unica cosa salvifica e necessaria: la misericordia di Dio. Di fronte a uomini che spesso sentono la vita come condanna, la chiesa ha il compito di narrare la misericordia divina, di fare opera di liberazione, di dare senso, respiro e vivibilità.

Il dono del Figlio è volto a dare vita, non morte, agli uomini (cf. Gv 3,16). Cristo, in quanto dono per la vita degli uomini, ha vissuto la sua intera esistenza donando la propria vita, e così ha generato alla vita, ha trasmesso e suscitato vita. E questo è culminato nella morte di croce, che Giovanni chiama “innalzamento” (3,14). Come Mosè, obbedendo al comando misericordioso di Dio, innalzò il serpente nel deserto perché chi lo guardava trovasse vita e guarigione, così l’innalzamento del Figlio dell’uomo è il compimento della misericordia divina per la salvezza dei credenti (cf. 3,14-15; Nm 21,4-9). Se nel serpente innalzato il credente era condotto a riconoscere il proprio peccato guardando in faccia il simulacro di chi lo aveva punito con i suoi morsi, nel Cristo innalzato il credente vede la misericordia di Dio che perdona i suoi peccati manifestando un amore unilaterale e universalmente salvifico.

La pro-esistenza di Cristo non ha evitato il rifiuto che gli è stato opposto. Se la salvezza è destinata a tutti, solo alcuni accedono alla fede e alla conoscenza del dono di Dio in Cristo. Tale dono può essere misconosciuto e rigettato. Ma questo rifiuto non sopprime la qualità di dono che il Cristo è e conferma che esso è a servizio della libertà del donatario. Qui si rivela che il dono di Dio – gratuito ma non neutrale – diviene appello alla fede. Non a caso la prima menzione dell’amore di Dio nel quarto vangelo (3,16) è accompagnata da cinque rimandi alla fede (o alla non-fede) dell’uomo (3,15.16.18). E la distinzione tra adesione e non adesione diviene discernimento tra luce e tenebre, tra opere fatte “in Dio” (3,21) e opere maligne (3,19: fatte nel Maligno). Questa distinzione non si situa sul piano morale e comportamentale (non si tratta di opere buone e cattive), ma designa una presa di posizione negativa di fronte all’inviato di Dio. E allora si comprende che l’unica opera essenziale secondo il quarto vangelo sia la fede. La querelle tra fede e opere è così risolta da Giovanni: “Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato” (Gv 6,29).

(Luciano Manicardi)

 

Un ragazzo miope

Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui. Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, questi ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quindi, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui. Così, il ragazzo era cresciuto nell’unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia. Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leggere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le lezioni. E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampioni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.

Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista. Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive. Trovate quelle più adatte, invitò il giovane a guardare fuori dalla finestra. «Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; vedeva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali. Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita». Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui iniziai a credere in Gesù. Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stesso come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre. Questa fu una grande svolta, l’esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita. Fu come l’inizio di una vita nuova. So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».

(J. POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 48-49).

 

Ciò che fa la differenza

Mi chiedo unicamente se il Cristo buono ed evangelico ai cristiani basta. E se gli basta c’è ancora bisogno di fede o non v’è più nulla da credere? Se vi è qualcosa da credere ritengo, però, non sia di molto diverso da quanto i cristiani hanno da sempre annunciato e quindi che il risorto vive, siede alla destra del Padre, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine. Questo chi non crede, ma conosce il cristianesimo, lo sa molto bene poiché proprio in questo non crede ed è questo che fa la differenza. Sul resto bene o male ci si accorda.

(Salvatore Natoli, Il cristianesimo di un non credente).

 

Credo

Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero

che non mi seduce con un miracolo

e che non mi opprime con la sua autorità.

Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà,

che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male,

che non accetta compromessi,

ma che benedice la follia di chi lo segue.

Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione,

che non rimette a posto le cose dall’alto,

che non esercita la giustizia degli uomini.

Credo in un Dio che si lascia tradire,

che al mio no risponde con un bacio silenzioso,

credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.

Credo in un Dio che non ho inventato io,

che non soddisfa i miei bisogni,

che non dice e fa quello che voglio io,

un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.

Credo in un Dio vero,

che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità,

che si fa piccolo, debole indifeso

perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.

Credo in un Dio che gioca a nascondino

perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo,

credo in un Dio che mi si fa vicino,

che mi viene incontro e mi dice: “ti amo”.

Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.

(Ester Battista).

 

L’infinito amore misericordioso di Dio

Nel nostro itinerario verso la Pasqua, siamo giunti alla quarta domenica di Quaresima. E’ un cammino con Gesù attraverso il «deserto», cioè un tempo in cui ascoltare maggiormente la voce di Dio e anche smascherare le tentazioni che parlano dentro di noi. All’orizzonte di questo deserto si profila la Croce. Gesù sa che essa è il culmine della sua missione: in effetti, la Croce di Cristo è il vertice dell’amore, che ci dona la salvezza. Lo dice Lui stesso nel Vangelo di oggi: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (Gv 3,14-15).

Il riferimento è all’episodio in cui, durante l’esodo dall’Egitto, gli ebrei furono attaccati da serpenti velenosi, e molti morirono; allora Dio comandò a Mosè di fare un serpente di bronzo e metterlo sopra un’asta: se uno veniva morso dai serpenti, guardando il serpente di bronzo, veniva guarito (cfr Nm 21,4-9).

Anche Gesù sarà innalzato sulla Croce, perché chiunque è in pericolo di morte a causa del peccato, rivolgendosi con fede a Lui, che è morto per noi, sia salvato. «Dio infatti – scrive san Giovanni – non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (Gv 3,17).

Commenta sant’Agostino: «Il medico, per quanto dipende da lui, viene per guarire il malato. Se uno non sta alle prescrizioni del medico, si rovina da solo. Il Salvatore è venuto nel mondo … Se tu non vuoi essere salvato da lui, ti giudicherai da te stesso» (Sul Vangelo di Giovanni, 12, 12: PL 35, 1190).

Dunque, se infinito è l’amore misericordioso di Dio, che è arrivato al punto di dare il suo unico Figlio in riscatto della nostra vita, grande è anche la nostra responsabilità: ciascuno, infatti, deve riconoscere di essere malato, per poter essere guarito; ciascuno deve confessare il proprio peccato, perché il perdono di Dio, già donato sulla Croce, possa avere effetto nel suo cuore e nella sua vita.

(Benedetto XVI, Angelus, 18-03-2012).

 

Mi chiamate Redentore

Mi chiamate Redentore

e non vi fate redimere.

Mi chiamate Luce

e non mi vedete.

Mi chiamate Via

e non mi seguite.

Mi chiamate Vita

e non mi desiderate.

Mi chiamate Maestro

e non mi credete.

Mi chiamate Sapienza

e non m’interrogate.

Mi chiamate Signore

e non mi servite.

Mi chiamate Onnipotente

e non vi fidate di me.

Se un giorno non vi riconosco

non vi meravigliate.

(Iscrizione nel duomo di Lubecca).

 

II dubbio, la verità e Cristo

Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiano e lo sono fino al midollo. Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni contrarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace. In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo. Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci. Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.

(F. Dostoevskij).

 

Il lungo cammino verso casa

«Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio. C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completamente nuovo. Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie tenebre sono troppo grandi per essere dissolte. Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone. Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere totalmente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profondamente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emergere una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento. Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone. Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribellarmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga. Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».

(H.J.M. NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79).

 

L’anima soffre e anela al Signore

Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.

Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ricchezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indifferenza hanno murato gli uomini vivi.

Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.

Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.

E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.

(Don Tonino Bello).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi-Bertorello.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

IV DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

III DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Esodo 20,1-17

 

   In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti. Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano. Ricordati del giorno del sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il settimo giorno. Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato. Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà. Non ucciderai. Non commetterai adulterio. Non ruberai. Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo. Non desidererai la casa del tuo prossimo. Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asino, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».

