In occasione della giornata della Memoria esce in Italia il graphic novel dell’olandese Eric Heuvel, realizzato dalla Casa di Anna Frank Un fumetto per spiegare l’Olocausto.
Arriva in Italia “La Stella di Esther”, graphic novel del disegnatore olandese Eric Heuvel, che racconta la Shoah pensando ai ragazzi.
Partendo dalla storia di Esther, giovane ebrea tedesca vittima della persecuzione nazista, che, ormai nonna, ricorda la sua vita parlandone al nipote e, con il suo aiuto, riesce a rimettersi sulle tracce del suo pesante passato e ad affrontarlo.
Pubblicato da De Agostini con il patrocinio della Ucei (Unione comunità ebraiche italiane) e realizzato dalla Casa di Anna Frank, il fumetto esce da noi in occasione della Giornata della Memoria.
Dall’originale olandese è già stato tradotto in tedesco, polacco, ungherese e inglese ed ha già fatto parlare di sé, prima di tutto in Germania, dove è usato nelle scuole come ausilio didattico nell’insegnamento dell’Olocausto ai ragazzi.
Le vicende di Esther prendono vita nello stile dolce di Heuvel, ex insegnante di storia, che è un omaggio dichiarato a Hergé, il papà di Tintin, con la stessa linea chiara, semplice e colorata; nulla a che vedere, per intenderci, con quel bianco e nero claustrofobico usato da Art Spiegelman in “Maus”, altro graphic novel, questa volta per adulti, che trattatava il tema della Memoria.
Una scelta studiata con molta attenzione, per compensare la durezza dei fatti narrati con un segno morbido, che non vuole traumatizzare.
“La Stella di Esther” è infatti pensato per far conoscere la storia della persecuzione ebraica ad adolescenti e preadolescenti, sfruttando un medium cui sono immediatamente attratti e per loro immediato, ma allo stesso tempo sempre più diffuso per trattare temi alti e complessi.
Esther è già in copertina, quando, ragazzina, fugge dai camion dei soldati nazisti.
Nelle pagine interne, è diventata nonna e ricorda tra lo stupore di suo nipote e di quello della sua amica Helena di quando lasciò la Germania per l’Olanda, costretta a nascondersi per non finire con la famiglia ai campi di concentramento.
Una vita che cambia rapidamente, i vicini di casa che diventano estranei o nemici, il compagno con cui giocava ogni pomeriggio che non si fa più trovare perché il padre non approva che veda un’ebrea.
Un passato lontano, che riaffiora tavola dopo tavola.
Senza tralasciare i fatti storici, il fumetto punta decisamente sulle esistenze dei singoli, che subiscono sulla loro pelle l’ascesa di Hitler e le persecuzioni in un crescendo che invade la loro quotidianità e li priva del lavoro, degli amici, del rispetto degli altri, fino ad ostracizzarli per poi arrivare alle deportazioni di massa.
Dialoghi e disegni con cui Heuvel racconta sofferenze ed umiliazioni sono stati studiati con particolare cura.
“Usare un tratto classico, rassicurante, è una scelta ben precisa, come quella di evitare tutto il brutale e l’inenarrabile della Shoah, perfettamente in linea con la didattica della memoria oggi”, spiega Odelia Liberanome Bedarida, coordinatrice del centro pedagogico della Ucei, che ha patrocinato il libro-fumetto.
“Se si mostrano scene terribili si tende a rimuoverle.
Perché la memoria abbia un senso, ci si deve concentrare su messaggi attuali e comprensibili”.
Anche il colore è stato preferito al tradizionale bianco e nero, comune per le opere che trattano visivamente dell’Olocausto, per non incorrere in un eccesso di melodrammaticità.
Questo understatement di trama e stile non nasconde però nulla, e riporta la realtà della tragedia in tutta la sua complessità.
“Oggi che i sopravvissuti stanno invecchiando, ci si ricorderà di questa terribile pagina della storia solo se i ragazzi si abitueranno a pensare a quali sono stati i valori morali, e a riflettere sui diversi atteggiamenti tenuti dalla gente, sul valore della scelta: da chi è rimasto indifferente a chi ha scelto di aiutare o di diventare a sua volta persecutore” dice ancora Liberanome Bedarida.
Perché “tutto può accadere di nuovo se non si è ben attenti a monitorare i valori dell’uguaglianza e ad impegnarsi a ricordare”.
Partendo, magari, da un fumetto.
da Repubblica.it
Giovani ed internet
L’aumentato utilizzo dei social network come Facebook porterebbe con sé molte opportunità di contatto tra i ragazzi, aiutati a superare le timidezze a coltivare i propri interessi insieme agli altri.
