IV Domenica del tempo ordinario anno A

L’enigma del male «Dobbiamo essere consapevoli», dice Enzo Bianchi, priore della comunità monastica di Bose, «che siamo fragili, esposti al grande enigma del male.
Non ci sono per l’uomo luoghi sicuri, “paradisi”.
Coscienti del nostro limite, dobbiamo respingere ogni pretesa di onnipo-tenza.
Non si tratta, per questa catastrofe, di incolpare Dio, ma neanche noi uomini.
Con la fede, possiamo dire che Dio vuole vincere il male con noi, e l’esito finale sarà la trasfigura-zione dell’universo».
(Da «Famiglia Cristiana», 2005, 3).
Sofferenza materia prima della redenzione Gesù Cristo, venendo sulla terra, ha incontrato tre « creature » di cui il Padre non era il creatore: il peccato, la sofferenza e la morte.
Per ridonare all’uomo pace ed amore, al mondo armonia, doveva vincere il peccato, la sofferenza e la morte.
Tu dici del tuo amico: lo porto nel mio cuore, mi vergogno per lui del suo peccato, la sua sofferenza mi fa male.
È conseguenza dell’amore onnipotente quella d’unire tanto l’amante all’amato, l’amico all’amico, da fargli tutto sposare di lui.
Perché Gesù Cristo amava gli uomini di un amore infinito.
Egli li ha tutti riuniti in Sé: portando tutti i loro peccati, soffrendo tutte le loro sofferenze, morendo della loro morte.
Vittima del suo amore, nel vero senso della parola, Gesù sulla croce dice al Padre Suo: «Nelle tue mani rimetto l’anima mia», la sua anima carica di questa tragica messe: i peccati degli uomini: ecco, Padre, ne prendo la responsabilità e per essi Te ne domando perdono, «cancellali», le sofferenze degli uomini con le mie sofferenze, la loro morte e la mia morte.
Te li offro in penitenza e il Padre Gli ha ridato la VITA: ecco il mistero della Redenzione.
(M.
QUOIST, Riuscire, Sei, Torino, 1962, 190-191).
Il ramo da riattaccare Buddha fu un giorno minacciato di morte da un bandito chiamato Angulimal.
«Sii buono ed esaudisci il mio ultimo desiderio», disse Buddha.
«Taglia un ramo di quell’albe-ro».
Con un colpo solo di spada l’altro eseguì quanto richiesto, poi domandò: «E ora che cosa devo fare?».
«Rimettilo a posto» ordinò Buddha.
Il bandito rise.
«Sei proprio matto se pensi che sia possibile una cosa del genere».
«Invece il matto sei tu, che ti ritieni potente perché sei capace di far del male e distruggere.
Quella è roba da bambini.
La vera forza sta nel creare e risanare».
(Racconto buddista).
Si stupivano della sua dottrina Entrarono in Cafarnao, e subito, entrato di sabato nella sinagoga insegnava loro, insegnava af-finché abbandonassero gli ozi del sabato e cominciassero le opere del Vangelo.
Egli li am-maestrava come uno che ha autorità, non come gli scribi.
Egli non diceva, cioè «questo dice il Signore», oppure «chi mi ha mandato così parla»: ma era egli stesso che parlava, come già prima aveva parlato per bocca dei profeti.
Altro è dire «sta scritto», altro dire «questo dice il Signore», e altro dire «in verità vi dico».
Guardate altrove.
«Sta scritto — egli dice — nella legge: Non uccidere, non ripudiare la sposa».
Sta scritto: da chi è stato scritto? Da Mosè, su comandamento di Dio.
Se è scritto col dito di Dio, in qual modo tu osi dire «in verità vi dico», se non perché tu sei lo stesso che un tempo ci dette la legge? Nessuno osa mutare la legge, se non lo stesso re.
Ma la leg-ge l’ha data il Padre o il Figlio? […] Qualunque cosa tu risponda, l’accetterò volentieri: per me, infatti, l’hanno data ambedue.
Se è il Padre che l’ha data, è lui che la cambia: dunque il Figlio è uguale al Padre, poiché la muta insieme a colui che l’ha data.
Se l’uno l’ha data e l’altro la muta è con uguale autorità che essa è stata data e che viene ora mutata: infatti nessuno che non sia il re può mutare la legge.
Si stupivano della sua dottrina.
Perché, mi chiedo, insegnava qualcosa di nuovo, diceva cose mai udite? Egli diceva con la sua bocca le stesse cose che aveva già detto per bocca dei profeti.
Ecco, per questo si stupivano, perché esponeva la sua dottrina con autorità, e non come gli scribi.
Non parlava come un maestro, ma come il Signore: non parlava per l’auto-rità di qualcuno più grande di lui, ma parlava con la sua propria autorità.
Insomma egli parlava e diceva oggi quello che già aveva detto per mezzo dei profeti.
«Io che parlavo, ec-co, sono qui» [Is 52,6].
(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2) Il silenzio di Dio Il problema del male con la sua enorme portata di sofferenza prova a fondo la fiducia in Dio del credente e «…molti si arrestano perché dicono: Forse c’è qualcuno là di sopra, però se ci fosse davvero tanto male non ci sarebbe, dunque…
Qui la fede entra nella sua agonia più profonda» è posta di fronte al silenzio di Dio e sembra non aver attenuanti, non aver parole che siano sufficienti, appare…
«intrinsecamente insicura, non è fondata, come diceva Agostino: la mia fede non è fondata, non è un fondamento, la mia fede sta appesa alla croce.
La mia fede non da alcuna sicurezza.
L’esperienza del silenzio di Dio conduce sull’orlo del «forse», un «forse» che per Andrè Neher «sta all’inizio della silenziosa vertigi-ne della libertà»».
(C.M.
MARTINI, Prima sessione della Cattedra dei non credenti, 1987).
Intervista al Padre Aurelio: Di fronte a fenomeni come la guerra in Terra Santa, il male, la sofferenza, come si può spiegare l’Amore misericordioso del Creatore? «Da sempre la sofferenza è la grande e inquietante domanda che sfida la fede in un Dio buono.
È significativo che proprio nella terra del Santo, dove il Signore ha scritto la sua storia di amore e alleanza con un popolo da Lui scelto in vista della salvezza di tutti, pro-prio in quella terra la pace sembra non aver mai trovato casa.
Dai tempi dei patriarchi, all’Esodo e all’entrata in quella terra, come in tutta la storia successiva, il popolo di Israele sembra non avere mai avuto pace.
Ben si addice il pianto e lamento di Gesù sopra Gerusalemme: “Oh, se tu, proprio tu, avessi riconosciuto almeno in questo tuo giorno le cose necessarie alla tua pace! Ma ora es-se sono nascoste agli occhi tuoi” (Lc 19,42).
Dio ha fatto buone tutte le cose, come afferma il ritornello alla fine di ogni giorno della creazione: “E Dio vide ciò che aveva fatto ed era cosa buona” (cfr.
Gen 1).
La Parola del Si-gnore risponde al mistero del male che lacera l’umanità, non con una teoria, ma con la sot-tolineatura di quella libertà che gli uomini, cedendo al tentatore, hanno indirizzato al male anziché al bene, cadendo così nella maledizione (cfr.
Gen 3).
Eppure è proprio di fronte a questa estrema miseria che si rivela l’infinita misericordia di Dio.
S.
Paolo la riassume in una frase: “Dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia”.
Il Signore si è messo da subito alla ricerca della pecora smarrita (“Adamo, dove sei?”): con una pazienza e tenerezza immensa, parlando e intervenendo molte volte e in diversi modi, per mezzo dei suoi inviati e attraverso gli eventi della storia.
Un amore gratuito che si è rivelato in modo sommo e inimmaginabile nell’incarnazione del Figlio di Dio.
Tutta la vita di Gesù, soprattutto la sua morte e risurrezione è la risposta definitiva di Dio al perché della sofferenza e del male del mondo.
“Dio è amore”, ed è la lontananza da Lui che precipita l’uomo nella morte del male, dell’odio, della violenza cie-ca.
“Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno!”, dirà Gesù morente sulla croce, croce che concentra tutto il male fisico, morale e spirituale che c’è nel mondo.
Lui ha voluto prendere su di sé questo male e sconfiggerlo con la Risurrezione, rive-lando così che l’Amore e la Vita di Dio, sono più grandi del peccato, dell’odio, di ogni forma di male.
(Intervista fatta da Zenit al padre Aurelio Pérez, Superiore generale dei Figli dell’Amore misericordioso (FAM), 13 gennaio 2009).
Le preghiere della vita Tu che vuoi che vinciamo il male con il bene e che preghiamo per chi ci perseguita abbi pietà dei miei nemici, Signore, e di me; e conducili con me nel tuo regno celeste.
Tu che gradisci le preghiere dei tuoi servi, gli uni per gli altri, ricorda la tua grande benevolenza: abbi pietà di coloro che si ricordano di me nelle loro preghiere e che io ricordo nelle mie.
Tu che guardi alla buona volontà e alle opere buone, ricordati, Signore, come se ti pregassero, di quelli che per giusta ragione, per piccola che sia, non dedicano un tempo alla preghiera.
Ricorda Signore, i bambini, gli adulti e i giovani, i maturi e i vegliardi, gli affamati, gli assetati e gli ignudi, i malati, i prigionieri e gli stranieri, i senza amici e i senza sepoltura, i vecchi e i malati, i posseduti dal demonio, i tentati di suicidio, i torturati dallo spirito im-mondo, i disperati e i dubbiosi nell’anima e nel corpo, i deboli, i sofferenti in prigionie e tormenti, i condannati a morte; gli orfani, le vedove, i viandanti, le partorienti e i lattanti, chi si trascina nella schiavitù, nelle miniere e nei ceppi, o nella solitudine.
(Lancelot Andrewes, in Le preghiere dell’umanità, Brescia, 1993).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 18,15-20 Mosè parlò al popolo dicendo: «Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me.
A lui darete ascolto.
Avrai così quanto hai chiesto al Signore, tuo Dio, sull’Oreb, il giorno dell’assemblea, dicendo: “Che io non oda più la voce del Signore, mio Dio, e non veda più questo grande fuoco, perché non muoia”.
Il Signore mi rispose: “Quello che hanno detto, va bene.
Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli e gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò.
Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto.
Ma il profeta che avrà la presunzione di dire in mio nome una cosa che io non gli ho comandato di dire, o che parlerà in nome di altri dèi, quel profeta dovrà morire”».
Tutta la fede biblica è fondata sulla parola di Dio, feconda come la pioggia e la neve (cf.
Is 55,10-11).
Ed è di sempre il problema che essa sia autentica ed efficace.
La prima lettura riporta il passo del Deuteronomio che fa risalire a Mosè l’origine dei profeti, gli inviati di Dio a portare la sua parola, e che ha suscitato pure l’attesa del Messia come profeta.
Il di-scorso è in bocca a Mosè che parla a Israele, al di là del Giordano di fronte a Gerico, sul modo di comunicare con Dio.
Nei versetti che precedono il brano liturgico (Dt 18,9-14), egli esclude perentoriamente che possa farlo l’uomo, perché i suoi mezzi sono del tutto inadeguati e falsi.
Sacrifici uma-ni, divinazione, sortilegio, magia, evocazione dei morti, spiritismo, indovini, incantatori, ecc.
sono un «abominio» davanti a Dio.
Solo Dio può comunicare con l’uomo in modo au-tentico.
Ecco allora la promessa, che risponde alla richiesta già fatta dagli Israeliti al Sinai: dopo Mosè, Dio stesso continuerà a parlare ad Israele, mediante la figura del profeta, del quale tratteggia così le caratteristiche.
Lo susciterà Lui stesso, quindi ne garantirà la vocazione e il carisma.
Sarà un fratello tra fratelli e starà in mezzo a loro: sarà cioè, non uno stravagante, ma una persona normale che vive dentro alle situazioni normali, perché di esse deve capire il senso, per vivere davvero secondo Dio.
Sarà suo porta-parola: «Gli porrò in bocca le mie parole…».
E come tale dovrà essere ascoltato.
Dio poi prospetta un possibile duplice falso profeta: quello che parla falsamente a nome di Dio e quello che parla in nome di falsi dei.
In entrambi i casi è comminata la pena di morte, spiegabile con la rigidità dei tempi e non certo da riesumare.
Testimonia comunque l’im-portanza data alla parola di Dio.
