La scuola? Un cambiamento senza fine

Questi, secondo l’Aimc, gli elementi di maggior rilievo di questo situazione: “immersione in un cambiamento senza fine, ben diverso da una positiva innovazione graduale e condivisa; mancanza di standard nazionali di riferimento che assicurino un minimo di tenuta del sistema; espansione e consolidamento della tendenza a considerare il criterio organizzativo dominante rispetto alle finalità della scuola, come succede, ad esempio per il tempo scuola prestabilito che condiziona quello su cui centrare l’apprendimento invece di fare il contrario, cioè stabilire l’essenziale da apprendere e determinare poi, di conseguenza, il tempo occorrente per realizzarlo”.
Ne derivano alcune conseguenze di non poco conto – sostiene l’Aimc – che vanno a consolidare un trend degli ultimi anni poco promettente, che contribuisce alla delegittimazione del ruolo istituzionale della scuola e all’erosione, nell’opinione pubblica, del credito sociale degli insegnanti.
Nel documento conclusivo non poteva mancare uno specifico riferimento alle recenti riforme che interessano la scuola primaria, maestro unico e compresenze.
“L’unitarietà dell’apprendimento rimanda all’unitarietà della persona e della cultura e si presuppone venga garantita dall’unicità del docente, mentre nei fatti si realizza solo grazie a una progettazione coerente attenta alla personalizzazione e alla pluralità dei percorsi formativi di ciascuno, capace di muoversi nelle dinamiche proprie dell’elaborazione culturale e sociale dando essenziali coordinate di senso”.
“La compresenza è assimilata al solo spreco di risorse e non colta come elemento di qualità, nell’assicurare la centralità dell’apprendimento.
È importante invece considerare cosa non si riuscirà più a realizzare in favore degli alunni perché le opportunità formative introdotte in questi anni costituiscono la vera novità delle ultime riforme”.
——————————————————————————– TuttoscuolaFOCUS lunedì 16 febbraio 2009 Incertezza e confusione connotano l’attuale momento della scuola e determinano una sorta di destabilizzazione anche nei suoi professionisti.
E’ il parere del Consiglio Nazionale dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, riunitosi a Roma nei giorni scorsi, che si è interrogato sullo “stato d’animo” della scuola in questo momento e sui segnali per il futuro.
Dove va la scuola? di Consiglio Nazionale AIMC ——————————————————————————– http://aimcsicilia.wordpress.com/ Dove va la scuola? Pronunciamento del Consiglio Nazionale Aimc Il CN dell’Associazione Italiana Maestri Cattolici, riunitosi in Roma nei giorni 7-8 febbraio u.
s., si è interrogato sullo “stato d’animo” della scuola in questo momento e sui segnali per il prossimo futuro.
Quanto emerso, viene qui organizzato intorno a tre nuclei, con una struttura comune: il senso del nucleo, la sua argomentazione anche attraverso esemplificazioni, la postazione associativa e il suo ruolo ora problematizzzante, ora propositivo.
Clima che si vive (il presente ossia il “dove” operiamo) Incertezza e confusione sono termini che connotano l’attuale momento della scuola e che determinano una sorta di destabilizzazione anche nei suoi professionisti.
Gli elementi/indicatori di maggior rilievo possono essere sinteticamente indicati nei seguenti: – immersione in un cambiamento senza fine, ben diverso da una positiva innovazione graduale e condivisa; – mancanza di standard nazionali di riferimento che assicurino un minimo di tenuta del sistema; – espansione e consolidamento della tendenza a considerare il criterio organizzativo dominante rispetto alle finalità della scuola; un esempio per tutti: il tempo scuola prestabilito che condiziona quello su cui centrare l’apprendimento invece di stabilire l’essenziale da apprendere e determinare poi, di conseguenza, il tempo occorrente per realizzarlo.
Ne derivano alcune conseguenze di non poco conto che vanno a consolidare un trend di questi ultimi anni poco promettente, che contribuisce alla delegittimazione del ruolo istituzionale della scuola e all’erosione, nell’opinione pubblica, del credito sociale dei professionisti di scuola.
Chiave di lettura (quali chiavi di lettura per interpretare gli eventi) Il CN ha individuato come chiave di lettura, al fine della comprensione e interpretazione di quanto segnalato, una sorta d’incapacità a “reggere” la complessità con conseguente ricorso a categorie e strategie di semplificazione e riduzione, per cui c’è da chiedersi se i punti di approdo siano realmente in grado di risolvere il problema.
Fra le tematiche emerse, che vanno a supportare tale affermazione: – la complessità della valutazione che viene affrontata attraverso la reintroduzione del voto con il rischio, magari non voluto ma possibile nei fatti, di perdere di vista il processo e mirare solo all’esito espresso in termini di prestazioni predefinite; – l’unitarietà dell’apprendimento, che rimanda all’unitarietà della persona e della cultura, che si presuppone venga garantita dall’unicità del docente, mentre nei fatti si realizza solo grazie a una progettazione coerente attenta alla personalizzazione e alla pluralità dei percorsi formativi di ciascuno, capace di muoversi nelle dinamiche proprie dell’elaborazione culturale e sociale dando essenziali coordinate di senso; – la ricchezza del modello pedagogico e didattico non riconducibile alla sola questione del tempo scuola, un’affermazione che trova conferma nell’idea di pensare di garantire il tempo pieno solo attraverso le 40 ore di tempo scuola; – l’autonomia delle istituzioni scolastiche che pare percepita come esito del semplice accostamento dell’autonomia dei singoli soggetti, più che come attenzione ai legami propri dell’interazione fra di loro e con la comunità sociale; – l’innovazione vista come esito finale di tanti e notevoli cambiamenti che non sono mai stati sistematicamente valutati, con la conseguente mancata capitalizzazione dei passi di avanzamento realizzati; – la compresenza assimilata al solo spreco di risorse e non colta come elemento di qualità, nell’assicurare la centralità dell’apprendimento.
È importante invece considerare cosa non si riuscirà più a realizzare in favore degli alunni perché le opportunità formative introdotte in questi anni costituiscono la vera novità delle ultime riforme.
Le conseguenze che ne derivano: – il prospettare una visione “velata”, quasi “virtuale” (staccata dalla realtà) della scuola, che perde la connotazione, per l’Aimc irrinunciabile, di comunità educativa; – l’esasperazione del localismo, che può anche essere di eccellenza (se misurato secondo il rispetto degli standard nazionali), ma che comunque rompe i legami di sistema.
Una visione di scuola OGM? (quale futuro per la scuola?) Si avverte da tempo l’esigenza di un quadro normativo di riferimento che superi l’approccio “a frammento” (presa in carico di singoli aspetti, non interrelati); assuma il nuovo rapporto Stato/Regioni/Enti e autonomie locali contestualizzando l’autonomia scolastica in termini educativo-formativi e istituzionali, non alienabili ad altri soggetti; ridisegni uno stato giuridico, ormai obsoleto, dei docenti.
Fra le proposte di legge in campo, la 953, firmataria l’on.
Aprea, sembra la sola a presentare un disegno organico di autogoverno della scuola e stato giuridico dei docenti.
Per decidere se la si può considerare strumento contenente potenziali-tà per valorizzare la scuola e i suoi professionisti, è opportuno esaminarla alla luce di una idea-guida che faccia da chiave di lettura: il diritto all’educazione di cui l’ alunno-persona è portatore, ossia il diritto a una scuola che assicuri a ciascuno il pieno sviluppo e educhi progressivamente a quella competenza di vita che fa sentire responsabili della comunità e del mondo in cui si vive.
In rapporto a questo diritto primario sono da considerare anche i diritti di cui sono portatori i professionisti di scuola.
Tutto ciò che è favorente in tal senso è da accettare (anche se costa impegno, fatica di “cambiare”, rischio di esporsi alla valutazione sociale) e tutto ciò che ostacola è da respingere (anche se più comodo, più gratificante, meno rischioso), pur assicurando il dovuto rispetto della normativa.
Esaminando la proposta di legge Aprea attraverso questa chiave di lettura, riscontriamo: – l’uso di una terminologia e la scelta di soluzioni che richiamano l’idea di una scuola centrata più sulla dimensione amministrativa che su quella comunitaria, con il rischio di limitare il senso di appartenenza e di cittadinanza della scuola e dei soggetti che la compongono.
Occorre una proposta che contemperi partecipazione della comunità territoriale nell’organo di governo della scuola, tutela della natura della scuola stessa, garanzia della legittimità degli atti; – l’accentuazione di una prospettiva economicistica che va ben al di là dell’esigenza del risparmio indotta dalla congiuntura del momento, che rischia di svuotare una visione pedagogico-educatica garante della natura propria del mandato costituzionale dell’istituzione scolastica; – lo schiacciamento della scuola primaria (che pure insieme a quella dell’infanzia è riconosciuta di eccellenza in campo internazionale) ad opera del modello della scuola secondaria, con una visione estremamente riduttiva della primarietà; quasi una scuola piccola per bambini piccoli, che hanno bisogno solo delle strumentalità del “leggere, scrivere e far di conto”.
Come arginarlo? È da coltivare anzitutto nella mentalità e nell’atteggiamento dei professionisti, perchè non si riconsegnino a questa logica apparentemente rassicurante, come avverrebbe ad esempio enfatizzando la proposta di articolazione del Collegio Docenti in dipartimenti disciplinari o sottovalutando il valore e la dignità della cultura di scuola.
Uno spazio percorribile è quello della riqualificazione del tirocinio nel corso di laurea in termini di autentico partenariato università-scuola e non semplicemente università-docente accogliente, riprendendo, aggiornandola, la ricca elaborazione associativa a suo tempo portata avanti in proposito.
L’Associazione intravede tre aspetti, in particolare, che preoccupano e necessitano di attenzione, in quanto segni del debole profilo che la professione assumerebbe se la proposta di legge andasse in porto così com’è e che rischia di render ancor meno allettante la scelta di dedicarsi all’insegnamento.
 Una linea di sviluppo della professione che, nonostante le dichiarazioni contrarie, si verrebbe a profilare comunque gerarchizzata, perché i tre “livelli” previsti non configurano solo una progressione economica, ma l’attribuzione di compiti e la possibilità di accesso a funzioni che, di fatto, pongono alcuni in posizione sovraordinata rispetto ad altri.
Non si vuole certo sostenere l’omogeneità professionale ed è giusto che chi lavora di più e meglio abbia di più; non sembra, però, promettente che la progressione verso il livello di “esperto” avvenga prevalentemente attraverso compiti e funzioni che allontanano dalla diretta relazione educativa.
Siamo coscienti di un contesto di mobilità professionale che comporta l’esigenza di confrontarsi con i criteri di sviluppo della professione applicati per lo meno in altri Paesi dell’Occidente europeo, ma l’uso stesso della terminologia proposta potrebbe ingenerare nelle famiglie interrogativi inquietanti: ogni bambino/ragazzo ha diritto alla qualità alta e intera dell’insegnamento, che si potrebbe leggere invece presente in “quote diverse” nell’insegnante iniziale e in quello esperto.
 Una evidente debolezza del Collegio dei Docenti riscontrabile nelle scarne righe dedicate alle sue potestà e funzioni, che sembrano privilegiare aspetti tecnico-funzionalistici nonostante a tale organo competa l’elaborazione del Pof.
In particolare, non è mai affermato che i processi decisionali riguardanti la scuola nel suo divenire devono essere collegiali.
Occorre mantenere la collegialità nell’intera linea decisionale, lasciando alle articolazioni (la cui composizione va affidata al regolamento di ciascuna scuola) compiti istruttori.
Il Collegio va potenziato senza renderlo, però, l’unico organismo “politico” e contemperando le sue potestà con l’esigenza di salvaguardare la partecipazione delle famiglie e della comunità.
Una proposta praticabile potrebbe essere il rendere vincolanti le linee di indirizzo del Consiglio che il Collegio deve assumere e tradurre nell’elaborazione del Pof, così che l’unico elemento per non adottarlo da parte del Consiglio stesso sia il mancato rispetto di tali linee.
 Un vuoto pesante: la mancanza di un momento/contesto/organismo di autotutela della professione che garantisca la possibilità di accesso alle procedure concorsuali previa “validazione” del possesso delle competenze che caratterizzano l’insegnante.
Chi può certificare che l’aspirante al concorso è un professionista? L’Organismo tecnico regionale, composto di rappresentanti della professione, potrebbe intervenire in sede di discussione e formulazione del giudizio con attribuzione del punteggio da parte della commissione di valutazione, per portare a compimento (sulla base di indicatori nazionali della “qualità” del lavoro d’aula) il processo sia di autovalutazione che di valutazione della comunità professionale locale.
Va tenuto presente che l’aspetto più problematico per una seria valutazione del docente è proprio quello relativo al lavoro d’aula, fatto anche di modalità comunicative e relazionali, clima collaborativo costruito, coinvolgimento dei soggetti in apprendimento… aspetti non direttamente rilevabili attraverso gli esiti di apprendimento degli alunni e per i quali occorre condividere necessari indicatori.
Relativamente alla formazione in servizio, si ritiene giunto il momento di chiedere con forza che essa, in qualsiasi momento della “carriera”, torni ad essere un dovere e non solo un diritto dei docenti e sia legata in percentuale consistente agli obiettivi che l’istituzione scolastica di appartenenza dichiara nel Piano dell’Offerta Formativa Infine, l’Aimc segnala una carenza registrabile in tutte le proposte in campo.
Non si fa mai riferimento a un organismo che possa dirimere eventuali conflitti.
Non vorremmo leggere questo come poca stima e attenzione ai processi decisionali che sono il cuore pulsante dell’autonomia.
Se ci crediamo, occorre pensare anche a chi e come possano essere gestite prevedibili conflittualità affinché la scuola non diventi campo di inutili diatribe da risolversi di caso in caso.
Il Consiglio Nazionale Aimc Roma, 8 febbraio 2009