 

  • Il testo del Decalogo nel libro dell’Esodo è preceduto, al cap. 19, dalla grandiosa teofania in cui il Signore rivela la sua presenza sul Sinai, la «montagna sacra» (19,23). Soltanto Mosè, in rappresentanza del popolo raccoglie le «Dieci parole» che racchiudono la volontà del Signore e le riferirà agli Israeliti, che prometteranno di osservarle accettando l’alleanza (24.3). All’inizio del cap. 20 il Decalogo è introdotto bruscamente, senza collegamento diretto quanto precede. Improvvisamente, Dio parla: risalta cosi l’assoluta libertà dell’iniziativa divina.

     Il Decalogo

Non deve stupire la difficoltà a individuare con sicurezza nel testo i dieci comandamenti come sono formulati nei catechismi. Già nella seconda stesura (nel Deuteronomio) il Decalogo presenta qualche differenza: è poi citato con notevole libertà nei Profeti, nei Salmi, in altri scritti dell’Antico Testamento, nei Vangeli. Basta questo a farci comprendere che la legge del Signore, benché scolpita sulle «tavole di pietra», non deriva da questo la sua solidità, e che non è il rispetto esteriore e formale della «lettera» che conta, ma l’accordo interiore del «cuore» alla parola di Dio.

Otto comandamenti su dieci hanno una forma negativa, e questa lista di divieti può urtare qualcuno. Ma tutto cambia se riflettiamo che dire «cosa non bisogna fare» ci lascia molto più liberi. Dio pone dei divieti certo; ma è vietato solo ciò che priva noi e gli altri della libertà; la violenza, l’assassinio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza. Per il resto, Dio non obbliga; cosa bisogna fare, è lasciato alla nostra libertà. Dio non comanda nemmeno di essere adorato, non chiede sacrifici (cf. Is 1,12-13; Ger 7 22): lo stesso comandamento del sabato, più che imporre una pratica religiosa, comanda di non fare qualcosa, di astenersi dal lavoro.

     Note esegetiche

  1. 2-3: In positivo, la prima parola del Decalogo — il 1° comandamento nella tradizione dell’Ebraismo – non è precisamente un comandamento, e impegna Dio piuttosto che l’uomo. Dio si presenta, offre le sue credenziali: non chiede di essere obbedito senza essere conosciuto. Per questo può dire «non avrai altri dèi»: non basta confessare che Dio è uno, la Bibbia non predica un monoteismo filosofico, astratto, «numerico». La Bibbia dice chi è Dio, raccontando quello che ha fatto per noi. È il Dio che libera anzi il Dio che ha liberato te, oggi: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto». Tutto il Decalogo discende da questa affermazione iniziale, come un torrente dalla montagna.
  2. 4-6: La formulazione del divieto dell’idolatria è in stretto collegamento con il racconto della creazione in Gn 1. Dio ha fatto cielo terra e mare e ciò che contengono; ha fatto l’uomo a sua immagine; ha dato all’uomo il compito di sottomettere la terra. Nell’idolatria, l’ordine è stravolto: l’uomo adora le creature (astri, animali…) invece di dominarle, sostituisce all’immagine creata da Dio immagini di idoli fatte con le sue mani. Invece di adorare Colui che lo ha fatto, l’uomo adora la cosa che ha fatto. Questo rovesciamento della verità – questa menzogna – è proibito, perché Dio è geloso: la gelosia dell’amore che ha scelto l’uomo e stabilito l’alleanza, amore sovrabbondante di grazia, mille volte più del castigo (v. 5b-6). Tutti i peccati previsti nel Decalogo hanno radice nell’idolatria.
  3. 7: Invano (lašawe) indica il vuoto, la falsità, anche la magia. «Pronunciare invano il Nome» significa trattare Dio come un idolo: qualcosa di manipolabile, di cui l’uomo possa impadronirsi per strumentalizzarlo ai suoi fini. La stessa parola è usata nell’8° comandamento: la falsa testimonianza contro il fratello, immagine di Dio, è grave come il falso culto a Dio. Una pietà esteriormente corretta e ossequiente alle regole, cui non corrisponda la giustizia nei rapporti con gli altri, riduce a menzogna il Nome del Signore.
  4. 8-11 : Il comandamento del sabato è la chiave di volta del Decalogo. Come il quarto, è formulato in positivo («ricordati»); come gli altri, è anche negativo («non farai alcun lavoro…»); come il primo, è motivato con la creazione (nel Deuteronomio invece, con il ricordo della schiavitù in Egitto). Non si interrompe il lavoro, banalmente, perché è bene riposarsi; ma piuttosto per imitare, quale immagine di Dio, il riposo del settimo giorno della creazione. Si tratta quindi della più alta realizzazione dell’essere uomo: il sabato è un comandamento che riguarda Dio (la «prima tavola»), ma è anche quello che con maggiore insistenza parla della comunità umana («né tu, né tuo figlio….»), e l’unico in cui esplicitamente sia citato lo straniero. Il sabato è la legge più specifica che caratterizza l’identità ebraica, e insieme la più universale, perché l’ebreo è chiamato a condividere la santità del sabato con tutta la creazione, senza distinzioni di sesso, di condizione sociale (lo schiavo), di appartenenza etnica o religiosa (lo straniero) e perfino umana (il bestiame). Anche qui c’è l’accenno all’idolatria: il potere di «fare», di costruire opere (idoli) con le proprie mani, rischia di precipitare l’uomo in un delirio di onnipotenza, se non interviene la pausa del sabato a ricondurre tutto al Creatore.
  5. 12: Il quarto comandamento, come la «prima parola», rivolge l’uomo verso l’origine. Il «padre e la madre» sono l’anello di congiunzione fra l’uomo di oggi e ciò che lo ha preceduto, fino all’origine prima; attraverso padre e madre, nella tradizione ebraica e non solo, si trasmette la memoria dell’azione di Dio in favore del popolo, a partire dall’Esodo, e in favore dell’umanità, a partire dalla creazione. Perciò questo comandamento è l’unico che parli di un «premio», una conseguenza positiva per l’uomo: la vita, dono di Dio dalla creazione in poi, cui l’uomo e la donna partecipano nel generare il figlio. Adamo generò un figlio a sua immagine (Gn 5,3): il potere di generare, purificato dalla pretesa di onnipotenza possessiva e iscritto nell’onore (kavôd: la gloria, riservata a Dio) reso all’origine, si oppone al fare del lavoro, che deve essere interrotto nel giorno di sabato per non diventare costruzione di idoli.
  6. 13-16: Da qui, i comandamenti della «seconda tavola» che riguardano i rapporti umani. Non uccidere, esteso a ogni forma di violenza; non commettere adulterio, perché l’amore sponsale è figura del rapporto unico fra Dio e il popolo. Non dire falsa testimonianza, in parallelo con il v. 7.
  7. 17: Il nono e il decimo comandamento sono nella tradizione ebraica uno solo: il Decalogo si conclude penetrando nel segreto del cuore, dove si nasconde il desiderio. Non è il desiderio in sé che è peccato, ma il desiderio contro giustizia: volere tutto, senza riconoscere alcun ostacolo, nemmeno nella sfera di ciò che attiene all’altro. Al fondo, è ancora la pretesa di sostituirsi a Dio, in una volontà di potenza accaparratrice che non lascia spazio all’amore, che non lascia vivere, che trascina inesorabilmente alla distruzione.

 

Seconda lettura: 1Corinzi 1,22-25

 

      Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cercano sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.  Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.

 

  • La prima lettera ai Corinzi si apre con la polemica fra l’Apostolo e gli avversari che hanno introdotto divisioni e contrasti all’interno della comunità. Paolo difende con passione sia l’unità del Vangelo di Cristo, sia la corrispondenza della sua predicazione con questo Vangelo. A propria difesa, Paolo non invoca la «sapienza del discorso», ma la fedeltà alla croce di Cristo, che non deve essere «resa vana» (v. 17). L’argomentare di Paolo procede con l’audace contrapposizione fra la «sapienza degli uomini» e la «stoltezza» della parola della croce (vv. 18-21). A questa antitesi fra la parola di Dio e la parola del mondo si collega il proclama di «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v. 23).