E può far riflettere se la mentalità moderna, assai severa contro le trasgressioni di ordine economico e materiale, non sia invece troppo indifferente e permissiva di fronte agli scandali e alle corrosioni dei valori morali.
Mosè usa sempre il singolare, un profeta, ma con significato collettivo, riferito a tutto il profetismo.
Egli stesso, del resto, condivide il suo spirito profetico con i 70 Anziani (Nm 11,16-30 e Es 18,21-26) e ad essi e ai Leviti dà in consegna la Legge, da custodire, ripetere e attualizzare continuamente (Dt 10,8-9 e 31,9-13.24-27).
Il singolare ha pure fatto attendere il Cristo, come Profeta per eccellenza, come appare da interrogativi dei Giudei (cf.
Gv 1,21.25).
Gesù di Nazaret lo è effettivamente.
Venuto da Dio, si è fatto vero fratello tra fratelli, partecipe del nostro essere e della nostra storia: «Il Verbo si è fatto carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14).
Seconda lettura: 1 Corinzi 7,32-35 Fratelli, io vorrei che foste senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
Questo lo dico per il vostro bene: non per gettarvi un laccio, ma perché vi comportiate degnamente e restiate fedeli al Signore, senza deviazioni.
La seconda lettura riporta uno stralcio delle risposte di Paolo alle domande scritte, su matrimonio e verginità, fattegli pervenire dalla comunità di Corinto e concentrate in 1Cor 7.
Un legame col tema dell’annuncio e dell’ascolto della parola di Dio c’è nelle distinzioni che l’apostolo fa tra quello che dice lui e quello che ha detto il Signore.
Anche lui cerca la parola autentica o quantomeno la traduzione autentica della parola di Cristo nella vita vis-suta.
Quanto alle vergini, delle quali parla in questo brano, ha infatti premesso: «Non ho alcun comando dal Signore, ma do un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e me-rita fiducia» (1Cor 7,25).
Parla quindi come un convertito, ma assunto alla dignità di apo-stolo.
E dà consigli per un comportamento lineare nel proprio stato di vita, conforme alla propria vocazione, senza preoccupazioni che dividano l’animo.
Questo lo vede più facile in chi non è sposato, come la vergine, perché si preoccupa delle cose del Signore.
Mentre chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, di come piacere alla moglie o al marito.
Proteso alla trascendenza e alle realtà ultime, per cose del mondo egli intende quelle prov-visorie di questa vita che passa e per cose del Signore quelle dei valori più profondi ed e-terni.
Ma non è a senso unico quanto dice.
Perché appena prima ha raccomandato: «Ti tro-vi legato a una donna? Non cercare di scioglierti.
Sei sciolto da donna? Non andare a cercarla» (1Cor 7,27).
E all’inizio ha scritto: «Vorrei che tutti fossero come me: ma ciascuno ha il proprio dono da Dio» (1Cor 7,7).
Importante è vivere secondo il dono ricevuto.
Paolo dunque invita ciascuno a vedere il proprio stato di vita come una vocazione da parte del Signore, alla quale dare risposta con una vita autentica, coerente e non divisa.
E ciò è possibile solo nell’ascolto consapevole, continuo e profondo della parola di Dio.
Vangelo: Marco 1,21-28 In quel tempo, Gesù, entrato di sabato nella sinagoga, [a Cafàrnao,] insegnava.
Ed erano stupiti del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi.
Ed ecco, nella loro sinagoga vi era un uomo posseduto da uno spirito impuro e cominciò a gridare, dicendo: «Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!».
E Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!».
E lo spirito impuro, straziandolo e gridando forte, uscì da lui.
Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: «Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità.
Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!».
La sua fama si diffuse subito dovunque, in tutta la regione della Galilea.
Esegesi La liberazione di un indemoniato è il primo miracolo che Marco racconta.
Con esso egli introduce la descrizione di un sabato tipico di Gesù a Cafarnao.
Ma in primo piano mette il suo insegnamento, lui che poi si sofferma più sui fatti che sui discorsi.
Riporta, infatti, un episodio accaduto durante la liturgia della parola, nel culto sinagogale.
E sviluppa il rac-conto in tre momenti, che mostrano come la parola nuova di Cristo ha provocato e com-piuto il miracolo.
Dapprima (vv.
21-22), riferisce sommariamente l’insegnamento di lui nella sinagoga e lo stupore di tutti, perché lo fa «con autorità» e non come gli scribi.
Poi racconta il miracolo (vv.
23-26), compiuto dopo uno scontro verbale con un uomo, che si è messo a gridargli contro.
L’uomo è posseduto da uno «spirito immondo», detto così perché lo spinge lontano da Dio e a comportamenti indegni.
Egli riconosce che Gesù, al-l’opposto, è «il santo di Dio», cioè tutto dedito a lui e rivestito delle sue perfezioni.
Lo deve aver percepito dalle sue parole e dai suoi atteggiamenti.
E si è messo in agitazione perché avverte lucidamente che ciò comporta la rovina del dominio diabolico.
Ma con arroganza contesta a Cristo il diritto di intromettersi, usando un plurale col quale si identifica con tutte le potenze demoniache e nel quale pare voler coinvolgere anche gli uditori, presu-mendoli dalla sua parte.
Al demonio Gesù prima comanda di tacere e poi di uscire da quell’uomo.
Ciò avviene tra convulsioni e grida ancora più forti, provocate dal potere sconvolgente della parola di Dio.
Si è trattato di un esorcismo, ma si può dire che tante re-sistenze a Dio sono fatte di contorcimenti e strepiti di vario genere, che si placano solo a partire dal silenzio delle nostre parole e dal lasciarsi prendere dalla forza della parola di Dio.
Infine (vv.
27-28) Marco torna sulla meraviglia generale, ancora più grande dopo il mi-racolo, accompagnata da timore reverenziale, di fronte alla potenza di Dio, e da interroga-tivi su che cosa questo significhi per tutti nella lotta contro il demonio.
La risposta viene dalla differenza, rimarcata in tutto il racconto, fra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi.
Gli scribi insegnavano, commentando i testi sacri, con tante sot-tigliezze, elucubrazioni, accomodamenti interessati, per i quali si appellavano alle tradi-zioni e ai maestri umani: un insegnamento formalistico e sterile, che può ripetersi fra i cri-stiani.
Gesù invece insegna con autorità.
Cioè, egli parla a nome proprio, con la propria autorità divina: «Ma io vi dico…».
Parla con la coerenza della vita, diversamente dagli scri-bi e farisei, che dicono e non fanno (cf.
Mt 23,2-3).
E la sua parola produce quello che af-ferma, in particolare ha la forza di contrapporsi al demonio e di vincerlo.
Perché egli va al valore originario della parola di Dio e la propone come una semente da sviluppare, non come una teoria sulla quale dissertare o come un formalismo da assumere.
Meditazione Il passo del Deuteronomio, proposto come prima lettura, annuncia la volontà di Dio di «suscitare» un profeta che avrà l’autorità di Mosè e dalla cui bocca usciranno parole pro-venienti dal Signore stesso.
L’ascolto del profeta diviene dunque ascolto di Dio perché u-nica è la parola sulla bocca dell’uno e dell’altro.
L’autorità del profeta non ha altra origine che in questo essere portavoce di Dio, in questo far risuonare la voce di un Altro; nel mo-mento stesso in cui egli ritorna a dare spazio alla propria voce (cioè a dire cose che Dio non gli ha comandato: v.
20) perde la propria autorità e, con essa, la propria identità (non è più un autentico pro-feta, perché il suo «dire pro» torna ad essere un «dire proprio»).
Nel racconto evangelico di questa domenica (Mc 1,21-28), ciò che provoca meraviglia e stupore negli abitanti di Cafarnao è proprio l’autorità con cui Gesù parla e insegna (v.
22).
Un’autorità riconosciuta e temuta anche dai demoni: «Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!» (v.
27).
È sintomatico che Marco, per mettere in risalto l’autorità della parola di Gesù, non ci ri-porti un suo bel discorso ma ci racconti la cacciata di un demonio, ci narri l’episodio di un esorcismo.
È questo il primo atto pubblico del ministero di Gesù secondo il vangelo di Marco e, come tale, possiamo pensare che rivesta un’importanza non secondaria.
Si può leggere infatti in questo episodio, come in filigrana, tutta la missione di Gesù che ci appare come una grande lotta contro le forze ostili del male, come un’incessante scontro con colui che la tradizione biblica chiama «Satana», l’avversario per eccellenza di Dio e dell’uomo.
Quella che Gesù ingaggia non è una lotta a difesa delle sue prerogative divine ma è una lotta intrapresa esclusivamente a favore dell’uomo, per la sua liberazione.
La volontà di Ge-sù, che emerge da tutti questi racconti di esorcismi e guarigioni (che l’evangelista Marco, più di ogni altro, ha cura di farci conoscere), è infatti quella di liberare l’uomo da ogni forma di male e di oppressione, da ogni potere che schiaccia la libertà e riduce in schiavitù, per ristabilirlo in quella condizione originaria di creatura fatta «a immagine e somiglianza di Dio», quell’immagine che Satana cerca in tutti i modi di deformare.
E forse non è un ca-so che qui l’esorcismo viene compiuto in giorno di sabato: il settimo giorno, il giorno del compimento della creazione, il giorno della signoria del Signore su tutto il creato e su tutti gli esseri umani.
In questo giorno non ci può essere posto per un’altra signoria – quella di Satana – che, anziché liberare e dare dignità, schiavizza sottomettendo l’uomo a un’autorità nefasta e dispotica.
Ciò che Gesù compie, cacciando il demonio in giorno di sabato, si può allora vedere come un atto di ri-creazione, come un atto che anticipa e manifesta quel mon-do nuovo che ha già inizio con l’irrompere del regno di Dio nella storia dell’uomo (cfr.
Mc 1,15).
È da notare un tratto caratteristico di questo gesto: Gesù, per domare lo spirito immon-do, si affida alla potenza della sola parola.
Non si serve di particolari riti o gesti magici, in uso presso gli esorcisti del suo tempo, ma con una sola parola allontana e riduce all’impo-tenza il demonio: «Taci! Esci da lui!» (v.
25).
La sua è una parola forte ed efficace, che rea-lizza ciò che dice, proprio come l’originaria parola creatrice di Dio attraverso la quale il mondo fu fatto («E Dio disse: “Sia la luce!”.
E la luce fu…»).
L’autorità di Gesù, che questa parola rivela, non ha un’origine umana, ma viene dall’Alto; è l’autorità di colui che si pre-senta come l’inviato definitivo di Dio, il suo profeta ultimo (cfr.
Dt 18,15s.), colui che rende presente nelle sue parole e nel suo agire la signoria di Dio.
La gente coglie immediatamen-te la diversità che emerge tra l’insegnamento di Gesù e quello degli scribi: nelle sue parole si sente vibrare qualcosa di più e di diverso di una semplice lezione imparata alla scuola della Tradizione…
La figura di quest’uomo posseduto da uno «spirito impuro» ci riporta al problema della presenza oscura e ostile del male – in tutte le sue manifestazioni – nel nostro mondo e nella nostra esistenza.
Di fronte a questa presenza riconosciamo tutta la nostra impotenza, tutta la nostra debolezza: siamo infatti incapaci di liberarci dal dominio del male affidandoci unicamente alle nostre sole forze.
Forse per questo Gesù, a conclusione della preghiera del Padre Nostro, ha posto quella invocazione che assume la forma di un accorato grido: «Ma liberaci dal Male!».
Come quell’indemoniato, abbiamo bisogno di gridare a Dio tutta la no-stra oppressione, tutta la nostra schiavitù, tutto il nostro «andare in rovina» se non so-praggiunge presto una liberazione.
Solo l’umile riconoscimento del proprio bisogno di sal-vezza e di liberazione può aprirci la via verso la redenzione, verso la guarigione della pro-pria umanità ancora malata e irredenta.

