Scuola: idee & futuro/1

Verso il IX Forum del Progetto culturale che si terrà a fine marzo a Roma, gli esperti s’interrogano sul tema dell’emergenza educativa.
Evandro Agazzi: «In passato la famiglia delegava ai docenti l’istruzione, ma sugli orientamenti di vita agiva da sé.
Oggi però questo schema è ormai saltato»  L’intervista E’ mergenza educativa? «Parlerei so­prattutto di un travaglio genera­lizzato delle società avanzate in molti campi, incluso quello educativo» risponde Evandro Agazzi, filosofo delle scienze, ordinario dell’Università di Ge­nova e direttore di Nuova secondaria, il mensile dell’editrice La Scuola.
«Qui si va oltre l’emergenza, che è improvvisa e imprevista.
In questo caso non è così».
Nessuna sottovalutazione del problema, anche se «esistono diversi aspetti della questione: quello istituzionale, che coin­volge la scuola; quello della famiglia…».
Iniziamo da quest’ultimo aspetto.
Si as­siste a una crescente difficoltà nella tra­smissione di valori e tradizioni tra le ge­nerazioni.
Cosa è saltato rispetto a quanto avveniva nel passato? «È un problema che ha radici lontane.
Nel passato alla scuola veniva chiesto di fornire quell’istruzione che la fami­glia non era in grado di fornire, mentre ai genitori spettava la trasmissione dei valori, che comunque trovavano corri­spondenza in quelli della scuola, in u­na sorta di continuità.
Oggi si è persa questa percezione.
Alla scuola viene ri­conosciuta la funzione limitata al­l’informazione, quasi di tipo nozioni­stico.
Ma sui valori, sugli orientamenti di vita, è invitata a mantenere una neu­tralità educativa».
Dunque trasmettere i valori resta com­pito solo della famiglia? «In realtà ci troviamo davanti a un vuo­to, perché la famiglia sembra non avere più tempo per dare questa formazione valoriale ai figli.
Spesso entrambi i geni­tori lavorano e stanno poco con i figli.
Così si crea dispersione e disorienta­mento nei giovani, che cercano quei va­lori prendendoli qua e là, magari dalla televisione e da Internet».
Scuola neutrale, famiglia assente.
Un quadro desolante.
«Allo scenario va aggiunto anche un problema di mancanza di fiducia tra scuola e famiglia.
Un tempo nessun ge­nitore avrebbe mai messo in discussio­ne un giudizio o un voto dato a scuola dall’insegnante.
Ora accade il contra­rio.
Un fenomeno che si spiega anche con la perdita di autorità da parte dei genitori, che a volte rinunciano al loro ruolo per diventare ‘amici’ dei loro fi­gli.
Un errore».
Scuola delegittimata dalla famiglia.
Ep­pure in passato si è parlato spesso di delega educativa da parte della fami­glia alla scuola.
Non le pare contrad­dittorio? «Più che di delega, parlerei di una ge­neralizzata scelta di scaricare sulla scuola una serie di compiti impropri, che hanno avuto come risultato quel­lo di togliere tempo ai compiti fonda­mentali della scuola.
Ci sono cose che si apprendono solo a scuola, ma il mol­tiplicarsi delle cosiddette ‘educazioni’, ha dato vita a materie che sono grava­te sulla scuola.
Un po’ anche per scari­carsi la coscienza da parte delle altre i­stituzioni e dimostrare sensibilità ver­so un tema».
Cosa è possibile fare per invertire la rot­ta e tornare a educare? «Non si può che partire dalla famiglia.
Direi quasi che bisogna educare i geni­tori a svolgere il proprio ruolo e il pro­prio compito.
Un apprendimento che nel passato avveniva nella famiglia d’o­rigine, ma anche altre istituzioni aiuta­vano i giovani a diventare uomini e don- ne maturi.
Penso alla Chiesa e alla sua catechesi.
Oggi la famiglia appare priva di valori da trasmettere e nella società servono valori e modelli di vita».
Ma questo come è realizzabile in una società, che, rispetto al passato è decisamente plurale? «È sicuramente più com­plesso rispetto al passato dove sostanzialmente a­vevamo una società più omogenea sui valori, per­ché al di là delle diverse e­tiche tutto sommato ci si ritrovava su una morale condivisa.
Oggi non è più così.
Occorre cercare un minimo comune deno­minatore da condividere.
Penso che possa essere, ad esempio, il senso del dovere, cioè il riconoscere che esistono doveri e che le nostre azioni de­vono essere in conformità.
Così si potrà parlare di coscienza morale condivisa».
Ma davanti a una pluralità di valori co­me può la scuola aiutare i giovani a for­marsi un proprio bagaglio di principi? «La scuola aiuta i giovani se riesce a in­segnare loro il senso critico.
Lo ritengo il dovere di ogni insegnante, che non de­ve nascondere il proprio bagaglio di va­lori, ma nell’esporlo deve essere onesto, convinto e, appunto, critico.
Non si trat­ta di indottrinare nessuno, ma di dare ragione delle proprie idee e dei propri valori».
Insomma docenti con onestà intellet­tuale, ma anche rispettosi degli altri punti di vista? «I ragazzi lo percepiscono subito se un adulto crede davvero in ciò che dice.
Ac­cade anche a scuola con i docenti, che devono rendere ragione delle proprie af- fermazioni, aiutare i ragazzi a riflettere, a ragionare anche sulle cose considera­te assodate, come capita spesso nelle materie scientifiche, dove spesso regna il vero dogmatismo, cioè la presenta­zione di “verità” indiscu­tibili.
Viceversa anche a proposito di tali conte­nuti è essenziale far capi­re ‘perché’ sono validi e attraverso quali prove, spesso complesse, si è stabilita la loro validità, per altro sempre aperta a riconsiderazione.
È la strada per insegnare ai ragazzi quel senso criti­co, che appare attual­mente uno strumento necessario per potersi muovere in questa società sempre più plurale».
Enrico Lenzi