Il tempo dedicato a fare ricerche è però sempre meno.
E sale il rischio adescamento: dal 1998 ad oggi in Italia sono stati chiusi per pedofilia 177 siti.
Il Moige lancia una campagna informativa: esperti del movimento entreranno in 50 scuole per incontrare studenti, genitori e docenti.
Sembra ridursi sempre più il tempo che i giovani dedicano ad internet per realizzare ricerche o per trovare informazioni di supporto allo studio.
In calo sarebbe anche la recente abitudine intrapresa dai ragazzi di scaricare dal web file musicali o multimediali di ogni genere.
Sale invece l’utilizzo della rete per comunicare con gli altri o per fare nuove amicizie: un fenomeno che spiega il boom dei social network come Facebook, il luogo virtuale per eccellenza dove si possono facilmente conoscere nuovi amici, ma anche chiacchiere in chat, scambiarsi confidenze, raccontare la propria vita quotidiana a tutti, otre che inserire le proprie foto.
La moda del suo utilizzo starebbe però anche ampliando le possibilità di adescamento dei minori su internet: una triste escalation di ragazzi caduti in trappole tese da individui spietati che spesso celano la loro vera identità e i loro scopi per “colpire” al momento opportuno.
I dati provengono da un’indagine condotta da Swg per il Movimento italiano genitori (Moige).
In base allo studio risulta che l’utilizzo della rete porterebbe con sé molte opportunità di contatto tra i ragazzi, aiutati a superare le timidezze a coltivare i propri interessi insieme agli altri, ma anche diversi pericoli, primo fra tutti quello dell’adescamento dei pedofili.
Per mettere in guardia ragazzi e genitori, aiutandoli a riconoscere i pericoli e a utilizzare gli strumenti di sicurezza, il Moige lancia una campagna di informazione, che ha preso il via a fine gennaio per coinvolgere 50 scuole medie inferiori in due anni: 28 nel 2009 e le altre nel 2010.
Gli esperti del movimento dei genitori entreranno nelle aule insieme agli agenti della polizia postale nelle ore di lezione, mentre al pomeriggio incontreranno genitori e docenti, che spiegare loro come utilizzare gli strumenti di controllo per la verifica e la limitazione della navigazione.
Sei genitori su dieci, infatti, secondo la ricerca, non adottano alcun sistema di controllo sul computer, nonostante il fatto di essere preoccupati: l’83% dei 600 genitori con figli compresi tra gli 11 e i 15 anni che hanno partecipato all’indagine, ammette di avere il timore di pedofili o di un uso pericoloso di internet da parte dei propri figli.
“L’avvento dei nuovi social network con Facebook e My Space potrebbe incrementare il rischio di adescamento per i nostri ragazzi”, spiega Diego Busi, direttore della divisione investigativa della polizia postale.
“La nostra campagna – sottolinea Maria Rita Munizzi, presidente del Moige – nasce proprio per questo motivo: noi adulti, genitori e insegnanti, non possiamo più permetterci di restare nell’ignoranza ma dobbiamo iniziare a conoscere internet e gli strumenti a nostra disposizione per proteggere i ragazzi, insegnare loro a utilizzarlo e assicurare loro una navigazione sicura”.
Malgrado si operi in un ambito virtuale, i pericoli sono più che reali: secondo la polizia postale dal 1998 ad oggi in Italia sono stati chiusi per pedofilia 177 siti internet.
E poco meno di altri 11mila siti internet pedofili, scoperti durante l’attività investigativa, sono stati poi segnalati dagli agenti italiani alle forze di polizia di altri Paesi.
Negli ultimi dieci anni, grazie al lavoro di controllo, sono scattati 238 arresti e 4.465 denunce.
In tutto la polizia postale italiana ha controllato oltre 293mila siti internet.
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La Bibbia. Via, verità e vita
Pubblichiamo stralci dell’introduzione generale. La Scrittura tra eternità e tempo Parola divina e parole umane, Verbo e carne, eternità e tempo, infinito e spazio umano, Dio e uomo.
Sono sempre due le prospettive da adottare nella lettura della Bibbia e due sono le luci che devono illuminare il cammino interpretativo del lettore credente.
C’è innanzitutto l’aspetto storico-letterario.
Esso esige nel lettore una certa attrezzatura critica fatta di conoscenze specifiche.
È questo il lavoro che compie l’esegesi, un termine che nella sua origine greca indica un “tirare fuori” dal testo tutta la sua ricchezza di contenuti e di messaggio, identificandone i mezzi espressivi e le sue forme.