Note esegetiche

  1. 22: «Giudei» e «Greci» (o «Gentili»: v. 23) rappresentavano al tempo di Paolo le due parti dell’umanità, contrapposte non tanto dal punto di vista religioso, quanto per il modo di porsi di fronte alla realtà. I Giudei, per credere, chiedono «segni» (semeia; miracoli, prodigi), prove storiche su cui poggiare la loro fede; i Greci cercano «sapienza» (sofia), per essere razionalmente convinti.
  2. 23: Un’avversativa, «noi invece…», sottolinea l’assoluta novità della predicazione di Paolo: «Cristo crocifisso», e introduce il secondo binomio: scandalo/stoltezza. Alla «prova» chiesta dai Giudei si contrappone la «pietra d’inciampo» (skàndalon), alla razionalità dei Greci la «stoltezza della croce» (morì an).
  3. 24: Il contrasto fra le due coppie di termini opposti è risolto nel cuore dell’annuncio, accolto dai «chiamati», sia Giudei che Greci: per loro la debolezza della croce mostra la potenza di Dio, e la stoltezza ne rivela la sapienza. La comprensione della fede consente di leggere la realtà con occhi nuovi e di riconoscere l’azione di Dio nella dedizione incondizionata di Colui che «amò i suoi fino alla fine» (Gv 13,1). Il Crocifisso è «il luogo dell’agire divino potentemente e sapientemente salvifico e tale appare agli occhi dei credenti» (G. BARBAGLIO, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB 1996, p. 143).
  4. 25: All’opposizione stoltezza/sapienza viene accostata qui quella debolezza/forza. Non si tratta di anteporre la sapienza di Dio a quella umana dichiarandone la superiorità, ma di una alternativa assoluta fra due contrari. Non si tratta nemmeno di paragonare semplicemente due punti di vista opposti, che provocano visioni fra loro incompatibili. La morte sulla croce rimane follia e il Cristo consegnato ai carnefici mostra la sua debolezza, liberamente scelta; ma sono la debolezza e la follia di chi soccombe alla violenza piuttosto che farsene complice, di chi vince l’odio con la sovrabbondanza dell’amore, di chi viene a guarire dall’interno il cuore malato dell’uomo. In questo, la debolezza si mostra più forte della forza, e la stoltezza più sapiente della sapienza.

 

Vangelo: Giovanni 2,13-25

 

 

       Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».  Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo.

Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che egli compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 

Esegesi

 

La «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano poco prima della Passione, è narrata da Giovanni all’inizio del ministero pubblico. L’evangelista vuole così sottolineare subito sia la grande novità del messaggio di Gesù, sia la continuità ideale con la predicazione dei profeti d’Israele. L’episodio si inserisce chiaramente in un contesto pasquale, nella prima delle tre Pasque di Gesù a Gerusalemme ricordate da Giovanni.

Si distinguono due brevi scene, ciascuna seguita da un versetto di commento; a conclusione, un sommario storico aggiunge una riflessione sulla fede autentica.

  1. 13-16: La prima scena è la cacciata dei mercanti dal Tempio.

La notazione temporale e geografica è precisa: la Pasqua «dei Giudei», così differenziata dalla Pasqua cristiana, segnala una situazione di distacco tra la comunità cristiana e la sinagoga, già definitiva al tempo della stesura del Vangelo. Gesù è tuttavia un ebreo osservante, e da Cafarnao — posta sul lago sotto il livello del mare — «sale» a Gerusalemme, a 800 m. di altezza.

I pellegrini che provenivano da ogni parte, non solo dalla Giudea, dovevano procurarsi in loco gli animali da offrire in sacrificio e pagare la tassa di mezzo siclo al Tempio. Spesso però essi disponevano solo di denaro romano o di altri paesi, monete non ammesse al Tempio perché coniate con effigi pagane. Era quindi necessaria, per lo svolgimento delle pratiche religiose, la presenza nelle vicinanze del Tempio di cambiavalute e mercanti di bestiame. La parola qui usata (hieròn) indica il recinto sacro, esterno al Tempio vero e proprio e comprendente il cosiddetto «cortile dei pagani», dove era consentito l’ingresso anche ai non israeliti. Sembra quindi eccessiva la severità di Gesù, oltre che inconsueta rispetto al comportamento mite che la tradizione gli attribuisce.

Tuttavia nulla è casuale o fuori luogo nel Vangelo di Giovanni. Il gesto di Gesù è chiaramente simbolico, che non vuol dire romanzato o fantasioso, ma al contrario, l’atto spettacolare rinvia a significati profondi e ricchi di conseguenze per la vita della comunità. Gesù si inserisce nella tradizione profetica e ne riprende linguaggio e atteggiamenti; il suo scopo non è scardinare il culto israelitico, ma riportarlo alla purezza originaria, impedire che l’osservanza esteriore di pratiche abituali scada nella superstizione e nel formalismo.

Le sue parole sono una citazione quasi letterale di passi dell’Antico Testamento (cf. Zac 14,21; Sal 69,10; Ger 7,11). Alcuni commentatori notano una sottile intenzione sociale, nella linea del profeta Amos: mentre rovescia i banchi dei cambiavalute e caccia il bestiame grosso, Gesù si mostra più paziente verso i venditori di colombe, animali offerti in sacrificio dai poveri. Notare il possessivo: «la casa del Padre mio», indizio di un rapporto unico di figliolanza tra Gesù e il Padre.

  1. 17: Il versetto è il commento posteriore dell’evangelista, il ricordo interpretante che a posteriori, alla luce della Pasqua e sulla falsariga della rilettura dell’Antico Testamento, spiega il senso dell’evento. Sono commenti tipici di Giovanni (cf. v. 22): anche nei Sinottici è sottolineata la comprensione post-pasquale dei gesti e delle parole di Gesù, che solo alla luce della risurrezione rivelano il loro pieno significato; qui c’è in più la riflessione cosciente, la consapevolezza che la distanza temporale dall’evento ha peso per l’ermeneutica e consente una comprensione progressiva della rivelazione.

Nella citazione del Sal 69,10 il verbo è cambiato dal presente «divora» al futuro «divorerà», per esplicitarne il valore di annuncio profetico della Passione.

  1. 18-21: I giudei rispondono, non tanto alle parole quanto ai gesti di Gesù. Presentati da Giovanni come gli avversari di Gesù, essi tuttavia hanno ben capito che il suo comportamento ricalca quello dei profeti, perciò gli chiedono un «segno» che ne attesti l’autorità. Gesù, come spesso avviene in Giovanni, risponde in forma enigmatica. Non rifiuta di dare il segno, ma invece di ricorrere a un prodigio come si aspettavano i giudei, propone loro una sfida che può essere letta su due livelli di senso, e che lascia quindi gli avversari davanti alla scelta tra la fede e l’incredulità. L’imperativo «distruggete» sta per un condizionale, come in molti oracoli profetici; Gesù gioca sul doppio senso tra il Tempio di pietre e il Tempio del suo corpo, e lascia intendere sia il nuovo Tempio dell’era messianica, sia la sua risurrezione. La parola usata nel v. 19 non è la stessa dei vv. 14-15; naòs è la costruzione al centro del Tempio, con il Santo dei Santi, il luogo in cui abita Dio.

I giudei si fermano al primo livello, quello immediato: manca loro la fede necessaria a operare il salto di senso, per giungere al secondo livello, la spiegazione dell’evangelista nel v. 21.

  1. 22: Anche i discepoli però non capiscono tutto subito: Giovanni sottolinea che solo dopo hanno capito il compimento della Scrittura.
  2. 23-25: Il sommario storico distingue i diversi livelli della fede. Molti credettero vedendo i segni: è già un primo passo rispetto all’incredulità dei giudei, ma non è ancora la fede autentica. Per questo Gesù non si fida pienamente: sa che non tutti reggeranno alla prova della Passione e della morte e che non tutti sapranno leggere le Scritture. La sua venuta è anche per il giudizio, nel senso inteso qui: per svelare ciò che sta nel cuore degli uomini e porli davanti alla scelta fondamentale e sincera.