VI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 43,18-19.21-22.24-25 Così dice il Signore: «Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa.
Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi.
Invece tu non mi hai invocato, o Giacobbe; anzi ti sei stancato di me, o Israele.
Tu mi hai dato molestia con i peccati, mi hai stancato con le tue iniquità.
Io, io cancello i tuoi misfatti per amore di me stesso, e non ricordo più i tuoi peccati».
Questa lettura è tratta dalla seconda parte del libro di Isaia, dalla sezione che annunzia la liberazione dalla schiavitù in Babilonia e il ritorno nella terra dei padri (cc.
40-44).
— I vv.
18-19 contengono una esortazione a dimenticare il passato e ad aprirsi alla speran-za, volgendo lo sguardo verso il futuro.
La dimenticanza del passato qui intesa non è cer-tamente quella che riguarda le imprese salvifiche di Dio, poiché quella memoria deve in-vece nutrire la fede nel futuro.
Bisogna invece dimenticare quel modo di ricordare che al-letta l’immaginazione e imprigiona la volontà, distogliendola dalle decisioni che riguarda-no il presente.
Il profeta esorta a volgere lo sguardo verso il futuro, perché Dio è sul punto di fare una cosa nuova.
Con immagine poetica, il momento attuale è paragonato alla prima-vera, quando sugli alberi germogliano le gemme e si preparano a sbocciare.
Con altre im-magini poetiche di grande effetto, è detto che si apriranno strade nel deserto e sgorgheranno sorgenti di acqua nella steppa, intendendo dire che sarà reso possibile il ritorno degli esiliati attraverso il deserto e la steppa.
— Il v.
21 dice quale sarà l’effetto più bello del ritorno dall’esilio: il popolo eletto tornerà a cantare le lodi di Dio nella sua terra.
— I vv.
22 e 24-25 assicurano che Dio stesso farà quello che ha raccomandato di fare al suo popolo: cancellerà dalla sua memoria i misfatti di Israele, non ricorderà più i suoi peccati.
Ciò vuol dire che il popolo rientrato dall’esilio inizierà a vivere in piena armonia con il suo Di-o.
Come si vede, le grandi novità e la remissione dei peccati di questa profezia hanno avu-to pieno adempimento nella persona di Gesù, secondo la nostra lettura evangelica.
Seconda lettura: 2Corinzi 1,18-22 Fratelli, Dio è testimone che la nostra parola verso di voi non è «sì» e «no».
Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che abbiamo annunciato tra voi, io, Silvano e Timòteo, non fu «sì» e «no», ma in lui vi fu il «sì».
Infatti tutte le promesse di Dio in lui sono «sì».
Per questo attraverso di lui sale a Dio il nostro «Amen» per la sua gloria.
È Dio stesso che ci conferma, insieme a voi, in Cristo e ci ha conferito l’unzione, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito nei nostri cuori.
La nostra seconda lettura appartiene alla seconda lettera di S.
Paolo ai Corinzi, che ec-celle tra le opere dell’antica letteratura greca.
Il nostro brano si distingue in essa per la sua commossa eloquenza.
Paolo è venuto a sapere che, nella comunità di Corinto, dei mestatori si agitano per scalzare ogni suo credito e il suo prestigio di apostolo.
Sfruttano per questo ogni pretesto, tra cui il fatto che egli non ha mantenuto la promessa di ritornare a Corinto, dopo che se ne era allontanato per il suo dovere apostolico.
Mettono in ridicolo quel suo promettere e non mantenere, quasi che, per lui, il «sì» equivalga al «no».
Paolo replica dichiarando che quest’accusa, per lui e per i suoi collaboratori Silvano e Timoteo, rasenta l’assurdità: essi non possono mescolare il «sì» e il «no», perché contraddirebbero il vangelo di Gesù Cristo (cf.
Mt 5,37) e contraddirebbero soprattutto l’esempio personale del Signore Gesù, che in tutta la sua vita ha sempre obbedito prontamente al Padre, al punto che egli può essere de-finito un unico continuo «sì» (vv.
18-20).
In tal modo, il contenuto di un’accusa che, in se stessa, poteva essere considerata un tra-scurabile pettegolezzo, fornisce a Paolo l’occasione per riflettere sul comportamento di Ge-sù Cristo nei confronti del Padre.
E su questa riflessione si innesta l’esortazione ai Corinzi di saper dire sempre il loro «Amen» (cioè il loro «sì») a tutto ciò che Dio può a loro chiede-re.
Questa deve essere per tutti noi una norma continua, perché tutti, seguaci di Cristo ab-biamo ricevuto l’unzione, che ci ha assimilati a lui per mezzo dello Spirito (vv.
21-22).
Anche questi pensieri si armonizzano con il messaggio della lettura evangelica, che par-la della novità portata tra gli uomini da Gesù e dal suo vangelo.
Vangelo: Marco 2,1-12 Gesù entrò di nuovo a Cafàrnao, dopo alcuni giorni.
Si seppe che era in casa e si radunarono tante persone che non vi era più posto neanche davanti alla porta; ed egli annunciava loro la Parola.
Si recarono da lui portando un paralitico, sorretto da quattro persone.
Non potendo però portarglielo innanzi, a causa della folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli si trovava e, fatta un’apertura, calarono la barella su cui era adagiato il paralitico.
Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico: «Figlio, ti sono perdonati i peccati».
Erano seduti là alcuni scribi e pensavano in cuor loro: «Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può perdonare i peccati, se non Dio solo?».
E subito Gesù, conoscendo nel suo spirito che così pensavano tra sé, disse loro: «Perché pensate queste cose nel vostro cuore? Che cosa è più facile: dire al paralitico “Ti sono perdonati i peccati”, oppure dire “Àlzati, prendi la tua barella e cammina”? Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra, dico a te – disse al paralitico –: àlzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua».
Quello si alzò e subito prese la sua barella e sotto gli occhi di tutti se ne andò, e tutti si meravigliarono e lodavano Dio, dicendo: «Non abbiamo mai visto nulla di simile!».
Esegesi Il racconto della guarigione di un paralitico introduce, nel vangelo di Marco, la sezione delle così dette dispute galilaiche, che vanno da 2,1 a 3,6.
La sezione, che segue quella in cui è descritta l’accoglienza trionfale di Gesù da parte delle folle della Galilea (1,14-15), ci fa conoscere il crescente contrasto che si stabilisce tra Gesù e le guide religiose del popolo e-braico.
Motivo fondamentale del contrasto è il potere che Gesù si attribuisce, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), di voler riportare al senso originario le disposizioni della legge mosaica, di saperne dare una interpretazione nuova, di portare a compimento la ri-velazione fatta ai padri e di realizzare l’attesa messianica.
— I vv.
1-2 ci danno la cornice dell’avvenimento: Gesù è rientrato a Cafarnao ed è proba-bilmente ospite nella casa dei discepoli Simone e Andrea.
Gran numero di gente è accorsa per ascoltarlo ed egli «annunziava loro la parola»; proclamava, cioè il suo vangelo.
— I vv.
3-4 descrivono, con vivace semplicità, l’azione di quattro uomini che, impediti di giungere a Gesù a causa della folla, dal tetto scoperchiato gli calano davanti un paralitico.
Il gesto era così eloquente per se stesso, che non aveva bisogno di parole esplicative: ciò che si chiedeva era la guarigione dello sventurato.
Né i padroni di casa né Gesù accenna-no a una protesta per i danni inferti all’edificio e per l’interruzione imposta al discorso.
Sembra di capire che i primitivi narratori dell’episodio abbiano visto che c’era continuità essenziale tra l’annunzio della parola e la guarigione dei malati.
La stretta unione di queste due cose è chiaramente espressa in questa frase di Luca, che parla della missione affidata da Gesù ai Dodici: «E li mandò ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2).
— Il v.
5 è teologicamente molto ricco, perché, ci presenta Gesù nella pienezza dei suoi po-teri speciali: egli vede la fede del malato e dei suoi portatori; garantisce al paralitico la remis-sione dei peccati.
La fede è vista da Gesù nel gesto del paralitico e dei suoi portatori che si affidano totalmente a lui, superando ogni ostacolo e senza neppure il bisogno di parlare.
Per rispondere a quella fede, Gesù attinge al massimo del suo potere concessogli dal Padre: accoglie il paralitico con l’appellativo tenero di figliolo e gli da l’annunzio che gli sono ri-messi i peccati.
Con queste parole, Gesù non stabilisce uno stretto rapporto tra peccati per-sonali e malattia in quel sofferente, ma richiama certamente alla memoria il principio a tut-ti noto che la radice prima di tutti mali dell’uomo consiste nel peccato.
Contemporanea-mente annunzia che egli per questo è venuto: per sconfiggere il peccato e iniziare una nuova fase della storia umana.
A questo punto, i vv.
6-7 interrompono il racconto del miracolo e introducono la pre-senza degli scribi (che rappresentano l’intera categoria delle guide spirituali del popolo) questi sono ben lontani dall’accettare l’insegnamento di Gesù e, in cuor loro, non esitano ad accusarlo di bestemmia.
Il loro atteggiamento è dunque in netto contrasto con la dispo-nibilità a credere della folla.
Nei vv.
8-9, opponendosi all’incredulità degli scribi, Gesù svela i suoi poteri sovrumani: legge nei loro pensieri (ciò che è possibile solo a Dio) e presenta il suo intervento sulla ma-lattia come prova del suo potere di rimettere i peccati.
Nei vv.
10-11, alle parole seguono i fatti: Gesù comanda al paralitico di prendere lui stesso il suo giaciglio e di andarsene a casa.
Dice anche che questo miracolo dimostrerà con evidenza che egli, in qualità di figlio dell’uomo (cioè di Messia), ha davvero il potere di rimettere i pecca-ti.
Viene così enunciato il principio che i miracoli di Gesù sono segni visibili di avvenimen-ti e realtà che trascendono ciò che si tocca e si vede: l’evangelista Giovanni chiamerà infatti segni tutti i miracoli di Gesù.
Nel v.
12, che conclude il nostro racconto, la folla esprime il suo stupore dichiarando la sua apertura alla fede: dicendo che non hanno mai visto nulla di simile, insinuano che in Ge-sù si sta realizzando qualcosa di assolutamente nuovo, vale a dire l’attesa messianico-escatologica.
Nulla è detto degli scribi, suggerendo così che essi sono rimasti murati nella loro incredulità.
Meditazione Solo Dio, con la potenza della sua misericordia che si manifesta mediante il perdono, può ricreare la vita dell’uomo; le ferite del peccato vengono rimarginate e la bellezza di co-lui che è stato creato per essere immagine di Dio viene ridonata.
L’uomo è chiamato a guardare in avanti, verso una novità di vita che è solo dono di Dio.
Questa nuova creazio-ne si realizza in modo definitivo nella parola potente di Gesù, parola che può salvare l’uomo dalla paralisi del peccato, parola pronunciata mediante quella autorità che il Figlio ha ricevuto dal Padre: «…perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere di perdonare i peccati sulla terra» (Mc 1,10).
Può essere questo il tema centrale della liturgia della Parola in questa domenica del tempo ordinario: una vita rinnovata dal perdono.
E il racconto della guarigione del paralitico, riportato dall’evangelista Marco, è una icona stupenda di ciò che Dio può fare per l’uomo.
Marco apre la narrazione del miracolo con tre elementi descrittivi che hanno come pun-to focale Gesù e i suoi discepoli, simbolo della comunità dei credenti, la Chiesa, in cui l’uomo trova, nell’annuncio dell’evangelo e nella remissione dei peccati, lo spazio per in-contrare Gesù e la potenza stessa di Dio.
Infatti c’è un luogo, una casa in cui Gesù è presen-te con i suoi discepoli e nella quale egli «annuncia la Parola» (v.
2) e guarisce.
Davanti alla porta di questa casa ci sono tante persone che si accalcano in cerca di una parola di conso-lazione, di un segno di salvezza, di una guarigione, di una liberazione.
È in quella casa che tutti desiderano entrare per incontrare Gesù, a costo di trovare altre vie di accesso se sono impediti (ciò che avverrà per il paralitico).
E infine ciò che risuona in questa casa è anzitut-to una parola, piena di autorevolezza, potente, capace di cambiare la situazione dell’uomo, forte come l’atto creatore di Dio.
È la parola dell’ euangelion, una parola di gioia, di libertà e di pace.
In questa cornice, così carica di forza rinnovatrice, di salvezza, viene simbolicamente ‘calato’ l’uomo che soffre, ferito nella sua dignità, incapace di camminare verso la vita, sfi-gurato dal male.
È questa la realtà che possiamo cogliere nella figura del paralitico.
Ab-biamo detto: viene calato.
Nel gesto compiuto dai quattro uomini che scoperchiano il tetto nel punto in cui si trova Gesù e di lì calano «la barella su cui era adagiato il paralitico» (v.
4), non solo si rivela il mistero di una fede che si fa solidale, ma soprattutto l’impossibilità dell’uomo di salvarsi da solo.
L’uomo immobilizzato, incapace di muoversi, di reagire, di camminare verso la vita, non solo ha bisogno di essere salvato, ma di lasciare che altri lo conducano alla salvezza.