Bibbia, nuova è un bestseller

Non più, quindi “svegliatosi”, ma “svegliò”; non più “locuste”, ma “cavallette”.
«Una grande attenzione è stata posta anche alla traduzione dei nomi geografici o di persona.
Per esempio, attualmente lo stesso lago è trascritto in tre modi diversi: Genèsaret, Chinarot e Kinarot; adesso è sempre Chinaròt».
Per i salmi, poi, «è stata scelta la numerazione ebraica (per cui, ad esempio, il Miserere non è più il 50, ma il 51».
E ci sono cambiamenti anche nei contenuti: «l’inizio del Salmo 65 nella precedente edizione Cei era: “A te si deve lode, o Dio, in Sion”.
Ora si legge: “Per te il silenzio è lode, o Dio, in Sion”».
Profondi cambiamenti ci sono anche in alcuni libri, ad esempio quello di Ester e il Siracide, perché proprio la ricerca di rigore scientifico ha portato a scelte nuove per il lettore non specialista.
«Ci sono circa 6.000 lingue.
In 4.000 di queste non c’è traduzione della Bibbia, né parziale, né totale», ha ricordato durante la presentazione Monsignor Vincenzo Paglia.
«Noi siamo fortunati ad avere addirittura una nuova traduzione, e oltretutto una traduzione che è già stata adottata nelle celebrazioni domenicali, cosa molto importante perché aiuta la memoria.
Memorizzare versi e brani è importante perché imparare a parlare con le parole della Bibbia vuol dire toccare almeno il lembo del mantello di Gesù.
E pregare solo con il nostro linguaggio vuol dire ignorare quello di Dio».
La Bibbia, peraltro, è un libro ancora presente nelle case.
Monsignor Paglia ha infatti citato l’indagine fatta dalla Federazione Biblica Internazionale in sedici Paesi dell’Europa e dell’America, e presentata al recente Sinodo dei vescovi.
«La stragrande maggioranza degli italiani ha la Bibbia in casa.
Probabilmente è un oggetto da scaffale, ma forse questa nuova traduzione può aiutarla a farla passare dallo scaffale al comodino».
Proprio la Bibbia, infatti, «in un mondo globalizzato è la nuova frontiera a cui chiamare tutti.
E resta un libro tra i più amati, in tutti i Paesi, da Mosca a Washington; uno dei volumi da cui ci attende una prospettiva per la propria vita.
La maggior parte della popolazione (tranne in Francia), ritiene che la Bibbia debba essere insegnata nelle scuole, perché senza un aiuto alla lettura rischia di diventare un libro chiuso, difficilmente interpretabile.
Inoltre c’è un recupero dell’indispensabile legame tra Bibbia e comunità: è il momento di sviluppare l’impegno di tutti i cristiani a rifrequentare assieme le Scritture».
Anche secondo Gabriella Caramore (autrice di “Uomini e Profeti”, Radio-Rai3), questa nuova edizione arriva in un momento in cui «si sente forte il bisogno che la conoscenza della Bibbia venga recuperata all’interno della cultura personale ” accanto alle scienze, alle arti eccetera “, non solo dei credenti, ma di tutti», ha detto.
«Senza conoscenza approfondita e continuata della Bibbia, infatti, non si possono capire le categorie che accompagnano la nostra storia.
Quale memoria possiamo avere se non abbiamo assimilato la memoria biblica? Quale idea di libertà se non sappiamo che biblicamente essa passa attraverso l’amore, è un dono di Dio al suo popolo, e non un diritto da rivendicare? Quale idea di sapienza senza conoscere Qoelet, quale idea della politica senza la dimensione della profezia che indica il bene per la comunità e non per il singolo? Per questo la conoscenza della Bibbia è importante anche da un punto vista laico, per tutti».
Quattrocentomila copie vendute o prevendute in pochi mesi: la Bibbia nella nuova traduzione ” anche se non entra mai nelle classifiche dei libri ” ha successo, tanto che si prevede per gennaio una seconda edizione.
Parliamo, naturalmente, dell’edizione Uelci, l’associazione di editori cattolici che hanno curato e distribuito l’edizione economica della nuova tradizione.
E che hanno sfidato la tradizione mettendola in vendita anche nei centri commerciali, autogrill, blockbuster e aeroporti.
Durante la presentazione del volume, a Roma nel contesto della Fiera «Più libri, più liberi», padre Giuseppe Danieli (già presidente della Associazione Biblica Italiana e coordinatore del gruppo dei traduttori) ha ricordato che il lavoro è iniziato esattamente vent’anni fa, nel 1988, e ha tenuto conto delle indicazioni che Paolo VI aveva dato nel ’65 quando si era cominciato a lavorare alla traduzione poi pubblicata nell’86: dare alla Chiesa una Bibbia a livello degli studi biblici moderni, e tale che possa servire soprattutto nella liturgia.
«Per questo, dove possibile siamo partiti dagli originali ebraici, aramaici, greci, e non dalla traduzione latina.
Ma volevamo una lingua semplice, e quindi siamo stati attenti a rinnovare il linguaggio, usando il più possibile termini in uso oggi».

Il giorno della memoria

“Si avvicina il Giorno della Memoria e crescono i dubbi sulla tenuta della ricorrenza”.
Comincia in questo modo una riflessione di Elena Loewenthal sulla Stampa di Torino dello scorso 24 gennaio sul senso e l’utilità civile della celebrazione.
Il Giorno della Memoria – osserva – incontra innanzitutto il rischio che ogni forma di ritualizzazione comporta: la perdita di pregnanza.
“A scuola il Giorno della Memoria si carica di aspettative troppo alte: non didattiche ma etiche.
Il metodo più efficace per (presumere di) arrivare a questi obiettivi si rivela la ricerca dell’effetto.
E così, il ricordo finisce per diventare qualcosa di astratto”.
L’accostamento tra gli ebrei di oggi e i fatti che li coinvolgono è troppo facile.
“L’imminente Giorno della Memoria è diventato un «soggetto» della guerra di Gaza.
E allora s’imbrattano muri di scritte antisemite (Torino), s’infangano cimiteri ebraici (Pisa), si disdicono celebrazioni del Giorno della Memoria (Catalogna), si grida: viva Hamas, ebrei nelle camere a gas (Olanda)” o si pensa di celebrare in alternativa a scuola (Roma) la giornata della memoria dei bambini palestinesi.
“La Shoah – conclude la Loewenthal – diventa codice interpretativo della guerra a Gaza.
Non si tratta solo di opinioni azzardate, d’incompetenza allo sbaraglio.
È anche un effetto del Giorno della Memoria: più s’avvicina, più diventa comodo strumento per denigrare l’oggi.
Per isolare ancora una volta l’esperienza ebraica, che sia dentro la Shoah o nell’attualità.
Liquidarla con categorie prefabbricate”.
27 gennaio 2009 – la memoria dei perseguitati Se questo è un uomo Voi che vivete sicuri Nelle vostre tiepide case; Voi che trovate tornando la sera Il cibo caldo e visi amici: Considerate se questo è un uomo Che lavora nel fango Che non conosce la pace Che lotta per mezzo pane Che muore per un sì e per un no Considerate se questa è una donna Senza capelli e senza nome Senza più forza di ricordare Vuoti gli occhi e freddo il grembo Come una rana d’inverno: Meditate che questo è stato: Vi comando queste parole: Scolpitele nel vostro cuore Stando in casa andando per via, Coricandovi alzandovi; Ripetetele ai vostri figli: O vi si sfaccia la casa, La malattia vi impedisca, I vostri cari torcano il viso da voi.
Primo Levi Prima vennero per gli ebrei Prima vennero per gli ebrei e io non dissi nulla perché non ero ebreo.
Poi vennero per i comunisti e io non dissi nulla perché non ero comunista.
Poi vennero per i sindacalisti e io non dissi nulla perché non ero sindacalista.
Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.” Martin Niemoeller (Pastore evangelico deportato a Dachau)

Cristo con gli alpini

CARLO GNOCCHI,  Cristo con gli alpini, Mursia, Milano, 2008, pp.
125, euro 14 Cristo con gli alpini non è un’opera qualunque.
Non è, insomma, un diario, un resoconto, una cronaca, una confessione, ma è un atto di fede gettato nella follia della guerra, un gesto di speranza dedicato a coloro che ormai non ripetevano più questa parola, uno slancio d’amore che replica ai colpi della violenza.
Per questo don Carlo porta Cristo al fronte, o meglio lo conduce nella disperazione degli accerchiamenti dove si consumavano le ultime forze.
Prosa semplice, piccoli esempi e un cuore immenso fanno di questo libro un documento prezioso.
Le pagine dedicate a Giorgio, il bambino che ha perso tutto e poi muore, sono più eloquenti di tutte le analisi degli storici.
Leggendole si capisce perché “tocca alla morte rivelare profonde e arcane somiglianze”; perché nei loro corpicini senza vita era racchiusa la vera condanna della guerra, il prezzo “per le colpe di tutti”.
Con un incedere commovente, don Carlo Gnocchi vedendo il piccolo corpo di Giorgio lascia sulle pagine queste frasi piene di verità che mancano ai trattati: “Quante volte l’avevo già incontrato nella mia vita di guerra! Nella ferale teoria dei fanciulli in attesa degli avanzi del rancio o randagi a cercarlo fra le immondizie; nei bambini febbricitanti e morenti sui miserabili giacigli delle isbe russe o dei tuguri albanesi; nei cadaveri stecchiti dei bimbi morti di fame o di pestilenza, sulle strade della Russia, della Croazia o della Grecia”.
Giorgio era diventato uguale a tutte quelle vittime innocenti travolte dalla guerra, che continuarono la loro agonia quando le armi tacquero e gli eserciti si allontanarono.
Lo sguardo di don Carlo è dedicato ai suoi alpini, alla popolazione incontrata, ma si carica di commozione con questi bambini.
I soldati cercano di rompere l’accerchiamento, le loro canzoni alleviano le immense solitudini della disperazione, ma i bambini mutilati non gli concedono pace.
Il suo spirito e il suo cuore ritornano in quella infelicità concreta dei loro corpicini mutilati.
Mezzo secolo prima, nella medesima terra che a un certo punto don Carlo chiama per disperazione “lurida”, uno scrittore tra i più grandi, Fëdor Dostoevskij, chiese direttamente a Dio: “Signore, perché i bambini muoiono?”.
Non ebbe risposta.
Rifece la domanda, più volte.
Don Carlo ritraduce il quesito con il piccolo Bruno.
Si chiede, gli chiede: “Ora, piccolo Bruno, come farai?”.
E due righe più avanti: “Come potrai fare senza manine?”.
Il libro si chiude con questa domanda che, anche in tal caso, non è seguita da una risposta.
Tuttavia noi la conosciamo: è il resto della vita di don Carlo a fornircela.
Insomma, tornato dalla Russia, accomiatatosi dai suoi alpini, diede vita a quell’opera che continua ancora oggi sorretta dal miracolo del suo amore.
Dedicò se stesso ai mutilatini e ai piccoli invalidi di guerra, fondando per essi una vastissima rete di collegi.
All’infanzia derelitta e minorata rispose agendo, facendo, cercando di alleviarne i problemi.
Per molti aspetti la sua vita spiega quelle domande che si pose al tempo di guerra.
Come dire: partì con gli alpini, riuscì a fare il sacerdote in Russia, conobbe gli orrori dei massacri, si pose domande alle quali non c’erano risposte e poi mise tutto nelle mani di Cristo.
Riproporre Cristo con gli alpini significa conoscere un po’ di più la guerra e la Russia; soprattutto queste pagine spiegano l’inizio di un miracolo.
Ha scritto don Carlo, tra l’altro: “Ogni opera dell’uomo naufraga silenziosamente in questa uguaglianza monotona e sterminata”.
Di chi stava parlando? Certo, della Russia, ma forse anche di lui stesso.
Nella ritirata, dove i soldati erano “mucchi di stracci che si trascinavano”, “larve inebetite dal freddo e dalla fame”, quegli spazi infiniti hanno acceso in un cappellano un’idea d’amore.
Non è il caso di spiegare ulteriormente perché, come sempre, essa si vede ma non si dimostra, si tocca ma non si afferra.
Armando Torno (©L’Osservatore Romano – 24 gennaio 2009)