D. Cravero, Prendi il largo

D.
Cravero Prendi il largo per la scuola secondaria di primo grado Il taglio dell’opera Il percorso proposto dal manuale si pone come principale scopo di scoprire il legame tra i dati esperienziali e l’insegnamento cristiano, di cui si mettono in luce l’attualità e la freschezza.
Scoprire la propria identità, vivere con intensità i momenti felici e quelli difficili, amare la vita che Dio ci ha donato, rispettarla, valorizzarla, scoprirne il significato per realizzare, attraverso l’insegnamento del Cristo, un modo più autentico di stare al mondo e per aprirsi in modo fecondo al futuro: questa è la proposta educativa rivolta dal manuale agli studenti nella difficile fase della preadolescenza.
Il progetto educativo Seguendo il percorso proposto dal libro si può comprendere e realizzare l’invito di Gesù a trovare il significato autentico e il valore delle esperienze, secondo un percorso che accompagna lo studente nella crescita, gli permette di realizzarsi autenticamente come persona, lo indirizza a sviluppare il proprio senso critico.
Un’opera che fornisce gli spunti per trovare una via verso la libertà e l’autenticità nelle relazioni, per essere propositivi e aperti, per rispondere alle esigenze individuali e sociali, per sviluppare la propria creatività, per diventare persone assertive, moralmente mature e affettivamente stabili, scoprendo che la nostra individualità va coltivata perché è una ricchezza e che quella altrui va accolta e rispettata perché aiuta a crescere.
Il percorso didattico Una proposta fresca e vivace, che, attraverso una didattica attiva e coinvolgente, incontra le attese dei preadolescenti e offre loro la possibilità di imparare a riflettere attraverso attività variate, giochi di ruolo, riflessioni esperienziali, cooperative learning.
Materiali per il docente Una presentazione dell’esperienza didattica che è all’origine del libro offre suggerimenti per un proficuo uso attivo del libro.
Suggerimenti di ulteriori attività completano l’offerta didattica.

La remissione della scomunica.

Giovanni paolo II, Congr.
per i vescovi, Pont.
cons.
per i testi legislativi di B.
card.
Gantin, Giovanni Paolo II, J.
Herranz, M.
Maccarelli Regno-doc.
n.3, 2009, p.77 All’indomani della remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani, l’opinione pubblica ecclesiale ha iniziato a interrogarsi sulla nuova situazione canonica e pastorale degli aderenti alla Fraternità San Pio X: su quali atti cioè siano ancora necessari perché essi possano dirsi in piena comunione con la Chiesa di Roma.
Come contributo alla riflessione, riproponiamo nell’allegato i principali atti ufficiali con cui la Santa Sede aveva definito, per tutto il periodo di durata della scomunica, tale situazione: il decreto di scomunica, il motu proprio Ecclesia Dei una risposta della Congregazione per i vescovi ad alcuni quesiti del vescovo svizzero N.
Brunner e una nota che il Pontificio consiglio per l’interpretazione dei testi legislativi ha redatto su richiesta della stessa Congregazione per i vescovi.
Ne emergono: la scomunica per chi aderiva formalmente a quel «movimento scismatico», l’acefalia dei chierici ordinati da Lefebvre prima del 1988, l’illiceità della partecipazione alle loro celebrazioni.
Vedi nell’allegato Regno-doc.
15,1988,477ss Regno-doc.
17,1997,528ss.
Benedetto XVI, Santa Sede, Fraternità San Pio X, vescovi di Benedetto XVI, G.
Re, B.
Fellay, J.
Ricard, vescovi francesi, tedeschi, svizzeri Regno-doc.
n.3, 2009, p.69 La remissione della scomunica ai quattro vescovi della Fraternità sacerdotale di San Pio X ricompone l’unità cattolica con il movimento lefebvriano e avvia il processo di comunione piena.
Il papa, Benedetto XVI, ha commentato la decisione così: «Auspico che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa…».
Nella risposta di mons.
Bernard Fellay si afferma che «la Tradizione cattolica non è più scomunicata» e si confermano «le riserve a proposito del Vaticano II».
Riserve che i vescovi svizzeri, tedeschi e francesi rifiutano: «In nessun caso il concilio Vaticano II sarà negoziabile».
Come precisa una nota della Segreteria di stato: per un futuro riconoscimento della Fraternità «è condizione indispensabile il pieno riconoscimento del concilio Vaticano II» (n.
2).
 Nell’allegato i testi relativi alle posizioni negazioniste del vescovo lefebvriano R.
Williamson (pp.
72-73).

Spiritualità Secolare/ 1: La quotidianità e il suo spessore

Il ritorno su di sé è ritorno all’interiorità, popolata di presenze e sollecitazioni.
Coglie l’attimo che si vive, ma raccoglie anche lo spessore dell’esperienza passata e gli stimoli della progettualità futura, cui l’orizzonte terreno risulta insufficiente.
Il raccoglimento consente di rendersene conto; di avvertire la ricchezza di relazionalità e di stimoli di cui si vive.
E dunque di misurare lo spessore dell’esistenza che vi fluisce incessantemente.
La novità sta nel prendere coscienza di sé attraverso e oltre le sollecitazioni di cui la vita è intessuta: mirare al cuore dell’esistenza oltre le indicazioni che vengono dalla periferia, dalle situazioni… E anche prendere atto che l’esperienza concreta è intessuta di tutte quelle relazionalità, vive di queste, a queste si appassiona; con ciò imprime intensità e qualità al vivere quotidiano.
E proprio al cuore dell’esperienza, avvertita in tutto il suo spessore, s’innesta la domanda religiosa, come progressiva consapevolezza di fondamentale aspirazione alla trascendenza, al dialogo con Dio.
Il dialogo che si instaura nella fede offre una traccia diversa, straordinariamente illuminante al vivere quotidiano: legge la realtà sotto lo stimolo e alla luce chiarificatrice della Parola di Dio.
Recentemente l’attenzione alla situazione consueta di vita ha suscitato nella Chiesa una vocazione singolare – la consacrazione negli Istituti secolari -: una dedizione piena al saeculum appunto per leggerlo alla luce di Dio.
O meglio per esplorare i segni della sua presenza nella consuetudine quotidiana.
Interpreta il presagio per rivelare il volto che si cela dietro il presagio.
Parte dunque dal mondo per leggere la propria esperienza interiore: constatarvi e far emergere le tracce della sua arcana presenza nella trama sottile della quotidianità.
Sul far della sera, sulla panchina al margine della strada che circonda la Casa, di fronte alla distesa della campagna, al rumore vasto e sordo del Raccordo Anulare, al trepidare indefinito della natura, la brezza sottile di aria tiepida mi risveglia al richiamo dell’ora che trascorre e vorrei fermare, per fissare l’attimo che vivo nella suggestione della sera, del giorno e della… vita.
Il ritorno calmo sulla propria vita, sull’attimo e la sua pienezza, sulla brezza che mi sfiora sono un dono; sottendono un indefinito senso di benessere che avvolge, quasi rechi il sorriso di una presenza amica e arcana.
Piccola cosa la brezza ma la sua percezione sottile e vibrante diventa sensazione che attraversa la persona, la risveglia a consapevolezza dell’esistenza che fluisce, pur scandita da piccole situazioni, per lo più inavvertite.
La brezza mi sfiora, mi consente di percepirmi vivo, situato in un mondo in cui sono immerso, che è il mio mondo, di cui posso godere e di cui di fatto godo: mi appartiene.
Le cose di cui è popolato, le persone che lo animano entrano come componenti preziose e sempre nuove in un orizzonte che mi identifica: posso portare l’attenzione su qualcuna di loro, dare accesso privilegiato a chi voglio, godere della sua presenza o sottrarmi al suo richiamo.
Il momento che vivo ha uno spessore singolare, di cui per lo più non mi accorgo.
Cosa significa viverlo in pienezza? Raccogliere le fila complesse che si intersecano, privilegiando una certa configurazione che liberamente elaboro…?