È la fede di una comunità che sa farsi carico delle sofferenze del fratello, con la preghiera e con gesti concreti (capace addirittura di aprire varchi impensati quando si incontrano ostacoli), a condurre l’uomo immobilizzato di fronte a Gesù.
E Gesù ammira proprio questa fede a cui il paralitico si è affidato.
In che cosa consiste la salvezza, la novità di vita che viene donata all’uomo? Al paraliti-co Gesù dice dapprima: «Figlio, ti sono perdonati i peccati» (v.
5).
E poi, di fronte agli scribi scandalizzati, dirà: «alzati, prendi la tua barella e va a casa tua» (v.
11).
Lo sguardo di Gesù, pieno di compassione, sa penetrare nel profondo della esistenza di quell’uomo immobiliz-zato.
Va oltre il male fisico che impedisce a quell’uomo di muoversi e rivela come il pecca-to sia il vero fallimento dell’uomo, di ogni uomo, anche di colui che crede di esser sano (come quegli scribi).
Dalla parola potente di Gesù (di fatto non compie nessun gesto), l’uomo viene toccato nel suo essere profondo e invisibile, lì dove si manifesta la reale rot-tura con Dio, lì dove l’uomo si nasconde a colui del quale è immagine, lì dove sperimenta paura, disorientamento e alienazione.
Vicino a Gesù, attraverso la sua parola che è perdo-no, l’uomo riscopre il suo volto interiore come comunione con Dio; e questo si riflette su tutta l’esistenza , ridando all’uomo la possibilità di agire e di camminare.
Veramente la vita dell’uomo è ri-creata.
Ma resta un dubbio: guarigione dalla sofferenza fisica e guarigione dal peccato sono la stessa cosa? Perché Gesù sembra percorrere due vie di salvezza, unendole così tra di loro? Allora peccato e malattia sono legati? C’è la tentazione di vedere strettamente unite questa due realtà di male che sfigurano mortalmente il volto umano.
Una certa visione di Dio, presente anche nella Scrittura, può condurre quasi a una identificazione tra peccato e sof-ferenza: è questo il tormento di Giobbe.
Ma questo è un volto di Dio che non può essere accettato; Gesù stesso, rivelando il suo amore per tutti coloro che sono afflitti da varie ma-lattie, non solo rifiuta questa visione della sofferenza, ma manifesta un Dio pieno di com-passione.
E allora perché questa relazione peccato-malattia? Spesso, capita anche a noi, quando viviamo o incontriamo la sofferenza, di dire frasi come questa: «Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo? Perché il Signore mi ha castigato?».
Dobbiamo riconoscere che proprio il peccato, come lontananza da Dio, ci fa sentire la sofferenza come silenzio, ostilità, assenza di Dio.
Guarire l’uomo alla radice di questa profonda rottura vuol dire li-berarlo dalla paura di Dio, quella paura che paralizza, e annunciargli la prossimità di Dio, un Dio che si china, si avvicina proprio a chi è ferito e sofferente.
Davvero Gesù salva e li-bera l’uomo integralmente.
Il profeta Isaia aveva preannunciato: «Non ricordate più le cose passate…
Ecco, io faccio una cosa nuova» (Is 43,18-19).
Al paralitico Gesù dice: «Alzati, prendi la tua barella e va’ a casa tua» (v.
11 ).
Colui che è stato guarito e perdonato dalla misericordia di Dio può ri-prendere un cammino autentico, prima impossibile, ‘verso casa’: è un ritorno alla vita, ma rinnovato, nel quale anche i segni della sofferenza sono accolti e portati su di sé in modo diverso.
Infatti sulle spalle l’uomo guarito porta proprio quel lettuccio che lo teneva para-lizzato; ma da questo momento quel luogo di sofferenza sarà memoria della salvezza e della misericordia di Dio.
Il perdono ci da occhi nuovi con i quali possiamo guardare con coraggio le nostre sofferenze e il nostro peccato.
Le cicatrici possono rimanere, e a volte possono fare ancora male; ma da segno della nostra debolezza e del nostro peccato, si tra-sformano in memoria della compassione di Dio.
Solo Dio può trasfigurare così la nostra vi-ta: le tenebre possono diventare luce.
«Ecco, io faccio una cosa nuova».
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
L’ascolto del deserto “L’Arabo, quando giunge in mezzo al deserto, ferma il cammello, scende e mette l’orecchie sulla sabbia.
– Che fai? – Ascolto il deserto.
– Sì, ascolto il deserto che piange.
E piange, perché vorrebbe essere una immensa, sconfinata prateria”.
E vennero conducendo a lui un paralitico che era portato da quattro persone (Mc 2,3) La guarigione di questo paralitico raffigura la salvezza dell’anima la quale, sospirando verso Cristo dopo la lunga inerzia dell’ozio carnale, ha dapprima bisogno dell’aiuto di tutti per essere sollevata e portata a Cristo, cioè dell’aiuto dei buoni medici che le ispirano la speranza della guarigione e intercedono per lei.
A buon diritto viene riferito che il paraliti-co era condotto da quattro persone; sia perché sono i quattro libri del Santo Vangelo che convalidano la parola e l’autorità di chi diffonde il Vangelo; sia perché sono quattro le vir-tù che infondono sicurezza allo spirito e lo portano alla salvezza.
Di tali virtù si parla quando si loda l’eterna sapienza: «Temperanza e prudenza ella insegna, e giustizia e for-tezza delle quali niente c’è di più necessario per gli uomini nella vita» (Sap 8,7).
Alcuni, penetrando il senso di questi nomi, chiamano tali virtù prudenza, fortezza, temperanza e giustizia.
E non riuscendo a portarlo davanti a lui per la folla, scoperchiarono il tetto nel punto dove egli stava (Mc 2,4).
Desiderano presentare a Cristo il paralitico, ma ne sono impediti dalla folla che li pre-me da ogni parte.
Accade ugualmente sovente all’anima, dopo l’inerzia del torpore carna-le, che, volgendosi a Dio e desiderando essere rinnovata dalla medicina della grazia cele-ste, sia ritardata dagli ostacoli delle antiche abitudini.
Spesso, quando l’anima è immersa nella dolcezza della preghiera interiore e intrattiene quasi un soave colloquio con il Signo-re, sopraggiunge la folla dei pensieri terreni e impedisce che lo sguardo dello spirito veda Cristo.
Che cosa dobbiamo fare in tali frangenti? Non dobbiamo certamente restar fuori e in basso dove tumultano le folle; dobbiamo salire sul tetto della casa nella quale Cristo in-segna, cioè dobbiamo tentare di raggiungere le altezze della sacra Scrittura e meditare, di giorno e di notte, con il salmista, la legge del Signore.
«Come» infatti «potrà un giovane serbare puro il proprio cammino? Nel custodire — dice il salmista — le tue parole» (Sal 118,9).
(SAN BEDA IL VENERABILE (+ 735), In Evang.
Marc., I, Mc 2,3-4.
In BEDA, Commento al Vangelo di Marco, Vol.
1, Roma, Città Nuova Editrice, 1970, p.
71-72).
Confermarsi l’un l’altro nella fede «Decisi di porre fine alla mia vita, che era stata estremamente egoista e immorale.
Ero talmente infelice che volevo farla finita con tutto.
Volevo morire per affogamento.
Imma-ginavo l’oceano come un’ampia madre d’acqua che mi avrebbe cullato sulle onde e ripulito nelle sue acque.
Giunsi sulla riva dell’oceano, dove dovevo morire.
Camminai tutta sola lungo la spiag-gia deserta.
Quel giorno, però, l’oceano non era una distesa d’acqua calda e materna.
Il tempo era brutto, e la distesa d’acqua era una bestia ringhiosa.
Dentro di me sapevo di do-ver morire, di farla finita con tutto, e se dovevo darmi a una bestia ringhiosa, anziché get-tarmi nelle braccia di una grande madre, che così fosse.
Camminavo sulla spiaggia sabbiosa e stavo per girarmi per entrare in acqua, quando udii una voce molto chiara, che sembrava venire da dentro di me.
Era molto distinta e chiara.
La voce mi chiedeva di fermarmi, di girarmi e guardare in basso.
C’era qualcosa di irresistibile in quell’ordine, perciò feci quanto mi veniva richiesto.
Vedevo solo le onde del-l’oceano che, giungendo a riva, cancellavano le mie impronte sulla sabbia.
La voce tornò a farsi sentire: “Così come le acque cancellano le tue impronte, allo stesso modo il mio amo-re e la mia misericordia hanno cancellato ogni traccia dei tuoi peccati.
Ti rivoglio nel mio amore, ti chiamo alla vita e all’amore, non alla morte”.
Fu come un raggio di luce accecante nell’oscurità che a quell’epoca costituiva la mia vi-ta.
Mi allontanai dall’acqua e da qualsiasi pensiero di morte.
Con il continuo amore e aiuto di Gesù, ho trovato una vita bella e piena di soddisfazione.
Ora vivo e amo.
Ma non avevo mai raccontato a nessuno, proprio a nessuno, ciò che mi accadde quel giorno sulla spiaggia.
Tutta la mia vita è stata cambiata per sempre da questa esperienza.
Ciononostante temevo che, se l’avessi condivisa, qualcuno avrebbe potuto dirmi che era tutto un sogno, un inganno.
Qualcuno potrebbe dirmi che non volevo realmente morire, perciò mi sono inventata una voce che mi dicesse ciò che davvero volevo sentirmi dire.
Da allora, una parte così grande della mia vita, della vita buona e bella che ho trovato, è talmente fondata su quel momento, che non potrei metterne a rischio la sacralità affidan-dola a mani che potrebbero essere dure e insensibili.
Non tollererei di permettere che qual-cuno prenda il mio segreto più sacro e lo metta in ridicolo.
Dopo avere letto il tuo libro, ho pensato che avresti capito, perciò ho voluto condi-videre tutto questo con te.
Alla fine del tuo libro hai scritto che raccontare la tua storia è stato il tuo dono d’amore per noi.
Ti prego, dunque, di accettare il racconto di questa mia storia come il mio dono d’amore per te».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 174-175).
Le mie mani Le mie mani, coperte di cenere, segnate dal mio peccato e da fallimenti, davanti a te, Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di costruire e perché tu ne cancelli la sporcizia.
Le mie mani, avvinghiate ai mie possessi e alle mie idee già assodate, davanti a te, o Signore, io le apro, perché lascino andare i miei tesori…
Le mie mani, pronte a lacerare e a ferire, davanti a te, o Signore, io le apro, perché ridiventino capaci di accarezzare.
Le mie mani, chiuse come pugni di odio e di violenza, davanti a te, o Signore, io le apro, deponi in loro la tua tenerezza.
Le mie mani, si separano da loro peccato, davanti a te, o Signore, io le apro: attendo il tuo perdono.
(Charles Singer).
Sofferenza materia prima della redenzione Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.
Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.
Tu dici del tuo amico: lo porto nel mio cuore, mi vergogno per lui del suo peccato, la sua sofferenza mi fa male.
È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.
Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito.
Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.
Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, « cancellali », le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia mor-te.
Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzio-ne.
(M.
QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).
II ramo da riattaccare Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal.
«Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha.
«Taglia un ramo di quell’albero».
Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?».
«Rimettilo a posto» ordinò Buddha.
Il bandito rise.
«Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere».
«Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere.
Quella è roba da bambini.
La vera forza sta nel creare e risanare».
(Racconto buddista) Ebbene, Atanasio dice di Antonio, una volta che questi divenne padre spirituale rinomato per la santità: «Antonio fu come un medico donato da Dio all’Egitto.
Chi venne da lui triste e non se ne andò gioioso? Chi si presentò a lui in lacrime per i propri morti e non abbandonò presto il lutto? Chi arrivò in collera e non cambiò la sua ira in amicizia? Quale povero, schiacciato dallo sfinimento non arrivò a capire, attraverso le sue parole e avendolo visto, il disprezzo delle ricchezze e la consolazione della povertà? Quale monaco scoraggiato non fu reso più forte dopo aver parlato con lui? Chi venne a lui nelle tentazioni del demonio e non trovò riposo? Chi venne tormentato da pensieri malvagi e non si sentì pacificato nell’animo?» (Vita di Antonio, 87).
(Luciano MANICARDI, La paternità spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 301-308).
Il Perdono O Signore, per vivere Te in mezzo agli uomini, uno dei più grandi rischi da prendere è quello di perdonare, di dimenticare il passato dell’altro.
Perdonare e ancora perdonare, ecco ciò che libera il passato e immerge nell’istante presente.
Amare è presto detto.
Vivere l’amore che perdona, è un’altra cosa.
Non si perdona per interesse, non si perdona mai perché l’altro sia cambiato dal nostro perdono.
Si perdona unicamente per seguire Te.
In vista del perdono oserei pregarti, o Gesù, con la tua ultima preghiera: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.
E questa preghiera ne farà nascere un’altra: Padre, perdona me, perché così spesso anch’io non so ciò che faccio.
Fa’ che sappia ricominciare sempre di nuovo a convertire il mio cuore: per essere testimone di un avvenire.
(Regola di Taizé)