La Rete e la Chiesa: un mondo digitale accessibile a tutti

Destinate a incontrarsi Internet è una realtà che ormai fa parte della vita quotidiana di molte persone.
Se fino a qualche tempo fa era legata all’immagine di qualcosa di tecnico, che richiedeva competenze specifiche sofisticate, oggi è diventato un luogo da frequentare per stare in contatto con gli amici che abitano lontano, per leggere le notizie, per comprare un libro o prenotare un viaggio, per condividere interessi e idee.
L’avvento di internet è stato, certo, una rivoluzione.
E tuttavia è una rivoluzione che potremmo definire “antica”, cioè con salde radici nel passato: replica antiche forme di trasmissione del sapere e del vivere comune, ostenta nostalgie, dà forma a desideri e valori antichi quanto l’essere umano.
Quando si guarda a internet occorre non solo vedere le prospettive di futuro che offre, ma anche i desideri e le attese che l’uomo ha sempre avuto e alle quali prova a rispondere: comunicazione, relazione e conoscenza.
Internet si sta decisamente evolvendo, trasformandosi in una piattaforma relazionale.
Non è più un agglomerato di siti web isolati e indipendenti tra loro, seppure collegati e messi in rete, ma è da considerare come l’insieme delle capacità tecnologiche raggiunte dall’uomo nell’ambito della diffusione e della condivisione dell’informazione e del sapere.
La Rete permette la partecipazione e la diffusione dei contenuti multimediali (testi, immagini e suoni) che vengono prodotti dagli stessi utenti, i cosiddetti consumer generated media.
Ogni informazione (un’immagine, un video, una registrazione audio, un link, un testo, …) entra in una rete di relazioni di persone che collega tra loro i contenuti e ne potenzia ed estende il valore e il significato.
Da sempre la Chiesa ha nell’annuncio di un messaggio e nelle relazioni di comunione due pilastri fondanti del suo essere.
La Chiesa è dunque naturalmente presente – ed è chiamata ad esserlo – lì dove l’uomo sviluppa la sua capacità di conoscenza e di relazione.
Ecco perché la Rete e la Chiesa sono due realtà da sempre destinate a incontrarsi: internet non è un semplice “strumento” di comunicazione che si può usare o meno, ma un “ambiente” culturale, che determina uno stile di pensiero e crea nuovi territori e nuove forme di educazione, contribuendo a definire anche un modo nuovo di stimolare le intelligenze e di costruire la conoscenza e le relazioni.
L’uomo infatti non resta immutato dal modo con cui manipola il mondo: a trasformarsi non sono soltanto i mezzi con i quali comunica, ma l’uomo stesso e la sua cultura.
La Chiesa dunque, per attuare sino in fondo la sua missione, ha bisogno di vivere nella Rete e incarnare in essa il messaggio del Vangelo.
Internet, che si basa su una logica delle “connessioni” (links e networks), abbatte distanze spazio-temporali prima valicabili con difficoltà o a costi proibitivi.
L’ambiente telematico diffuso unisce i popoli grazie alla crescita dell’integrazione sociale, mette in circolo il pensiero e le culture, fa cadere le barriere dei particolarismi.
Si tratta di un’opportunità per le relazioni interne alla Chiesa, ma anche per la comunicazione tra la Chiesa e il mondo.
Infatti la Chiesa, proprio in quanto “corpo vivo”, come afferma la Communio et progressio (n.
116-117), ha bisogno dell’opinione pubblica.
Grazie alla Rete la Chiesa può ascoltare più chiaramente la voce dell’opinione pubblica ed entrare in continuo dibattito con il mondo circostante.
La peculiarità della comunicazione in Rete è infatti l’interattività bidirezionale, che sta già facendo svanire la vecchia distinzione tra chi comunica e chi riceve la comunicazione.
Certo, la Chiesa non è mai e in nessun caso “prodotto” della comunicazione, e la fede non è fatta soltanto di informazioni, né è luogo di mera “trasmissione”, cioè non è una pura “emittente”.
Essa è luogo di “comunicazione” e “testimonianza” vissuta del messaggio che si “annuncia” e che si celebra in seno a una comunità umana in carne e ossa.
Il rapporto diretto, proprio della Rete, tra centro e qualsiasi punto della periferia espone al rischio di formare un’abitudine all’inutilità della mediazione incarnata in un certo momento e in un certo luogo.
E tuttavia è anche vero che si aprono contesti e orizzonti di relazione prima impensabili o forse, al massimo, intuiti da geni religiosi come Pierre Teilhard de Chardin.
Le nuove tecnologie informatiche e telematiche sono entrate anche nel grande campo della pastorale e dello studio sulle nuove possibilità per il ministero.
Molti pastori e formatori sono in Rete per creare occasione di incontro e di annuncio, ma anche di confronto aperto lì dove la gente si incontra.
Oggi internet è, di fatto, un luogo di incontro, dove sta emergendo un differente concetto di “prossimo”, ancora tutto da studiare.
Se è necessario, oggi più che mai, interrogarsi sul modo in cui internet comincia a cambiare il modo di percepire le relazioni umane, allora è anche necessario confrontarsi con le conseguenze che ciò può avere nella Chiesa, che non è una rete di relazioni orizzontali immanenti, ma ha sempre un principio e un fondamento “esterno”.
L’agire comunicativo della Chiesa ha in questo dono il suo fondamento e la sua origine.
Comunque la reticolarità della vite nei cui tralci scorre una medesima linfa non è lontanissima dall’immagine di internet: la Rete è immagine della Chiesa nella misura in cui la si intende come un corpo che è vivo se tutte le relazioni al suo interno sono vitali.
Poi l’universalità della Chiesa e la missione dell’annuncio “a tutte le genti” rafforzano la percezione che la Rete possa essere un modello.
In ogni caso la Chiesa stessa è chiamata a vivere nel mondo, il quale non può non determinarne anche la figura concreta, storica e i modelli di comunione possibili.
Tirarsi indietro timidamente per paura della tecnologia o per qualche altro motivo non è più accettabile.
di Antonio Spadaro (©L’Osservatore Romano – 24 gennaio 2009) Gli strumenti della comunicazione digitale devono favorire la cooperazione tra i popoli e non “incrementare il divario che separa i poveri dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio dell’informazione e della socializzazione umana”.
Lo afferma il Papa nel messaggio per la 43 ª Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che si celebra il prossimo 24 maggio sul tema “Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia”.
Cari fratelli e sorelle, in prossimità ormai della Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, mi è caro rivolgermi a voi per esporvi alcune mie riflessioni sul tema scelto per quest’anno: Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia.
In effetti, le nuove tecnologie digitali stanno determinando cambiamenti fondamentali nei modelli di comunicazione e nei rapporti umani.
Questi cambiamenti sono particolarmente evidenti tra i giovani che sono cresciuti in stretto contatto con queste nuove tecniche di comunicazione e si sentono quindi a loro agio in un mondo digitale che spesso sembra invece estraneo a quanti di noi, adulti, hanno dovuto imparare a capire ed apprezzare le opportunità che esso offre per la comunicazione.
Nel messaggio di quest’anno, il mio pensiero va quindi in modo particolare a chi fa parte della cosiddetta generazione digitale: con loro vorrei condividere alcune idee sullo straordinario potenziale delle nuove tecnologie, se usate per favorire la comprensione e la solidarietà umana.
Tali tecnologie sono un vero dono per l’umanità: dobbiamo perciò far sì che i vantaggi che esse offrono siano messi al servizio di tutti gli esseri umani e di tutte le comunità, soprattutto di chi è bisognoso e vulnerabile.
L’accessibilità di cellulari e computer, unita alla portata globale e alla capillarità di internet, ha creato una molteplicità di vie attraverso le quali è possibile inviare, in modo istantaneo, parole ed immagini ai più lontani ed isolati angoli del mondo: è, questa, chiaramente una possibilità impensabile per le precedenti generazioni.
I giovani, in particolare, hanno colto l’enorme potenziale dei nuovi media nel favorire la connessione, la comunicazione e la comprensione tra individui e comunità e li utilizzano per comunicare con i propri amici, per incontrarne di nuovi, per creare comunità e reti, per cercare informazioni e notizie, per condividere le proprie idee e opinioni.
Molti benefici derivano da questa nuova cultura della comunicazione: le famiglie possono restare in contatto anche se divise da enormi distanze, gli studenti e i ricercatori hanno un accesso più facile e immediato ai documenti, alle fonti e alle scoperte scientifiche e possono, pertanto, lavorare in équipe da luoghi diversi; inoltre la natura interattiva dei nuovi media facilita forme più dinamiche di apprendimento e di comunicazione, che contribuiscono al progresso sociale.
Sebbene sia motivo di meraviglia la velocità con cui le nuove tecnologie si sono evolute in termini di affidabilità e di efficienza, la loro popolarità tra gli utenti non dovrebbe sorprenderci, poiché esse rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.
Questo desiderio di comunicazione e amicizia è radicato nella nostra stessa natura di esseri umani e non può essere adeguatamente compreso solo come risposta alle innovazioni tecnologiche.
Alla luce del messaggio biblico, esso va letto piuttosto come riflesso della nostra partecipazione al comunicativo ed unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia.
Quando sentiamo il bisogno di avvicinarci ad altre persone, quando vogliamo conoscerle meglio e farci conoscere, stiamo rispondendo alla chiamata di Dio – una chiamata che è impressa nella nostra natura di esseri creati a immagine e somiglianza di Dio, il Dio della comunicazione e della comunione.
Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri.
In realtà, quando ci apriamo agli altri, noi portiamo a compimento i nostri bisogni più profondi e diventiamo più pienamente umani.
Amare è, infatti, ciò per cui siamo stati progettati dal Creatore.
Naturalmente, non parlo di passeggere, superficiali relazioni; parlo del vero amore, che costituisce il centro dell’insegnamento morale di Gesù: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza” e “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (cfr.
Mc 12, 30-31).
In questa luce, riflettendo sul significato delle nuove tecnologie, è importante considerare non solo la loro indubbia capacità di favorire il contatto tra le persone, ma anche la qualità dei contenuti che esse sono chiamate a mettere in circolazione.
Desidero incoraggiare tutte le persone di buona volontà, attive nel mondo emergente della comunicazione digitale, perché si impegnino nel promuovere una cultura del rispetto, del dialogo, dell’amicizia.
Pertanto, coloro che operano nel settore della produzione e della diffusione di contenuti dei nuovi media non possono non sentirsi impegnati al rispetto della dignità e del valore della persona umana.
Se le nuove tecnologie devono servire al bene dei singoli e della società, quanti ne usano devono evitare la condivisione di parole e immagini degradanti per l’essere umano, ed escludere quindi ciò che alimenta l’odio e l’intolleranza, svilisce la bellezza e l’intimità della sessualità umana, sfrutta i deboli e gli indifesi.
Le nuove tecnologie hanno anche aperto la strada al dialogo tra persone di differenti paesi, culture e religioni.
La nuova arena digitale, il cosiddetto cyberspace, permette di incontrarsi e di conoscere i valori e le tradizioni degli altri.
Simili incontri, tuttavia, per essere fecondi, richiedono forme oneste e corrette di espressione insieme ad un ascolto attento e rispettoso.
Il dialogo deve essere radicato in una ricerca sincera e reciproca della verità, per realizzare la promozione dello sviluppo nella comprensione e nella tolleranza.
La vita non è un semplice succedersi di fatti e di esperienze: è piuttosto ricerca del vero, del bene e del bello.
Proprio per tale fine compiamo le nostre scelte, esercitiamo la nostra libertà e in questo, cioè nella verità, nel bene e nel bello, troviamo felicità e gioia.
Occorre non lasciarsi ingannare da quanti cercano semplicemente dei consumatori in un mercato di possibilità indifferenziate, dove la scelta in se stessa diviene il bene, la novità si contrabbanda come bellezza, l’esperienza soggettiva soppianta la verità.
Il concetto di amicizia ha goduto di un rinnovato rilancio nel vocabolario delle reti sociali digitali emerse negli ultimi anni.
Tale concetto è una delle più nobili conquiste della cultura umana.
Nelle nostre amicizie e attraverso di esse cresciamo e ci sviluppiamo come esseri umani.
Proprio per questo la vera amicizia è stata da sempre ritenuta una delle ricchezze più grandi di cui l’essere umano possa disporre.
Per questo motivo occorre essere attenti a non banalizzare il concetto e l’esperienza dell’amicizia.
Sarebbe triste se il nostro desiderio di sostenere e sviluppare on-line le amicizie si realizzasse a spese della disponibilità per la famiglia, per i vicini e per coloro che si incontrano nella realtà di ogni giorno, sul posto di lavoro, a scuola, nel tempo libero.
Quando, infatti, il desiderio di connessione virtuale diventa ossessivo, la conseguenza è che la persona si isola, interrompendo la reale interazione sociale.
Ciò finisce per disturbare anche i modelli di riposo, di silenzio e di riflessione necessari per un sano sviluppo umano.
L’amicizia è un grande bene umano, ma sarebbe svuotato del suo valore, se fosse considerato fine a se stesso.
Gli amici devono sostenersi e incoraggiarsi l’un l’altro nello sviluppare i loro doni e talenti e nel metterli al servizio della comunità umana.
In questo contesto, è gratificante vedere l’emergere di nuove reti digitali che cercano di promuovere la solidarietà umana, la pace e la giustizia, i diritti umani e il rispetto per la vita e il bene della creazione.
Queste reti possono facilitare forme di cooperazione tra popoli di diversi contesti geografici e culturali, consentendo loro di approfondire la comune umanità e il senso di corresponsabilità per il bene di tutti.
Ci si deve tuttavia preoccupare di far sì che il mondo digitale, in cui tali reti possono essere stabilite, sia un mondo veramente accessibile a tutti.
Sarebbe un grave danno per il futuro dell’umanità, se i nuovi strumenti della comunicazione, che permettono di condividere sapere e informazioni in maniera più rapida e efficace, non fossero resi accessibili a coloro che sono già economicamente e socialmente emarginati o se contribuissero solo a incrementare il divario che separa i poveri dalle nuove reti che si stanno sviluppando al servizio dell’informazione e della socializzazione umana.
Vorrei concludere questo messaggio rivolgendomi, in particolare, ai giovani cattolici, per esortarli a portare nel mondo digitale la testimonianza della loro fede.
Carissimi, sentitevi impegnati ad introdurre nella cultura di questo nuovo ambiente comunicativo e informativo i valori su cui poggia la vostra vita! Nei primi tempi della Chiesa, gli Apostoli e i loro discepoli hanno portato la Buona Novella di Gesù nel mondo greco romano: come allora l’evangelizzazione, per essere fruttuosa, richiese l’attenta comprensione della cultura e dei costumi di quei popoli pagani nell’intento di toccarne le menti e i cuori, così ora l’annuncio di Cristo nel mondo delle nuove tecnologie suppone una loro approfondita conoscenza per un conseguente adeguato utilizzo.
A voi, giovani, che quasi spontaneamente vi trovate in sintonia con questi nuovi mezzi di comunicazione, spetta in particolare il compito della evangelizzazione di questo “continente digitale”.
Sappiate farvi carico con entusiasmo dell’annuncio del Vangelo ai vostri coetanei! Voi conoscete le loro paure e le loro speranze, i loro entusiasmi e le loro delusioni: il dono più prezioso che ad essi potete fare è di condividere con loro la “buona novella” di un Dio che s’è fatto uomo, ha patito, è morto ed è risorto per salvare l’umanità.
Il cuore umano anela ad un mondo in cui regni l’amore, dove i doni siano condivisi, dove si edifichi l’unità, dove la libertà trovi il proprio significato nella verità e dove l’identità di ciascuno sia realizzata in una comunione rispettosa.
A queste attese la fede può dare risposta: siatene gli araldi! Il Papa vi è accanto con la sua preghiera e con la sua benedizione.
Dal Vaticano, 24 gennaio 2009 (©L’Osservatore Romano – 24 gennaio 2009)

III Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Giona 3.1-5.10 Fu rivolta a Giona questa parola del Signore: «Alzati, va’ a Nìnive, la grande cit-tà, e annuncia loro quanto ti dico».
Giona si alzò e andò a Nìnive secondo la parola del Signore.
Nìnive era una città molto grande, larga tre giornate di cammino.
Giona cominciò a percorrere la città per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaran-ta giorni e Nìnive sarà distrutta».
I cittadini di Nìnive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, grandi e piccoli.
Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si ravvide riguardo al male che aveva mi-nacciato di fare loro e non lo fece.
Incontrare Dio e farlo incontrare anche agli altri è l’idea fondamentale della prima lettu-ra.
Senza addentrarci nel ginepraio dei problemi sollevati dal testo, consideriamo Giona un libro più da meditare che da studiare.
Vogliamo solo ricordare che il libro, annoverato di solito tra i profeti, è collocato oggi da molti studiosi tra i libri didattici.
Infatti, diversamen-te dagli altri testi profetici, non presenta una raccolta di oracoli, limitandosi a quello scar-no annuncio: «Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta» che rimangono le uniche parole del suo messaggio.
L’assenza di oracoli è felicemente compensata dalla vita stessa del profeta che annuncia più con i fatti che con le parole, a tal punto da poter affermare che tutta la sua vicenda diventa epifania di Dio.
L’insegnamento allora non sta tanto nelle parole, quanto piuttosto nella trama che rivela così il suo intento didattico.
Il brano liturgico propone un profeta che ha già sperimentato sulla sua pelle il significa-to della conversione: non voleva recarsi a Ninive ad annunciare la salvezza ai pagani, ha voluto fare di testa sua.
Si è ritrovato solo, in mezzo al mare, con l’unica possibilità: quella di morire annegato.
L’amorosa provvidenza divina lo salva (è il significato del grosso pe-sce) e li riporta al punto di partenza.
Troviamo ora Giona in seconda edizione, riveduta e migliorata.
Di nuovo gli è rivolto l’invito del Signore che lo invia a Ninive con un ultimatum; « Ancora 40 giorni e Ninive sarà distrutta » (v.
4).
Il numero 40 indica un tempo opportuno per fare qualcosa e prendere de-cisioni, indica un’occasione decisiva e forse irripetibile.
È il momento di grazia per i Nini-viti.
Di fatto costoro accolgono l’occasione e, sebbene pagani, acconsentono al Dio di Giona con un’adesione plebiscitaria che interessa re e animali, due estremi per indicare tutti.
Il brano liturgico salta i vv.
6-9 che mostrano l’itinerario di conversione dei Niniviti.
La conclusione del v.
10 sottolinea: — Dio si qualifica come Dio della vita perché vuole la salvezza di ogni uomo e di tutti gli uomini (universalismo).
— Dio si serve degli uomini per operare i suoi prodigi (collaborazione): Dio ha voluto aver bisogno degli uomini.
Finché Giona privatizzava la sua vita, lontano da Dio, non solo non poteva essere utile agli altri, ma neppure realizzava la propria persona.
Aderendo al programma divino, da una parte Giona realizza se stesso perché fa il profeta e dall’altra diviene elemento e tramite di salvezza per gli altri.
Così è ciascun uomo quando accetta di far parte dell’organigramma divino.
A questo punto parrebbe di poter concludere il libro di Giona, visto che la sua missione ha avuto successo, convertendo prima se stesso e poi i Niniviti.
Ma terminando così, sem-brerebbe che la conversione sia un tornare indietro una volta sola, il lasciarsi convincere da Dio una volta per tutte.
Il che non è proprio vero.
Lo ricorda il capitolo che segue: la conversione è un’opera continua.
Lo afferma, per aliam viam anche la seconda lettura.
Seconda lettura: 1Corinti 7,29-31 Questo vi dico, fratelli: il tempo si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno mo-glie, vivano come se non l’avessero; quelli che piangono, come se non piangessero; quelli che gioiscono, come se non gioissero; quelli che comprano, come se non posse-dessero; quelli che usano i beni del mondo, come se non li usassero pienamente: passa infatti la figura di questo mondo! La conversione è uno stato di premurosa e amorosa attenzione alla volontà di Dio, un impegno a sintonizzare sempre più e sempre meglio la propria vita alle esigenze del Re-gno di Dio.
Ogni attaccamento morboso viene bocciato, così come risulta un perditempo ogni cocciutaggine a perpetuare ciò che è effimero.
Potrebbe essere questa una chiave di lettura del minuscolo brano liturgico proposto come seconda lettura.
A partire dal cap.
7 della prima lettera ai Corinti, Paolo, apostolo e catecheta, risponde ai quesiti che la comunità gli aveva sottoposto.
Il primo di essi trattava del matrimonio e della verginità.
Paolo ribadisce il valore del matrimonio (forse contro tendenze che lo sva-lutavano) anche se la verginità sembra rispondere ad un ideale maggiore (cf.
v.
7).
La cosa più importante, al di là di possibili gerarchie, consiste nel rispondere alla vocazione del Si-gnore (cf.
v.
17 ss.).
Il brano liturgico è racchiuso tra due affermazioni di transitorietà: «il tempo si è fatto bre-ve» e «passa infatti la figura di questo mondo!».
All’interno sono elencate alcune situazioni e il loro contrario (aver moglie / non aver moglie; piangere / non piangere…).
Paolo non intende fare previsioni cronologiche, quando afferma che il tempo è breve.
Egli ha di mira il Signore morto e risorto che ha dato avvio ad una situazione nuova e de-finitiva: siamo ormai nel tempo finale, quello definitivo.
In altre parole, non c’è da aspet-tarsi nulla di nuovo perché la vera novità, quella definitiva, è Lui, il Signore risorto.
Se siamo alla svolta finale, significa che la realtà prende senso e colore solo alla luce di Cristo risorto.
Viene tolto il plusvalore che normalmente viene attribuito alle situazioni (sposarsi, piangere, possedere), soprattutto se considerate solo nel loro aspetto esteriore (possibile traduzione del greco schema, reso in italiano con «scena», v.
31).
Ciò che rimane, oltre il tempo, è l’attaccamento a Cristo Signore, la configurazione a Lui nel mistero pasquale.
Il brano è quindi una calda esortazione a orientare tutto e a orientarsi definitivamente verso Lui.
Anche questo è conversione.
Paolo ha il merito di averci insegnato un altro aspetto del mai esaurito tema della conversione.
Vangelo: Marco 1,14-20 Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo».
Passando lungo il mare di Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori.
Gesù disse loro: «Venite dietro a me, vi farò diventare pescatori di uomini».
E subito lasciarono le reti e lo seguirono.
Andando un poco oltre, vide Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni suo fratello, mentre anch’essi nella barca riparavano le reti.
E subito li chiamò.
Ed essi lasciarono il loro padre Zebedèo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui.
Esegesi Le letture bibliche della presente domenica sono caratterizzate dalla duplice nota: la conversione è accoglienza dell’invito divino al rinnovamento; tale rinnovamento porta però sulla strada della solidarietà: alcuni annunciano ad altri la loro esperienza di salvezza, perché tutti ne possono beneficiare.
C’è lievitazione per tutti.
La preziosità del brano evangelico poggia sul duplice motivo di novità: incontriamo le prime parole di Gesù riportate dal Vangelo secondo Marco (vv.
14 -15), cui segue la prima azione di Gesù, quella di convocare alcune persone, introducendole al suo seguito, con lo scopo di allargare la cerchia con nuove persone, per la costruzione di una nuova famiglia, quella della Chiesa (vv.
16-20).
1.
Quando Gesù incomincia a parlare, fa riferimento a qualcosa che si è concluso e, più ancora, ad una novità che irrompe nella storia e alla quale bisogna prepararsi.
Tutto que-sto è espresso con la categoria a noi nota anche se non sempre molto familiare, come «re-gno di Dio».
Si tratta di un tema centrale che il novello predicatore propone subito al suo uditorio.
Ma è pure una chiave interpretativa per aprire in parte il mistero della sua per-sona.
Egli, certamente «rabbi» e pure «profeta» come lo chiama la gente (cf Mc 6,14s; 8,28), si definisce piuttosto come l’annunciatore del Regno, colui che con la parola dice che il Re-gno è presente e con la sua azione lo visibilizza.
Mc 1,15, diventa sotto questo aspetto par-ticolarmente illuminante.
Mediante le coordinate spazio-temporali l’annuncio di Gesù viene situato in un contesto geografico ben preciso, la Galilea, e in un contesto storico definito, l’arresto del Battista, il quale, in veste di precursore, era stato l’ultima voce autorevole capace di invitare gli uo-mini ad un rinnovamento, espresso esternamente con l’abluzione battesimale.
Spentasi questa voce profetica, ben si può dire: «II tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino, convertitevi e credete al vangelo».
Numerosi commentatori sono concordi nel leggere in queste parole la visione riassunti-va del pensiero di Gesù, non necessariamente la citazione ad litteram delle sue parole.
È certo comunque che esse segnano il trapasso da un’epoca ad un’altra, da un atteggiamento di fiduciosa attesa ad uno di imminente realizzazione.
Infatti nel dire «il tempo è compiu-to» si capisce che un processo è arrivato al suo termine dopo uno sviluppo più o meno lungo.
Nel linguaggio di Mc l’espressione fa riferimento al tempo preparatorio dell’A.T.
e presuppone la conoscenza delle varie tappe del piano divino, collegate tra loro da quella continuità che in Dio è semplice unità, nell’uomo è progressiva rivelazione.
Solo Gesù, pienezza della rivelazione, può dire che il tempo preparatorio è giunto al suo termine e so-lo dopo la Pasqua, pienezza della manifestazione di Gesù, la comunità dei credenti può aderire alla verità secondo cui lui, figlio dell’uomo e figlio di Dio, da inizio ad un’epoca nuova.
Questo tempo allora non è un chronos ma un kairos, vale a dire, non una successione di attimi fuggenti qualitativamente simili ad altri, bensì un’occasione unica da vivere ora nel-la sua interezza ed esclusività, perché questo tempo che «è compiuto» (al perfetto in greco per indicare un’azione del passato ma con effetti presenti) è la porta di accesso alla situa-zione nuova, che Paolo chiama «pienezza dei tempi» (Gal 4,4) e che Marco riconosce nella presenza del Regno di Dio.
Infatti il verbo greco enghiken si può tradurre tanto «è vicino», «è arrivato», quanto «è giunto», «è presente».
La venuta del Regno di Dio deve essere veramente qualcosa di straordinario se esige un cambiamento radicale espresso dall’imperativo «convertitevi» che unito al seguente «cre-dete al vangelo» indica che passato e presente non si possono mescolare; lo conferma lin-guisticamente il termine greco «metanoia» che allude ad un cambiamento di mentalità (nous = mente), corrispondente all’ebraico shub che esprime il ritorno da una strada sba-gliata, ovviamente per imboccare quella giusta.
Bisogna cambiare o ritornare per aderire con cuore nuovo al «vangelo».
2.
Alle prime parole di Gesù segue la prima azione.
Anch’essa merita attenzione, pro-prio per capire le intenzioni di Gesù.
La conversione appena annunciata ha bisogno di mediatori, di persone che abbiano sperimentato per prime che cosa significhi.
Due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, colti nella quotidianità del loro lavoro, sono chiamati ad un nuovo servizio.
Non dovranno più interessarsi di pesci, ma di uomi-ni, non tirarli fuori dall’acqua, ma da una vita scialba e insulsa.
Devono prospettare loro «il Regno» che è l’amorosa presenza di Dio nella storia, così come è dato percepirlo con la ve-nuta di Gesù.
Con la chiamata dei primi discepoli alla sequela di Gesù, si pongono le basi della co-munità ecclesiale.
Alcuni punti sono di grande attenzione: — Sono persone coinvolte nel Regno.
Se l’annuncio del Regno è stata la ‘passione’ di Gesù, anche loro dovranno avere a cuore la diffusione del Regno.
— Sono persone chiamate ad una vita di comunione, con Gesù prima di tutto e poi tra lo-ro.
Esse non aderiscono ad un programma, ad un ‘manifesto’, ma ad una persona.
— I chiamati, rispondono con un’adesione personale, pronta e totale.