VI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Lectio – anno b Prima lettura: Levitico 13,1-2.45-46 Il Signore parlò a Mosè e ad Aronne e disse: «Se qualcuno ha sulla pelle del corpo un tumore o una pustola o macchia bianca che faccia sospettare una piaga di lebbra, quel tale sarà condotto dal sacerdote Aronne o da qualcuno dei sacer-doti, suoi figli.
Il lebbroso colpito da piaghe porterà vesti strappate e il capo scoperto; velato fino al labbro superiore, andrà gridando: “Impuro! Impuro!”.
Sarà impuro finché durerà in lui il male; è impuro, se ne starà solo, abiterà fuori dell’accampamento».
I capitoli 11-15 del libro del Levitico, di cui fa parte questo brano sono chiamati dagli esegeti «codice di purità» (in parallelismo con i capitoli 17-26, chiamati «codice di santi-tà»).
Il nome è giustificato dal fatto che, in questa sezione, vengono elencate le realtà che avvicinavano a Dio (tutte racchiuse nel nome generico di «puro») e quelle che a Dio si op-pongono o da Dio allontanano (come le malattie e la morte, ma anche fenomeni come il parto o fenomeni legati al ciclo della femminilità ecc.: queste vengono racchiuse nel nome generico di «impuro»).
Anche la lebbra rientra in queste realtà negative, anzi vi entra in modo esemplare perché il termine ebraico che la definisce — negàh, «colpire» — è diventa-to sinonimo della «piaga» per eccellenza che allontana da Dio e mediante la quale Dio pu-nisce.
Bisogna, tuttavia, notare che presso l’antico Israele il concetto di lebbra era molto più ampio del nostro.
Infatti, ogni malattia della pelle («arrossamento, pustola, macchia bian-ca») — e le stesse muffe dei muri delle case — venivano considerate come lebbra.
Inoltre questa malattia conduceva a una totale esclusione dalla comunità.
Questo spiega il partico-lare modo di vestire («vesti strappate, capo scoperto, coprirsi la barba») e l’obbligo di abi-tare fuori dall’accampamento o dall’abitato e di segnalare la propria presenza, per evitare di contagiare gli altri (il lebbroso deve gridare: «Impuro! Impuro!»).
Seconda lettura: 1Corinzi 10,31-11,1 Fratelli, sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio.
Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio; così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo.
Il breve brano proposto contiene la conclusione della trattazione di alcuni problemi che assillavano la comunità cristiana di Corinto.
Vivendo in ambiente pagano e idolatra, più in particolare i problemi riguardavano la partecipazione ai sacrifici pagani e all’eucaristia e il mangiare le carni offerte in sacrificio agli idoli (chiamate con termine greco «idolotìti» dal verbo thyo, «sacrificare»).
Queste carni venivano distribuite e offerte come cibo nel ban-chetto che seguiva al sacrificio, ma venivano anche vendute nei mercati.
Paolo dà questo consiglio: se il cristiano viene invitato a un banchetto e non e al corren-te della provenienza delle carni che gli vengono offerte in cibo, ne può mangiare (al ri-guardo Paolo cita, come giustificazione il Salmo 24,1: «Del Signore è la terra e tutto ciò che contiene»).
Se invece il cristiano sa che le carni provengono dai sacrifici offerti dai pagani agli idoli, se ne deve astenere.
Ciò viene motivato dal fatto che si potrebbe dare occasione di scandalo a chi è ancora «debole» nella fede («Non siate motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla Chiesa di Dio»).
L’astensione dall’assumere queste carni è motivo per il cristiano di testimoniare aperta-mente la fede nell’unico vero Dio e di esprimere la sua opposizione al culto degli idoli, as-sai fiorente nella città di Corinto.
Su tutto, però, deve prevalere il principio della ricerca di Dio e della sua gloria e non il proprio tornaconto: «Sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio».
La vita, l’opera e il comporta-mento di Paolo stesso sono il modello di questa ricerca di Dio su tutto: «Così come io mi sforzo di piacere a tutti in tutto, senza cercare il mio interesse ma quello di molti, perché giungano alla salvezza.
Diventate miei imitatori, come io lo sono di Cristo».
Vangelo: Marco 1,40-45 In quel tempo, venne da Gesù un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!».
E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato.
E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro».
Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.
Esegesi Lo sfondo del brano evangelico è quello della prima lettura, dedicata alla descrizione del significato negativo della lebbra all’interno della comunità israelitica e alle precauzioni da assumere nei suoi confronti.
Ma lo sfondo è anche quello «teologico» del vangelo di Marco, nel quale i miracoli di Gesù vengono presentati con lo scopo di condurre i suoi contemporanei a riconoscere in lui il Figlio di Dio.
Quanto allo sfondo biblico, è interessan-te notare come ancora ai tempi di Gesù fossero in vigore le norme del libro del Levitico, che per i lebbrosi contemplavano l’emarginazione, l’esclusione dalla comunità, un vestito e un comportamento particolari (vedi la prima lettura), cioè la morte civile e religiosa.
Il leb-broso del vangelo infrange queste norme «andando» da Gesù, quindi rompendo l’isola-mento.
E Gesù stesso infrange queste norme, quando «tocca» il lebbroso.
Toccare chi era colpito dalla lebbra, significava infatti essere dichiarato immondo, con conseguenze gravi per la vita religiosa.
«Se vuoi, puoi purificarmi!»: il lebbroso ha la percezione che solo Gesù, con i poteri e l’au-torità che sta dimostrando attraverso i miracoli, ha la capacità di guarirlo dalla lebbra.
Nessun altro può restituirlo alla vita civile e quotidiana, perché la legge è rigorosissima.
Questa percezione diventa fede quando, nel suo significato più profondo, la lebbra è vista come immagine del peccato, che emargina l’uomo da Dio e dalla comunità di fede.
Solo Gesù ha la capacità di salvare.
I verbi di miracolo («guarire, sanare») nei vangeli diventano perciò i verbi della fede («salvare, convertire a Dio»).
«Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò»: con questi verbi appare in pienezza l’umanità di Gesù, che si ribella allo stato di emarginazione in cui venivano relegati i lebbrosi.
È, questo, un progresso nel riconoscimento della dignità dell’uomo che versa nella malattia, un progresso che solo il vangelo può favorire e ancora oggi propone di fronte alle più sva-riate emarginazioni a cui viene condannato l’uomo debole, indifeso, ammalato.
«Ammonendolo severamente»: Gesù ha la consapevolezza di aver trasgredito la legislazio-ne del Levitico e per questo si dimostra severo con il destinatario del miracolo di guarigio-ne.
Ma ha pure la consapevolezza di aver ridato vita, gioia, felicità, comunità, casa, fami-glia, affetti, a chi ingiustamente veniva emarginato.
Gli esegeti — in riferimento anche a quanto è detto nel v.
14 («Guarda di non dire niente a nessuno») — vedono qui un’allusio-ne al cosiddetto «segreto messianico».
Gesù cioè non vuole essere riconosciuto Messia at-traverso i gesti miracolosi che compie, ma soprattutto nell’umiliazione della croce.
«Va’, invece, a mostrarti al sacerdote»: secondo le norme del Levitico (capitoli 13-14) erano i sacerdoti a stabilire la presenza della lebbra, a ratificare le norme da applicare nei con-fronti del lebbroso e a dichiararne anche l’avvenuta guarigione.
Forse Gesù vuole anche far capire ai sacerdoti che la legislazione del Levitico ha ormai esaurito la propria funzione ed è tempo di chinarsi con più amore e compassione su chi soffre ed è emarginato.
Meditazione   Il vangelo di questa domenica ci presenta un altro racconto di guarigione.
Dopo l’inde-moniato nella sinagoga di Cafarnao (Mc 1,21-28) e la suocera di Simone (Mc 1,29-31), è ora la volta di un lebbroso.
Questo personaggio, con tutto il suo carico di sofferenza e di soli-tudine, compare all’improvviso sulla scena («Venne da Gesù un lebbroso»: così inizia il nostro brano, senza alcuna indicazione di luogo e di tempo, e senza nemmeno esplicitare il nome di Gesù) andando direttamente incontro a Gesù, nella fiduciosa speranza di venire risanato.
Conosciamo la condizione particolarmente pesante in cui era costretto a vivere colui che era stato colpito dalla lebbra.
Per rendersene maggiormente conto basterebbe ri-leggere i capitoli 13-14 del libro del Levitico (di cui la prima lettura ci offre qualche passo) che contengono una serie di norme molto precise volte a salvaguardare la comunità dal ri-schio del contagio e, di conseguenza, a emarginare e bandire da ogni consorzio umano il lebbroso.
La lebbra, oltre a essere considerata effetto di un castigo divino, rende «impuri» e quindi impossibilitati ad accedere al culto e a ogni pratica rituale.
«Impuro! Impuro!» (Lv 13,45) deve gridare il lebbroso, quasi a rafforzare con la sua stessa voce la condizione umi-liante e infamante che è costretto ad assumere.
Ebbene quest’uomo, escluso totalmente dalla società civile e religiosa e gettato nell’iso-lamento e nel disprezzo più grande, ha l’audacia di avvicinarsi a Gesù e di lanciargli u-n’umilissima e fiduciosa preghiera: «Se vuoi, puoi purificarmi!».
Egli fa appello alla volontà di Gesù («se vuoi») e alla sua potenza («puoi»), sapendo che la sua guarigione dipende esclu-sivamente da un semplice atto di volontà del suo interlocutore.
È una preghiera bellissima! Quel «se» dice, infatti, tutta la discrezione di chi chiede qualcosa lasciando però all’altro la libertà di soddisfare o meno la richiesta fatta, e, nello stesso tempo, è una parola che in qualche modo obbliga l’altro a svelarsi, a dare una risposta, a rendere palese il suo deside-rio.
È come se quel lebbroso dicesse a Gesù: qual è il tuo desiderio, la tua volontà su di me? Vuoi la mia sofferenza o la mia guarigione? Di fronte a una simile richiesta non si può rimanere indifferenti.
E il testo ci fa subito conoscere la reazione di Gesù, che è descritta dapprima come un impeto di commozione («ne ebbe compassione») e poi come un gesto che, nella sua plasticità, rivela la volontà di vincere ogni distanza e separazione («tese la mano, lo toccò»).
Ciò che Gesù prova è un sentimento che lo tocca fin nel profondo delle viscere, è qualcosa che fa vibrare tutto il suo essere, che lo scuote sensibilmente.
È, pos-siamo dire, il «fremito» di chi sente il dolore dell’altro e vuole, nella misura del possibile, far-sene carico.
È altamente significativo il modo con cui Gesù opera la guarigione.
Non si limita a pro-ferire una parola risanatrice – come aveva fatto in altri casi -, ma compie un gesto che lo fa entrare in contatto anche fisico con il lebbroso: Gesù lo «tocca», tocca colui che tutti evita-no, senza il timore di contaminarsi.
Questo tocco, che vince le separazioni e le barriere in-nalzate dagli uomini – anche in nome di una legge santa -, pone fine alla segregazione del lebbroso e lo reintegra nella comunità degli uomini, ripristinando gli interdetti canali della comunicazione e della relazione (forse si può scorgere qui una punta polemica contro i sa-cerdoti, che si limitavano a stilare certificati di malattia o di purificazione, senza però ado-perarsi concretamente in favore della guarigione).
Risanare un lebbroso per la tradizione ebraica era come risuscitare un morto e i vangeli lo indicano come uno dei segni dell’av-vento del Regno.
Dove il Regno si fa vicino tutto rifiorisce e riprende vita; dove irrompe la novità di Dio tutto rinasce e si rinnova.
La volontà di Dio sull’uomo è unicamente volta al bene e alla vita: «Lo voglio, sii purificato!» (v.
41).
La conclusione del racconto non è priva di qualche sorpresa.
Anzitutto, il lebbroso risa-nato non obbedisce assolutamente all’ordine di Gesù, che lo ammoniva a mantenere il si-lenzio e a presentarsi al sacerdote per la conferma dell’avvenuta guarigione (v.
44), ma, al-lontanatosi, «si mise a proclamare e a divulgare il fatto» (v.
45a).
È tale il fervore con cui diffonde e divulga la notizia, da attirare una folla considerevole a Gesù: «E venivano a lui da ogni parte» (v.
45b).
Marco fa dunque di questo risanato «il primo missionario» (R.
Pesch), colui che, senza volerlo e quasi contro la volontà di Gesù, diventa il primo testi-mone e annunciatore (è usato qui il termine kērýssein, che è quello tecnico dell’«annuncio») di quella Parola che comincia a compiere la sua corsa tra i villaggi della Galilea.
Colpisce, inoltre, l’inversione di ruoli tra il lebbroso e Gesù: il lebbroso risanato può tornare a vivere entro la comunità degli uomini, mentre Gesù è costretto «a rimanere fuori, in luoghi deser-ti».
Anche questo fa parte del modo con cui Gesù si fa carico della sofferenza altrui…
Da ultimo, possiamo ricordare che la tradizione cristiana ha sempre letto nella guari-gione dalla lebbra il segno di una guarigione più radicale: quella dal peccato (lo testimonia anche la scelta del salmo 31 come salmo responsoriale).
Il peccato, come la lebbra, separa, divide, rende estranei a Dio e ai fratelli.
Solo manifestandolo apertamente a Dio e appel-landoci alla sua potenza possiamo sperare di esserne purificati e ritrovare così la comu-nione con Lui e con i fratelli.
La sofferenza come maestra Un giorno, un medico che ha lavorato per molti anni in un lebbrosario ha esclamato: “Sia ringraziato Iddio per il dolore!”, poiché il motivo per cui i lebbrosi perdono le dita, gli arti e persino gli elementi che compongono il volto non è la malattia di Hansen (la lebbra), bensì l’assenza di sensibilità, l’intorpidimento, l’incapacità di provare dolore.
Un lebbroso può facilmente scavarsi la carne delle dita girando una chiave in una serratura che offre resistenza, senza accorgersi che si sta tagliando; può non accorgersi che un’infezione sta invadendo la sua carne straziata finché non gli cadono le dita.
Non ha alcuna sensazione, né prova dolori che lo avvertono.
Un lebbroso potrebbe tenere in mano il manico bollente di una pentola posta sul fuoco, senza accorgersi che si sta bruciando la mano, poiché non ha né sensibilità né dolori che lo rendono cosciente del pericolo.
Perciò sia ringraziato Id-dio per il fatto di avere sensazioni e dolori, dal momento che, spesso, ci avvertono della presenza di un pericolo e di un male.
Allo stesso modo, talvolta i vari disagi di cui facciamo esperienza ci mettono in guardia contro i nostri atteggiamenti distorti e paralizzanti.
Resta il fatto che possiamo imparare le lezioni del dolore solo quando l’allievo è pronto.
E ciò significa che dobbiamo essere di-sposti a calarci nel nostro dolore, per cercare di trarne la lezione; significa che dobbiamo reprimere l’istinto che ci spinge a fuggirlo; significa che dobbiamo rifiutare qualsiasi incli-nazione a intorpidirci nell’insensibilità pur di non sentire nulla.
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 148).
«Se vuoi, puoi purificarmi!» Chi supplica la volontà, non dubita del potere.
E stendendo la mano Gesù lo toccò e disse: «Lo voglio: sii mondato».
E sull’istante fu mondato dalla sua lebbra (Mt 8,3).
Appena il Signore stende la mano, subito la lebbra scompare.
Ma osserva anche quanto sia umile e immune da vanità la sua risposta.
Il lebbroso aveva det-to: «Se tu vuoi», e il Signore risponde: «Lo voglio».
Il lebbroso aveva detto: «Puoi mon-darmi», e il Signore replica dicendo: «Sii mondato».
Non dobbiamo congiungere le due parti della risposta, come credono molti latini, che leggono: «Ti voglio mondare»; dobbia-mo tenerle separate, sicché egli prima dice: «Lo voglio», e poi, dando un ordine: «Sii mon-dato».
E Gesù disse: «Guardati dal dirlo ad alcuno» (Mt 8,4).
E, in verità, che necessità aveva il lebbroso di fare tanti discorsi sulla sua guarigione, quando il suo corpo guarito parlava per lui? «Ma va’, mostrati ai sacerdoti e presenta l’offerta che Mosè ha prescritto, affinché serva a loro di testimonianza» (Mt 8,4).
Per varie ragioni lo manda ai sacerdoti.
In primo luogo, per un atto di umiltà, affinché cioè il lebbroso risanato rendesse onore ai sacerdoti: era infatti prescrit-to dalla legge che coloro che venivano mondati dalla lebbra presentassero un’offerta ai sa-cerdoti.
Poi perché i sacerdoti, vedendo che il lebbroso era stato mondato, potessero crede-re al Salvatore, oppure si rifiutassero di farlo: se avessero creduto sarebbero stati salvi; se si fossero rifiutati di farlo, la loro colpa sarebbe stata senza attenuanti.
E infine perché si rendessero conto che egli non infrangeva la legge, cosa di cui tanto spesso lo accusavano.
(SAN GIROLAMO (+ 419/420), Commento al Vangelo di Matteo I, 8,2-4, in GIROLAMO, Commento al Vangelo di Matteo, Roma, Città Nuova Editrice, 1969, 63-64).
Dalla Leggenda Maggiore Un giorno mentre il giovane Francesco andava a cavallo per la pianura che si stende ai piedi di Assisi, si imbatté in un lebbroso.
Quell’incontro inaspettato lo riempì di orrore, ma ripensando al proposito di perfezione, già concepito nella sua mente, e riflettendo che, se voleva diventare cavaliere di Cristo, doveva prima di tutto vincere se stesso, scese da cavallo e corse ad abbracciare il lebbroso e, mentre questo stendeva la mano come per ricevere l’elemosina, gli porse del denaro e lo baciò.
San Francesco, la fede e la vista dei lebbrosi Nel “Testamento” redatto (o meglio dettato) da Francesco, si trova una frase che pare essere la chiave di comprensione della vita di questo giovane: «Quando ero nei peccati, mi sembrava cosa troppo amara vedere i lebbrosi, e il Signore stesso mi condusse tra loro e con essi usai misericordia»(Cf.
Fonti Francescane, Padova 2004, n.
110).
«E ciò che mi sembrava amaro continua il testo mi fu cambiato in dolcezza di animo e di corpo».
Ciò che fece scattare la conversione di Francesco fu dunque la vista dei lebbrosi.
Egli si lasciò condurre dal Signore, e ciò che prima gli appariva ripugnante gli si cambiò in dolcezza.
Da questa storia emerge un’altra immagine di Dio che è un’altra immagine dell’uomo.
Quando è in crisi l’immagine di Dio è in crisi l’uomo, e viceversa.
Dobbiamo dunque alimentare la nostra fede sposando la causa degli ultimi, come fece otto secoli fa Francesco, e non per semplice carità cristiana e nemmeno soltanto per un senso di giusti-zia.
La nostra unica giustizia non è altro che Cristo, che ci sprona e ci possiede.
Il nostro senso di giustizia, infatti, è sempre storicamente determinato e, quando l’avessimo realiz-zato, ci troveremmo magari a essere oppressori degli ultimi (ieri lebbrosi soltanto, oggi lebbrosi ammalati di AIDS).
La nostra immagine di giustizia è una nostra via, ma le vie della giustizia di Dio non sono le nostre vie.
La nostra via, e qui è sempre Paolo a ricordar-lo, è il Cristo «crocifisso per la sua debolezza» (2Cor 13,4), perciò io devo compiacermi «nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce soffer-te per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,10).
Restituire a Dio la sua santità, abolendo le immagini letterarie o scientifiche che presumono di tradurlo, non vuol dire cadere in un fideismo cieco.
Chi parla di Dio con sicurezza da professore è po-tenzialmente un uomo iniquo.
Solo se c’è adorazione, tremore, incapacità a volte di dire chi è Dio se non vedendolo nell’aspetto repellente del lebbroso, allora c’è anche rispetto per l’uomo.
Francesco trovò la fede, e quindi la verità, sotto la santità e la durezza della croce, nel volto sfigurato dei malati.
Ritrovare la fede, dunque, significa, sul piano storico, farsi garanti della libertà e della vita della persona; abolire tutte le barriere, tutte le discri-minazioni consumate sulla stessa vita umana nello sterile e misero dibattito su ciò che è vi-ta e ciò che vita non è; riconoscere che vita è sinonimo di giovinezza perenne dello spirito, indipendentemente dagli anni o dalla condizione fisica o sociale, respingendo le cataloga-zioni che rendono ancora così disumana la nostra società postmoderna.
Da persone come Paolo e Francesco inizia un discorso che va lasciato al silenzio di o-gnuno, ma che non può risolversi se non in un rinnovato impegno ad adoperarsi perché cambi questa società e sia non un luogo di divisioni e di conflitti, ma di unione nel Cristo, segno di unità tra tutti gli uomini.
Non di competizione e conflittualità parlano Paolo e Francesco, ma di animazione cristiana interna al cammino storico fino alle prospettive che superano miti e dualismi e si identificano con l’eterna comunione con quel Dio che sarà un giorno Tutto in tutti.
(Franco CAREGLIO, San Paolo e San Francesco, giovani per i secoli, in «Paulus» (2009) 2).
Coraggio, fratello che soffri Nel Duomo vecchio di Molfetta c’è un grande crocifisso di terracotta.
Il parroco, in atte-sa di sistemarlo definitivamente, l’ha addossato alla parete della sagrestia e vi ha apposto un cartoncino con la scritta: collocazione provvisoria.
Collocazione provvisoria.
Penso che non ci sia formula migliore per definire la croce.
La mia, la tua croce, non solo quella di Cristo.
Coraggio.
La tua croce, anche se durasse tut-ta la vita, è sempre «collocazione provvisoria».
Anche il Vangelo ci invita a considerare la provvisorietà della croce.
C’è una frase immensa, che riassume la tragedia del creato al momento della morte di Cristo: «Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio, si fece buio su tutta la terra».
Ecco le sponde che delimitano il fiume delle lacrime umane.
Ecco le sara-cinesche che comprimono in spazi circoscritti tutti i rantoli della terra.
Ecco le barriere en-tro cui si consumano tutte le agonie dei figli dell’uomo.
Da mezzogiorno alle tre del pomeriggio.
Solo allora è consentita la sosta sul Golgota.
Al di fuori di quell’orario, c’è divieto assoluto di parcheggio.
Dopo tre ore, ci sarà la rimozio-ne forzata di tutte le croci.
Una permanenza più lunga sarà considerata abusiva anche da Dio.
Coraggio, fratello che soffri.
C’è anche per te una deposizione dalla croce.
C’è anche per te una pietà sovrumana.
Ecco già una mano forata che schioda dal legno la tua.
Ecco un volto amico, intriso di sangue e coronato di spine, che sfiora con un bacio la tua fronte feb-bricitante.
Ecco un grembo dolcissimo di donna che ti avvolge di tenerezza.
Tra quelle braccia materne si svelerà, finalmente, tutto il mistero di un dolore che ora ti sembra un assurdo.
Coraggio.
Mancano pochi istanti alle tre del tuo pomeriggio.
Tra poco, il buio cederà il posto alla luce, la terra riacquisterà i suoi colori verginali e il sole della Pasqua irromperà tra le nuvole in fuga.
(Don Tonino Bello) Che significato ha una malattia nel corso della vita? Sono molti i fattori che fanno ammalare gli alberi, ancora di più quelli che debilitano gli uomini.
Quando, in un albero, la malattia va troppo in là è difficile salvarlo: marciscono le radi-ci, si gonfia il tronco, il ricambio si interrompe e le foglie cadono private della linfa.
Quando si ammala un uomo si pensa subito a un virus o a un batterio, che probabil-mente c’è, ma nessuno si chiede da dove viene, come mai si e insinuato là dentro, perché proprio oggi e non un mese fa, in quella persona e non in quell’altra che magari era molto più esposta al rischio di un contagio? Perché, a parità di cure, uno guarisce e un altro soc-combe? Basta che un fulmine sfiori la corteccia di una quercia secolare per innescarne la distru-zione, in quel varco si insinuano batteri, funghi e coleotteri destinati in breve a propagarsi a discapito della sua vita.
Gli alberi da frutto diventano fragili quando perdono la verticalità: un pino può cresce-re anche se è piegato dal vento ma non un albicocco: è la perpendicolarità perfetta al suolo a permettergli di vivere e fruttificare.
Per distruggere un uomo, per farlo ammalare, invece, cosa ci vuole? E per guarirlo? Che significato ha una malattia nel corso di una vita? Dannazione? sfortuna? o forse un’occasione improvvisa, un dono prezioso che il cielo ci offre? (Susanna TAMARO, Ascolta la mia voce, Milano, Rizzoli, 2006, 129-130) Insegnaci a non amare solo noi stessi Insegnaci, Signore, a non amare solo noi stessi, a non amare soltanto i nostri cari, a non amare soltanto quelli che ci amano.
Insegnaci a pensare agli altri, ad amare anzitutto quelli che nessuno ama.
Concedici la grazia di capire che in ogni istante, mentre noi viviamo una vita troppo felice e protetta da te, ci sono milioni di esseri umani, che pure sono tuoi figli e nostri fratelli, che muoiono di fame senza aver meritato di morire di fame, che muoiono di freddo senza aver meritato di morire di freddo.
Signore abbi pietà di tutti i poveri del mondo; e non permettere più, o Signore, che viviamo felici da soli.
Facci sentire l’angoscia della miseria universale e liberaci dal nostro egoismo.
(Raoul Follereau)