 

Meditazione

 

«Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme», nota l’evangelista Giovanni. Anche per noi si sta avvicinando la Pasqua e l’Eucaristia di questa terza domenica di Quaresima ci unisce nuova­mente al gruppo dei discepoli che accompagnano Gesù. Nella settima­na appena conclusa ci siamo forse distratti dal cammino del Signore perché presi da noi stessi e dagli impegni della vita. Come i discepoli di allora, anche noi spesso siamo concentrati più sulle nostre preoccupa­zioni che su quelle del Vangelo. L’egocentrismo ci spinge sempre lon­tano dal Signore e dai suoi fratelli. Ma le domeniche tornano. E torna­no come le tappe del cammino: ci radunano assieme e ci immergono nell’itinerario che la Parola di Dio traccia per noi. Non siamo un popo­lo che cammina nelle tenebre. Il Signore non ci fa mancare la luce che illumina i nostri passi. La lettura dell’antica alleanza presenta le ‘dieci parole’, cioè, i Dieci Comandamenti. Sono le parole che costituiscono il fondamento della fede del popolo di Dio. Anche noi le abbiamo ascoltate sin dalla nostra infanzia, e fanno parte del ‘primo’ bagaglio religioso.

I Dieci Comandamenti, a guardarli con attenzione, non sono semplicemente una serie di alte e universali norme morali. Sono molto di più: in essi si esprime il contenuto fondamentale da cui dipendono tutta la legge e i profeti, ossia l’amore per il Signore e l’amore per il prossimo. Le prime ‘parole’ delineano il rapporto del popolo con il suo Dio: un rapporto d’amore esclusivo. Quando il Signore ordina: «Non avrai altri dèi di fronte a me», non propone una fredda definizione di tipo mono­teistico, bensì una richiesta di amore totale. È vero che non sarà mai possibile per noi raggiungere la qualità dell’amore di Dio, ma siamo chiamati a partecipare ad esso. «Siate perfetti com’è perfetto il Padre vostro che sta nei cieli», dice Gesù. La proibizione di avere immagini risponde alla esclusività che Dio pretende dal suo popolo: il suo amore è troppo personale e intenso per ammettere altri ‘amori’. Lo stesso si può dire dei credenti che si fabbricano idoli cui sacrificare la propria vita. Solo il Signore è degno di lode e di fede. Il sabato — continua il testo biblico — è il giorno del riposo, o meglio, della festa con Dio e con i fratelli. Per noi, cristiani, il giorno di festa e del riposo è quello della risurrezione di Gesù. La domenica è dunque il giorno grande ed eter­no: anticipa il paradiso, annunzia la gioia, è fonte di godimento, muove alla contemplazione.

Segue la seconda parte del Decalogo ove si elencano sette comanda­menti che delineano il corretto modo di vivere i rapporti tra gli uomini. Anche qui non si tratta unicamente di norme morali, bensì di indica­zioni tese a preservare l’immagine di Dio inscritta nel cuore degli uomi­ni. Sono sette parole che descrivono i limiti estremi da non valicare. Perciò, questi ‘comandi’, prima di essere una legge che verrebbe sanci­ta da un castigo, esprimono una esigenza d’amore, di un amore non parziale o fiacco, come può essere il nostro, ma di un amore esclusivo ed esigente, com’è quello di Dio: «Io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso», dice lo stesso Signore.

Il Vangelo presenta la scena della cacciata dei venditori dal tempio, che si potrebbe interpretare come una manifestazione di santa gelosia da parte di Gesù, il quale si rimette alla gelosia di Dio. Del resto dice il profeta: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà», cioè, sento dentro di me, come un dovere estremo, la difesa della dignità del Signore. Infatti, Gesù, appena vide il tempio invaso da venditori, nota l’evangelista Marco, fece una cordicella e cominciò a sferzarli e a rovesciare i loro banchetti. È un Gesù che non picchia nessuna persona ma, con una indignazione risoluta, non tollera che nessuno inquini la santità del tempio, la casa del Padre, lì dove Dio ha posto la sua dimora. Gesù sa bene che in un tempio ove si tollerano piccoli commerci di piccoli ven­ditori, si arriva a comprare qualcosa così importante come è la vita di un uomo per soli trenta denari.

Ma qual è il mercato che scandalizza Gesù? Qual è la compra-vendi­ta che Gesù non può sopportare? Senza dubbio la lettera di questa pagina evangelica interpella il nostro modo di gestire gli edifici di culto, affinché diventino davvero luoghi di preghiera e di incontro con Dio e non piuttosto luoghi sciatti e pieni di confusione. Bisogna impa­rare da questo Vangelo la responsabilità che hanno le nostre comunità perché non siano palestre per il proprio egocentrismo o per quant’al­tro che non riguardi lo «zelo per la casa del Signore». Tuttavia, c’è un altro mercato sul quale è importante porre la nostra attenzione: è quel­lo che si svolge dentro i cuori. Ed è un mercato che scandalizza ancor più il Signore Gesù perché il cuore è il vero tempio che Dio vuole abi­tare. Tale mercato riguarda il modo di concepire e di condurre la vita. Quante volte la vita viene ridotta ad una lunga ed avara compra-vendita, senza più la gratuità dell’amore! Quante volte dobbiamo constatare, a partire da noi stessi, il rarefarsi della gratuità, della generosità, della benevolenza, della misericordia, del perdono, della grazia! La ferrea legge dell’interesse personale, o di gruppo, o di nazione, sembra presiedere inesorabilmente la vita degli uomini. Tutti, chi più chi meno, siamo impegnati a trafficare per noi stessi e per il nostro guadagno; e non badiamo se da tale pratica crescono le erbe velenose dell’arroganza, dell’insaziabilità e della voracità. Quel che conta e quel che vale è il proprio personale guadagno; a qualsiasi prezzo.

Gesù entra ancora una volta nella nostra vita, come entrò nel tempio, e manda all’aria le bancarelle dei nostri interessi meschini e riafferma il primato assoluto di Dio. È lo zelo che Gesù ha per ognuno di noi, per il nostro cuore, per la nostra vita perché si apra ad accogliere Dio. Il Vangelo è la «spada a doppio taglio» di cui parla la Lettera agli Ebrei, che penetra sin nelle midolla per separarci dal male. Purtroppo capita non di rado di metterci dalla parte di quei responsabili dei luoghi sacri come il tempio, i quali, al vedere un ‘laico’ qual era Gesù agire dentro l’area sacra, si scandalizzano e chiedono ragione di tale brusco e ‘irriverente’ intervento. «Quale segno ci mostri per fare queste cose?», chiedono a Gesù. È la sorda opposizione che ancora facciamo di fronte all’invadenza del Vangelo nella nostra vita. Il male e il peccato, l’orgoglio e l’egoismo, cercano tutti i modi per ostacolare la presenza dell’amore nella vita del mondo. Eppure è proprio nell’accogliere l’amore del Signore che noi troviamo la salvezza. E più che mai necessario lasciarci sferzare dal Vangelo per essere liberati dalla legge del mercato, ed entrare così nel tempio dell’amore che è Gesù stesso.

 

 

L’immagine della domenica

 

Camminando verso san Pietro (Roma)   –    2024

 

«La terra, se guardata a lungo, vi costringe a guardare il cielo».

 

(Victor Hugo)


Preghiere e racconti

Breve apologo insegnato dal Vedanta

Una vecchia leggenda indù racconta che vi fu un tempo in cui tutti gli uomini erano dèi. Ma essi abusarono talmente della loro divinità che Brahma, il signore degli dèi, decise di togliere loro il potere divino e di nasconderlo in un posto dove sarebbe stato loro impossibile ritrovarlo. Il grande problema fu dunque di trovargli un nascondiglio.

Quando gli dèi minori furono convocati in Consiglio per risolvere il problema, gli proposero così: «Seppelliamo la divinità dell’uomo nella terra!»

Ma Brahma rispose: «No, non sarà sufficiente, perché l’uomo la scaverà e la troverà…».

Allora gli dèi replicarono: «In questo caso, gettiamo la divinità nel più profondo degli oceani!» Ma Brahma rispose di nuovo: «No! Perché presto o tardi l’uomo esplorerà le profondità di tutti gli oceani, ed è certo che un giorno la troverà e la riporterà in superficie…!».