Si aderisce con tutta la vita e per sempre.
Non sono ammessi lavoratori part time.
— Il gruppo non ha nulla della setta.
È vero che all’inizio sono solo quattro, ma poi diven-teranno dodici e tutti avranno come compito primario l’annuncio del Regno, la sua diffu-sione in mezzo agli uomini (cf.
6,6ss).
Ciò vuol dire che la loro esperienza di incontro con il Signore e di vita con Lui diventa l’oggetto del loro annuncio.
Andranno a presentare una persona, quella verso la quale vale la pena orientare tutta la propria vita.
Sono dei ‘convertiti’ che avranno la passione di con-vertire altre persone.
Per la stessa causa.
Per il Regno.
Perché Dio sia tutto in tutti.
Meditazione Al centro della liturgia della Parola di questa domenica c’è il racconto della chiamata dei primi quattro discepoli, che siamo invitati a leggere tenendo sullo sfondo la chiamata di Giona, proposta nella prima lettura: «Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore» (Gn 3,1).
Le pagine precedenti del libro narrano infatti che Giona è incapace di accogliere subito la chiamata di Dio, anzi fugge a Tarsis, dalla parte opposta rispetto a Ni-nive, dove Dio lo vorrebbe inviare.
Così una seconda volta la parola del Signore lo chiama e finalmente Giona obbedisce: «Si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore» (v.
2).
Il libro di Giona ci rivela peraltro che non è la paura a indurre inizialmente il profeta al-la fuga, e neppure la difficoltà o il prevedibile insuccesso della missione che gli viene affi-data.
Giona teme, paradossalmente, che la sua missione abbia successo e che gli abitanti di Ninive si convertano, consentendo così a Dio di rivelarsi per quello che è: «Un Dio miseri-cordioso e pietoso, lento all’ira, di grande amore», che si ravvede riguardo al male minac-ciato (cfr.
Gn 4,2).
La conversione dei Niniviti diventa occasione in cui Dio può svelare il segreto del suo mistero personale.
Detto in altri termini: non è la conversione a cambiare Dio e a renderlo pietoso; accade il contrario: che Dio sia misericordioso, e attraverso il suo profeta si manifesti tale, consente ai Niniviti di convertirsi.
Proprio questo Giona accetta con fatica: la gratuità dell’amore di Dio, che non chiede nulla in cambio e non pone condi-zioni, ma previene e rende possibile all’uomo di tornare a essere giusto.
La conversione non è il prezzo, ma il frutto della misericordia di Dio.
Il racconto di Giona ci offre così alcune chiavi per aprire il testo evangelico.
Una prima: confrontando l’atteggiamento di Simone e Andrea, Pietro e Giovanni, con quello di Giona, sembra emergere una grande diversità.
I primi quattro chiamati rispondono «subito» (v.
18) alla chiamata di Gesù, senza bisogno che egli torni a chiamarli «una seconda volta».
I due racconti sono tuttavia più affini di quanto non appaia.
Nell’evangelo di Marco due volte risuona l’avverbio «subito».
La prima volta al v.
18 e ha come soggetto i discepoli; la seconda volta al v.
20 e ha come soggetto Gesù, che subito chiama Giacomo e Giovanni, appena li vede, come aveva già fatto con Simone e Andrea (questo secondo «subito» è sta-to giustamente introdotto dalla nuova traduzione della Cei, mentre la precedente lo omet-teva).
Il «subito» della risposta dei discepoli è reso possibile dal «subito» con cui Gesù chiama, senza prima soppesare le qualità dei discepoli o valutare se sapranno seguirlo fino in fondo.
Anzi, l’intera vicenda narrata da Marco mostrerà che non riusciranno a farlo; se adesso «abbandonano tutto» per seguire Gesù (vv.
18.20), alla fine della storia, nel Getsè-mani, «tutti abbandonano» Gesù per fuggire altrove (Mc 14,50, in greco c’è il medesimo verbo).
Il Risorto tornerà allora a chiamare una seconda volta proprio coloro che lo aveva-no abbandonato.
Era accaduto così anche a Giona: Dio non aveva scelto un altro inviato, ma era tornato a chiamare colui che era fuggito.
La perseveranza nella sequela, l’obbedien-za alla parola che chiama, non dipendono anzitutto da qualità e risorse umane, ma dalla fedeltà di Dio che torna sempre a chiamare «una seconda volta».
È la fedeltà della sua chiamata a suscitare la fedeltà della nostra risposta.
Giona è inviato ad annunciare ai Niniviti la conversione; anche i discepoli sono resi par-tecipi dell’annuncio fondamentale di Gesù: «Convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15).
Né l’uno né gli altri devono però dimenticare che la conversione non è solamente il conte-nuto del loro annuncio, ma la sua condizione e il suo stile.
Si annuncia la conversione solo a condizione di vivere un cammino personale di ritorno al Signore che sempre ci chiama una «seconda volta» dentro l’esperienza della nostra debolezza, delle nostre esitazioni o smarrimenti, addirittura nelle nostre fughe e nei nostri peccati.
Sia il libro di Giona sia l’evangelo di Marco ci rivelano così che la nostra conversione è resa possibile dal dono preveniente di Dio: è il dono del suo Regno che si approssima, il fatto che egli per primo si converta verso di noi, a rendere possibile la nostra risposta.
Nel-l’annuncio fondamentale di Gesù risuonano quattro verbi: i primi due all’indicativo (il tempo è compiuto; il regno di Dio è vicino); gli altri due all’imperativo (convertitevi; credete).
Con l’indicativo Gesù annuncia qualcosa che avviene e che deve essere constatato e accol-to; con l’imperativo esprime le esigenze che ciò che sta avvenendo pone agli uomini.
L’in-dicativo precede l’imperativo: ciò che avviene è donato gratuitamente; nello stesso tempo l’indicativo fonda l’imperativo: ciò che avviene esige una risposta.
La esige proprio perché la rende possibile.
Il Regno si è fatto così vicino che ora è davvero alla nostra portata acco-glierlo.
È vicino non perché manchi ancora qualcosa alla sua realizzazione da parte di Dio.
Nel Figlio tutto è donato.
Ciò che manca è la decisione dell’uomo, la sua risposta, che però ora sono possibili.
Non ci sono scuse né rinvii: occorre decidersi e credere ‘subito’, perché il Regno è donato nelle nostre mani e il tempo, come scrive Paolo, «si è fatto breve» (1 Cor 7,29).
Questo dono avviene peraltro sempre nella logica della ‘consegna’.
«Dopo che Giovanni fu arrestato» Gesù inizia ad annunciare la prossimità del Regno.
In greco Marco usa il ver-bo «consegnare».
Il Battista viene consegnato come Gesù verrà consegnato (cfr.
Mc 9,31; 10,33; 14,41).
Giovanni il precursore precede Gesù anche nella morte, profetizzando così che Dio dona il Regno consegnando il suo Figlio unigenito.
Proprio questa consegna radi-cale e definitiva compie il tempo e compie anche la nostra possibilità di sequela: Dio ‘con-segna’ tutto, possiamo perciò anche noi lasciare tutto e seguirlo.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – tre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo di avvento e Natale, Milano, Vita e Pensiero, 2008, pp.
63.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Signore, vieni a invitarci (…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti, non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire, essere gioioso, essere leggero, e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni sui passi che ti piace fare.
Bisogna essere come un prolungamento, vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra scandisce.
(…) Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito, e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica; dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza, che la tua Santa Volontà è di una inconcepibile fantasia, e che non c’è monotonia e noia se non per le anime vecchie, che fanno tappezzeria nel ballo gioioso del tuo amore.
Signore, vieni a invitarci.
(…) Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo che sono tristi; se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo che sono logoranti.
E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere; sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno avviato fra te e noi, il ballo singolare della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni; in essa quel che tu permetti da suoni strani nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno la nostra condizione umana come un vestito da ballo che ci farà amare da te, tutti i suoi dettagli come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita, non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato, non come un match dove tutto è difficile, non come un teorema rompicapo, ma come una festa senza fine in cui l’incontro con te si rinnova, come un ballo, come una danza, fra le braccia della tua grazia, nella musica universale dell’amore.
Signore, vieni a invitarci.
(Madeleine DELBRÉL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89).
Vieni, seguimi! Secondo Girolamo, la parola di vocazione che Gesù pronuncia corrisponde a una nuova creazione.
Chi si incontra con Gesù rimane affascinato dal suo volto, scopre la sua realtà e intraprende il cammino di ritorno al Padre.
E subito li chiamò: e quelli, lasciato il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni, lo seguirono.
Qualcuno potrebbe dire: — Ma questa fede è troppo temeraria.
Infatti, quali segni avevano visto, da quale maestà erano stati colpiti, da seguirlo subito dopo essere stati chiamati? Qui ci vien fatto capire che gli occhi di Gesù e il suo volto dovevano irradiare qualcosa di divino, tanto che con facilità si convertivano coloro che lo guardavano.
Gesù non dice nient’altro che «seguitemi», e quelli lo seguono.
È chiaro che se lo avessero seguito senza ragione, non si sarebbe trattato di fede ma di temerarietà.
Infatti, se il primo che passa dice a me, che sto qui seduto, vieni, seguimi, e io lo seguo, agisco forse per fede? Perché dico tutto questo? Perché la stessa parola del Signore aveva l’efficacia di un atto: qualunque cosa egli dicesse, la realizzava.
Se infatti «egli disse e tutto fu fatto, egli coman-dò e tutto fu creato» [Sal 148,5], sicuramente, nello stesso modo, egli chiamò e subito essi lo seguirono.
«E subito li chiamò: e quelli subito, lasciato il loro padre Zebedeo…» ecc.
«Ascolta, fi-glia, e guarda, e porgi il tuo orecchio, dimentica il tuo popolo e la casa di tuo padre: il re desidera la tua bellezza» [Sal 44,11ss.].
Essi dunque lasciarono il loro padre nella barca.
Ascolta, imita gli apostoli: ascolta la voce del Salvatore, e trascura la voce carnale del pa-dre.
Segui il vero Padre dell’anima e dello spirito, e abbandona il padre del corpo.
Gli apo-stoli abbandonano il padre, abbandonano la barca, in un momento abbandonano ogni loro ricchezza: essi, cioè, abbandonano il mondo e le infinite ricchezze del mondo.
Ripeto, ab-bandonarono tutto quanto avevano: Dio non tiene conto della grandezza delle ricchezze abbandonate, ma dell’animo di colui che le abbandona.
Coloro che hanno abbandonato poco perché poco avevano, sono considerati come se avessero abbandonato moltissimo.
(GIROLAMO (347-420), Commento al vangelo di Marco, 2 (Tr.: R.
MINUTI-R.
MARSI-GLIO, Roma, 1965, 35-36).
Butto la rete Signore, la mia sola sicurezza sei tu, come il mare che ho davanti e nel quale butto la rete della mia vita.
Anche se finora non ho pescato nulla, anche se a volte non ne ho la voglia, io so, Signore, che se avrò la forza di buttare continuamente questa rete, troverò il senso della verità.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto Pensieri e lettre spirituali 1977-2005, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2005, 58).
Preghiera Signore, tu hai aperto il mare e sei venuto fino a me; tu hai spezzato la notte e hai inaugurato per la mia vita un giorno nuovo! Tu mi hai rivolto la tua Parola e mi hai toccato il cuore; mi hai fatto salire con te sulla barca e mi hai portato al largo.
Signore, Tu hai fatto cose grandi! Ti lodo, ti benedico e ti ringrazio, nella tua Parola, nel tuo Figlio Gesù e nello Spirito Santo.
Portami sempre al largo, con te, dentro di te e tu in me, per gettare reti e reti di amore, di amicizia, di condivisione, di ricerca insieme del tuo volto e del tuo regno già su questa terra.
Signore, sono peccatore, lo so, ma anche per questo ti ringrazio, perché tu non sei venu-to a chiamare i giusti, ma i peccatori e io ascolto la tua voce e ti seguo.
Ecco, Padre, lascio tutto e vengo con te…