A quest’ultimo riguardo è importante saper identificare i cosiddetti generi letterari, cioè le varie modalità con cui si esprimono i diversi contenuti: differenti sono, infatti, i linguaggi adottati quando si deve codificare un testo giuridico, si innalza un inno di lode, si descrive un evento storico, si invoca un sostegno nella supplica, si elabora una lettera, si approfondisce con la riflessione un tema, si narra una parabola per illustrare un concetto, si proclama un oracolo sacrale e profetico, si ammonisce e si esorta a scegliere un comportamento morale e così via.
Naturalmente, oltre ai generi, sono molte altre le forme letterarie, i simboli, le tipologie espressive come anche le ricerche di taglio storiografico da condurre così da interpretare correttamente i testi biblici nel loro profilo storico-letterario.
Anzi, soprattutto nella seconda metà del Novecento si sono moltiplicati altri metodi di scavo nella pagina biblica per coglierne meglio il suo aspetto letterario e il suo contenuto.
Si è attenti, ad esempio, alla dimensione sociale in cui sono vissuti gli uomini e le donne della Bibbia e che è poi riflessa negli scritti sacri.
Si ricorre alla psicologia e alla psicanalisi per meglio decifrare alcune esperienze profetiche o il linguaggio delle immagini e dei simboli biblici e per penetrare nel mondo dei miracoli.
Ci sono letture “femministe” della Bibbia, preoccupate di non confondere alcuni modelli storici ed espressivi patriarcali della società ebraica antica col messaggio della Sacra Scrittura sulla creatura umana.
Altre volte l’attenzione si fissa sull’analisi delle narrazioni bibliche, sulle tecniche di convincimento che in alcuni testi sacri sono sviluppate attraverso la retorica, ossia l’arte della persuasione, come non manca il ricorso a moderni approcci di studio del testo nelle sue strutture (la semiotica).
Due sono gli ambiti nei quali l’esercizio della corretta interpretazione storico-letteraria si accende spesso di interesse vivace, anche perché tocca la nostra sensibilità attuale.
Il primo è quello della “verità” che la Scrittura vuole comunicarci.
In passato si confondevano i piani tra espressione e contenuto e così scattavano forti tensioni tra scienza e fede: tanto per fare un esempio, pensiamo alla teoria dell’evoluzionismo.
Certo, l’autore sacro viveva in una cultura nella quale il modello scientifico era quello “fissista” per cui l’uomo era già compiuto e completo nel suo apparire all’interno di un mondo concepito, tra l’altro, in modo geocentrico.
Era questo l’insegnamento che la Bibbia voleva offrire? In realtà essa non voleva rispondere a domande di scienza riguardanti l’antropologia o l’astrofisica, bensì a interrogazioni esistenziali e religiose sul senso della vita, della creatura umana, dell’essere e del loro legame col Creatore.
È per questo che pittorescamente sant’Agostino affermava che “non si legge nel Vangelo che il Signore abbia detto: “Vi manderò il Paraclito per insegnarvi come vanno il sole e la luna.
Voleva formare dei cristiani, non dei matematici”” (De Genesi ad litteram, 2, 9, 20).
Bisogna, dunque, interrogare la Bibbia in modo corretto, senza costringerla a risposte che non vuole offrire e che solo artificiosamente le possiamo strappare.
L'”inerranza” della Sacra Scrittura – come si era soliti dire in passato – non riguarda la scienza o la storiografia ma gli asserti religiosi.
O meglio, la “verità” che la Bibbia ci vuole comunicare non è di tipo scientifico ma teologico, come ha sottolineato in modo nitido il concilio Vaticano ii: “I libri della Sacra Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore, la verità che Dio, a causa della nostra salvezza, volle che fosse consegnata nelle Sacre Lettere” (Dei Verbum, 11).
Le verità che le pagine sacre ci insegnano sono, perciò, quelle finalizzate alla nostra salvezza.
Non possiamo, però, ignorare che molti testi biblici sono striati di sangue e di violenza, di immoralità di ogni genere, non di rado senza un giudizio negativo, anzi, talora con una tacita o diretta, apparente o implicita approvazione divina.
Essi generano reazioni scandalizzate nel lettore che sia sensibile non solo al messaggio dell’amore evangelico ma anche ai puri e semplici valori umani.
È, questa, l’altra questione interpretativa, ancor più delicata e lacerante.
Basta, infatti, sfogliare i primi capitoli del libro di Giosuè, che descrivono la conquista della terra promessa, per scoprirvi un cumulo di efferatezze e di stermini, posti sotto il sigillo dell’ordine divino.
Altrettanto impressionante è la collera furibonda che pervade i cosiddetti “Salmi imprecatori” (ad esempio, Salmi, 58; 109; 137, 8-9).