Corsi di Iconografia bizantina

Calendario Corsi Iconografia 2009 L’Arte di scrivere la Parola Vedere Dio è la speranza di ogni credente.
L’icona è il viatico di questa visione.
Nei corsi del Forum Europeo di Iconografia Cristiana imparare a scrivere un’icona non è soltanto un “fare”, ma anzitutto un inoltrarsi nella fede.
Pochi giorni bastano appena per scoprire il mistero della tecnica, dell’estetica e della teologia delle icone, ma possono disvelare l’epifania del volto dell’Assoluto.
A conclusione dell’Anno Paolino CORSO DI ICONOGRAFIA PAOLINA Formula week-end Tutti i 5 week-end di maggio 2009 Villa Clerici – Milano CORSO DI ICONOGRAFIA PAOLINA Formula residenziale (10 giorni) 20-29 giugno 2009 Monastero Benedettine – Pontasserchio (Pisa) CORSO DI ICONOGRAFIA BIZANTINA per allievi avanzati L’ANNUNCIAZIONE 14-23 luglio 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) CORSO DI ICONOGRAFIA MARIANA 06-15 agosto 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) CORSI MONOGRAFICI DI PERFEZIONAMENTO per allievi avanzati IL DISEGNO E LA GRAFIA 03-04 ottobre 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) LE LUMEGGIATURE 23-25 ottobre 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) LA DORATURA A MISSIONE 07-08 novembre 2009 Villa Clerici – Milano I COLORI NATURALI 28-29 novembre 2009 Villa Clerici – Milano IL VOLTO 27-30 dicembre 2009 Villa Chaminade Pallanza (Verbania) CORSO DI ICONOGRAFIA BASE 25 agosto – 3 settembre 2009 Santuario di Sant’Ignazio Pessinetto (Torino) CORSO DI ICONOGRAFIA BIZANTINA SCRIVERE GLI ANGELI 10-19 settembre 2009 Oasi San Francesco – La Verna (Arezzo) Per chi vuole essere assistito ad personam durante la realizzazione di una propria icona CORSO “OPEN” PER GLI ALLIEVI ICONOGRAFI Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) 03-05 aprile 2009 Per info e prenotazioni clicca qui       Corsi Residenziali Monografici Week End        