Valutare gli insegnanti e le scuole

Premiare gli insegnanti più bravi e dare più finanziamenti alle scuole migliori è facile a dirsi ma complicato, molto complicato a farsi.
Oltre che costoso: in media dai 31 agli 81 milioni di euro l’anno, tanto ci vuole a mettere in piedi un sistema di rating efficiente.
A stilare il piano di fattibilità della valutazione scolastica è stata una commissione di esperti, incaricata dall’Invalsi, l’ente nazionale per la valutazione.
Che nel giro di qualche settimana dovrà prospettarne i risultati al ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini.
Una proposta per rendere finalmente operativa la differenziazione dei salari per il personale e quella finanziaria per gli istituti scolastici, a cui hanno inutilmente lavorato in passato altri ministri a viale Trastevere.
Tre gli artefici della proposta- tutti accademici- che ha l’ambizione di essere bipartisan: Daniele Checchi, Giorgio Vittadini e Andrea Ichino, fratello del giuslavorista Pietro.
Questi, senatore del Pd e ordinario di diritto del lavoro all’università di Milano, ha collaborato alla definizione dell’autorità di vigilanza per l’efficienza del lavoro pubblico e all’individuazione degli indici di produttività per i dipendenti pubblici previsti dalla riforma Brunetta.
Indici a cui ricorre anche Andrea Ichino (docente all’università di Bologna), per dare concretezza alla misurazione dell’efficacia del sistema scolastico.
Si parte dalla misurazione dell’apprendimento degli studenti di seconda e quinta elementare, terza media e ultimo anno delle superiori, attraverso prove standardizzate somministrate da valutatori esterni alla scuola.
Attesa l’inaffidabilità dei docenti interni, portati ad aiutare i propri ragazzi, sostengono i tre esperti.
Le risposte potranno essere chiuse o aperte e corrette meccanicamente oppure da commissari esterni (prof di altre regioni, studenti universitari).
Variabili, queste, che fanno oscillare i costi dai 31 agli 81 milioni di euro l’anno.
Nel caso della terza media e dell’ultimo anno delle superiori, le prove dovranno essere somministrate ad aprile, dovranno essere rilevanti ai fini dell’esame di stato e utilizzabili per l’ammissione ai livelli successivi.
Uno dei pilastri della proposta è l’anagrafe scolastica nazionale che «segua nel tempo tutti gli studenti consentendo di abbinare la loro performance alle caratteristiche delle scuole frequentate e degli insegnanti incontrati, nonché a dati di fonte amministrativa sulle caratteristiche demografiche ed economiche delle loro famiglie».
Il punteggio attribuito allo studente dovrà separare così quello che nel rendimento è attribuibile alla scuola e ai suoi insegnanti, al contesto socio-economico e al singolo studente.
Al miglioramento dei risultati, seguiranno incrementi stipendiali per gli insegnanti.
Ma visto che il lavoro del docente è di gruppo, la soluzione indicata dalla commissione è quella inglese: ovvero finanziare di più le scuole con indici più alti perché queste poi possano pagare meglio i propri insegnanti.
Ma le scuole, per poter davvero rispondere dei propri risultati, devono poter avere voce in capitolo anche in materia di reclutamento.
E qui la riforma comincia a farsi difficile.
da ItaliaOggi

Chiesa 2.0: pescatori di uomini in Rete

Per don Pompili, i responsabili dei siti internet delle diocesi e delle altre realtà cattoliche debbono chiedersi anche se «è giusto continuare a contrapporre il virtuale al reale? E, d’altra parte, in che modo le due esperienze, obiettivamente diverse, possono integrarsi?».
«Non vi è dubbio – sottolinea – che ci siano in giro difensori entusiasti del virtuale che tendono a minimizzare il suo impatto, così come vi sono ostinati detrattori del virtuale che vorrebbero descriverlo necessariamente come antitesi all’umano».
Un altro interrogativo riguarda il nuovo individualismo che cresce: «In che modo questo individualismo interconnesso ridisegna il territorio umano e, dunque, la dinamica relazionale?».
Ma la questione centrale «è quella che si muove tra identità e linguaggi».
In questi anni, ricorda il sacerdote, «non sono mancati pertinenti pronunciamenti da parte del Magistero.
Ultimo in ordine di tempo, l’annunciato messaggio per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia) che lascia chiaramente immaginare – e in modo dichiaratamente pro-positivo – che in questo ambito si gioca una partita importante dell’umano».
Il boom di internet in parrocchia.
Pescatori di uomini sì, ma nella Rete delle reti, evitando di rimanere intrappolati però nei meandri di internet.
Con più di duemila anni di storia e il Vangelo da annunciare al mondo la Chiesa e la sua missione salvifica potrebbe sembrare distante dal world wide web, un ambiente virtuale ed elettronico che ha avuto la sua ampia diffusione popolare non più di quindici anni fa.
Eppure andando sui browser e nei motori di ricerca si scopre che on line c’è una marea di pagine personali, blog, siti parrocchiali, di associazioni e movimenti che crescono di giorno in giorno confermando come il cristianesimo nelle diverse fasi storiche, compresa quella che stiamo vivendo, si è sempre incarnato e inserito nelle culture del suo tempo.
In Italia fino al marzo 2008 il numero di siti cattolici ha raggiunto quota 12mila secondo la lista www.siticattolici.it curata da Francesco Diani.
Di questi il 24,2 per cento sono riconducibili a siti di comunità parrocchiali mentre il 20 per cento ad associazioni e movimenti, il 7 per cento ai siti personali.
Un dato che conferma la ricerca dell’Università di Perugia condotta da Paolo Mancini, docente di sociologia della comunicazione, su un campione di 1338 persone: quasi l’86 per cento delle parrocchie italiane posseggono un computer e nel 70 per cento dei casi esiste una connessione a internet; circa il 62 per cento delle comunità parrocchiali ha un indirizzo di posta elettronica e «ciò avviene nonostante l’età piuttosto avanzata della maggior parte dei parroci italiani – dice la ricercatrice Rita Marchetti che ha collaborato all’indagine –.
Basta pensare che quasi il 50 per cento di essi ha più di sessant’anni».
La ricerca sarà presentata tra oggi e domani proprio al convegno “Chiesa 2.0”, rivolto principalmente ai responsabili diocesani della comunicazione internet, e in cui ci si interroga sul futuro della relazione tra virtuale e reale, e sull’individualismo che deriva dall’uso della rete, per capire se è possibile per la Chiesa e i cattolici essere presenti nel web mantenendo la propria lingua e la propria identità.
Alcuni esempi.
Per Daniel Arasa, docente di struttura dell’informazione e comunicazione digitale presso la Pontificia Università della Santa Croce, «qualsiasi istituzione che desideri trasmettere una sua immagine pubblica d’accordo con l’identità di se stessa, non può fare a meno dell’uso di internet e, concretamente, di avere un sito web».
Il problema quindi, secondo Arasa, che è autore di Church communications through diocesan websites.
A model of analysis, non è tanto se avere un sito web oppure non averlo, ma quale tipologia di sito costruire.
«Il web 2.0 – aggiunge – ha fatto sì che questi elementi siano sottomessi ad una nuova dinamica: alla diffusione dell’informazione si sono aggiunti lo scambio e il feedback».
È il caso del sito www.religione20.net, più di un semplice blog curato da Luca Paolin, che fa parte della comunità virtuale promossa da alcuni insegnanti di religione.
Ad oggi raccoglie più di cento membri attivi in tutta Italia all’indirizzo http://ircduepuntozero.ning.com/.
Il sito offre spunti e suggestioni dall’attualità, aree di documentazione e link di approfondimento.
Si propone come una raccolta di strumenti utili e segnalazioni per una didattica della religione in stile web 2.0.
Il sito de La vita cattolica di Udine (www.lavitacattolica.it) è un esempio di convergenza cooperativa, perché il settimanale della diocesi si integra con la radio e il sito dell’arcidiocesi stessa, mentre su www.diocesinoto.it, il sito internet istituzionale della diocesi siciliana, è possibile percorrere un itinerario multimediale delle Chiese barocche.
Nel portale dell’arcidiocesi di Napoli (www.chiesadinapoli.it) invece le parrocchie hanno un’area a loro dedicata in cui comunicare gli orari delle Messe, gli incontri delle varie pastorali, le date dei pellegrinaggi e dei ritiri spirituali.
«Parrocchie Map» permette inoltre di cercare la parrocchia più vicina alla propria abitazione.
Il portale ha infatti lo scopo di collegare in rete il tessuto di parrocchie e realtà ecclesiali della diocesi partenopea.
Una sfida accolta.
Un impegno, quello di essere presenti su internet, che mette in evidenza come la Chiesa abbia accettato dal Concilio Vaticano II, con la pubblicazione del decreto Inter Mirifica, le sfida provenienti dai mezzi di comunicazione e in seguito anche dei nuovi media.
«Non basta usarli per diffondere il messaggio cristiano, ma occorre integrare il messaggio stesso in questa nuova cultura creata dalla comunicazione moderna» scriveva nella Redemptoris missio Giovanni Paolo II.
Nel ’99 il convegno promosso dalla Cei ad Assisi, «Chiesa in rete.
Nuove tecnologie e pastorale», testimoniava un interesse per le nuove tecnologie applicate alla comunicazione e alla trasmissione del Vangelo.
A Milano, nel 2002, l’Università Cattolica prese spunto dalla 36esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, che aveva come tema Internet: un nuovo forum per proclamare il Vangelo, puntando ad accendere i riflettori sul fenomeno internet come un nuovo forum, nel senso attribuito a questo termine nell’antica Roma, cioè di uno spazio pubblico dove si conducevano politica e affari, dove si adempivano i doveri religiosi, dove si svolgeva gran parte della vita sociale della città e dove la natura umana si mostrava al suo meglio e al suo peggio.
Il 22 febbraio 2002 il Pontificio consiglio per le comunicazioni sociali pubblica La Chiesa e internet e Etica in internet.
Due documenti utili per orientarsi nel mare del web, così come il Direttorio sulle comunicazioni sociali della Cei.
Infatti, per quanto potenti ed affascinanti possano essere questi nuovi strumenti occorre comprendere che restano in mano all’uomo e alla sua responsabilità.
Allora anche internet diventa terreno di scontro tra bene e male, dibattito tra entusiasti e critici, tra verità e menzogna, spazio di dialogo, di contatto, di relazioni umane, di incontro tra culture, ma anche strumento di frodi e di abusi.
Per questo risulta interessante e c’è attesa per il messaggio di Benedetto XVI in occasione della 43esima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali 2009, sul tema «Nuove tecnologie, nuove relazioni.
Promuovere una cultura di rispetto, di dialogo, di amicizia».
Tema su cui riflettere anche per via dell’espansione dei social network, ossia di quelle «reti sociali» che hanno traghettato il web in una nuova fase: il web 2.0.
«In che modo è possibile avere in Rete una fisionomia riconoscibile senza per questo assumere linguaggi scontati o peggio indecifrabili?».
A porsi questa domanda è il direttore dell’Ufficio Nazionale delle Comunicazioni Sociali e portavoce della Cei, don Domenico Pompili, che ha aperto oggi a Roma il convegno nazionale “Chiesa in rete 2.0” promosso insieme al Servizio Informatico della Chiesa Italiana.
«Non vi è dubbio – rileva Pompili – che è cresciuto il rapporto con la Rete, ma la domanda resta: come dobbiamo essere noi stessi, fino in fondo, senza per questo assumere uno stile linguistico desueto, quando non tautologico, cioè ripetitivo?».