È indubbio che l’analisi letteraria fa capire subito che queste pagine risentono del linguaggio e dello stile caratteristici della cultura dell’antico Vicino Oriente che amava l’eccesso verbale, i colori accesi, l’esasperazione dei toni e aveva fiducia nella forza “offensiva” della parola stessa, fondamentale in una civiltà di tipo orale.
L’odio per il male e l’ansia per la giustizia si esercitano, perciò, prima di tutto a livello verbale.
Ma tutto questo non basta per giustificare l'”immoralità” di quei testi.
Decisiva per rimuovere questo ostacolo che si para davanti al lettore della Scrittura è un’altra considerazione.
La via maestra per comprendere correttamente simili testi marziali o violenti o immorali è ancora una volta quella di tener presente la qualità specifica della rivelazione biblica: essa è per eccellenza storica.
La parola e l’azione divina non sono sospese in cieli mitici e mistici ma sono innescate nella trama tormentata e faticosa della vicenda umana.
Esse non sono simili a una serie di tesi o verità astratte, raccolte in un florilegio scritto, ma sono come un seme che germoglia sotto il terreno arido, sassoso e opaco della storia e dell’esistenza.
Dio, allora, si fa vicino e paziente, si adatta al limite e persino alla brutalità della creatura umana libera e progressivamente cerca di condurla verso un orizzonte più alto che ha nella legge evangelica dell’amore e del perdono il suo apice, ma che ha già nell’Antico Testamento squarci luminosi: “Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza, ci governi con molta indulgenza (…) Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare l’umanità” (Sapienza, 12, 18-19).
Proprio questa dimensione storica e progressiva della rivelazione biblica ci fa comprendere quanto pericolosa e illusoria sia la lettura “fondamentalista” della Bibbia, praticata da alcuni movimenti religiosi.
Essa vorrebbe presentarsi come esemplare perché la sua fedeltà al testo è letterale, assoluta, ciecamente affidata alle parole e alle frasi così come esse materialmente suonano, senza applicare quella corretta interpretazione che conduce alla scoperta di ciò che veramente l’autore sacro voleva comunicare attraverso un linguaggio connotato e datato, legato a un mondo culturale e sociale concreto e ormai lontano da quello in cui noi ora viviamo.
È, quindi, indispensabile il contributo dell’esegesi e dell’interpretazione – naturalmente ottenuto attraverso un metodo corretto – per essere autenticamente fedeli al senso vero della Sacra Scrittura.
Per questa via non si dissolve la “lettera” della Bibbia e la sua storicità, ma si riesce a cogliere la “verità” che essa ci vuole comunicare così da divenire “lampada per i passi e la luce sul cammino” della vita del lettore (Salmi, 119, 105).
In questa linea si riesce a comprendere il monito di san Paolo secondo il quale “la lettera uccide, è lo Spirito che dà vita” (2 Corinzi, 3, 6).
È per questo che la Bibbia è nel cuore stesso della liturgia, ove è proclamata, commentata, meditata e attualizzata.
Essa è anche l’anima dell’annunzio della fede e della catechesi; è l’alimento della vita spirituale attraverso la lectio divina, ossia la lettura intima e fruttuosa che trasferisce l’appello di Dio nell’esistenza personale del credente.
La Bibbia è alla base della teologia che a quella fonte attinge la verità da illustrare e approfondire e la norma morale da seguire nelle scelte personali e comunitarie.
La Bibbia è alla radice del nostro legame con l’ebraismo ed è il terreno privilegiato per il dialogo ecumenico tra i cristiani che alla Scrittura guardano come a una stella polare.
Anzi, figure, eventi e temi biblici pervadono, sia pure elaborati e trasformati, lo stesso libro sacro dell’islam, il Corano.
La Bibbia è il “grande codice” di riferimento della cultura.
Per secoli personaggi, eventi, simboli, idee, temi biblici hanno offerto le immagini per le creazioni più alte della pittura e della scultura, sono stati trasfigurati nella musica, sono stati ripresi e ricreati dalla letteratura, hanno stimolato la riflessione filosofica e sostanziato la ricerca morale.
Per rendere più disponibili le Scritture ai lettori di nuovi ambiti culturali e spirituali, fin dall’antichità si è proceduto a tradurre in nuove lingue quei libri.
In greco nacque, tra il III e il II secolo prima dell’era cristiana, la versione dei Settanta, così chiamata per una tradizione leggendaria che ne attribuiva la paternità a settanta studiosi riuniti ad Alessandria di Egitto per compiere questa impresa.