Ciclo di incontri in occasione del centenario della SEI

Presentazione del catalogo della mostra I grandi libri illustrati per l’infanzia della SEI (1908-2008) Intervengono: Piergiorgio Dragone Ulisse Jacomuzzi Maria Mimita Lamberti sarà presente il curatore della mostra e del catalogo Pompeo Vagliani giovedì 26 febbraio 2009, alle ore 17,00 Museo della scuola e del libro per l’infanzia Palazzo Barolo Via Corte d’Appello 20 – Torino Da Pipino a Benjamin Button: le fiabe della vita a ritroso Intervengono: Giulio Graglia Vincenzo Jacomuzzi Pompeo Vagliani giovedì 12 marzo 2009, alle ore 17,30 Museo della scuola e del libro per l’infanzia Palazzo Barolo Via Corte d’Appello 20 – Torino Presentazione del libro Serenant et illuminant: i cento anni della SEI  di Fabio Targhetta Con l’autore intervengono: Giorgio Chiosso Ulisse Jacomuzzi venerdì 20 marzo 2009, alle ore 17,30 Museo della scuola e del libro per l’infanzia Palazzo Barolo Via Corte d’Appello 20 – Torino Franti 2000: L’emergenza educativa Partecipano: don Domenico Ricca (cappellano del Ferrante Aporti) Sergio Blanzina (preside del liceo Giolitti) Moderatore: don Sergio Giordani giovedì 23 aprile 2009, alle ore 17,00 Museo della scuola e del libro per l’infanzia Palazzo Barolo Via Corte d’Appello 20 – Torino

L. Solinas, Tutti i colori della vita

L.
Solinas Tutti i colori della vita EDIZIONE BLU per la scuola secondaria di secondo grado      Il taglio dell’opera Questa edizione di Tutti i colori della vita rivisita i contenuti della precedente, organizzandoli però in una struttura diversa, flessibile, pensata e progettata tenendo presenti le difficoltà degli insegnanti a catturare l’attenzione dei ragazzi nel poco tempo disponibile.
La prospettiva dell’opera è sempre quella di fornire gli strumenti per comprendere la quotidianità alla luce dell’annuncio cristiano e approfondire la visione cristiana che guida alla conoscenza di universi di pensiero propri di religioni diverse o che anche prescindono dalla religione, nell’ottica di un confronto aperto, che favorisce dialogo, conoscenza e rispetto.
Il progetto educativo Lo sviluppo della trattazione è organizzato in 10 grandi ambiti tematici che contengono a loro volta un numero variabile di schede (temi), ciascuna delle quali affronta in modo compiuto un argomento.
Il progetto didattico Ogni scheda si sviluppa su quattro pagine: un’agile trattazione dell’argomento corredata da spiegazioni dei lemmi e da domande a fianco del testo per facilitare la comprensione; un approfondimento del tema, che l’insegnante può utilizzare a propria discrezione; la parte operativa con brani o immagini, accompagnati da una traccia di analisi, che possono essere utilizzati per la riflessione e per la discussione in classe.
Segue una ulteriore sezione operativa con domande e spunti di riflessione relativi agli argomenti dell’ambito e la proposta ragionata di libri e film.  Materiali per il docente La nuova struttura consente di personalizzare l’insegnamento adattandolo alle esigenze delle diverse classi e dei singoli allievi.
La brevità e la semplicità di trattazione di ogni scheda ne facilita l’utilizzo e consente di trattare in modo compiuto i singoli argomenti.
Inoltre l’organizzazione in schede permette di operare delle scelte di utilizzo non solo a livello dei diversi temi ma, all’interno delle singole schede, offre la possibilità di trattare i concetti-base oppure di approfondire il singolo tema.

Classe prima – Febbraio

1) Nei panni di Geremia La sua azione, il suo tempo Ai tempi di questo grande profeta, il popolo ebraico subiva ancora le conseguenze della conquista del Regno settentrionale di Israele da parte degli Assiri (722 a.C.), un evento che l’aveva reso loro provincia; al Regno meridionale di Giuda, con capitale Gerusalemme, era stato poi imposto il pagamento di pesanti tributi.
Dipendenza politica e religiosa spesso coincidevano, con il predominio delle divinità del popolo dominante; gli Ebrei vissero un secolo oscuro, caratterizzato da una vasta penetrazione di divinità mesopotamiche.
Intorno al 630 a.C., mentre l’impero assiro andava decadendo, il ventunenne re ebreo Giosia, del Regno di Giuda, avviò una riforma religiosa, abolendo i culti stranieri; contemporaneamente, l’altrettanto giovane Geremia iniziò la sua missione profetica.
Giosia fu un grande re, mosso dalla fede, desideroso di guidare il popolo, e sembrò rendere possibile la riunificazione dei due Regni.
Geremia era figlio del sacerdote di Anatot Chelkia e operò soprattutto nel Regno d’Israele, a Nord, tra coloro che gli Assiri non avevano deportato, “le pecore sperdute della casa d’Israele”, prevedendo anche un ritorno dei fratelli deportati.
Egli si nutrì di una religiosità fondata sui ricordi dell’Esodo e su una continua riflessione sull’Alleanza tra Dio e il Suo popolo.
Purtroppo, il saggio re Giosia morì combattendo contro il faraone d’ Egitto Necao, intenzionato a sottomettere la Mesopotamia approfittando della debolezza assira…
Nel periodo del dominio egizio sui territori Siro-palestinesi, Joakin figlio di Giosia divenne re-vassallo dell’Egitto, troppo debole per contrastare il ritorno di culti stranieri.
Geremia, in questa pericolosa situazione religiosa, profetizzò a Gerusalemme chiedendo, in nome di Dio, il ritorno a Lui, nello spirito della riforma di Giosia, preannunciando anche una grande catastrofe in caso contrario.
Essa sarebbe stata rappresentata da una nuova grande potenza: Babilonia.
Il famoso re Nabucodonosor espugnò Gerusalemme nel 598 a.C.
e organizzò una prima deportazione in Babilonia di moltissimi Ebrei.
Geremia esortò ad accettare la sottomissione ai Babilonesi, strumenti di un “salutare” castigo divino causato dall’infedeltà del popolo, una prova necessaria per riscoprire attraverso il dolore di senso dell’esistenza.
Unità di Lavoro biblica, per l’approfondimento e l’attualizzazione Seconda parte OSA di riferimento  Conoscenze – Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio.   Abilità – Saper ricostruire le tappe della storia di Israele.
– Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere il ruolo del profetismo biblico.
– Individuare i messaggi fondamentali dei brani dell’Antico Testamento presentati.
– Saper individuare figure profetiche del nostro tempo, descrivendone le caratteristiche utili per un autentico rinnovamento sociale.  Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale  – Sviluppo di un reale interesse inerente percorsi di riflessione sulla “verità” e sulla distinzione tra bene e male.
– Capacità di prendere in considerazione il progetto di vita cristiano come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale, sulla base di fondamentali conoscenze bibliche e dottrinali.  1) Nei panni di Geremia Il suo libro Il libro del profeta Geremia riporta i tre grandi periodi della sua attività: – sotto il buon re Giosia, i messaggi di consolazione ai superstiti del regno d’Israele (627-609 a.C.); – sotto l’iniquo re Joakin, l’appello alla conversione di Gerusalemme, nuovamente infedele nei confronti di Dio, e il fallimento delle sue esortazioni, che rende inevitabile la sventura (609-598 a.C.); – sotto il debole re Sedecia, l’appello alla sottomissione ai Babilonesi, strumenti di un giusto castigo divino e l’annuncio della possibilità di un nuovo futuro.
Baruc lo scriba, amico e “segretario” del profeta, scrisse per lui i suoi detti, narrando anche episodi dettagliati della sua vita: la storia stessa di Geremia divenne messaggio di Dio, oltre alle sue parole.
In seguito, altri scribi appartenenti a una scuola importante, teologicamente e letterariamente dipendenti dal Deuteronomio, rielaborarono le parole del profeta durante l’esilio.
1) Nei panni di Geremia “Io, Geremia…” Per me ci fu la Parola, la Parola soltanto.
Essa fu la mia vita, il mio cibo…
e il mio tormento.
Per Lei sono stato schernito, odiato, percosso…
e verrò condannato.
Il mio Signore mi ha scelto, consacrato per portare al Suo popolo la verità sul suo destino, sui suoi errori, sulla necessità di percorrere nuove vie…
il Suo amore paterno mi ha attraversato cuore e mente come il fuoco, un amore talvolta così tenero nel farmi sentire necessario e talvolta severo, più duro della roccia nel chiedermi di dare tutto a Lui e al popolo, senza trattenere per me né un istante del mio tempo né il desiderio di trovare pace e conforto.
Io, un “nahar”, un ragazzino inesperto e pieno di sogni non potevo che obbedire…
tremando.
Chi mi avrebbe dato retta quando avessi parlato in nome Suo? Il fuoco della Verità scalda, illumina, fa scorrere nelle vene un’ardente gioia di vivere perché è meraviglioso sapere con certezza cosa conti realmente in ogni esistenza…
ma la Verità provoca anche dolore: perché venga riconosciuta occorre lottare.
Amore e dolore hanno riempito la mia vita, una vita così piena e intensa che, comunque, rivivrei nello stesso modo.
«Prima che ti formassi nel grembo materno Io ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato…».
Il Signore mi parlò così interiormente e mi sconvolse con la Sua tenerezza.
Ero stato sognato da Lui, la mia esistenza aveva un grande significato…
Fu facile, allora, accettare con gioia immensa di fare da tramite tra Lui e il popolo sbandato, immemore di Mosé, del Decalogo, della Sua protezione costante, perso dietro agli idoli…
Certo, con qualche sacrificio sugli altari gli dei mesopotamici diventano benevoli…
e, nel loro infinito gelido silenzio, non chiedono di distinguere tra bene e male, di rinnovare i rapporti dopo aver cambiato il cuore, di fare sacrifici perché il bene scoperto trionfi…
Essi non chiedono nulla perché sono il Nulla, io per il Signore dovetti rinunciare ai miei idoli personali, al bisogno di essere approvato e stimato: facendo spazio alla Parola, scaricavo tutta la pesante zavorra dell’egoismo.
“Il Signore stese la mano e mi toccò la bocca”…
Diventai la Sua bocca e iniziò un viaggio nel buio.
E tu, Baruc, amico mio…
hai voluto metterti in viaggio con me, non hai mai esitato.
«La Mia Parola non è forse come il fuoco e come un martello che spacca la roccia?» (Ger 23,29) Dovetti consolare le genti sbandate di Israele, e provai una grande compassione per la povertà della loro anima, rassegnata alla sola ricerca di cibo e sicurezza.
Erano come figli ingrati, come mogli traditrici del vincolo matrimoniale…
stentavano a comprendermi, ma non disperavo: ero giovane, entusiasta, la forza di Dio era con me…
li amai come me stesso, anzi di più.
Potevo essere portavoce del Signore soltanto vedendo i Suoi figli – tutti – con i Suoi occhi: diedi tutto con un pizzico di umana incoscienza, i miei anni, le mie poche qualità.
Non conservai alcun distacco, vissi per il loro bene, per riportarli da nostro Padre.
Non misurai la fatica, avevo tante energie! Speravo nella riforma di Giosia.
Alcuni Israeliti – o molti – mi ascoltarono e piansero di rimorso; mi accadde allora di danzare di gioia, da solo, sotto le stelle del Signore in sere limpide e fresche.
Poi tutto divenne più difficile, fino all’insostenibile.
Quando il buon re morì – il Signore lo accolga – capii di dover combattere per Lui con la mia voce, a Gerusalemme; non trovai più traccia della coraggiosa riforma del sovrano.
Fu terribile: sentivo tutto l’amore del Signore esplodere in me; era amore per coloro che avvicinavo per le vie della città; erano indifferenti e sprezzanti e io cercavo invano un’anima fedele.
Mi sentivo terribilmente solo, ma il peggio doveva ancora arrivare.
Dovetti avvisarli, questi fratelli perduti, delle intenzioni del Signore: rieducarli attraverso la prova.
Solo una catastrofe li avrebbe costretti a riscoprire ciò che realmente conta, a compiere ciascuno un cammino interiore, insieme un cammino per riscoprirsi popolo unito nel Suo nome, l’unico portatore di salvezza.
Più della povera gente, spesso inconsapevole di una verità da tempo trascurata, erano responsabili del tradimento dell’Alleanza le guide, i sacerdoti incapaci o corrotti.
In Giuda non si seguivano altri dei, ma non si seguiva neppure il Signore se non in modo esteriore e ipocrita, senza alcun impegno di vita.
Il mio annuncio di sventura mi attirò addosso un’inaudita ostilità.
Nelle notti insonni, pensavo a tutti quelli che sarebbero stati ridotti in schiavitù, trucidati…
mi parve per colpa mia, per la mia incapacità di persuasione.
Capii in seguito come fosse in gioco una libera scelta di ciascuno per il bene, che non dipendeva da me.
Anche i miei parenti mi hanno voltato le spalle.
Non ne posso più! In passato le autorità mi hanno fatto flagellare: è un dolore fisico quasi insostenibile, ma non come quello dell’abbandono da parte di tutti, del fraintendimento in cattiva fede.
Sento in me il dolore di Dio stesso, Padre abbandonato.
Darei la vita per ciascuno di loro, anzi, l’ho già data e loro oggi mi condanneranno a morte.
Mi odiano, e io non posso smettere di amarli: se potessi subire il castigo che verrà al posto loro, non esiterei.
Mi pare di soffocare…
è troppo.
Non sono più giovane.
Mi uccidano alla svelta: sarò libero da loro, anche dall’incarico del Signore…
Baruc ha conservato per scritto, con pietà profonda, le mie preghiere al Signore, il diario del mio rapporto con Lui talvolta burrascoso (Confessioni: Ger 11-12; 15, 17-18, 20).
Talvolta mi sono ribellato, stufo di accettare senza capire: perché in terra il malvagio senza Dio trionfa sempre, mentre l’innocente viene calpestato? Il Signore promette giustizia, salvezza: ma quando? I Suoi tempi sono troppo, troppo lunghi.
Sì, sono andato in crisi, ho tentato persino di allontanarmi da Lui, sono arrivato a maledire il giorno della mia nascita.
Niente da fare: il Signore non mi ha lasciato andare, mi ha sorretto, mi ha fatto capire che io devo seminare, ma che sarà Lui a curare il raccolto…
che i Suoi tempi non sono i miei, che il dolore è un potente fertilizzante…
non posso che fidarmi del Signore: intravedo qualcosa dei Suoi progetti, so che le mie parole serviranno, un giorno, al mio, al Suo amato popolo…
ho donato la mia vita: solo così la ritroverò.
La mia fede rimarrà salda fino alla fine.
Tutto si compirà, in un tempo lontano, con il “germoglio giusto” della casa di Davide che nascerà.
1) Nei panni di Geremia Un drammatico tramonto Nel capitolo 26 del libro di Geremia, si narra del processo che dovette subire: i sacerdoti e tutte le autorità religiose di Gerusalemme ritennero che meritasse la morte per aver predetto la distruzione del Tempio; precedentemente era già stato arrestato e flagellato…
Anche da parte delle autorità politiche giunsero le persecuzioni: i ministri del debole re Sedecia lo accusarono di tradimento, di collaborazionismo con i Babilonesi, e indussero il sovrano a condannarlo a morte abbandonandolo sul fondo di una cisterna.
Venne salvato da uno straniero che, impietosito, persuase il re a risparmiarlo.
Dopo la presa babilonese di Gerusalemme, il profeta non seguì i deportati in Babilonia, dove probabilmente avrebbe ricevuto un buon trattamento; rimase tra i poveri, gli sbandati, coloro che non valeva neppure la pena di deportare.
In seguito, fu condotto prigioniero in Egitto, con lo scriba Baruc, fedele amico e segretario, da un gruppo di Ebrei sbandati…
fu come ritornare schiavi, prima della nascita di Mosé; secondo un’antica tradizione, durante questo esilio sconsolato il profeta morì martire per mano dei suoi stessi connazionali.
Quarta fase dell’attività L’insegnante propone agli allievi le seguenti domande a cui rispondere per scritto, concludendo con un confronto di opinioni: – quali messaggi, in Geremia, ti sembrano utili per l’uomo di oggi? E per un giovane alla ricerca della propria strada? – il dolore e la fatica, in Geremia, hanno degli aspetti positivi? Quali? Che cosa ne pensi? – nel “diario di Geremia”, quali comportamenti da lui descritti – soprattutto riguardanti il suo modo di amare – o affermazioni sembrano aprire la via al Cristianesimo? – quando si è soli contro tutti come il profeta e certi di essere dalla parte della verità affrontando questioni importanti, è giusto perseverare? In quali modi? Facciamo degli esempi.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Terza fase dell’attività L’insegnante invita gli allievi a “viaggiare nel tempo” tramite i testi-guida, fino a…
mettersi nei panni di uno dei grandi profeti, Geremia: un uomo grande, ma con le sue fragilità, con un mondo interiore complesso e tormentato; in qualche modo vicino a ogni giovane in cerca della propria strada.