E gli dèi minori conclusero: «Non sappiamo più dove nasconderla, perché non sembra esistere, sulla terra o nel mare, un posto in cui un giorno l’uomo non possa arrivare…».

Allora Brahma disse: «Ecco quello che faremmo della divinità dell’uomo: la nasconderemo nel più profondo di se stesso, perché è il solo posto in cui non penserà mai di cercare…».

Da allora, l’uomo ha fatto il giro della terra, ha esplorato, scalato, si è immerso e scavato… alla ricerca di qualcosa che si trova in lui…

 

Il Vangelo di questa terza domenica di Quaresima riferisce – nella redazione di san Giovanni – il celebre episodio di Gesù che scaccia dal tempio di Gerusalemme i venditori di animali e i cambiamonete (cfr Gv 2,13-25). Il fatto, riportato da tutti gli Evangelisti, avvenne in prossimità della festa di Pasqua e destò grande impressione sia nella folla, sia nei discepoli. Come dobbiamo interpretare questo gesto di Gesù? Anzitutto va notato che esso non provocò alcuna repressione dei tutori dell’ordine pubblico, perché fu visto come una tipica azione profetica: i profeti infatti, a nome di Dio, denunciavano spesso abusi, e lo facevano a volte con gesti simbolici. Il problema, semmai, era la loro autorità. Ecco perché i Giudei chiesero a Gesù: “Quale segno ci mostri per fare queste cose?” (Gv 2,18), dimostraci che agisci veramente a nome di Dio.

La cacciata dei venditori dal tempio è stata anche interpretata in senso politico-rivoluzionario, collocando Gesù nella linea del movimento degli zeloti. Questi erano, appunto, “zelanti” per la legge di Dio e pronti ad usare la violenza per farla rispettare. Ai tempi di Gesù attendevano un Messia che liberasse Israele dal dominio dei Romani. Ma Gesù deluse questa attesa, tanto che alcuni discepoli lo abbandonarono e Giuda Iscariota addirittura lo tradì. In realtà, è impossibile interpretare Gesù come un violento: la violenza è contraria al Regno di Dio, è uno strumento dell’anticristo. La violenza non serve mai all’umanità, ma la disumanizza.

Ascoltiamo allora le parole che Gesù disse compiendo quel gesto: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!”. E i discepoli allora si ricordarono che sta scritto in un Salmo: “Mi divora lo zelo per la tua casa” (69,10). Questo salmo è un’invocazione di aiuto in una situazione di estremo pericolo a causa dell’odio dei nemici: la situazione che Gesù vivrà nella sua passione. Lo zelo per il Padre e per la sua casa lo porterà fino alla croce: il suo è lo zelo dell’amore che paga di persona, non quello che vorrebbe servire Dio mediante la violenza. Infatti il “segno” che Gesù darà come prova della sua autorità sarà proprio la sua morte e risurrezione. “Distruggete questo tempio – disse – e in tre giorni lo farò risorgere”. E san Giovanni annota: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (Gv 2,20-21). Con la Pasqua di Gesù inizia un nuovo culto, il culto dell’amore, e un nuovo tempio che è Lui stesso, Cristo risorto, mediante il quale ogni credente può adorare Dio Padre “in spirito e verità” (Gv 4,23). Cari amici, lo Spirito Santo ha iniziato a costruire questo nuovo tempio nel grembo della Vergine Maria. Per sua intercessione, preghiamo perché ogni cristiano diventi pietra viva di questo edificio spirituale.

(Le parole del Papa Benedetto XVI alla recita dell’Angelus, 11-III-2012)

Sei casa del Padre, non fare mercato del tuo cuore

Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!» (…). Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».

E io, come vorrei il mondo, cosa sogno per la nostra casa grande che è la terra? Che sia Casa del Padre, dove tutti sono fratelli, o casa del mercato (Gv2,16), dove tutti sono rivali? È questa l’alternativa davanti alla quale oggi mi mette Gesù. E la sua scelta è così chiara e convinta da farlo agire con grande forza e decisione: si prepara una frusta e attraversa l’atrio del tempio come un torrente impetuoso, travolgendo uomini, animali, tavoli e monete. Mi commuove in Gesù questa combattiva tenerezza: in lui convivono la dolcezza di una donna innamorata e la determinazione, la forza, il coraggio di un eroe sul campo di battaglia (C. Biscontin).

Un gesto infiammato, carico di profezia: Non fate della casa del Padre mio una casa di mercato! Non fare del mercato la tua religione, non fare mercato della fede. Non adottare con Dio la legge scadente della compravendita, la logica grezza del baratto dove tu dai qualcosa a Dio (una Messa, un’offerta, una rinuncia…) perché lui dia qualcosa a te. Dio non si compra e non si vende ed è di tutti.

La casa del Padre, che Gesù difende con forza, non è solo l’edificio del tempio, ma ancor più è l’uomo, la donna, l’intero creato, che non devono, non possono essere sottomessi alle regole del mercato, secondo le quali il denaro vale più della vita. Questo è il rischio più grande: profanare l’uomo è il peggior sacrilegio che si possa commettere, soprattutto se povero, se bambino, se debole, i principi del regno. «Casa di Dio siete voi, se conservate libertà e speranza» (Eb 3,6). Casa, tempio, tenda grembo di Dio sono uomini e donne che custodiscono nel mondo il fuoco della speranza e della libertà, la logica del dono, l’atto materno del dare. Tempio di Dio è l’uomo: non farne mercato! Non umiliarlo sotto le leggi dell’economia. Non fare mercato del cuore! Sacrificando i tuoi affetti sull’altare del denaro. Non fare mercato di te stesso, vendendo la tua dignità e la tua onestà per briciole di potere, per un po’ di profitto o di carriera.

Ma l’esistenza non è questione di affari: è, e non può che essere, una ricerca di felicità. Che le cose promettono e non mantengono. È solo nel dare e nel ricevere amore che si pesa la felicità della vita. I Giudei allora: quale segno ci mostri per fare così? Gesù risponde portandoli su di un altro piano: Distruggete questo tempio e in tre giorni lo riedificherò. Non per una sfida a colpi di miracolo e di pietre, ma perché vera casa di Dio è il suo corpo. E ogni corpo d’uomo è divino tempio: fragile, bellissimo e infinito. E se una vita vale poco, niente comunque vale quanto una vita. Perché con un bacio Dio le ha trasmesso il suo respiro eterno.

(Ermes Ronchi)

Il nostro corpo, tempio per rendere culto a Dio

 

  1. Il tempo di quaresima iniziato nel deserto della prova, la vita ha un senso o no, e proseguito sul monte della trasfigurazione, il senso della vita si è fatto parola e volto in un tu di nome Gesù, oggi fa tappa a Gerusalemme, nel tempio. Osserviamo attentamente lo svolgimento dei fatti. Gesù entra nel cortile dei gentili e vi trova la seguente situazione: «gente che vendeva buoi, pecore e colombe e…i cambiamonete» (Gv 2,14). I primi vendevano animali per il sacrificio, il particolare dei buoi e delle pecore è proprio a Giovanni, e i secondi, dietro un minimo compenso, scambiavano la moneta romana, non spendibile per le cose del tempio a motivo del suo contenere l’effigie dell’imperatore con la scritta che lo proclamava divino, con la moneta ufficiale di Tiro. Alla costatazione della situazione segue la reazione da parte di Gesù: il farsi una frusta di cordicelle, lo scacciare i mercanti, il gettare per terra il denaro e il rovesciare i banchi dei cambiamonete (Gv 2, 15). Al gesto segue la motivazione: «Portate via di qui tutte queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato» (Gv 2,16). Motivazione che qualifica il gesto come atto profetico, in sintonia con Geremia che lamenta che la casa di Dio sia ridotta a una spelonca di ladri (Ger 7,11) e con la scrittura di Zaccaria: «In quel giorno non vi saranno più commercianti nella casa del Signore delle schiere» (Zc 14,21). Atto profetico che i discepoli rileggeranno come generato da uno zelo che costantemente ha divorato Gesù (Gv 2,17; Sal 69,10) e che finirà per farlo divorare: la passione per Dio suo Padre, per la casa di suo Padre, per le cose di suo Padre. Gesto che in Gesù ha una connotazione unica a motivo della sua relazione unica con il Padre, è il gesto di un Figlio lucidamente consapevole che non si danno istituzioni religiose esenti dal grande rischio di tramutarsi in comitato di affari. Tocca alla profezia ricordare che ogni tempio di ogni luogo può divenire in nome del denaro prigione e sfruttamento del divino e non luogo di possibile incontro con il divino. Di questo tempio non rimarrà pietra su pietra, il futuro non gli appartiene.