In latino san Girolamo, tra il 383 e il 406, tra Roma e Betlemme, ove si era ritirato, si dedicò a preparare la Vulgata, cioè la traduzione “popolare” che dominerà nella Chiesa cattolica nei secoli successivi; le varie comunità cristiane antiche affrontarono altre versioni nelle loro lingue e così si continuò a fare fino ai nostri giorni, in tutte le lingue del nostro pianeta.
Lo stesso accade anche a questa traduzione italiana che è quella ufficiale della Conferenza episcopale italiana, giunta ormai a una definitiva redazione.
Conservata alle origini su papiri, poi su codici di pergamena e persino su cocci di terracotta, divenuta il primo libro stampato (la Bibbia di Gutenberg del 1452), la Sacra Scrittura approda anche nella civiltà informatica sulle pagine elettroniche, testimoniando la sua presenza sempre vitale nella cultura dell’umanità e nella fede dei credenti.
Ora è davanti a noi in questa traduzione rinnovata ed efficace, accompagnata da un commento che coniuga essenzialità e ricchezza di contenuti, offrendo spunti preziosi per l’uso liturgico e pastorale, senza però venir meno alle esigenze di una corretta e rigorosa esegesi e interpretazione.
Si ritrovano, così, in azione le due dimensioni della Parola divina e delle parole umane, della fede e della storia, del “Verbo” e della “carne”.
La Bibbia potrà, così, diventare “la via, la verità e la vita” del fedele nel cammino della sua esistenza e nella luce della sua presenza.
di Gianfranco Ravasi (©L’Osservatore Romano – 1 febbraio 2009) La Bibbia.
Via, verità e vita, Edizione San Paolo, Cinisello Balsamo, 2008, pagine 2672, euro 29 Arriva in libreria l’edizione San Paolo della Bibbia con la nuova traduzione della Conferenza episcopale italiana.
Il progetto editoriale del volume è diretto da Gianfranco Ravasi per l’Antico Testamento e da Bruno Maggioni per il Nuovo.
In un volume unico il testo biblico nella nuova traduzione CEI accompagnato da inedito apparato di note su tre livelli: VIA, Note di carattere teologico; VERITA’, Note di carattere esegetico; VITA, Note di carattere liturgico.
La dinamica impaginazione permette di avere a portata di mano tutti i riferimenti necessari per la collocazione e l’interpretazione del testo.
La Bibbia Via Verità e Vita è l’unica che tiene traccia, in nota, delle modifiche apportate nella traduzione rispetto alla passata edizione del 1974.
Vita consacrata Parola di Dio vissuta
La testimonianza profetica della vocazione dei consacrati e delle consacrate si fonda sull’amore di Gesù, che ha trasformato le loro esistenze, e richiama la stessa passione evangelica di san Paolo, come ha affermato Benedetto XVI il 28 giugno 2008 nei primi vespri dei santi apostoli Pietro e Paolo: l’apostolo Paolo “ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore e rivela quale sia la molla più intima della sua vita.
“(…) Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Lettera ai Galati 2, 20).
Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro.
La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; (…) è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma.
La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo.
La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore”.
È questo anche il movente che spinge ogni persona consacrata a donarsi a Dio e ai fratelli e che compendia tutta un’ampia riflessione sul valore fondante dell’amore per l’identità del cristiano e connota ancor più coloro che si donano al Signore alla radice stessa della loro vocazione e semplicemente li fa essere servi per amore del Vangelo.
Un fatto che certamente segnò la svolta decisiva nella vita di san Paolo fu l’evento di Damasco, l’incontro sconvolgente del giovane Saulo, feroce persecutore della Chiesa, con Gesù di Nazareth, che gli si manifestò con le parole: “(…) Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?…
Io sono Gesù che tu perseguiti!” (Atti degli Apostoli, 9, 4-5), rivelazione divina che lo trasformò in apostolo e missionario delle genti.
Tale cristofania sulla via di Damasco operò la conversione di san Paolo e fu l’investitura divina della sua missione, quale annunciatore del vangelo ai pagani.
Egli dirà nella Lettera ai Filippesi: “(…) Sono stato conquistato da Gesù Cristo” (3, 12), e da colui che “si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani” (Lettera ai Galati 1, 15-16).
È sempre il Signore che fa breccia nel cuore di ogni consacrato, chiamandolo alla comunione personale con lui e guidandolo in un’esistenza trasformata dal suo amore.
La persona consacrata nel suo rapporto dialogico con Dio diventa così “epifania dell’amore di Dio nel mondo” (Vita consecrata, cap.
III) e può ripetere con san Paolo: “Per me (…) il vivere è Cristo” (Lettera ai Filippesi 1, 21), perché “l’amore del Cristo ci spinge” (Seconda lettera ai Corinzi 5, 14).