Pensiero estetico e teologia cristiana

“Il corpo del Logos.
Pensiero estetico e teologia cristiana” è il titolo del convegno che si svolge il 17 e il 18 febbraio a Milano presso la Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale.
Anticipiamo stralci dell’intervento introduttivo e di una delle relazioni.
Due giorni interi dedicati a riflettere su una nuova alleanza tra arte e fede, anzi tra estetica e teologia.
E non solo a riflettere; ma si potrà anche vedere e sperimentare, perché il convegno gioca consapevolmente su molti registri: il pensiero filosofico, la riflessione teologica; la cristologia dei volti, l’arte contemporanea; l’estetizzazione della vita sociale, la forma della chiesa nella città postmoderna, la bellezza della ritualità cristiana.
Lo spazio dei chiostri sarà anche occupato da una mostra di istallazioni del Sacro dello scultore Tarshito – a partire da mercoledì 17 febbraio – fino al gran finale previsto per il pomeriggio del 18 e consistente in un concerto di Olivier Messiaen, Quatuor pour la fin du temps, eseguito dall’Oikos Ensemble.
Il tema potrà sorprendere qualcuno.
In realtà è noto che la Scuola di Teologia di Milano, sotto la regia appassionata di monsignor Pierangelo Sequeri, si è già segnalata nel panorama italiano per una ripresa forte della dimensione estetica nel pensiero teologico.
E ha generato una lunga fila di discepoli non solo dedita a scandagliare i sentieri inesplorati dell’affectus fidei – cioè del momento sensibile del sapere della fede – ma che ha riletto autori spirituali e pensatori della modernità, che la teologia disdegnava di frequentare.
Attivando anche una collaborazione stretta con la vicina Accademia di Brera in un decennio di interazioni con il dipartimento di Arte e antropologia del sacro.
L’appuntamento, così, arriva forte di una lunga esperienza.
Ci si attende da esso il rilancio di una “nuova alleanza”.
In Italia l’alleanza arte e fede non solo ha dato origine al 60 per cento del patrimonio artistico dell’umanità, ma ha iscritto nell’architettura, nella pittura, nella musica, nella letteratura, nonché nell’immaginario, nel gusto, nello stile – e, più in generale, nella cultura – l’esperienza che la poiesis è una forma di abitare il mondo e di entrare nel mistero della vita.
Per questo arte e fede si tengono per mano.
Non solo per quanto riguarda i prodotti dell’arte e le forme della fede.
Il pensiero riflesso e la teologia cristiana sanno che occorre ripercorrere i temi della fenomenologia, dell’ontologia, della metafisica, della spiritualità, dentro un orizzonte dove è direttamente coinvolta la problematica dell’estetico.
Dalla dottrina trinitaria di Dio all’incarnazione del Lògos, dalla dottrina sacramentaria alla risurrezione dei corpi, dalla forma di chiesa al modo di abitare lo spazio della vita sociale, la riflessione mette in luce un nesso fra il sensibile, lo spirituale, il metafisico, largamente oltre la questione dei modi di relazione fra “arte” e “sacro”.
La via pulchritudinis al cristianesimo non ha solo il significato debole, e tutto sommato ingenuo, di una correzione all’enfasi posta sull’ortodossia o alla cattiva fama della morale.
Se è così la “bellezza” della fede appare come un orpello ornamentale.
“Il bello è lo splendore del vero e del bene” (veritatis splendor), che fa accogliere con amore, e quindi in piena libertà, il vero e il bene.
Esso attraversa tutti i linguaggi: poesia, musica, pittura, architettura, forme dell’abitare, costruzione della città, ma – e questa è la sfida del pensiero – esso è la forma tipicamente umana della percezione e della dedizione alla verità del mondo e della vita.
Dunque, anche della rivelazione di Dio.
La teologia cristiana sa che il Lògos di Dio si dà a vedere, anzi si dona all’uomo nei mysteria carnis di Gesù.
Il corpo del Lògos non è un’occasione per l’apparizione di Dio, ma è l’immagine visibile del Dio inaccessibile.
Dottrina della percezione e teologia del rapimento sono al centro della teologia cristiana, come dice in modo splendido il prefazio di Natale, che Hans Urs von Balthasar ha disegnato come architrave della sua estetica teologica: “Mentre conosciamo Dio visibilmente, per mezzo suo siamo rapiti all’amore delle realtà invisibili”.
Questa è la via maestra della teologia cristiana perché ne abita il roveto ardente: “Nel mistero del Verbo incarnato è apparsa agli occhi della nostra mente una nuova luce del tuo splendore”.
Lux tuae claritatis infulsit: questa luce abbagliante non è solo per vedere, ma anche da pensare.
Sì, perché il pensiero non ha paura della luce che risplende nel corpo del Lògos.
Il convegno si apre nella mattinata di martedì 17 febbraio con il saluto del preside della Facoltà e le prime due relazioni affidate a Pierangelo Sequeri, su “La possibilità radicale dell’estetica teologica: c’è posto, nel cielo di Dio, per corpi e affetti sensibili?”, e a Massimo Cacciari, su “L’azzardo dell’estetica fra idealismo e nichilismo”.
Seguiranno nel pomeriggio la relazione di Timothy Verdon “Primi piani del Figlio di Dio: codici iconici dell’interiorità nel Volto di Gesù”, e di Andrea Del Guericio su “Il sistema contemporaneo dell’arte: nuovi intrecci fra soggettività e tradizione”.
Nella seconda giornata sono previste due relazioni al mattino, quella di Pietro Barcellona – “Estetizzazione della vita e della politica: effetto o causa della decostruzione etico-religiosa?” – e quella di Severino Dianich – “Immagine di Chiesa: la percezione della forma ecclesiae nello spazio della città post-moderna”.
Al pomeriggio l’ultima relazione prevista sarà tenuta dal monaco benedettino Jordi-Augustí Piqué Collado – “L’universo estetico del sacramento: formatività e performatività dell’evento rituale cristiano”.
di Franco Giulio Brambilla Vescovo ausiliare di Milano e preside della Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (©L’Osservatore Romano – 16-17 febbraio 2009)