 

  1. L’interpretazione profetica e filiale del gesto di Gesù non esaurisce la gamma dei significati ad esso connessi. A questo introduce la seconda parte della pericope giovannea che inizia con una domanda dei Giudei, prosegue con la risposta di Gesù e si conclude con un singolare accenno ai discepoli quale memoria storica dell’evento. La domanda è: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?» (Gv 2,18). Il gesto della purificazione del tempio (Mal 3,1s) è tale da esigere una controprova in grado di rendere ragione alla vera domanda: con quale autorità hai fatto questo? Gesù non si sottrae alla risposta: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (Gv 2,19) ma, in stile tipicamente giovanneo, la pone su un piano completamente diverso da quello dei suoi interlocutori. Quest’ultimi intendevano il tempio di pietra, Gesù il «tempio del suo corpo» (Gv 2,21). E nuovi scenari si aprono, il purificatore del tempio è il tempio stesso di Dio non fatto da mano d’uomo. Il corpo di Gesù è la dimora del Padre, è il luogo attraverso cui il Padre si fa compagnia umana rendendosi udibile e visibile, è il luogo attraverso cui l’uomo incontra Dio e da cui sale al Padre l’unico sacrificio gradito: il dono libero, amante e incondizionato di sé che purifica l’uomo da ogni suo male. Solo l’amore rende casti e capaci di amare. In Gesù viene dichiarata conclusa l’era dei sacrifici, l’uomo non sacrifichi l’uomo per nessuna ragione, tantomeno religiosa; e neppure sacrifichi gli animali, non a caso vengono cacciati buoi e pecore dal tempio del loro sacrificio. Dio in Gesù si racconta come dedizione fino alla morte, questo il Dio che merita resurrezione; Dio in Gesù racconta l’uomo a sua immagine e somiglianza, dedizione fino alla morte, questo l’uomo che merita resurrezione. Altra cosa sacra gradita a Dio non esiste.

 

  1. «Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero» (Gv 2,22). Il compito delle Chiese è posto, essere nella storia la memoria che il corpo di Gesù è il tempio di Dio, in quella carne Dio si rende contemporaneo all’uomo e l’uomo è posto al cospetto di Dio. E ancora essere nella storia la memoria che il Dio spiegato da quel corpo è straniero a considerare l’uomo e l’animale come oggetto di sacrificio, solo il gratuito dono di sé per il bene dell’altro è ciò che conta. E infine essere nella storia la memoria che a similitudine di Gesù-Tempio ogni corpo è costituito tempio di Dio: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi?» (1Cor 6,19). Memoria dunque della propria corporeità come luogo in cui il Padre per il Figlio nello Spirito continua a fare di sé il dono di sé all’altro fino a rimanerne distrutto. Non abbiamo altro tempio che il corpo per rendere Dio presente all’uomo, un corpo che vibra di premura, un corpo destinato al terzo giorno della resurrezione. Per queste ragioni il Gesù di Giovanni dichiarerà concluso il conflitto dei templi di pietra (Gv 4,21-24). Una lezione da ripassare costantemente.

(Giancarlo Bruni)

 

Il segreto del nostro cuore

Siamo così tornati al mistero del nostro cuore, che è il centro della nostra vita e identità umana. È nel cuore che le nostre idee, intuizioni, emozioni e decisioni più profonde hanno la loro sorgente. Ma è anche nel cuore che spesso ci alieniamo di più da noi stessi. Sappiamo poco o nulla del nostro cuore. Giriamo alla larga, come se ne avessimo paura. Ciò che è più intimo ci spaventa di più. Proprio dove siamo più veramente noi stessi, siamo spesso estranei a noi stessi. È questo il lato doloroso del nostro ‘essere uomini’. Non riusciamo a conoscere i nostri centri nascosti, e ci capita perfino di vivere e morire senza sapere chi siamo in realtà. Se ci chiediamo perché pensiamo, sentiamo e agiamo in una data maniera, spesso non sappiamo rispondere, e dimostriamo così che siamo forestieri perfino in casa nostra.

Il mistero della vita spirituale è che Gesù vuole incontrarci nel segreto del nostro cuore, per farci conoscere il suo amore, liberarci dalle nostre paure e farci conoscere la nostra personalità più profonda. Nel segreto del nostro cuore, perciò, possiamo imparare non solo a conoscere Gesù ma anche, attraverso Gesù, a conoscere noi stessi. Se ci rifletti su un istante, vedrai un’interazione tra l’amore di Dio che ti si rivela e una crescita costante nella conoscenza che hai di te stesso. Ogni volta che lasci penetrare l’amore di Dio più profondamente nel tuo cuore, perdi un po’ della tua ansietà, e ogni volta impari a conoscerti meglio e brami di essere più conosciuto dal tuo Dio che ti ama.

(H.J.M. NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 75).

 

Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù

«Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore. Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace. Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio. Esso è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non e concesso ai malvagi.

Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto. Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.

Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce discorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella. Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te. Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23). Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.

Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato. Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te. Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.

(Imitazione di Cristo).

 

40 giorni nel deserto

Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.

Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire. Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo. Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua. Tu devi tornare nella solitudine”.

L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un convento?”

“No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.

 

Angeli smemorati

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

 

Il luogo della lotta: il cuore

La vita spirituale procede da un centro intimo, un organo centrale, una radice dell’essere umano che la Bibbia chiama “cuore”. Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della vita psicologica e morale, dunque della vita interiore.

Luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, come di molti altri sentimenti, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: esso designa ciò che per noi è la “persona”, soprattutto la “coscienza” personale. Luogo intimo nell’uomo ma scrutato e discreto da Dio, esso è il luogo del sorgere della fede, dell’accoglienza della Parola di Dio e dei doni divini: lo Spirito santo (Galati 4,6), l’amore di Dio (Romani 5,5),  la pace di Cristo la pace di Cristo (Colossesi 3,15). Il Cristo stesso abita per la fede nel cuore dell’uomo (Efesini 3,17) e dal cuore sale a Dio la risposta umana in forma di amore, preghiera, invocazione (Galati 4,6; Efesini 5,19; Colossesi 3,16; Marco 12,30). Luogo dell’incontro fra Dio e uomo, il cuore è anche, secondo la Bibbia, la sede di cupidigie e di passioni: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive» (Marco 7,21-23): così il cuore diviene il luogo della lotta spirituale, del combattimento interiore dove si scontrano le tendenze di peccato e l’azione della grazia di Dio. Il cuore può indurirsi nel rifiuto di ascoltare e accogliere la Parola di Dio (Matteo 13,15; Atti 28,27), può chiudersi alla compassione (Marco 3,5), può essere incapace di comprendere e di discernere (Marco 6,52; 8,17-21), può essere doppio, cioè insincero, menzognero (Atti 8,21; Giacomo 1,8; 4,8), nutrire odio e rancore (Levitico 19,17), gelosia e invidia (Giacomo 3,14). Prima di essere consumato esteriormente, nei gesti e nelle azioni, il peccato viene consumato nel cuore (cfr. Matteo 5,28). Si tratta allora, di far spazio allo Spirito santo perché Dio possa unificare (Salmo 86,11; Geremia 32,39), purificare (Salmo 51,12), circoncidere (Deuteronomio 10,16; 30,6), rinnovare (Ezechiele 36,26-27), ricreare (Salmo 51,12) il cuore dell’uomo. Ecco dunque il cuore come luogo della lotta invisibile, luogo dove può avvenire la decisione del ritorno a Dio e l’accoglienza della grazia che rende possibile tale ritorno, e dove avviene anche la scelta a favore della vita e la rottura con il peccato.