Numeri e Fede/6: Beata matematica

L’intervista al professor Maurizio Brunetti, I Faà di Bruno erano una famiglia di scienziati, di religiosi e di eroi.
Francesco era sacerdote, il fratello Giuseppe era un padre Pallottino e si dedicò alle missioni; quanto a Emilio, morì nella sua nave inabissata a Lissa.
«Il nome di Francesco Faà di Bruno è legato a notevoli contributi, soprattutto a un’elegante formula per il calcolo delle derivate di ordine superiore di una funzione composta.
La sua vita fu talmente avventurosa che se ne potrebbe ricavare un film: militare, musicista, architetto, ingegnere – nel 1856, commosso dalla condizione dei non vedenti, lo era anche la sorella Maria Luigia, progettò e brevettò uno scrittoio per ciechi – e, soprattutto, sacerdote e fondatore di un ordine religioso.
Faà di Bruno era stato allievo di Augustin Louis Cauchy, uno dei padri dell’analisi matematica, anche lui uomo di fede vissuta.
Fu infatti tra i fondatori de l’Association pour la Protection de la Religion Catholique e della Societé Catholique de Bons Livres.
Le opere scientifiche di Cauchy sono state raccolte in 27 volumi.
Un grande scienziato, ma anche un grande uomo che si spendeva in innumerevoli opere di carità e di apostolato culturale: “benché oberato da ogni sorta di occupazioni, trovava il tempo e l’animo per andare a visitare i poveri nei loro tuguri” racconta Faà di Bruno.
Il matematico francese aveva molto a cuore anche la santificazione delle feste: grazie alla sue pressioni, molti negozi furono costretti a chiudere nei giorni festivi permettendo così ai dipendenti di andare a Messa».
Non si parla mai di questi personaggi.
«Eppure sono eccezionalmente interessanti.
Penso al matematico svizzero Leonhard Euler, da noi noto come Eulero.
Di religione protestante, tutte le sere riuniva la numerosa famiglia e leggeva un capitolo della Bibbia.
Eulero racconta di aver compiuto molte delle sue scoperte mentre aveva un bambino in braccio e altri marmocchi che si rotolavano ai suoi piedi.
Matematici credenti sono arcinoti a ogni studente alle prese con gli esami di geometria e analisi matematica.
Per esempio, Jacques Binet, Charles Hermite e anche il boemo Bernard Bolzano, proprio quello del teorema Bolzano-Weierstrass, di cui si ricordano i tentativi per dimostrare logicamente che la religione cattolica – rivelata, e quindi depositaria di risposte alle questioni fondamentali – è quella perfetta, non solo fra le religioni che esistono, ma anche fra tutte quelle pensabili.
Per lui, la religione era “la quintessenza di tutte le verità che ci guidano alla virtù e alla felicità”».
Lei è credente? «Sono cresciuto in Alleanza Cattolica, nutrendomi della sua spiritualità ignaziana.
Il mio non è un caso isolato.
Secondo un’indagine condotta negli Usa, i matematici sono la categoria di scienziati in cui la percentuale di atei è più bassa.
Ma, se è vero che la scienza permette solo a volte di trovare Dio, è però certo che è stato Dio a far trovare all’uomo la scienza».
Questo perché la realtà è conoscibile? «Facciamo una considerazione.
Perché a Newton saltasse in mente di formulare un modello matematico per il moto di una mela che cade a terra, era necessario un presupposto certo: credere che una mela sarebbe sempre caduta con le stesse modalità, un minuto, un giorno o cento anni dopo.
È stato proprio questo presupposto sulla logicità del creato, che è condiviso solo dalle culture occidentali, a permettere alla scienza moderna di nascere e svilupparsi.
L’universo ha le sue leggi, non è capriccioso.
Storici della scienza come Edward Grant e Stanley Jaki hanno individuato nell’avvento del cristianesimo una condizione addirittura necessaria – e, col senno di poi, anche sufficiente – per la nascita della scienza moderna, quella cioè che tralascia ogni considerazione di natura non quantitativa, espungendo deduzioni di carattere filosofico e limitandosi a utilizzare gli strumenti della matematica per l’interpretazione dei dati sperimentali».
Una scienza che, quindi, nasce molto prima del secolo XVII e sboccia già nel Medioevo cristiano.
«La matematica, sia quella più astratta e simbolica, sia quella applicata alla fisica, prende il volo in epoche in cui la temperatura religiosa è alta.
L’algebra vide la luce tra l’ottavo e il nono secolo nel mondo islamico e, prima che prevalesse la prospettiva teo-filosofica dei mutakallimum – secondo cui l’enunciazione di una legge fisica sarebbe in contraddizione con l’onnipotenza di Allah -, furono anche pubblicati dei manuali di dinamica dei fluidi.
Nell’Europa medievale cristiana, appartenevano alla matematica due delle quattro discipline del quadrivium, cioè l’aritmetica e la geometria.
La nascita della scienza moderna va perciò anticipata almeno di qualche secolo.
Fino a poco tempo fa, se ne festeggiava il compleanno ricordando la pubblicazione nel 1687 dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton.
Certo, quest’opera è in tutti i sensi moderna.
Tuttavia Newton riconobbe, facendo proprio l’aforisma medievale di Bernardo di Chartres, di essere “un nano sulle spalle di giganti”.
Questi giganti, oggi, sono stati identificati: Giordano Nemorario, che nel secolo XIII aveva già formulato le leggi della statica; Nicola Oresme, che aveva risolto l’obiezione più forte contro l’ipotesi di una Terra in movimento; Giovanni Buridano, che formulò la nozione di “forza a distanza”, arrivata a Newton attraverso Alberto di Sassonia, Leonardo da Vinci, Giambattista Benedetti e Galileo Galilei».
Avvenire 9 Gennaio 2009 Luigi Dell’Aglio Una lista di grandissimi matematici della storia, che sono stati credenti in modo fervido e autentico.
Sono tanti, e di loro non si parla quasi mai.
Ecco la risposta argomentata e “sperimentale” che va data a chi dubita che si possa essere, al tempo stesso, matematici e credenti».
Il professor Maurizio Brunetti, matematico specializzatosi in Gran Bretagna e ora docente all’Università Federico II di Napoli, non si ferma a Ennio De Giorgi (1928-1996), genio e trascinante uomo di fede.
Brunetti risale agli ultimi tre secoli.
E va anche più indietro.
Nella lista non include Leibniz, Newton o Cartesio, che certamente non erano atei; nell’elenco iscrive invece quei matematici la cui fede attiva si esprimeva con scelte di vita che la rendevano particolarmente riconoscibile.
E colloca al primo posto il torinese Francesco Faà di Bruno (1825-1888), che la Chiesa ha proclamato beato nel 1988.