La vita fatta donazione di amore, che le persone di vita consacrata vivono tramite i consigli evangelici, trova la sua sorgente e la sua forza nell’ascolto della Parola di Dio.
Sul terreno dell’esperienza, infatti, tra i consacrati si avverte un notevole impulso verso la Bibbia come desiderio di ascoltare la Parola di Dio, per cui l’incontro con il Vangelo è la categoria privilegiata attraverso cui presentare la fede cristiana all’uomo d’oggi.
L’incontro con la Parola diviene così un fatto esistenziale interpersonale e un’esperienza religiosa da vivere.
Il recente Sinodo dei Vescovi afferma: “La vita consacrata nasce dall’ascolto della Parola di Dio e accoglie il Vangelo come sua norma di vita.
Alla scuola della Parola, riscopre di continuo la sua identità e si converte in evangelica testificatio per la Chiesa e per il mondo.
Chiamata ad essere “esegesi” vivente della Parola di Dio, essa stessa è una parola con cui Dio continua a parlare alla Chiesa e al mondo” (Proposizione 24).
In questo cammino con la Parola di Dio le persone di vita consacrata, come esorta il concilio Vaticano ii, “abbiano quotidianamente tra le mani la Sacra Scrittura, affinché dalla lettura e dalla meditazione dei Libri sacri imparino “la sovreminente scienza di Gesù Cristo” (Filippesi 3, 8)” (Perfectae caritatis, n.
6) e trovino rinnovato slancio nel loro compito di educazione e di evangelizzazione specie dei poveri, dei piccoli e degli ultimi con il Vangelo “promuovendo nei modi consoni al proprio carisma scuole di preghiera, di spiritualità e di lettura orante della Scrittura” (Vita consecrata, n.
94).
Il Testo biblico deve diventare oggetto di quotidiana ruminatio e di confronto per un discernimento personale e comunitario in modo tale che Dio possa tornare, secondo le parole di sant’Ambrogio, a passeggiare con l’uomo come nel paradiso terrestre.
Specie la lettura orante della Parola di Dio (lectio divina), fatta insieme dalle persone consacrate, diventa il luogo per una rinnovata crescita vocazionale e un valido ritorno al Vangelo e allo spirito dei fondatori auspicato dal Vaticano ii e sempre riproposto dal magistero della Chiesa come afferma Giovanni Paolo II: “La Parola di Dio è la prima sorgente di ogni spiritualità cristiana.
Essa alimenta un rapporto personale con il Dio vivente e con la sua volontà salvifica e santificante.
È per questo che la lectio divina, fin dalla nascita degli Istituti di vita consacrata, in particolar modo nel monachesimo, ha ricevuto la più alta considerazione.
Grazie ad essa, la Parola di Dio viene trasferita nella vita, sulla quale proietta la luce della sapienza che è dono dello Spirito” (Vita consecrata, n.
94).
In particolare, le persone consacrate valorizzino il confronto comunitario con la Parola di Dio, che recherà comunione fraterna, gioiosa condivisione delle esperienze di Dio nella loro vita e faciliterà loro una crescita nella vita spirituale.
Molti sono stati i riferimenti alla vita cristiana e alla vita consacrata che il Sinodo dei Vescovi ha fatto in riferimento alla Parola di Dio.
Una delle sottolineature più importanti emerse nell’Assemblea sinodale è stata quella relativa alla necessità di comprendere il senso e la dimensione dell’espressione “Parola di Dio” con il suo concetto analogico.
La Parola di Dio non va semplicemente identificata con le Sacre Scritture, testimonianza privilegiata della Parola, perché la Parola precede ed eccede la Bibbia stessa.
La Parola, infatti, è essenzialmente una Persona, è Gesù Cristo, di cui il versetto di Giovanni 1, 14 sull’incarnazione, è la sintesi della fede cristiana.
Il cristianesimo non è la religione del libro, ma la religione della Persona, di Gesù Cristo evento centrale della storia umana, che offre a tutti i credenti la chiave ermeneutica per comprendere le Scritture.
Naturalmente il contesto adeguato e privilegiato per ascoltare la Parola di Dio è la liturgia ecclesiale, in particolare l’Eucaristia, dove la Chiesa vive l’unità dei due Testamenti e celebra la presenza del Cristo vivo, che svela il senso delle Scritture Sante.
È in questo contesto che la comunità di fede, aperta a tutta la Tradizione viva della Chiesa, continua a nutrire il popolo di Dio nell’unica mensa della Parola e del Pane eucaristico.