Per raffigurare il Figlio di Dio

È suggestivo in questo senso un frammentario rilievo del IV secolo ai Musei Vaticani: rappresenta una barca in cui i rematori sono gli evangelisti [Joh]annes, Lucas, Marcus (Matheus doveva trovarsi nel pezzo mancante, a sinistra), mentre il timoniere è Iesus, il quale incoraggia tutti con un gesto della mano destra.
I volti degli evangelisti sono leggibili, quello di Gesù molto meno, causa l’abrasione avvenuta in epoca imprecisabile per motivi sconosciuti o per caso.
Questo rilievo paleocristiano – oltre alla funzione metaforica che vorrei attribuirgli – aiuta poi a riscoprire uno stile esegetico utile al presente discorso: attento ai dettagli ma convinto che questi vanno reinseriti nel contesto globale definito dal “timoniere” Cristo e non dai singoli testi, ognuno dei quali, come un rematore isolato, risulta inadeguato al progresso della nave.
Mentre il modo moderno di leggere i Vangeli distingue i contorni dei singoli testi, voglio dire, quello antico era più preoccupato di trovare i fils rouges lessicali e concettuali che permettevano di coglierne l’unicità del senso.
Lo sviluppo di “codici iconici” dell’interiorità nella raffigurazione di Gesù attraverso i secoli appartiene a questo stile.
Un altro principio ermeneutico da tener presente è che, almeno in passato, l’artista era chiamato a rispondere alle attese del suo pubblico e specificamente del committente dell’opera in oggetto.
Nella fattispecie, chi s’accingeva a raffigurare Cristo rispondeva alla domanda della Chiesa di visualizzare “quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo” fino a quando Dio non le abbia “rivelate per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi, 2, 9-10; cfr.
Isaia, 64, 3).
L’ambito della raffigurazione era cioè una novità di sguardo la cui chiave ermeneutica è la fede, “fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono” (Ebrei, 11, 1).
Una piccola placchetta votiva del iii-iv secolo (conservata pure questa ai Musei Vaticani) aiuta a immaginare questo modo di vedere: è una sottile lamina d’oro con due occhi spalancati e – frammezzo – la croce.
Questo “sguardo nuovo” prepara i cristiani a guardare al mondo attraverso il mistero pasquale, in cui diventa palese che tutte le cose – spirituali ma anche materiali – “sussistono in lui”, Cristo, che le “riconcilia” e le “rappacifica” “con il sangue della sua croce” (cfr.
Colossesi, 1, 17-20).
I puntini che animano la forma di croce nella placchetta vaticanense alludono all’uso del periodo di tempestare la superficie di croci liturgiche con pietre preziose in segno della gloria sfociata dall’umiliazione del Golgotha: una magnifica croce gemmata delle stesse collezioni vaticanensi illustra il concetto.
Tale modo misterico di vedere le cose risale agli inizi della cultura cristiana.
Una straordinaria descrizione è fornita da Giustino Martire, che già nel ii secolo aveva riconosciuto la croce come struttura nascosta di ogni realtà terrestre: della nave che solca il mare grazie alla vela sostenuta dalla varea, la parte più alta del pennone, cruciforme; dell’aratro dell’agricoltore similmente configurato, come degli attrezzi di artigiani ed artisti.
Secondo Giustino Martire perfino “la figura dell’uomo si distingue da quelle degli animali precisamente in questo: che l’uomo sta in piedi e può allargare le braccia, e ha sul viso, scendente dalla sua fronte, il naso attraverso il quale passa il respiro della creatura vivente: e questo mostra esattamente la forma della croce”.
Se però agli occhi della fede il segno distintivo di ogni cosa creata e perfino dell’uomo è la croce, “logica” nascosta di ogni realtà umana, quanto più non sarà leggibile questa forma in Cristo, Logos divino per cui tutto l’esistente è stato fatto! Un mosaico del v secolo, nella serie di episodi della Vita Christi in Sant’Apollinare nuovo a Ravenna, esplicita questo assunto: narrando La moltiplicazione dei pani e pesci l’anonimo maestro dà a Gesù la posa che egli assumerà su Golgotha, intuendo che ogni racconto di un pasto nel Nuovo Testamento prepara a comprendere il pasto decisivo in cui, la notte prima di morire, Gesù offrì il proprio corpo e sangue nei segni del pane e del vino per soddisfare la fame spirituale di quanti l’avrebbero seguito, dando poi concretamente il corpo e sangue il giorno dopo sulla croce.
Innovativa in quest’opera è la “ipostatica unione” del segno con la persona reale.
Laddove un artista d’epoca classica avrebbe rispettato il limite narrativo dell’evento, il maestro paleocristiano inverte le coordinate, lasciando intendere che in Cristo ogni limite narrativo è superato.
Non solo il miracolo compiuto durante il ministero pubblico viene letto alla luce della successiva crocifissione, ma questa poi viene interpretata alla luce dell’ancor successiva ascensione: qui infatti il Cristo cruciforme veste la porpora imperiale, un modo adoperato all’epoca per evocare la sua gloria finale.
Ecco un primo “codice iconico dell’interiorità” di Cristo: il mistero pasquale che traspare in tutta la sua persona.
Una sottolineatura del codice riguarda poi il rapporto dell’uomo cruciforme con le parole che, attraverso i secoli, hanno espresso la fede e l’attesa, il dolore, la speranza e la gioia di quanti desideravano la salvezza.
Eloquente in questo senso è la prima delle “illustrazioni” di un’antologia poetica composta dal monaco Rabano Mauro nel primo ix secolo e dedicata al figlio di Carlomagno, l’imperatore Lodovico il Pio: De laudibus sanctae crucis.
L’immagine fa vedere il corpo di Gesù crocifisso sovrapporsi alle parole di un testo, o meglio, il corpo che sembra plasmarsi da esse, come se contemplassimo l’atto stesso dell’Incarnazione, il Verbo mentre diventa carne umana.
Del resto non si tratta del casuale abbinamento di un’immagine a delle parole, ma di un carmen figuratum in cui il posizionamento di ogni lettera di ogni frase nel campo visivo è calcolato di sorta che alcune delle lettere – quelle evidenziate dal disegno sovrapposto – formino parole e frasi che spieghino il disegno; intorno al volto, per esempio, leggiamo Iste est rex gloriae.
In un carmen figuratum, senza le parole che la costituiscono l’immagine non ha pieno senso, né le parole senza l’immagine che dà loro specificità – che cioè le “incarna”! La stessa mistica sintesi condizionerà l’iconografia cristiana fino al Quattrocento, ma dal xii-xiii secolo in avanti avvertiamo anche un’attenzione biografica.
Il disegno dell’inglese Matthew Paris, monaco benedettino e scrittore, autore della Chronica maiora con preziose informazioni intorno all’Inghilterra e l’Europa tra il 1235-1259, illustra questa tendenza.
Accanto al Signore risorto e glorioso lo stesso foglio fa vedere il momento storico precedente – il volto agonizzante di Cristo in croce – come per insistere che quanto contempleremo un giorno nel Risorto includerà il suo ricordo personale della passio; questi due volti sono poi introdotti da un altro momento storico, perché nella parte alta del medesimo foglio l’artista fa vedere Gesù bambino che incrocia lo sguardo di Maria.
Leggendo dall’alto verso il basso, i tre volti di Cristo obbligano a collegare la gloria alla precedente sofferenza e questa poi all’amore imparato tra le braccia della madre! Guardando ai tre volti capiamo che Colui che nacque era pronto a morire, come afferma la lettera agli Ebrei; che poi morendo con accanto sua madre si ricordò della propria infanzia; e che nell’ascensione al cielo portò con sé l’una e l’altra esperienza.
Ecco dunque un nuovo codice iconico: la compresenza nell’unica persona di Cristo, vero uomo e vero Dio, di esperienze sia storiche che eterne.
Questi due codici – la leggibilità del mistero pasquale col volto come cifra delle Scritture, e la storia umana e divina compresenti in Cristo – confluiranno alla fine del Medioevo in un unico linguaggio la cui sintassi e grammatica vengono definite nello stile caratterizzato come proto-rinascimentale.
Esempio eccelso è il bel Cristo benedicente di Raleigh, North Carolina, databile al secondo decennio del Trecento, quasi certamente un autografo di Giotto.
Il dipinto parla l’idioma corporeo sviluppato dall’artista fiorentino, con un calore negli incarnati e una morbidezza nel modellato lontani dalle tinte gemmate e le forme appiattite della coeva arte bizantina.
Il senso teologico di queste novità è suggerito poi dalla giustapposizione del libro chiuso nella sinistra del Salvatore con la sua destra aperta in benedizione, quasi un’illustrazione dell’affermazione neotestamentaria secondo cui “Dio che aveva già parlato molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio…
che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (Ebrei, 1, 1-3).
“Irradiazione” e “impronta” sono termini visivi evocanti illuminazione e tridimensionalità, e ben descrivono questo straordinario Cristo benedicente.
Nella mezza-figura dipinta da Giotto, la nuova corporeità umana coesiste con attributi divini codificati dalla tradizione: lo sguardo fisso, la posa regalmente ieratica e le vesti dai colori simboleggianti le due nature del Salvatore: rosso per la terra degli uomini e il blu del cielo di Dio.
L’effetto globale è di una corporeità capax Dei, capace della dignità divina.
La simmetria dei tratti poi, insieme alla carnagione pulsante di salute e le labbra tenere e ben formate fanno di questo Cristo davvero “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi, 45[44], 3), il Diletto “bianco e vermiglio, riconoscibile fra mille e mille” (Cantico dei cantici, 5, 10), lo Sposo a cui la Chiesa dice “Vieni!” (Apocalisse, 22, 17).
Si tratta cioè di una corporeità attraente, anzi fisicamente affascinante, e pure questa dimensione umana coesiste con la dignità divina.
Un ultimo particolare qualifica questa icona di divinità umanata: la ferita al centro della mano destra, segno che il Verbo fattosi carne non fu riconosciuto dal mondo e che quando “venne fra la sua gente…
i suoi non l’hanno accolto” (Giovanni, 1, 10-11).
Il sangue nel palmo aperto ci rammenta che il Credo cristiano, subito dopo l’asserto et incarnatus est de Virgine Maria et homo factus est, aggiunge: crucifixus etiam pro nobis sub Pontio Pilato; ricorda soprattutto che le parole di Gesù sul pane e vino, “questo è il mio corpo, questo è il calice del mio sangue”, furono pronunciate in vista dell’offerta sacrificale del suo corpo e sangue sulla croce.
La tavola di Giotto infatti è parte di una pala d’altare, e il Cristo benedicente era originalmente collocato sulla mensa eucaristica al punto dove il sacerdote consacrava il pane e vino che, transustanziati, diventavano corpo e sangue di Cristo, sebbene inalterati nell’aspetto visivo.
La plasticità del Cristo dipinto da Giotto coincideva cioè con la sua “reale presenza” sacramentale, in uno scambio di visio e fides simile a quello enunciato dal Salvatore quando l’apostolo Tommaso verificò la realtà corporea della sua risurrezione toccando con mano le piaghe.
(©L’Osservatore Romano – 16-17 febbraio 2009  Con una frase tratta dall’Antico Testamento, la liturgia della Chiesa caratterizza il Figlio di Dio come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Salmi, 45[44], 3) mentre un testo paolino invita a riconoscere in lui addirittura “l’immagine del Dio invisibile” (Colossesi, 1, 15); all’apostolo che gli chiede di vedere l’Altissimo Cristo stesso risponderà: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni, 14, 9).
Ma del concreto aspetto fisico del Salvatore il nuovo Testamento non dice una parola, né esistono coevi ritratti, così che ogni riflessione sul suo “volto” prende le mosse da basi testuali non specifiche: dai Vangeli che lo rivelano come persona interiore ma che non lo descrivono esteriormente.
)