Il concordato e i cattolici

Aspettative nell’imminenza dei Trattati e commenti subito dopo la firma colti da alcuni celebri epistolari dell’epoca.
[lettera di Giovanni Battista Montini ai familiari, 19 gennaio 1929] Si fa sempre un gan discorrere su una cosiddetta imminente soluzione della questione romana; e la soluzione, per attesa e lusinghiera che sia alle due parti, sembra non essere priva d’un certo aspetto ridicolo per entrambi: valeva la pena di protestare sessant’anni a quel modo per così (così? almeno come si dice nella chiacchera) esiguo risultato? E valeva la pena di far tanta professione d’indipendenza per poi cedere sul principio territoriale? Certo non è tutto qui: la cosa può essere tra le più grandi della storia nostra e anche tra le più belle.
Ma è strano che chi più ha atteso questo momento, fra la gente perbene, sia ora meno disposto a goderne; non per una sopravvivenza di consuetudinaria protesta, ma per il sospetto di peggiori eventuali condizioni.
Se la libertà del Papa non è garantita dalla forte e libera fede del popolo, e specialmente di quello italiano, quale territorio e quale trattato lo potrà? Ora sembra che i tempi che corrono e gli uomini che comandano siano tutt’altro che ben intenzionati per il rispetto di quella forza morale e spirituale del popolo.
Proprio in questi giorni, per dirne una, la nostra Fuci sta subendo nuove e – ahimé! – assai legali vessazioni che sono indici di propositi tutt’altro che rassicuranti per il bene della Chiesa.
Io spero e prego che le trattative, se vi sono realmente, tengano conto di questo; e dovrei anche crederlo, se con ciò ha connessione un’accentuata vigilanza sui nostri poveri casi.
Bisogna indubbiamente pregare molto perché il Signore assista la Chiesa di Roma in questi frangenti e non permetta al Suo Capo di acquistare una terrena libertà con la perdita di quella spirituale, sua e dei suoi figli.
Ma questi sono commenti sulle rime obbligate dei discorsi romani e delle mie piccole preoccupazioni.
Lasciamoli stare.
[risposta del padre, Giorgio Montini, 26 gennaio 1929] Per quanto scrivi, vedo le cose precisamente come le vedi tu; cogli stessi dubbi, gli stessi desideri, le medesime preoccupazioni: e se dovessi dir io una parola in argomento avrei sul cuore un bel peso.
Ma c’è chi deve pensare e provvedere, e noi dobbiamo attendere con fiducia piena, e partecipare frattanto con una intensificazione di preghiere.
Vecchio come sono, ho avuto agio di assistere a tanti e tali avvenimenti che si svolgevano tempestosamente e confluivano per vie inattese a bene e gloria della Chiesa e a profitto dei suoi fedeli, che anche dai tetti in giù non so essere pessimista.
Ciascuno di noi faccia giorno per giorno tutto il bene che può, umilmente e fervidamente: stiamo tutti indefettibilmente congiunti alla Pietra che non crolla.
E poi basta.
Vi saranno lotte, sempre; ma la vittoria sarà dei buoni, sempre.
Seguo il tuo lavoro, e prego il Signore che ti dia lume e forza e conforto.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Paolo VI:«Un felice epilogo morale e spirituale» Parve un crollo; e per il dominio territoriale pontificio lo fu; e parve allora, e per tanti anni successivi, a molti ecclesiastici ed a molti cattolici non potere la Chiesa romana rinunciarci, e accumulando la rivendicazione storica della legittimità della sua origine con l’indispensabilità della sua funzione, si pensò doversi quel potere temporale ricuperare, ricostituire.
E sappiamo che ad avvalorare questa opinione per cui fu così travagliata e priva delle più cospicue sue forze, quelle cattoliche, la vita politica italiana, fu l’antagonismo sorto tra lo Stato e la Chiesa.
Parole concilianti, ma seguite da contrari fatti severi, non valsero a rassicurare il papato che privato, anzi sollevato, dal potere temporale, avrebbe potuto esplicare egualmente nel mondo la sua missione; tanto più che nell’opinione pubblica a lui avversa era diffusa la convinzione, anzi la triste speranza, che la secolare istituzione pontificia sarebbe caduta, come ogni altra istituzione puramente umana, col cadere dello sgabello terreno sul quale appoggiava da tanti secoli i suoi piedi, voglio dire la sua presenza politica nel mondo e la sua sempre mal difesa indipendenza.
Ma la Provvidenza, ora lo vediamo bene, aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti.
Il Concilio Vaticano I aveva infatti da pochi giorni proclamato somma ed infallibile l’autorità spirituale di quel papa che praticamente perdeva in quel fatale momento la sua autorità temporale.
Il papa usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma, com’è noto, fu allora che il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai.
Oggi ci è difficile e quasi molesto comprendere le passioni che tanto commossero e amareggiarono le vicende di quel tempo e degli anni successivi.
Qualche cosa mancò alla vita italiana nella sua prima formazione, non foss’altro la sua interiore unità, la sua consistenza spirituale, la sua umanità patriottica, e di conseguenza la sua piena capacità a risolvere i problemi della sua società disuguale, tanto bisognosa di nuovi ordinamenti, e già fin d’allora attraversata da fiere correnti agitatrici e sovversive.
Per nostra fortuna abbiamo raggiunto una soddisfacente composizione con la famosa conciliazione del 1929 e con l’affermazione della libertà e della democrazia nel nostro Paese.
[il cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, in un discorso in Campidoglio, 10 ottobre 1962] Solo solleciti di quella libertà e di quella indipendenza, che consentano alle Nostre spirituali funzioni, nell’Urbe e nel mondo, il loro normale esercizio, sempre convinti, anzi curanti, che questa Nostra dimora romana per nulla contrasti alla sovranità e alla libera espansione della vita civile italiana; Noi vogliamo anzi credere che la Nostra presenza sulla sponda del Tevere non poco conferisca all’amore e all’onore di Roma in tutta la terra.
Esiste oggi una onorata e pacifica condizione di rapporti fra l’Italia e la Sede Apostolica; un delicato e prezioso equilibrio fra Stato e Chiesa è stato raggiunto, com’è ben noto, mediante quei Patti Lateranensi, dei quali la Costituzione Italiana, con sagace e lungimirante visione, ha voluto, mediante particolare, solenne garanzia, assicurare la validità.
A noi pare che questi Patti, il Trattato, cioè, così come il Concordato […] possano essere ricordati con gratitudine a Dio e ad onore del Popolo Italiano nella menzionata ricorrenza centenaria di quel contrastato avvenimento come suo provvido coronamento giuridico e come suo felice epilogo morale e spirituale, non solo locale e temporaneo, ma generale e perpetuo.
[lettera di Paolo VI al Presidente della Repubblica Italiana nel centenario della presa di Roma, 18 settembre 1970] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) De Gasperi: «Fosse stato Papa avrebbe firmato anche don Sturzo» Credo che anche oggi, di fronte a Mussolini che picchiava forte alla porta di bronzo, il Papa non poteva non aprire e, una volta avviata la conversazione e trovato il terreno d’accordo, il suo alto senso di responsabilità, l’entità stessa della questione, lo portavano a conchiudere.
La conclusione è, vista oggi in Italia, un successo del regime, ma vista nella storia e nel mondo è una liberazione per la Chiesa e una fortuna per la Nazione Italiana.
Non si poteva esitare e credo che avrebbe firmato, fosse stato Papa, anche D.
Sturzo.
Per me l’essenza è che la S.
Sede è uscita dal vicolo chiuso delle proteste (vicolo che per sua natura non può essere eterno) ed ha liquidato la questione temporale senza i pericoli e gli aggravi del territorio e le compicazioni di formule internazionali.
[…] Certo ne guadagna il regime, si rinforza cioè la dittatura che dovrebbe pur essere un sistema transitorio, ma questa considerazione non poteva essere decisiva né per la conclusione né a noi per giudicare.
[…] Ma la realtà del sec.
xx non tarderà a farsi sentire, le grandi masse ricompariranno dietro allo scenario.
Auguriamoci che gli uomini di Chiesa non le perdano mai di vista, perché esse sono la realtà di oggi e di domani.
Io lo credo e lo spero, e per questo lieto che la Chiesa si sia liberata – trionfando su altri e su sé stessa – della questione romana, non ho paura di riconoscere anche il valore della politica mussoliniana, valore oggettivo; per il resto è giudice Iddio.
[lettera di Alcide De Gasperi a don Simone Weber, 12 febbraio 1929] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Pubblichiamo alcuni stralci del lungo discorso che Pio XI tenne l’11 febbraio 1929 ai parroci e ai predicatori del periodo quaresimale.
E ora accenniamo a quell’altra circostanza che Ci fa tanto più cara ed opportuna la vostra assistenza e che rende questa adunanza ben altrimenti memorabile e storica che non per le circostanze pur belle e solenni del settimo anniversario dell’incoronazione e dell’anno giubilare.
Proprio in questo giorno, anzi in questa stessa ora, e forse in questo preciso momento, lassù nel Nostro Palazzo del Laterano (stavamo per dire, parlando a parroci, nella Nostra casa parrocchiale) da parte dell’Eminentissimo Cardinale Segretario di Stato come Nostro Plenipotenziario e da parte del Cavaliere Mussolini come Plenipotenziario di Sua Maestà il Re d’Italia, si sottoscrivono un Trattato ed un Concordato.
(…) Non vi aspetterete ora da Noi i particolari degli accordi oggi firmati: oltre che il tempo, non lo permetterebbero i delicati riguardi protocollari, non potendosi chiamare quegli accordi perfetti e finiti, finché alle firme dei Plenipotenziari, dopo gli alti suffragi e colle formalità d’uso, non seguano le firme, come suol dirsi, sovrane: riguardi che evidentemente ignorano o dimenticano coloro che attendono per domani la Nostra benedizione solenne “Urbi et orbi” dalla loggia esterna della Basilica di San Pietro.
Vogliamo invece solo premunirvi contro alcuni dubbi e alcune critiche che già si sono affacciati e che probabilmente avranno più largo sviluppo a misura che si diffonderà la notizia dell’odierno avvenimento, affinché voi, a vostra volta, abbiate a premunire gli altri.
Non conviene che portiate queste cose, come suol dirsi, in pulpito; anzi, non dovete portarvele per non turbare l’ordine prestabilito alla vostra predicazione; ma anche all’infuori di questa, molti verranno a voi, sia per trarre particolare profitto dalla vostra eloquenza, con conferenze e simili, sia per avere anche sull’attuale argomento pareri tanto più autorevoli ed imparziali quanto più illuminati.
Dubbi e critiche, abbiamo detto; e Ci affrettiamo a soggiungere che, per quel che Ci riguarda personalmente, Ci lasciano e lasceranno sempre molto tranquilli, benché, a dir vero, quei dubbi e quelle critiche si riferiscano principalmente, per non dire unicamente, a Noi, perché principalmente, per non dire unicamente e totalmente, Nostra è la responsabilità, grave e formidabile invero, di quanto è avvenuto e potrà avvenire in conseguenza.
(…) Le critiche si divideranno in due grandi categorie.
Gli uni diranno che abbiamo chiesto troppo, gli altri troppo poco.
Forse alcuni troveranno troppo poco di territorio, di temporale.
Possiamo dire, senza entrare in particolari e precisioni intempestive, che è veramente poco, pochissimo, il meno possibile, quello che abbiamo chiesto in questo campo: e deliberatamente, dopo aver molto riflettuto, meditato e pregato.
(…) Volevamo mostrare in un modo perentorio che nessuna cupidità terrena muove il Vicario di Gesù Cristo, ma soltanto la coscienza di ciò che non è possibile non chiedere; perché una qualche sovranità territoriale è condizione universalmente riconosciuta indispensabile ad ogni vera sovranità giurisdizionale: dunque almeno quel tanto di territorio che basti come supporto della sovranità stessa; quel tanto di territorio, senza del quale questa non potrebbe sussistere, perché non avrebbe dove poggiare.
Ci pare insomma di vedere le cose al punto in cui erano in san Francesco benedetto: quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima.
Così per altri Santi: il corpo ridotto al puro necessario per servire all’anima e per continuare la vita umana, e colla vita l’azione benefica.
Sarà chiaro, speriamo, a tutti, che il Sommo Pontefice proprio non ha se non quel tanto di territorio materiale che è indispensabile per l’esercizio di un potere spirituale affidato ad uomini in beneficio di uomini; non esitiamo a dire che Ci compiacciamo che le cose stiano così; Ci compiacciamo di vedere il materiale terreno ridotto a così minimi termini da potersi e doversi anche esso considerare spiritualizzato dall’immensa, sublime e veramente divina spiritualità che è destinato a sorreggere ed a servire.
Vero è che Ci sentiamo pure in diritto di dire che quel territorio che Ci siamo riservati e che Ci fu riconosciuto è bensì materialmente piccolo, ma insieme è grande, il più grande del mondo, da qualunque altro punto di vista lo si contempli.
Quando un territorio può vantare il colonnato del Bernini, la cupola di Michelangelo, i tesori di scienza e di arte contenuti negli archivi e nelle biblioteche, nei musei e nelle gallerie del Vaticano; quando un territorio copre e custodisce la tomba del Principe degli Apostoli, si ha pure il diritto di affermare che non c’è al mondo territorio più grande e più prezioso (…) Altri invece diranno, anzi hanno già detto od accennato, che abbiamo chiesto troppo in altro campo: si capisce, e vogliamo dire nel campo finanziario.
Forse si direbbe meglio nel campo economico, perché non si tratta qui di grandi finanze statali, ma piuttosto di modesta economia domestica.
A costoro vorremmo rispondere con un primo riflesso: se si computasse, capitalizzando, tutto quello di cui fu spogliata la Chiesa in Italia, arrivando fino al Patrimonio di San Pietro, che massa immane, opprimente, che somma strabocchevole si avrebbe? Potrebbe il Sommo Pontefice lasciar credere al mondo cattolico di ignorare tutto questo? Non ha egli il dovere preciso di provvedere, per il presente e per l’avvenire, a tutti quei bisogni che da tutto il mondo a lui si volgono e che, per quanto spirituali, non si possono altrimenti soddisfare che col concorso di mezzi anche materiali, bisogni di uomini e di opere umane come sono? Un altro riflesso non sembrano fare quei critici: la Santa Sede ha pure il diritto di provvedere alla propria indipendenza economica, senza la quale non sarebbe provveduto né alla sua dignità, né alla sua effettiva libertà.
Abbiamo fede illimitata nella carità dei fedeli, in quella meravigliosa opera di provvidenza divina che ne è l’espressione pratica, l’Obolo di San Pietro, la mano stessa di Dio che vediamo operare veri miracoli da sette anni in qua.
Ma la Provvidenza divina non Ci dispensa dalla virtù di prudenza né dalle provvidenze umane che sono in Nostro potere.
E troppo facilmente si dimentica che qualunque risarcimento dato alla Santa Sede evidentemente non basterà mai a provvedere se non in piccola parte a bisogni vasti come il mondo intero, come al mondo intero si estende la Chiesa cattolica: bisogni sempre crescenti, come sempre crescono con gigantesco sviluppo le opere missionarie raggiungendo i più lontani paesi; senza dire che anche nei paesi civili, in Europa, in Italia, – qui specialmente, dopo le spoliazioni sofferte – sono incredibilmente numerosi e non meno incredibilmente gravi, e tali bene spesso da muovere al pianto, i bisogni delle persone, delle opere e delle istituzioni ecclesiastiche, anche le più vitali, che ricorrono, Noi lo sappiamo, per aiuto alla Santa Sede, al Padre di tutti i fedeli.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Roncalli dalla Bulgaria: «Ciò che è avvenuto ha del prodigio e può portare un bene incalcolabile» Potete ben immaginare come io segua l’esultanza di tutta l’Italia in seguito alla pace fatta fra Vaticano e Quirinale.
Pensate che gioia per i nostri vecchi se fossero ancora vivi!…
Benediciamo il Signore! Tutto ciò che la massoneria cioè il diavolo, aveva fatto in 60 e più anni contro la Chiesa e contro il Papa in Italia, tutto è stato rovesciato.
Si vive in mezzo agli uomini con mille difetti.
Inconvenienti ce ne saranno anche in avvenire.
Non mancheranno altre pene.
Ma intanto bisogna avere il coraggio della lealtà e riconoscere che ciò che è avvenuto ha del prodigio e può portare un bene incalcolabile all’Italia e a tutto il mondo.
Ora chi aveva un po’ studiato e non andava in chiesa, e non era praticante in nome del patriottismo, ha perduto ogni scusa.
Ogni difficoltà è caduta.
Ancora una volta benediciamo il Signore.
[lettera di Roncalli al segretario di Stato Pietro Gasparri sulle reazioni in Bulgaria ai Patti Lateranensi, 31 marzo 1929] Fra i cattolici, naturalmente, esultanza completa e senza restrizioni.
Negli ambienti governativi – non avendo ricevuto nessuna notizia da trasmettere in una forma o nell’altra – ho creduto bene di non farmi vivo per la circostanza.
Seppi però qualche tempo dopo, dalle labbra stesse di Re Boris, che sul ministro Presidente Liaptceff gli avvenimenti Romani avevano fatto grande impressione, come esaltazione della dignità ed influenza morale del Papato presso tutte le nazioni del mondo.