Un contributo tra i più incisivi del Sinodo è stato quello di approfondire una riflessione teologica per situare con chiarezza la Scrittura nell’ambito teologico che le spetta, quello della sacramentalità, per cui il Libro sacro è totalmente relativo al mistero della Parola e ne è mediazione efficace.
Da questo ruolo sacramentale della Bibbia sono seguite alcune attuazioni pastorali: il rapporto tra Bibbia e liturgia, dove la Scrittura trova nel contesto liturgico il proprio luogo di annuncio, di ascolto e di attuazione; il rapporto tra Bibbia e comprensione teologica, per cui l’esegesi scientifica si deve aprire al progetto di salvezza, che trova il suo centro in Cristo sapendo valorizzare il dialogo tra esegeti, teologi e pastori; infine, il rapporto tra Bibbia e Chiesa, in quanto la Tradizione vivente precede il Libro, gli offre l’ambiente vitale, grazie anche al magistero.
Benedetto XVI, infatti, ha affermato: “La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica”.
Un altro tema che ha suscitato vasto interesse tra i padri sinodali è stato quello della predicazione e specie dell’omelia, che dovrebbe essere mistagogica, cioè portare i fedeli presenti alla celebrazione ad un incontro di esperienza e di conversione con la persona del Signore e ad avvicinare ogni credente al mistero pasquale di Cristo.
In questa luce la Proposizione 15 sull’omelia recita: “Essa conduce al mistero che si celebra, invita alla missione e condivide le gioie e i dolori, le speranze e le paure dei fedeli (…).
L’omelia deve essere nutrita di dottrina e trasmettere l’insegnamento della Chiesa per fortificare la fede, chiamare alla conversione nel quadro della celebrazione e preparare all’attuazione del mistero pasquale eucaristico”.
Per questo il Sinodo ha rivolto a tutti un caldo invito all’incontro vitale e diretto con la Scrittura perché da questa nasca “una nuova stagione di più grande amore per la Sacra Scrittura da parte di tutti i fedeli del popolo di Dio, cosicché dalla loro “lettura orante” e fedele nel tempo si approfondisca il rapporto con la persona stessa di Gesù”.
Il Sinodo, dunque, è stato un’esperienza che ha fortemente richiamato tutta la Chiesa, e in particolare le persone religiose impegnate nel campo della vita apostolica, al primato della Parola di Dio nell’annuncio e nella vita di fede, sottolineando sia la ricerca esegetico-teologica della Bibbia, che fa cogliere “il senso spirituale” del Testo sacro e permette di giungere al contenuto delle Scritture secondo il principio dell’ispirazione che anima l’intera Bibbia, sia una pastorale intimamente ancorata alla Parola di Dio e a un accesso comprensibile dei credenti al Libro sacro, accompagnato dall’azione dello Spirito Santo, che è il vero esegeta delle Scritture.
Il messaggio della Conferenza episcopale italiana per la Giornata mondiale della vita consacrata del 2 febbraio 2009 esorta le persone consacrate a un rinnovato e generoso slancio apostolico, affermando: “Questa Giornata sia per tutti i consacrati e le consacrate l’occasione per rinnovare l’offerta totale di sé al Signore nel generoso servizio ai poveri, secondo il carisma dell’Istituto di appartenenza.
Le comunità monastiche e religiose siano oasi nelle quali si vive il primato assoluto di Dio, della sua gloria e del suo amore, nella gioia della comunione fraterna e nella dedizione appassionata ai poveri, agli ultimi, ai sofferenti nel corpo e nello spirito”.
Si tratta, in conclusione, di abbandonarsi alla lode silenziosa del cuore in un clima di semplicità e di preghiera adorante come ha fatto Maria, la Vergine dell’ascolto e della Parola: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto” (Luca 1, 38), perché tutte le Parole di Dio si riassumono e vanno vissute nell’amore (cfr.
Deuteronomio 6, 5; Giovanni 13, 34-35).
(©L’Osservatore Romano – 1 febbraio 2009) Particolare significato acquista quest’anno la 13 Giornata mondiale della vita consacrata, il 2 febbraio, festa della Presentazione del Signore.
Essa si celebra infatti nell’Anno di san Paolo, apostolo e missionario del Vangelo, e pochi mesi dopo il Sinodo dei Vescovi sul tema “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”.
Già Giovanni Paolo II nel Messaggio per la prima Giornata della vita consacrata aveva sottolineato il valore biblico della collocazione di tale celebrazione nella ricorrenza liturgica della Presentazione di Gesù al Tempio, in quanto il racconto biblico “costituisce un’eloquente icona della totale dedizione della propria vita per quanti sono chiamati a riprodurre nella Chiesa e nel mondo, mediante i consigli evangelici, “i tratti caratteristici di Gesù vergine, povero ed obbediente”” (Vita consecrata, n.