La scuola? Un cambiamento senza fine

Questi, secondo l’Aimc, gli elementi di maggior rilievo di questo situazione: “immersione in un cambiamento senza fine, ben diverso da una positiva innovazione graduale e condivisa; mancanza di standard nazionali di riferimento che assicurino un minimo di tenuta del sistema; espansione e consolidamento della tendenza a considerare il criterio organizzativo dominante rispetto alle finalità della scuola, come succede, ad esempio per il tempo scuola prestabilito che condiziona quello su cui centrare l’apprendimento invece di fare il contrario, cioè stabilire l’essenziale da apprendere e determinare poi, di conseguenza, il tempo occorrente per realizzarlo”.
Ne derivano alcune conseguenze di non poco conto – sostiene l’Aimc – che vanno a consolidare un trend degli ultimi anni poco promettente, che contribuisce alla delegittimazione del ruolo istituzionale della scuola e all’erosione, nell’opinione pubblica, del credito sociale degli insegnanti.
Nel documento conclusivo non poteva mancare uno specifico riferimento alle recenti riforme che interessano la scuola primaria, maestro unico e compresenze.
“L’unitarietà dell’apprendimento rimanda all’unitarietà della persona e della cultura e si presuppone venga garantita dall’unicità del docente, mentre nei fatti si realizza solo grazie a una progettazione coerente attenta alla personalizzazione e alla pluralità dei percorsi formativi di ciascuno, capace di muoversi nelle dinamiche proprie dell’elaborazione culturale e sociale dando essenziali coordinate di senso”.
“La compresenza è assimilata al solo spreco di risorse e non colta come elemento di qualità, nell’assicurare la centralità dell’apprendimento.
È importante invece considerare cosa non si riuscirà più a realizzare in favore degli alunni perché le opportunità formative introdotte in questi anni costituiscono la vera novità delle ultime riforme”.
——————————————————————————– TuttoscuolaFOCUS lunedì 16 febbraio 2009 Incertezza e confusione connotano l’attuale momento della scuola e determinano una sorta di destabilizzazione anche nei suoi professionisti.
E’ il parere del Consiglio Nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, riunitosi a Roma nei giorni scorsi, che si è interrogato sullo “stato d’animo” della scuola in questo momento e sui segnali per il futuro.
Dove va la scuola? di Consiglio Nazionale AIMC ——————————————————————————– http://aimcsicilia.wordpress.com/ Dove va la scuola? Pronunciamento del Consiglio Nazionale Aimc Il CN dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, riunitosi in Roma nei giorni 7-8 febbraio u.
s., si è interrogato sullo “stato d’animo” della scuola in questo momento e sui segnali per il prossimo futuro.
Quanto emerso, viene qui organizzato intorno a tre nuclei, con una struttura comune: il senso del nucleo, la sua argomentazione anche attraverso esemplificazioni, la postazione associativa e il suo ruolo ora problematizzzante, ora propositivo.
Clima che si vive (il presente ossia il “dove” operiamo) Incertezza e confusione sono termini che connotano l’attuale momento della scuola e che determinano una sorta di destabilizzazione anche nei suoi professionisti.
Gli elementi/indicatori di maggior rilievo possono essere sinteticamente indicati nei seguenti: – immersione in un cambiamento senza fine, ben diverso da una positiva innovazione graduale e condivisa; – mancanza di standard nazionali di riferimento che assicurino un minimo di tenuta del sistema; – espansione e consolidamento della tendenza a considerare il criterio organizzativo dominante rispetto alle finalità della scuola; un esempio per tutti: il tempo scuola prestabilito che condiziona quello su cui centrare l’apprendimento invece di stabilire l’essenziale da apprendere e determinare poi, di conseguenza, il tempo occorrente per realizzarlo.
Ne derivano alcune conseguenze di non poco conto che vanno a consolidare un trend di questi ultimi anni poco promettente, che contribuisce alla delegittimazione del ruolo istituzionale della scuola e all’erosione, nell’opinione pubblica, del credito sociale dei professionisti di scuola.
Chiave di lettura (quali chiavi di lettura per interpretare gli eventi) Il CN ha individuato come chiave di lettura, al fine della comprensione e interpretazione di quanto segnalato, una sorta d’incapacità a “reggere” la complessità con conseguente ricorso a categorie e strategie di semplificazione e riduzione, per cui c’è da chiedersi se i punti di approdo siano realmente in grado di risolvere il problema.
Fra le tematiche emerse, che vanno a supportare tale affermazione: – la complessità della valutazione che viene affrontata attraverso la reintroduzione del voto con il rischio, magari non voluto ma possibile nei fatti, di perdere di vista il processo e mirare solo all’esito espresso in termini di prestazioni predefinite; – l’unitarietà dell’apprendimento, che rimanda all’unitarietà della persona e della cultura, che si presuppone venga garantita dall’unicità del docente, mentre nei fatti si realizza solo grazie a una progettazione coerente attenta alla personalizzazione e alla pluralità dei percorsi formativi di ciascuno, capace di muoversi nelle dinamiche proprie dell’elaborazione culturale e sociale dando essenziali coordinate di senso; – la ricchezza del modello pedagogico e didattico non riconducibile alla sola questione del tempo scuola, un’affermazione che trova conferma nell’idea di pensare di garantire il tempo pieno solo attraverso le 40 ore di tempo scuola; – l’autonomia delle istituzioni scolastiche che pare percepita come esito del semplice accostamento dell’autonomia dei singoli soggetti, più che come attenzione ai legami propri dell’interazione fra di loro e con la comunità sociale; – l’innovazione vista come esito finale di tanti e notevoli cambiamenti che non sono mai stati sistematicamente valutati, con la conseguente mancata capitalizzazione dei passi di avanzamento realizzati; – la compresenza assimilata al solo spreco di risorse e non colta come elemento di qualità, nell’assicurare la centralità dell’apprendimento.
È importante invece considerare cosa non si riuscirà più a realizzare in favore degli alunni perché le opportunità formative introdotte in questi anni costituiscono la vera novità delle ultime riforme.
Le conseguenze che ne derivano: – il prospettare una visione “velata”, quasi “virtuale” (staccata dalla realtà) della scuola, che perde la connotazione, per l’Aimc irrinunciabile, di comunità educativa; – l’esasperazione del localismo, che può anche essere di eccellenza (se misurato secondo il rispetto degli standard nazionali), ma che comunque rompe i legami di sistema.
Una visione di scuola OGM? (quale futuro per la scuola?) Si avverte da tempo l’esigenza di un quadro normativo di riferimento che superi l’approccio “a frammento” (presa in carico di singoli aspetti, non interrelati); assuma il nuovo rapporto Stato/Regioni/Enti e autonomie locali contestualizzando l’autonomia scolastica in termini educativo-formativi e istituzionali, non alienabili ad altri soggetti; ridisegni uno stato giuridico, ormai obsoleto, dei docenti.
Fra le proposte di legge in campo, la 953, firmataria l’on.
Aprea, sembra la sola a presentare un disegno organico di autogoverno della scuola e stato giuridico dei docenti.
Per decidere se la si può considerare strumento contenente potenziali-tà per valorizzare la scuola e i suoi professionisti, è opportuno esaminarla alla luce di una idea-guida che faccia da chiave di lettura: il diritto all’educazione di cui l’ alunno-persona è portatore, ossia il diritto a una scuola che assicuri a ciascuno il pieno sviluppo e educhi progressivamente a quella competenza di vita che fa sentire responsabili della comunità e del mondo in cui si vive.
In rapporto a questo diritto primario sono da considerare anche i diritti di cui sono portatori i professionisti di scuola.
Tutto ciò che è favorente in tal senso è da accettare (anche se costa impegno, fatica di “cambiare”, rischio di esporsi alla valutazione sociale) e tutto ciò che ostacola è da respingere (anche se più comodo, più gratificante, meno rischioso), pur assicurando il dovuto rispetto della normativa.
Esaminando la proposta di legge Aprea attraverso questa chiave di lettura, riscontriamo: – l’uso di una terminologia e la scelta di soluzioni che richiamano l’idea di una scuola centrata più sulla dimensione amministrativa che su quella comunitaria, con il rischio di limitare il senso di appartenenza e di cittadinanza della scuola e dei soggetti che la compongono.
Occorre una proposta che contemperi partecipazione della comunità territoriale nell’organo di governo della scuola, tutela della natura della scuola stessa, garanzia della legittimità degli atti; – l’accentuazione di una prospettiva economicistica che va ben al di là dell’esigenza del risparmio indotta dalla congiuntura del momento, che rischia di svuotare una visione pedagogico-educatica garante della natura propria del mandato costituzionale dell’istituzione scolastica; – lo schiacciamento della scuola primaria (che pure insieme a quella dell’infanzia è riconosciuta di eccellenza in campo internazionale) ad opera del modello della scuola secondaria, con una visione estremamente riduttiva della primarietà; quasi una scuola piccola per bambini piccoli, che hanno bisogno solo delle strumentalità del “leggere, scrivere e far di conto”.
Come arginarlo? È da coltivare anzitutto nella mentalità e nell’atteggiamento dei professionisti, perchè non si riconsegnino a questa logica apparentemente rassicurante, come avverrebbe ad esempio enfatizzando la proposta di articolazione del Collegio Docenti in dipartimenti disciplinari o sottovalutando il valore e la dignità della cultura di scuola.
Uno spazio percorribile è quello della riqualificazione del tirocinio nel corso di laurea in termini di autentico partenariato università-scuola e non semplicemente università-docente accogliente, riprendendo, aggiornandola, la ricca elaborazione associativa a suo tempo portata avanti in proposito.
L’Associazione intravede tre aspetti, in particolare, che preoccupano e necessitano di attenzione, in quanto segni del debole profilo che la professione assumerebbe se la proposta di legge andasse in porto così com’è e che rischia di render ancor meno allettante la scelta di dedicarsi all’insegnamento.
 Una linea di sviluppo della professione che, nonostante le dichiarazioni contrarie, si verrebbe a profilare comunque gerarchizzata, perché i tre “livelli” previsti non configurano solo una progressione economica, ma l’attribuzione di compiti e la possibilità di accesso a funzioni che, di fatto, pongono alcuni in posizione sovraordinata rispetto ad altri.
Non si vuole certo sostenere l’omogeneità professionale ed è giusto che chi lavora di più e meglio abbia di più; non sembra, però, promettente che la progressione verso il livello di “esperto” avvenga prevalentemente attraverso compiti e funzioni che allontanano dalla diretta relazione educativa.
Siamo coscienti di un contesto di mobilità professionale che comporta l’esigenza di confrontarsi con i criteri di sviluppo della professione applicati per lo meno in altri Paesi dell’Occidente europeo, ma l’uso stesso della terminologia proposta potrebbe ingenerare nelle famiglie interrogativi inquietanti: ogni bambino/ragazzo ha diritto alla qualità alta e intera dell’insegnamento, che si potrebbe leggere invece presente in “quote diverse” nell’insegnante iniziale e in quello esperto.
 Una evidente debolezza del Collegio dei Docenti riscontrabile nelle scarne righe dedicate alle sue potestà e funzioni, che sembrano privilegiare aspetti tecnico-funzionalistici nonostante a tale organo competa l’elaborazione del Pof.
In particolare, non è mai affermato che i processi decisionali riguardanti la scuola nel suo divenire devono essere collegiali.
Occorre mantenere la collegialità nell’intera linea decisionale, lasciando alle articolazioni (la cui composizione va affidata al regolamento di ciascuna scuola) compiti istruttori.
Il Collegio va potenziato senza renderlo, però, l’unico organismo “politico” e contemperando le sue potestà con l’esigenza di salvaguardare la partecipazione delle famiglie e della comunità.
Una proposta praticabile potrebbe essere il rendere vincolanti le linee di indirizzo del Consiglio che il Collegio deve assumere e tradurre nell’elaborazione del Pof, così che l’unico elemento per non adottarlo da parte del Consiglio stesso sia il mancato rispetto di tali linee.
 Un vuoto pesante: la mancanza di un momento/contesto/organismo di autotutela della professione che garantisca la possibilità di accesso alle procedure concorsuali previa “validazione” del possesso delle competenze che caratterizzano l’insegnante.
Chi può certificare che l’aspirante al concorso è un professionista? L’Organismo tecnico regionale, composto di rappresentanti della professione, potrebbe intervenire in sede di discussione e formulazione del giudizio con attribuzione del punteggio da parte della commissione di valutazione, per portare a compimento (sulla base di indicatori nazionali della “qualità” del lavoro d’aula) il processo sia di autovalutazione che di valutazione della comunità professionale locale.
Va tenuto presente che l’aspetto più problematico per una seria valutazione del docente è proprio quello relativo al lavoro d’aula, fatto anche di modalità comunicative e relazionali, clima collaborativo costruito, coinvolgimento dei soggetti in apprendimento… aspetti non direttamente rilevabili attraverso gli esiti di apprendimento degli alunni e per i quali occorre condividere necessari indicatori.
Relativamente alla formazione in servizio, si ritiene giunto il momento di chiedere con forza che essa, in qualsiasi momento della “carriera”, torni ad essere un dovere e non solo un diritto dei docenti e sia legata in percentuale consistente agli obiettivi che l’istituzione scolastica di appartenenza dichiara nel Piano dell’Offerta Formativa Infine, l’Aimc segnala una carenza registrabile in tutte le proposte in campo.
Non si fa mai riferimento a un organismo che possa dirimere eventuali conflitti.
Non vorremmo leggere questo come poca stima e attenzione ai processi decisionali che sono il cuore pulsante dell’autonomia.
Se ci crediamo, occorre pensare anche a chi e come possano essere gestite prevedibili conflittualità affinché la scuola non diventi campo di inutili diatribe da risolversi di caso in caso.
Il Consiglio Nazionale Aimc Roma, 8 febbraio 2009