(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale. Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 142-143).

 

Un cuore chiuso

Ti aspettavo, Signore,

ma non sei venuto.

L’attesa è stata lunga,

e solo tardi ho capito

che non eri entrato

perché il cuore non ti aspettava.

Avevi bussato alla porta:

«Alzati, amica mia,

mia bella e vieni!

Perché l’inverno è passato,

è cessata la pioggia,

i fiori sono apparsi nei campi,

la stagione del canto è tornata

e si sente cantare la tortora.

Aprimi!».

Ma il cuore era chiuso,

appiattito su orizzonti terreni.

Ma quando sei finalmente entrato,

vincendo la mia sordità,

ho capito, Signore,

che il cuore si popola di idoli

quando tu scompari,

e che tu abiti, soltanto,

dove ti si lascia entrare.

 

Se preghi per te soltanto,

preghi per il tuo interesse.

  1. Ambrogio

(Vittorio PERI, Pregare è dire sì, Elle Di Ci-Velar, 2005).

 

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

III DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B

II DOMENICA DI QUARESIMA

Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18

 

   In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».  Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».

  Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.  L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».

 

  • Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi. Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.

Aspetti di esegesi

Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito. Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2). Abramo esegue il volere divino.

«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna. Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!». Rispose: «Eccomi!». L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito». Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).

La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8). L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.

Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio. All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza. È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà. Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.

«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).

Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento. I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).

«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20). La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21). L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome. Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19). In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio. La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).

 

Seconda lettura: Romani 8,31-34

 

Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!

 

  • La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13). Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.

Aspetti di esegesi

«Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).

L’insieme è un inno di fiducia. Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente. Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto. L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande. Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi. Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso. La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote. Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi. La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.

 

Vangelo: Marco 9,2-10

 

  In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.  Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

 

Esegesi

 

Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20). Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro. È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.

Aspetti di esegesi

Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù. Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio. Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.

Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23). Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione. La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione. Gesù rimane identico mostrandosi glorioso. Lo splendore di Gesù è celeste. La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina. I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.

«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4). Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie. Essi discorrono con Gesù. Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).

«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati». Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6). È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.

«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7). La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre. La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.

Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo. «E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).

Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione. L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato. I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza. Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”. Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).

 

Meditazione

 

Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita. In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito. Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio. E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana. Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato. Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino. Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio. È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.

Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli. È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù. Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33). La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino. È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29). Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.

Notiamo solo alcuni elementi del racconto. Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’. Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio. Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù. In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).

Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte. E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte. Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.

Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3). Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo. Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza. Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore. È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).

Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena. E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto. Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4). C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola. E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge. Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio. Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola. E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).

Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze. La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5). L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo. E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia. Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro. Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32). Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.

Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare. Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme. Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8). Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua. Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino. Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31). Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta. Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.

 

L’immagine della domenica

CATENA DEL GRAN SASSO D’ITALIA (AQ)   –   2005

 

«Non si può restare sempre sulle vette, bisogna ridiscendere….

A che pro, allora? Ecco: l’alto conosce il basso, il basso non conosce l’alto. Salendo, devi prendere nota delle difficoltà del tuo cammino; finché sali, puoi vederle. Nella discesa, non le vedrai più, ma saprai che ci sono, se le avrai osservate bene. Si sale, si   vede. Si ridiscende, non si vede più; ma si è visto.

Esiste un’arte di dirigersi nelle regioni basse per mezzo del ricordo di quello che si è visto quando si era più in alto.

Quando non è più possibile vedere, almeno è possibile sapere».

(Renè Daumal)

 

 

Preghiere e racconti

Il Tabor e il Getsemani

Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità. Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore. Laggiù amore e dolore si fondono.

Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta. La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2). La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44). La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani. Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.

(Henri J.M. NOUWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).

 

Così il Signore ha sognato il volto dell’uomo

Dall’abisso di pietre al monte della luce, dalle tentazioni nel deserto alla trasfigurazione. Le prime due domeniche di Quaresima offrono la sintesi del percorso che la vita spirituale di ciascuno deve affrontare: evangelizzare le nostre zone d’ombra e di durezza, liberare tutta la luce sepolta in noi. In noi che siamo, assicura Gesù, luce del mondo. Guardate a lui e sarete raggianti e non avrete più volti oscuri, cantava il salmista.

Aveva iniziato in Galilea la sua predicazione con la bella notizia che il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi, diceva, e credete che Lui è qui e guarisce la vita. Oggi il Vangelo mostra gli effetti della vicinanza di Dio: vedere il mondo in altra luce e reincantare la bellezza della vita.

Gesù porta i tre discepoli sopra un monte alto. La montagna è la terra che penetra nel cielo, il luogo dove si posa il primo raggio di sole e indugia l’ultimo; i monti sono, nella Bibbia, le fondamenta della terra e la vicinanza del cielo, il luogo che Dio sceglie per parlare e rivelarsi. E si trasfigurò davanti a loro. E le sue vesti divennero splendenti, bianchissime. Anche la materia è travolta dalla luce. Pietro ne è sedotto, e prende la parola: che bello essere qui, Rabbì! Facciamo tre capanne.

L’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! ci fanno capire che la fede per essere pane nutriente, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello!” gridato a pieno cuore. Avere fede è scoprire, insieme a Pietro, la bellezza del vivere, ridare gusto a ogni cosa che faccio, al mio svegliarmi al mattino, ai miei abbracci, al mio lavoro. Tutta la vita prende senso, ogni cosa è illuminata: il male e il buio non vinceranno, il fine della storia sarà positivo. Dio vi ha messo mano e non si tirerà indietro.

Ciò che seduce Pietro non è lo splendore del miracolo o il fascino dell’onnipotenza, ma la bellezza del volto di Gesù, immagine alta e pura del volto dell’uomo, così come lo ha sognato il cuore di Dio. Intuisce che la trasfigurazione non è un evento che riguarda Gesù solo, ma che si tratta di un paradigma che ci riguarda tutti e che anticipa il volto ultimo dell’uomo, è «il presente del nostro futuro» (come Tommaso d’Aquino chiama la speranza).

Infine il Padre prende la parola ma per scomparire dietro la parola del Figlio: «Ascoltate Lui». Sali sul monte per vedere e sei rimandato all’ascolto. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: Ascoltate Lui. Nostra vocazione è liberare, con gioiosa fatica, tutta la bellezza di Dio sepolta in noi. E il primo strumento per la liberazione della luce è l’ascolto della Parola.

(Ermes Ronchi)

 

Domenica della trasfigurazione di Gesù

La seconda domenica di Quaresima è tradizionalmente la domenica della trasfigurazione di Gesù, ovvero il polo opposto alla prima, dedicata alle tentazioni di Gesù. Quest’anno leggiamo il racconto presente nel vangelo secondo Marco, e siccome abbiamo commentato ormai tantissime volte l’inesauribile mistero della trasfigurazione del Signore, ci prenderemo anche un po’ di libertà, per dire qualcosa su alcuni interventi critici riguardo al linguaggio e allo stile di papa Francesco.

Ma iniziamo con il contestualizzare l’evento: un evento storico, non un mito! Al centro del vangelo Gesù ha fatto per la prima volta alla sua comunità l’annuncio della sua passione, morte e resurrezione ormai prossime, suscitando l’incomprensione da parte di Pietro (cf. Mc 8,31-33), e ha anche detto con forza alla folla che la sequela deve passare attraverso la croce (cf. Mc 8,31-37).

Il discepolo di Gesù non può pensare di essere esente dalla croce, non può rifiutarla come scandalo e vergogna, perché, se si vergognerà di Gesù crocifisso, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui alla sua venuta gloriosa (cf. Mc 8,38). Venuta gloriosa che chiuderà la storia, ma della quale – annuncia Gesù stesso – alcuni potranno vedere un’anticipazione (cf. Mc 9,1).

“Sei giorni dopo” queste parole, dunque nel settimo giorno, “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni”, i discepoli a lui più vicini e intimi (testimoni della resurrezione della figlia di Giairo: cf. Mc 5,37; testimoni dell’agonia di Gesù, della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani: cf. Mc 14,33), “e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”.