[il patriarca di Venezia, nella basilica di San Marco, per i 25 anni della firma dei Patti Lateranensi, 11 febbraio 1954] Ecco quell’uomo [Mussolini] che la Provvidenza fece incontrare a Pio XI, e in cui l’assenza di preoccupazioni circa sistemi sorpassati era disposizione a veder più chiaro e con maggior profondità di intuizione nel grande problema della Conciliazione, è divenuto motivo di grande tristezza per il popolo italiano […] È però umano, è cristiano non contestargli almeno questo titolo di onore che, fra l’immensa sciagura, gli resta, cioè la sua valida e decisa cooperazione allo studio e alla conclusione dei Patti lateranensi; ed affidarne l’anima umiliata al mistero della misericordia del Signore, che nella realizzazione dei suoi disegni suole scegliere i vasi più acconci all’uopo, e ad opera compiuta li spezza, come se non fossero stati preparati che per questo.
[lettera dell’arcivescovo Angelo Giuseppe Roncalli – visitatore apostolico in Bulgaria – alle sorelle, 24 febbraio 1929] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Una firma per l’Italia pensando al mondo di Romeo Astorri Università Cattolica del Sacro Cuore La ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della firma dei Patti Lateranensi, che quest’anno coincide con il venticinquesimo anniversario degli accordi di Villa Madama, rappresenta, almeno a mio avviso, un’occasione per una riflessione che, uscendo dalla logica della mera celebrazione, possa essere uno spunto per una qualche osservazione su ciò che essi sono stati a livello dei rapporti tra Stato e Chiesa nell’Italia che si avvia a festeggiare i centocinquanta anni della sua unità, ma anche per cogliere il contesto, che non può essere meramente italiano, nel quale sono stati firmati.
Gli accordi del 1929 hanno rappresentato per molti anni un segno di contraddizione per la storiografia e per la dottrina giuridica italiana.
La cultura italiana, storica e giuridica, o almeno larga parte di essa, ha considerato i Patti come la cifra interpretativa del pontificato di Pio XI, e li ha visti come il momento culminante della liquidazione, in nome del rapporto col governo Mussolini, dell’esperienza del cattolicesimo politico italiano.
Ricordo ancora la sensazione provata, partecipando ad un convegno su Pio XI, organizzato dall’École française di Roma, a cavallo degli anni Novanta nel quale, per i relatori italiani, Papa Ratti era il Papa dei Patti, e quindi un Pontefice definito storicamente dal rapporto privilegiato con un regime autoritario; per quelli francesi, al contrario, era il Pontefice della condanna dell’Action Française, e quindi della ferma denuncia di possibili derive autoritarie e integriste del cattolicesimo.
Credo che l’acquisizione di nuova documentazione storiografica e la riflessione della dottrina in tema di rapporti della Chiesa con gli Stati permettano di uscire da quella aporia e offrire la base di una lettura più convincente, ma soprattutto meno italiana dei Patti stessi.
Credo che una tale lettura si possa costruire lungo tre linee di riflessione, la prima riguarda la Questione romana, la seconda, il contesto di politica ecclesiastica più generale nella quale va collocato anche il Concordato lateranense, la terza, la loro connotazione più tipicamente italiana cercando di dar ragione del giudizio secondo il quale i Patti sono uno degli eventi che segna la storia dell’Italia post-unitaria e non un fatto legato alle contingenze storiche del momento.
Secondo alcuni osservatori la Questione romana aveva già trovato una sua prospettiva di soluzione durante la prima guerra mondiale.
Alcuni documenti conosciuti solo recentemente rafforzano la tesi di chi ha qualificato il periodo tra la guerra di Libia e la firma dei Patti come gli anni della conciliazione silenziosa.
Il primo è costituito dall’elaborazione da parte della Segreteria di Stato di una bozza di Trattato tra Italia e Santa Sede riguardante la creazione di uno Stato vaticano, discusso in una Plenaria della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari il 17 marzo 1917, nel pieno del conflitto mondiale; l’altro è dato dalle due annotazioni presenti nel diario del barone Carlo Monti, direttore generale degli Affari del culto, che fu negli anni del pontificato di Benedetto xv “nunzio e ministro nello stesso tempo” per i rapporti tra la Santa Sede e il Governo italiano.
Il 7 dicembre 1918 egli riferisce di una conversazione con il cardinal Pietro Gasparri, il quale avrebbe osservato che “il Vaticano (…) noi non facciamo questione di un po’ di territorio, più o meno, purché la Santa Sede sia libera, non solo nella sostanza, ma anche nell’apparenza”.
E, annotando nello stesso diario le parole di Vittorio Emanuele Orlando, quando gli riferì della conversazione con il segretario di Stato, annota non solo che questi si era dichiarato disponibile a trovare una soluzione dopo l’avvio delle trattative di pace a Parigi, ma anche che, a suo avviso, sarebbe stato “un accordo che sarà il più grande avvenimento del secolo, per quanto esso non faccia che sanzionare una intesa che in questi quattro anni ha dato risultati soddisfacenti”.
Anche se i colloqui svoltisi a Parigi tra monsignor Bonaventura Cerretti e lo stesso Orlando non ebbero seguito, le sintetiche opinioni annotate dal Monti mostrano quanto la vicenda della guerra abbia influito sul mutamento del clima, se non della natura dei rapporti tra Italia e Santa Sede e abbia accelerato la soluzione della questione.
Il Trattato del Laterano rappresenta dunque il riconoscimento formale di una situazione che era andata maturando già durante il pontificato di Benedetto xv, di cui l’iniziativa di Pio XI e Mussolini rappresentò solo il momento finale.
A questo proposito credo debbano essere avanzate due altre osservazioni, la prima è che, sul piano dottrinale, la scuola canonistica romana, già sul finire del secolo XIC, aveva prospettato l’ipotesi, e tra i sostenitori ci fu anche il futuro cardinal Pietro Gasparri nelle sue Institutiones iuris publici, che il potere temporale appartenesse non all’esse ma al bene esse della Chiesa stessa; la seconda è il fatto che, malgrado qualche incomprensione e malinteso anche grave, la legge delle Guarentigie aveva permesso alla Santa Sede di mantenere, durante gli anni della guerra, la sua attività soprattutto di legazione attiva e che, sul piano internazionale, salvo qualche impuntatura dell’Italia che, come fece nel Patto di Londra, chiedeva l’introduzione di una clausola secondo la quale la Santa Sede non potesse partecipare ai congressi internazionali, nessuno, e lo confermava la vicenda stessa della guerra mondiale, metteva in discussione la soggettività giuridica a livello internazionale della Santa Sede stessa.
Alla luce di quanto si è osservato risulta comprensibile il motivo per cui, in questi ottanta anni, nessuno abbia mai posto seriamente in discussione il Trattato, nemmeno nel delicato passaggio intervenuto alla fine del secondo conflitto mondiale.
La questione dell’internazionalizzazione dei Patti, emersa al momento della firma ed evocata da monsignor Giovanni Battista Montini alla fine del secondo conflitto mondiale, come possibile richiesta della Santa Sede, la sopravvivenza dell’articolo 1 e dell’articolo 23 e le difficoltà derivanti dalla loro potenziale incoerenza con il nuovo assetto democratico dello Stato non hanno mai posto realmente in discussione l’esistenza del Trattato.
E le questioni legate ai due articoli sopra citati sono state risolte in sede di revisione del Concordato.
Anche l’articolo 24 sulla neutralità della Santa Sede nelle questioni temporali fra gli altri Stati ha superato le temperie derivanti dal maggiore interventismo della Santa Sede nelle vicende internazionali e in particolare con il ruolo assunto alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e con la sua attività in ordine alla elaborazione del testo del vii principio relativo ai diritti umani e alla libertà religiosa.
Il secondo ordine di riflessioni prende in esame direttamente la questione concordataria.
Va da subito precisato che fu la Santa Sede a chiedere al governo italiano di concludere, assieme al Trattato che avrebbe posto fine alla Questione romana, un Concordato, rompendo così con la scelta separatista fatta dall’Italia liberale.
A mio giudizio, il Concordato del 1929 va perciò collocato nel contesto della politica concordataria del primo dopoguerra che, avviata durante il pontificato di Benedetto XV, trovò la sua attuazione durante il papato del suo successore.
Le scelte vaticane degli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale non furono lineari.
Ci fu un primissimo periodo nel quale la politica vaticana sembra inizialmente orientata verso l’accettazione di una “buona separazione”.
E questo sulla scia delle riflessioni del canonista Gasparri, che, secondo Carlo Fantappié, aveva proposto nelle Institutiones già citate due aspetti innovativi, un concetto di diritto canonico funzionale all’azione pastorale della Chiesa e un cambiamento di tono nelle relazioni tra Stato e Chiesa che sarà alla base del riconoscimento dell’autonomia dell’ordinamento degli Stati e che porterà ad una revisione del giudizio negativo sulla separazione in quanto tale, ma anche sulla base delle riflessioni dell’allora monsignor Eugenio Pacelli sulla natura dei concordati.
In questa direzione va il giudizio positivo, o comunque non negativo, espresso dal nunzio a Monaco, monsignor Pacelli, sugli articoli riguardanti la religione presenti nella costituzione di Weimar, che poneva fine al principio della religione di Stato e adottava quello che Ulrich Stutz, il maggior canonista tedesco del tempo, definirà separatismo non completo o zoppicante.
Una scelta che fu condivisa dal Gasparri, ma alla quale si opposero alcuni canonisti curiali, come il gesuita Benedetto Ojetti, e che fu fortemente contestata anche da alcuni canonisti tedeschi, come Joseph Hollweck, il quale scrisse a Pacelli che i numerosi canonici che sedevano in Parlamento avevano venduto la Chiesa in cambio di ben remunerate cattedre di teologia nelle università.
I mutamenti che intervennero in quel biennio portarono a verificare la possibilità concreta di aprire trattative concordatarie con vari Stati, la maggior parte delle quali si concluderanno, come si è detto, negli anni di Pio XI.
Una scelta che riprendeva una storia, che sembrava definitivamente conclusa con la denuncia da parte della Francia del concordato napoleonico.
Il modello assunto dai concordati tra le due guerre, che rimarrà immutato sino agli accordi spagnoli del 1976-79 e all’accordo di Villa Madama del 1984 è quello del Concordato completo, vale a dire di un accordo che, almeno nelle intenzioni deve regolare tutte le res mixtae, superando il modello del secolo precedente che si limitava a disciplinare alcune questioni specifiche, soprattutto le nomine.
Il Concordato lateranense, a differenza del Trattato, non si presenta quindi come una scelta collegata unicamente alle vicende italiane, ma deve essere visto, pur senza annullarne la specificità, nel contesto della politica vaticana nel dopoguerra.
Sotto questo profilo vanno quindi considerate le materie contenute nel Concordato lateranense.
La nuova regolazione delle nomine agli uffici, ricondotte tutte al principio codiciale della libera nomina dell’autorità ecclesiastica pontificia o episcopale che fosse, la fine della placitazione regia sostituita dalla clausola politica, la disciplina concordataria della materia dell’insegnamento religioso, la regolazione concordataria dell’insegnamento universitario della teologia o delle università cattoliche, la disciplina del finanziamento alla Chiesa cattolica e dei criteri per la definizione delle circoscrizioni diocesane, il riconoscimento degli effetti civili al matrimonio religioso si ritrovano in molti dei concordati firmati tra le due guerre, sia precedenti il 1929 sia successivi.
Certamente la regolazione dei vari istituti è funzionale alla situazione della Chiesa nei vari Stati, ma credo si possa constatare l’esistenza di un intento comune del legislatore canonico, quello di definire una legislazione canonica particolare che riguardasse l’intero Stato, o meglio tutta la Chiesa del Paese con il quale si era arrivati a firmare il Concordato.
E questo vale nel caso dei concordati con i Paesi dell’Europa centrale dove certamente prevale l’idea del superamento del particolarismo giuridico e di determinare un nuovo diritto particolare più coerente con la nuova codificazione del 1917.
Nel caso del Concordato lateranense va però rimarcato il fatto che esso segna la nascita della Chiesa italiana; si tratta infatti della prima legge canonica particolare che concerne la Chiesa italiana, visto che, durante il pontificato di Leone xiii, proprio per evitare la possibilità di una riunione dell’episcopato a livello nazionale, le varie diocesi erano state suddivise in regioni ecclesiastiche ed erano state create le conferenze episcopali regionali, paradossalmente.
Il ritardo, rispetto ad altre Nazioni, della nascita della conferenza episcopale deriva certamente, oltre che dalle difficoltà connesse al numero dei vescovi, anche dalla scelta operata da Leone xiii.
Un’ultima serie di brevi osservazioni va fatta in ordine alle condizioni politiche nel quale fu condotta la trattativa.
La dottrina ecclesiasticistica, ma di questo troviamo scarse tracce negli autori tedeschi che hanno studiato il fenomeno concordatario, ha visto nell’accordo italiano, il modello di un concordato con i Paesi autoritari, nel quale si realizzava uno scambio tra confessionalizzazione offerta dallo Stato (oltre all’Italia, Portogallo e Spagna) e legittimazione politica data dalla Chiesa.
Qualcuno ha anche individuato esaminando le bozze di due trattative concordatarie con la Francia e con la Spagna repubblicana, due tipologie di accordi concordatari, una alla quale appartiene il Concordato del Laterano, con i regimi autoritari, l’altra con i Paesi democratici.
Senza entrare nel merito degli istituti che giustificano questa analisi, e pur ritenendo che certamente, nel caso dell’Italia, il Concordato ha portato ad un’accelerazione del processo di confessionalizzazione già in atto dal primo dopoguerra, credo che questo fenomeno non possa, se non per taluni elementi specifici, essere collegato al carattere autoritario del regime fascista.
Credo piuttosto che dipenda, soprattutto per i Paesi belligeranti, dal fenomeno che porta, immediatamente dopo la guerra, i cattolici intransigenti, ad uscire, secondo l’espressione suggestiva, anche se discutibile di Altermatt, dal ghetto nel quale erano stati confinati (o si erano, secondo alcuni, confinati) durante l’età del liberalismo.
La Conciliazione, sotto tale profilo, non è soltanto un fenomeno italiano.
La consapevolezza di essere parte di una Nazione, e non un corpo estraneo, in quanto legati ad un potere sopranazionale, maturata nelle esperienze dei movimenti del cattolicesimo sociale e acquisita nelle trincee della prima guerra mondiale, porta a rafforzare la volontà degli uni di “ridare Dio alla patria” e determina il consenso di una classe politica, conscia della nuova situazione di uno Stato nel quale sono diventati protagonisti i partiti di massa.
Certamente gli anni tra il 1926 e il 1929 nei quali fu condotta la trattativa furono anche quelli del definitivo affermarsi del regime fascista e la conclusione dei Patti non poté che consolidare tale processo.
Va anche rilevato che la componente antimoderna presente nella cultura cattolica e in quella fascista hanno dato un’interpretazione dell’accordo nella quale sono stati sottolineati in modo particolare gli aspetti di rottura rispetto alla tradizione politica liberale.
Aldilà della contingenza di alcune delle scelte normative contenute nelle disposizioni concordatarie del 1929, va rilevato, a conferma di quanto osservato, come un giurista liberale come Arturo Carlo Jemolo nell’Italia repubblicana, e siamo già alla fine degli anni Sessanta, abbia pensato, al processo di revisione del Concordato lateranense come l’eliminazione delle “foglie secche”.
A mio avviso, la continuità dello strumento concordatario poggia su questa conciliazione, che non viene meno anche oggi, quando esso non è più prevalentemente guardato come un collegamento tra due ordinamenti secondo la lettura univoca della dottrina di quegli anni, ma, anche attraverso il riconoscimento del ruolo delle religioni nello spazio pubblico, in quanto momento di espressione della libertà religiosa di tutti, come dimostrano i testi non solo dell’accordo di Villa Madama, ma di tutti i concordati più recenti.
E l’augurio è che, anche questa presenza possa scongiurare il ripetersi di ciò che ha portato al pesante giudizio di Jemolo sull’età giolittiana, nella quale, sostiene lo studioso, la crisi di ideali portava a constatare la presenza di uno smarrimento che “con tratti ancora più confusi, con espressioni più volgari lo ritroveremmo, se potessimo indagarlo, in tutta la classe colta dell’Italia del tempo; tra coloro che sono rimasti fermi alla fede tradizionale, e gli altri che non hanno più alcun assillo religioso, e come hanno abbandonato le pratiche della religione, così hanno espulso dalla loro mente, con i problemi del divino, tutti quelli che non abbiano un contenuto pratico immediato”.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home]