D. Cravero, Prendi il largo

D.
Cravero Prendi il largo per la scuola secondaria di primo grado Il taglio dell’opera Il percorso proposto dal manuale si pone come principale scopo di scoprire il legame tra i dati esperienziali e l’insegnamento cristiano, di cui si mettono in luce l’attualità e la freschezza.
Scoprire la propria identità, vivere con intensità i momenti felici e quelli difficili, amare la vita che Dio ci ha donato, rispettarla, valorizzarla, scoprirne il significato per realizzare, attraverso l’insegnamento del Cristo, un modo più autentico di stare al mondo e per aprirsi in modo fecondo al futuro: questa è la proposta educativa rivolta dal manuale agli studenti nella difficile fase della preadolescenza.
Il progetto educativo Seguendo il percorso proposto dal libro si può comprendere e realizzare l’invito di Gesù a trovare il significato autentico e il valore delle esperienze, secondo un percorso che accompagna lo studente nella crescita, gli permette di realizzarsi autenticamente come persona, lo indirizza a sviluppare il proprio senso critico.
Un’opera che fornisce gli spunti per trovare una via verso la libertà e l’autenticità nelle relazioni, per essere propositivi e aperti, per rispondere alle esigenze individuali e sociali, per sviluppare la propria creatività, per diventare persone assertive, moralmente mature e affettivamente stabili, scoprendo che la nostra individualità va coltivata perché è una ricchezza e che quella altrui va accolta e rispettata perché aiuta a crescere.
Il percorso didattico Una proposta fresca e vivace, che, attraverso una didattica attiva e coinvolgente, incontra le attese dei preadolescenti e offre loro la possibilità di imparare a riflettere attraverso attività variate, giochi di ruolo, riflessioni esperienziali, cooperative learning.
Materiali per il docente Una presentazione dell’esperienza didattica che è all’origine del libro offre suggerimenti per un proficuo uso attivo del libro.
Suggerimenti di ulteriori attività completano l’offerta didattica.

La remissione della scomunica.

Giovanni paolo II, Congr.
per i vescovi, Pont.
cons.
per i testi legislativi di B.
card.
Gantin, Giovanni Paolo II, J.
Herranz, M.
Maccarelli Regno-doc.
n.3, 2009, p.77 All’indomani della remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani, l’opinione pubblica ecclesiale ha iniziato a interrogarsi sulla nuova situazione canonica e pastorale degli aderenti alla Fraternità San Pio X: su quali atti cioè siano ancora necessari perché essi possano dirsi in piena comunione con la Chiesa di Roma.
Come contributo alla riflessione, riproponiamo nell’allegato i principali atti ufficiali con cui la Santa Sede aveva definito, per tutto il periodo di durata della scomunica, tale situazione: il decreto di scomunica, il motu proprio Ecclesia Dei una risposta della Congregazione per i vescovi ad alcuni quesiti del vescovo svizzero N.
Brunner e una nota che il Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi ha redatto su richiesta della stessa Congregazione per i vescovi.
Ne emergono: la scomunica per chi aderiva formalmente a quel «movimento scismatico», l’acefalia dei chierici ordinati da Lefebvre prima del 1988, l’illiceità della partecipazione alle loro celebrazioni.
Vedi nell’allegato Regno-doc.
15,1988,477ss Regno-doc.
17,1997,528ss.
Benedetto XVI, Santa Sede, Fraternità San Pio X, vescovi di Benedetto XVI, G.
Re, B.
Fellay, J.
Ricard, vescovi francesi, tedeschi, svizzeri Regno-doc.
n.3, 2009, p.69 La remissione della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità sacerdotale di San Pio X ricompone l’unità cattolica con il movimento lefebvriano e avvia il processo di comunione piena.
Il papa, Benedetto XVI, ha commentato la decisione così: «Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa…».
Nella risposta di mons.
Bernard Fellay si afferma che «la Tradizione cattolica non è più scomunicata» e si confermano «le riserve a proposito del Vaticano II».
Riserve che i vescovi svizzeri, tedeschi e francesi rifiutano: «In nessun caso il concilio Vaticano II sarà negoziabile».
Come precisa una nota della Segreteria di stato: per un futuro riconoscimento della Fraternità «è condizione indispensabile il pieno riconoscimento del concilio Vaticano II» (n.
2).
 Nell’allegato i testi relativi alle posizioni negazioniste del vescovo lefebvriano R.
Williamson (pp.
72-73).