Ed ecco il grande mistero: Matteo scrive che “il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2), Luca che “l’aspetto del suo volto divenne altro” (Lc 9,29). Marco invece è molto discreto, ci dice solo che Gesù “fu trasfigurato (metemorphóte) davanti a loro”, per un’azione divina (espressa al passivo), e così “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime, tanto che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”.

Ciò che è avvenuto è indicibile, chi può descriverlo adeguatamente? Qui Marco, affinché il lettore comprenda la straordinarietà dell’evento, si serve di un’immagine efficace, espressa in modo semplice, in vernacolo, facendo uso di uno stile che ci può anche sorprendere. L’evangelista più antico parla un greco semplice, non padroneggia questa lingua in modo tale da renderla elegante, come invece fa Luca, e per questo si serve del paragone, appena citato, con il lavoro del lavandaio.

Certamente i tre evangelisti sinottici, pur con le loro differenze di stile, non sapevano narrare la trasfigurazione di Gesù con la profondità teologica dei padri della chiesa greca, quando leggeranno questo bianco splendente come “energie increate” presenti nel corpo di Gesù, il Figlio di Dio. Tuttavia il messaggio di Marco ha la stessa qualità teologica degli altri due, e la teofania da lui presentata non risulta più povera o mancante.

Evidenzio questo, pensando al modo di esprimersi di papa Francesco, criticato e spesso anche disprezzato perché a volte si esprime effettivamente in vernacolo, in modo da essere capito da tutti, servendosi di un linguaggio semplice, lontano dal dettato di una lezione teologica. Attenzione, dunque, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (Mc 4,9), come Gesù ha più volte ripetuto…

Il bianco è la luce, è il colore del mondo celeste (cf. Dn 7,9), del cielo aperto, e niente sulla terra gli si avvicina. Anche gli angeli della resurrezione (cf. Mc 16,5 e par.; Gv 20,12) e quelli dell’ascensione al cielo, secondo l’iconografia tradizionale, sono vestiti di bianco. Insomma, luminosità straordinaria! Gesù appare dunque trasfigurato, e dal suo corpo emana luce, come la emanava il volto di Mosè (cf. Es 34,29-35), come la emana il Figlio dell’uomo nelle visioni apocalittiche di Giovanni (cf. Ap 1,12-16). Accanto a Gesù “apparve Elia con Mosè, e conversavano con Gesù”: la Profezia e la Legge, delle quali Gesù è interprete e compimento.

Di fronte a tale “visione”, Pietro parla in modo inappropriato, balbetta, non sa cosa dire, se non che occorrerebbe fermare, arrestare quell’evento, renderlo definitivo. Così tutto sarebbe compiuto senza la passione e la croce… Ma questo “congelamento” dell’esperienza non è possibile, e infatti una nube luminosa copre tutti i presenti, mentre una voce proveniente da essa proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Dt 18,15).

Se al battesimo la voce del Padre era risuonata solo per Gesù (cf. Mc 1,11), qui invece la rivelazione è anche per i tre discepoli. E l’invito è quello decisivo per ogni discepolo di Gesù, di ogni tempo: occorre ascoltare lui, il Figlio, che è il Kýrios, il Signore! Ascoltare lui, non le proprie paure, non i propri desideri, non le proprie immagini e proiezioni su Dio. Sì, anche per vedere e ascoltare Dio (“Shema‘…”: Dt 6,4) ormai occorre vedere e ascoltare Gesù.

E subito dopo nessuna luce, nessuna voce, nessuna presenza: solo Gesù con i tre discepoli, Gesù con loro come lo era stato sempre. Un uomo, un compagno che scende dal monte per compiere il suo cammino verso Gerusalemme, verso la morte che attende ogni giusto, ogni vero figlio di Dio.

(Enzo Bianchi)

 

La Trasfigurazione

L’odierna domenica, la seconda di Quaresima, è detta della Trasfigurazione, perché il Vangelo narra questo mistero della vita di Cristo. Egli, dopo aver preannunciato ai discepoli la sua passione, “prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte. E fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17,1-2). Secondo i sensi, la luce del sole è la più intensa che si conosca in natura, ma, secondo lo spirito, i discepoli videro, per un breve tempo, uno splendore ancora più intenso, quello della gloria divina di Gesù, che illumina tutta la storia della salvezza. San Massimo il Confessore afferma che “le vesti divenute bianche portavano il simbolo delle parole della Sacra Scrittura, che diventavano chiare e trasparenti e luminose” (Ambiguum 10: PG 91, 1128 B).

Dice il Vangelo che, accanto a Gesù trasfigurato, “apparvero Mosè ed Elia che conversavano con lui” (Mt 17,3); Mosè ed Elia, figura della Legge e dei Profeti. Fu allora che Pietro, estasiato, esclamò: “Signore, è bello per noi essere qui! Se vuoi, farò qui tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia” (Mt 17,4). Ma sant’Agostino commenta dicendo che noi abbiamo una sola dimora: Cristo; Egli “è la Parola di Dio, Parola di Dio nella Legge, Parola di Dio nei Profeti” (Sermo De Verbis Ev. 78,3: PL 38, 491). Infatti, il Padre stesso proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” (Mt 17,5).

La Trasfigurazione non è un cambiamento di Gesù, ma è la rivelazione della sua divinità, “l’intima compenetrazione del suo essere con Dio, che diventa pura luce. Nel suo essere uno con il Padre, Gesù stesso è Luce da Luce” (Gesù di Nazaret, Milano 2007, 357). Pietro, Giacomo e Giovanni, contemplando la divinità del Signore, vengono preparati ad affrontare lo scandalo della croce, come viene cantato in un antico inno: “Sul monte ti sei trasfigurato e i tuoi discepoli, per quanto ne erano capaci, hanno contemplato la tua gloria, affinché, vedendoti crocifisso, comprendessero che la tua passione era volontaria e annunciassero al mondo che tu sei veramente lo splendore del Padre”.

(Benedetto XVI, Le parole del Papa alla recita dell’angelus, 20.03.2011).

 

L’immagine tra luce e ombra

La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione. Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili. Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata. La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce. Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte. Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata. L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti. Tutto il resto deve essere svelato e illuminato. Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre. […] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa. La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile. I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.

I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori. Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato. Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini. Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore. L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati. È piuttosto essa a illuminare. La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori. L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie. Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.

L’immagine è tra la luce e l’ombra. E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra. In ogni caso la rivelazione non è il riflettore. La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo. I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce. È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.

La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.

(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E. AFFINATI et al., Saper sperare.  Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).

 

Una sola tenda

Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole. Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno. Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso. Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.

Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21). Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto. Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva […].

Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui. San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano. Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia. Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto. Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui. Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui. Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia. Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione. Credeva fosse bene ciò che diceva. Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola». Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo. All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi. Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.

(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 576-578)

 

Riconoscere Cristo

Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte. C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle. Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità. Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge. Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.

La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura. Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro. Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.

(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).

 

Ancora e sempre sul monte di luce

Ancora e sempre sul monte di luce

Cristo ci guidi perché comprendiamo

il suo mistero di Dio e di uomo,

umanità che si apre al divino.

 

Ora sappiamo che è il figlio diletto

in cui Dio Padre si è compiaciuto;

ancor risuona la voce: «Ascoltatelo»,

perché egli solo ha parole di vita.

 

In lui soltanto l’umana natura

trasfigurata è in presenza divina,

in lui già ora son giunti a pienezza

giorni e millenni, e legge e profeti.

 

Andiamo dunque al monte di luce,

liberi andiamo da ogni possesso;

solo dal monte possiamo diffondere

luce e speranza per ogni fratello.

 

Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo

gloria cantiamo esultanti per sempre:

cantiamo lode perché questo è il tempo

in cui fiorisce la luce del mondo.

(D. M. Turoldo)

 

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

– Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Anno B, Milano, Vita e Pensiero, 2008.

– COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2011.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

 

PER L’APPROFONDIMENTO:

II DOMENICA DI QUARESIMA ANNO B