I bulli crescono tra videogiochi violenti e famiglie inesistenti

Famiglie inesistenti, videogiochi violenti, mancanza di regole.
Così si diventa bulli.
A tracciare l’identikit è Paola Vinciguerra, psicologa, presidente dell’Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico), in base a un’indagine condotta su un gruppo di 600 persone sul fenomeno bullismo.
TRASGRESSIONE ADOLESCENZIALE «Il dato più interessante e allo stesso tempo preoccupante – spiega la Vinciguerra – è che il 70 per cento delle persone che hanno risposto al nostro sondaggio online, quelle con un’età compresa tra i 18 e i 45 anni, considerano il bullismo unicamente come comportamento di trasgressione sociale, come può essere quello di vestirsi in maniera appariscente riempiendosi di piercing, per esempio».
Questo, in sostanza, significa che gli stessi adolescenti e i loro genitori non considerano il bullismo come un problema sul quale porre particolare attenzione.
La psicoterapeuta, anche direttore dell’Unità italiana attacchi di panico (Uiap) presso la Clinica Paiedia di Roma, aggiunge che «il 50 per cento di coloro che hanno risposto al sondaggio, e che hanno un’età compresa tra i 45 e i 55 anni, riconosce il fenomeno come realmente esistente ed allarmante, riconducendone la responsabilità primaria alle istituzioni e in modo particolare alla scuola».
Più si è adulti, dunque, e più ci si rende conto della grandezza e gravità del fenomeno.
Il 70 per cento degli over 55 che hanno partecipato al questionario online, infatti, considerano il bullismo un fenomeno esistente e addebitano la responsabilità in primo luogo alla famiglia, e poi alle istituzioni.
TROPPO POCO TEMPO DEDICATO AI FIGLI Ma cosa si nasconde dietro il bullismo? «Le cause degli atteggiamenti aggressivi tipici di questo fenomeno – continua la Vinciguerra in una nota – sono da ricercare nella sfera familiare innanzitutto, poi in quella scolastica e istituzionale.
La nuova struttura familiare non è più un solido riferimento indistruttibile: le separazioni dei genitori sono in aumento e gli equilibri relazionali e gli schemi educativi, che vanno a determinarsi dopo la separazione, sono precari e lontani dalle esigenze dei bambini e degli adolescenti», avverte.
«Inoltre si passa troppo poco tempo con i figli per spiegare e trasmettere codici morali di stile di vita e per capire i loro disagi cercando di rassicurarli».
Secondo l’esperta, è necessario mettere in discussione lo stile di vita che ci viene proposto.
«Il fare frenetico – afferma – svuota le azioni del loro significato primario che dovrebbe essere quello emotivo.
Le leggi che regolano la nostra cultura consumistica sono la transitorietà e l’appagamento immediato del desiderio a discapito della durevolezza e quindi della stabilità e della conquista del desiderio, con il conseguente atteggiamento di emarginazione di coloro che non riescono a stare al passo».
INTERNET E VIDEOGIOCHI «Per non parlare dell’uso smodato di tv, Internet e videogiochi: tutti e tre elementi assolutamente dannosi per i bambini e gli adolescenti», prosegue la psicologa, secondo la quale le istituzioni dovrebbero vigilare su tutto ciò che, in maniera così libera e senza controllo, gira in Rete, nonchè sulla commercializzazione dei videogiochi dai contenuti aggressivi.
«Ma ciò che risulta preoccupante – aggiunge – è come sia cambiato il ruolo del vincente.
Il vincente, infatti, non è come per le generazioni precedenti il buono e il coraggioso che mette a repentaglio la sua vita per difendere la vittima dal cattivo.
Il vincente, oggi, è colui il quale uccide di più, ruba di più».
«Inoltre – sottolinea la Vinciguerra – i ragazzi sono particolarmente stimolati dalle immagini violente che si trovano facilmente su Internet.
Immagini che mostrano comportamenti violenti e molto aggressivi che agli adolescenti possono risultare normali.
Non possiamo quindi meravigliarci se i nostri ragazzi siano aggressivi e contrari a qualsiasi forma di regola: forse non abbiamo vigilato sull’insegnamento di validi modelli di riferimento da proporre loro e i giovani, con questa nuova idea di come si deve essere vincenti, costruiranno la futura società».
AUTOREVOLEZZA NECESSARIA, BASTA COI GENITORI «AMICI» Per quanto concerne poi la famiglia, «sicuramente – suggerisce la psicologa – dobbiamo cominciare a fare un lavoro di educazione con i nostri figli, che non è solo quello di impartire regole sommarie di buona educazione.
Il problema è che i nostri ragazzi non sono abituati alla comunicazione del loro vissuto emotivo ed affettivo: questo dobbiamo insegnarglielo noi.
Li dobbiamo osservare, cercando si intuire i loro disagi, parlarne e rassicurarli.
I ragazzi hanno bisogno di regole, da soli non riescono ad orientarsi.
Ma noi adulti dove siamo? – chiede critica l’esperta – Controlliamo quanto stanno davanti alla tv o quanto tempo passano attaccati a Internet o ai loro videogames? L’era del genitore amico, visti i risultati, è tramontata.
L’autoritarismo ha creato stuoli di depressi e aggressivi? Dobbiamo allora percorrere la strada del dialogo, della spiegazione, ma non dobbiamo perdere la nostra autorevolezza.
Che scuola ed istituzioni – conclude la Vinciguerra con un appello – affianchino i genitori con corsi di supporto per far sì che svolgano al meglio il loro delicato compito, che intervengano dove è di loro competenza consultandosi con professionisti del settore».
Corriere della sera 19 gennaio 2009

La volgarità nel linguaggio comune

In Italia lo si riassume col “vaffa”.
In Gran Bretagna lo sintetizzano con “F word” (la parola che comincia per F).
In ogni paese ha un suo slang e diverse caratteristiche.
Ma il fenomeno è universale: la nostra era ha sdoganato le parolacce, le volgarità, gli insulti.
Basta sintonizzarsi su una stazione radio, su un canale televisivo o navigare su internet, dove blog, commenti ai blog e chat-line ne sono infarciti, per rendersi conto delle dimensioni del problema.
Al punto che ormai, per la stragrande maggioranza, non è più un problema.
Un sondaggio condotto nel Regno Unito, probabilmente sintomatico di una situazione generalizzata anche altrove, rivela che nove adulti su dieci dicono parolacce tutti i giorni, che il britannico medio ne fa uso mediamente 14 volte al giorno e che il 90 per cento della popolazione non ci trova niente di male, di strano o di offensivo, insomma ci ha fatto l’abitudine: la “F word” (in questo caso non specifichiamo quale sia, tanto non è difficile arrivarci) è ormai considerata una parola come le altre, non una parolaccia.
Adesso qualcuno prova a dire, educatamente, basta e pensa di avere individuato il principale colpevole.
I promotori di una Campaign for Courtesy (Campagna per la Cortesia), qui in Gran Bretagna, chiedono ai media cartacei e digitali, all’industria cinematografica, ma soprattutto alla radio e alla televisione di moderare il proprio linguaggio.
“In tivù si sentono parolacce in continuazione e questo deve cambiare”, dice Edsther Rantzen, personalità televisiva e uno degli ideatori della protesta, al quotidiano Daily Express, che dedica oggi la prima pagina al tema.
“Sarà vero che la maggioranza della gente le dice, ma in questo paese esiste ancora un appetito per le buone maniere”, gli fa eco Peter Foot, che dirige la campagna di pressione.
Quando il linguaggio volgare e sboccato risuona dal video con particolare virulenza, in effetti, una parte dell’opinione pubblica protesta.
Succede talvolta in Italia, dove le risse verbali a base di insulti e contumelie sono la regola in tivù: non solo c’è da noi l’abitudine a dire parolacce, ma perdono le staffe e sembrano pronti a venire alle mani anche i conduttori televisivi e perfino i ministri, come accaduto di recente con quello della Difesa, Ignazio La Russa, che sembrava sul punto di esplodere davanti alle pacate dichiarazioni del direttore dell’Unità Concita De Gregorio.
In Inghilterra, dove l’uso di scrivere lettere di protesta è più diffuso, forse perché ogni tanto se ne tiene conto, ne sono partite a migliaia quando la cantante Madonna ha usato espressioni sconce durante un’intervista radiofonica e ancora di più quando un presentatore, Jonathan Ross, e un comico, Russell Brand, hanno fatto pesanti allusioni sessuali alla radio su una giovane attrice.
Brand si è dimesso dallo show, Ross è stato sospeso per due mesi e la Bbc si è impegnata a non dire più parolacce, tanto più che è un network pubblico e che la gente, pagando il canone, si sente in diritto di esprimere il proprio parere.
Ma i canali privati non vanno tanto per il sottile.
Gordon Ramsey, cuoco-celebrità, fa degli insulti e delle “F word” il suo cavallo di battaglia, nel programma che tiene da anni in tivù.
Un altro celebrity-chef, Jamie Oliver, ha dovuto chiedere scusa dopo avere detto la stessa parolaccia non meno di 23 volte in un programma di 50 minuti.
Non è una questione di etichetta, sostiene John Beyer della società di consulenze MediaWatch: “Questo tipo di linguaggio danneggia la nostra cultura, a 5 anni i bambini ripetono quello che ascoltano in tivù e il modo di parlare di questo passo diventerà sempre più trito, volgare, banale”.
Anche dalle scuole, in questo paese come in Italia, giungono simili segnali d’allarme: influenzati da tivù e media, i giovani parlano sempre peggio, infarcendo sempre di più il discorso di brutte parole.
Siamo sicuri, domandano educatori e psicologi, che un linguaggio simile sia davvero liberatorio, moderno, accettabile? Il sondaggio pubblicato dal Daily Express, tuttavia, sembra indicare che è troppo tardi, almeno per gli inglesi.
Soltanto l’8 per cento degli interpellati si dice offeso dalle parolacce.
E il 78 per cento ammette di dirle non perché sia arrabbiato per qualche motivo, ma così, senza alcuna precisa ragione.
Repubblica 19 gennaio 2009