Architettura sacra a Torino

Ferdinando Bonsignore – La chiesa della Gran Madre di Dio   Esempio dello stile neoclassico in auge ai primi dell’Ottocento è la chiesa della Gran Madre di Dio, opera di Ferdinando Bonsignore, eretta tra il 1818 e il 1831 per festeggiare il ritorno di Vittorio Emanuele I di Savoia il 20 maggio 1814 dopo la sconfitta di Napoleone: sul timpano della chiesa si legge infatti l’epigrafe Ordo Populusque Taurinus Ob Adventum Regis (La città e i cittadini di Torino per il ritorno del re).
Lo schema dell’edificio si rifà, con spirito deliberatamente archeologico, a una diffusissima tipologia che trova il suo prototipo nel Pantheon, monumento romano del periodo adrianeo; una pianta rotonda sormontata da una cupola, e preceduta da un peristilio a frontone triangolare, il tutto poggiante su un alto zoccolo.
 Guarino Guarini – La Cappella della Santa Sindone   Il monaco teatino Guarino Guarini (1624-1683), modenese, può senz’altro considerarsi l’architetto più originale del XVII secolo, dopo Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini.
Guarini viaggiò molto in Italia e all’estero e lasciò a Torino, dove fu chiamato da Carlo Emanuele II, le più alte affermazioni della sua genialità creativa, tra le quali la Cappella della Santa Sindone, incastonata tra quello che nel 1713 diventerà il Palazzo Reale dei Savoia e il Duomo di San Giovanni, edificato tra il 1491 e il 1498.
L’opera, iniziata nel 1668 e compiuta solo dopo undici anni dalla morte del maestro, trova la sua più suggestiva espressione nella cupola.
Su una base formata da sei grandi finestre, collegate esternamente da una cornice ondulata, parte una raggiera di contrafforti che si intrecciano a cornici sghembe fino a sostenere le cornici concentriche del tamburo della lanterna, quest’ultima illuminata da finestre ovali.
Da questo capolavoro di ingegneria piove all’interno un guizzante e segmentato gioco di luci.
Guarino Guarini – La Chiesa di San Lorenzo   Come nella Cappella della Sindone, anche nella chiesa di San Lorenzo Guarino Guarini sviluppa il motivo dell’organismo centrale, di ridotte dimensioni e articolato verso l’alto, già caro al Borromini.
Compiuta nel 1687, la chiesa ha una pianta quadrata con pareti convesse in luogo dei quattro angoli.
La cupola, ornata di costoloni intrecciati, si ispira probabilmente alla Catedral de la Seo di Saragozza, cattedrale gotica costruita nel XIV secolo.
La sensibilità del Guarini per l’arte gotica, specie straniera, era già evidente nella cupola della Sindone, simile a una guglia.
All’adesione, peraltro puramente fantastica, all’architettura gotica, il Guarini aggiunge una straordinaria padronanza tecnica di assoluta modernità.
Nelle sue originali concezioni strutturali si può cogliere, tra l’altro, l’aspetto tipicamente barocco della «meraviglia» come fine dell’arte.
Filippo Juvarra – La Basilica di Superga   La basilica, che con la Mole antonelliana può considerarsi uno dei simboli di Torino, fu fatta erigere da Vittorio Amedeo II di Savoia tra il 1715 e il 1731, in adempimento di un voto fatto nel 1706, prima della battaglia per liberare Torino dall’assedio dei francesi.
È forse l’opera più celebre di Filippo Juvarra, architetto messinese che lavorò a Torino per circa un ventennio, lasciandovi numerose testimonianze della sua genialità non solo di costruttore, ma anche di scenografo e urbanista.
In quest’opera i temi rinascimentali e l’amore per le forme michelangiolesche vengono interpretati in chiave scenografica, perfettamente intonata al paesaggio circostante, sull’alto di un colle panoramico.
Come già nel Pantheon, massimo tempio dell’età imperiale romana, il pronao s’innesta a un corpo centrale.
Nei campanili laterali sono evidenti reminiscenze della fantasia borrominiana (già elaborata a Torino, come abbiamo visto, nelle opere del Guarini).
Nei sotterranei della basilica sono raccolte le tombe dei re di Sardegna, da Vittorio Amedeo II a Carlo Alberto, e dei principi sabaudi dal 1700 in poi.

Helder Câmara profeta di giustizia e di pace

Si sono aperte ufficialmente in Brasile le celebrazioni per il centenario della nascita di dom Helder Câmara (1909-1999), l’arcivescovo universalmente conosciuto per il suo impegno a favore dei poveri e per lo sforzo di sensibilizzare le coscienze all’uso della non violenza per il superamento delle ingiustizie.
Nato il 7 febbraio 1909 a Fortaleza, capitale dello Stato del Cearà, è considerato il fondatore della Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), di cui fu segretario generale per dodici anni.
E proprio il presidente dei vescovi brasiliani, dom Geraldo Lyrio Rocha, arcivescovo di Mariana, ha aperto l’anniversario con una messa celebrata sabato 7 a Recife, la città di cui Câmara è stato arcivescovo.
Ma iniziative e celebrazioni si stanno susseguendo in questi giorni un po’ in tutto il Paese.
E un francobollo commemorativo è stato emesso dalle poste brasiliane.
Una messa è stata celebrata a Belo Horizonte, in una delle zone più povere del Paese.
Presieduta dall’arcivescovo, Walmor Oliveira de Azevedo, la celebrazione eucaristica ha visto la partecipazione di diverse centinaia di persone, tra cui i parenti del presule scomparso, e studenti e insegnanti della scuola, fondata nel 2002, e intitolata proprio a dom Helder Câmara.
“Belo Horizonte – ha sottolineato nell’occasione padre Paolo Stumpf Humberto, direttore del collegio – è stato il terreno fertile in cui il messaggio di pace di dom Helder ha portato frutti e continua ancora a portarne.
Egli figura tra i grandi leader che più hanno lottato per la libertà di espressione e per i diritti umani.
È stato la finestra del Brasile sul mondo per denunciare le ingiustizie”.
Particolarmente significativa è stata, soprattutto, l’omelia pronunciata dal presidente della Conferenza episcopale brasiliana, il quale ringraziando Dio per la vita di dom Helder Câmara, lo ha definito come un “profeta” e come un “dono” speciale per la Chiesa e per i fratelli.
L’arcivescovo Geraldo Lyrio Rocha ha ricordato come tutta la vita di dom Helder sia stata segnata dall’affidarsi docile nelle mani del Padre, atteggiamento ben sintetizzato nel motto episcopale che lo stesso dom Helder volle scegliersi: “Nelle Sue mani”.
Una fede salda e operosa ha caratterizzato, dunque, tutto il suo ministero.
“Dom Helder era solito ricordare – ha detto l’arcivescovo presidente della Cnbb – che quando informò la sua famiglia dell’intenzione di diventare sacerdote il padre lo mise in guardia: “Figlio mio, essere sacerdote è molto impegnativo: il sacerdote e l’egoismo non possono vivere insieme””.
Così dopo essersi dedicato per anni all’educazione dei giovani, alla formazione di un laicato maturo come assistente dell’Azione cattolica, diede vita a Rio de Janeiro – di cui dal 1952 è diventato vescovo ausiliare – alla “Crociata di San Sebastiano”, per dare casa e dignità umana alle folle di baraccati della capitale.
Nel 1955, durante il Congresso eucaristico internazionale, a Rio de Janeiro, partecipò attivamente alla creazione del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam).
“Il suo ministero episcopale – ha sottolineato monsignor Lyrio Rocha – è stato caratterizzato dagli stessi sentimenti di Gesù che vedendo la gran folla ha avuto compassione, perché erano come pecore senza pastore (cfr.
Marco, 6, 30-34)”.
Ma gli anni più impegnativi dovevano ancora arrivare.
Sia sul fronte strettamente ecclesiale, con il concilio Vaticano ii, che sul versante interno al Brasile.
Nominato nel 1964, da Paolo vi, arcivescovo di Olinda e Recife, nel nord-est del Brasile, una delle zone più povere del pianeta, quasi contemporaneamente un colpo di Stato militare impose la dittatura.
Al regime erano note le sue posizioni a difesa dei diritti dei poveri, la promozione della giustizia, della democrazia e della libertà di espressione.
Per il nuovo arcivescovo iniziarono anni di sofferenze e persecuzioni, con minacce di morte, accuse, insulti e denigrazioni.
Molti dei suoi collaboratori, sacerdoti e laici, accusati di attività sovversive vennero arrestati, torturati e persino uccisi.
E tra la popolazione si diffuse un clima di paura.
Di fronte a questi fatti – ricorda monsignor Lyrio Rocha – il suo “messaggio è stato intriso del sapore e del contenuto della missione profetica.
Si è presentato come il vescovo di tutti: “Il mio cuore e la mia porta – dirà – sono aperti a tutti, assolutamente tutti.
Cristo è morto per tutti””.
Una posizione non tollerabile dal regime, che nel 1970 – ricorda ancora il presidente della Cnbb – finì per imporre ai mass media il divieto di parlare, a favore o contro, di dom Câmara.
“Se da un lato l’atteggiamento dei militari ha limitato la sua azione di pastore diocesano – ha rilevato monsignor Lyrio Rocha – dall’altro ha lanciato la sua azione profetica al di là dei confini del Brasile, con continui inviti a conferenze in molte parti del mondo.
La sua presenza ha irradiato la fiducia nell’impegno evangelico.
È stato segno di contraddizione e segno di speranza, soprattutto per i più poveri e tutti coloro che lottano per la speranza e la pace”.
Anche la celebrazione del concilio ha offerto a dom Helder la possibilità di diventare un “missionario”, un “pellegrino della giustizia e della pace”.
E infatti – ha ricordato monsignor Lyrio Rocha – “uno speciale rapporto di amicizia si formò con i vescovi più sensibili al tema del Terzo Mondo.
In questo contesto è nato il famoso gruppo di vescovi che si riuniva ogni venerdì sulla missione della Chiesa con i poveri e che, sul finire del concilio si riunì in una catacomba di Roma per firmare il Patto delle Catacombe, in cui ciascuno si impegnava a vivere povero, a respingere emblemi e simboli del potere, in modo da rendere evidente l’opzione evangelica per i poveri”.
Come un san Paolo dei tempi moderni – ha concluso monsignor Lyrio Rocha – si è impegnato nella sua attività missionaria “sperando contro ogni speranza”, come Abramo (cfr.
Lettera ai Romani, 4, 18), incoraggiando le “minoranze abramitiche” alle quali ha insegnato che una società giusta e fraterna si costruisce con la non violenza.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 febbraio 2009)