1).
La vita consacrata, per il fatto di ripresentare la forma di vita di Cristo, è Parola di Dio per la Chiesa e per il mondo.
Se è vero inoltre che la Chiesa si riconosce sommamente realizzata nella donazione di sé a Cristo, la vita consacrata rappresenta questo vertice ecclesiale e quindi Parola vissuta, cioè pronunciata e accolta con la vita, segno della presenza di Cristo e del mistero della Chiesa.
Tale ricorrenza, inoltre, è motivo per ringraziare il Signore per il dono delle persone consacrate che con la loro vita di conformazione a Cristo, di testimonianza al Vangelo e con la loro generosa disponibilità ad annunciarlo nei vasti campi della missione attraverso i diversi servizi carismatici, sono portatori, come lo fu l’apostolo Paolo, della bellezza di Dio e dei doni che lo Spirito del Signore diffonde nel loro genere di vita.
Chiesa ortodossa russa: Kirill patriarca
Alessio II era stato eletto nel 1990 ora tutti si aspettano da Kirill un rafforzamento, non solo numerico, della Chiesa ortodossa minacciata dal secolarismo e dall’indifferentismo religioso.
Un compito che Kirill ha ben presente e che, per molti aspetti, lo mette in sintonia con il pontificato di Benedetto XVI.
Il neo-patriarca di Mosca «è persona ben conosciuta e stimata da Benedetto XVI» nota padre Lombardi, portavoce della Santa Sede, che ha subito inviato gli auguri a Kirill «perché possa svolgere un servizio fruttuoso e continuare ad approfondire un cammino di reciproca conoscenza e collaborazione per il bene dell’umanità».
Ieri sera le campane di tutte le chiese di Mosca hanno suonato a lungo in segno di festa, mentre nella cattedrale di Cristo Salvatore il neo-patriarca s’inchinava davanti a coloro che l’avevano eletto.
Tra le volute d’incenso e i canti melodiosi della liturgia orientale, il «Concilio locale» ha avuto inizio a mezzogiorno in punto con una solenne processione degli arcivescovi dai paramenti violacei e dei metropoliti coi piviali azzurri, cui hanno fatto ala i rappresentanti dei monasteri in tonaca nera e i delegati laici in abito scuro.
Uno spettacolo di colori, di suoni e di profumi altamente suggestivo.
Dopo l’invocazione allo Spirito Santo il metropolita Kirill, reggente ad interim, ha baciato l’icona della Vergine di Feodorovskaja, una delle più venerate dai russi e già patrona della famiglia degli zar Romanov, e ha quindi aperto i lavori con un lungo intervento che a tutti è sembrato come un vero e proprio discorso programmatico.
Ha rivendicato con orgoglio che «il popolo russo ha resistito con successo al proselitismo venuto dall’estero» denunciando allo stesso tempo «la pressione aggressiva di un secolarismo senza Dio e i tentativi da parte alcuni gruppi protestanti radicali di rovesciare la morale evangelica».
Kirill ha ricordato ai partecipanti che questo Concilio locale è chiamato a prendere «decisioni storiche» e ha indicato tra gli obiettivi prioritari un maggior impegno sociale della Chiesa.
L’intronizzazione solenne del nuovo patriarca avverrà domenica prossima alla presenza di molte delegazioni straniere tra cui una folta rappresentanza vaticana.
Il nuovo patriarca ortodosso russo, Kirill (foto Ansa) dal nostro inviato a Mosca Luigi Geninazzi Avvenire, 28 gennaio ’09 La Chiesa ortodossa russa ha un nuovo patriarca: è il metropolita Kirill di Smolensk e Kaliningrad, eletto ieri sera a scrutinio segreto dall’Assemblea plenaria del «Concilio locale» già alla prima votazione.
Per l’ex «ministro degli esteri» del Patriarcato c’è stato un larghissimo consenso.
Kirill ha avuto l’appoggio di oltre i due terzi dei delegati, 508 voti su 700, (per la nomina era richiesto il 50 per cento più uno), confermando in tal modo tutte le previsioni della vigilia che lo davano decisamente in vantaggio sugli altri possibili candidati.
Favorito nei sondaggi online, appoggiato dalla metà dei suoi confratelli nel voto preliminare espresso dal Concilio episcopale domenica scorsa, ha avuto la strada spianata anche nel Concilio locale, una sorta di Stati generali della Chiesa ortodossa russa.
Lo si è capito subito ieri pomeriggio allorché l’assemblea dei delegati ha rinunciato a proporre altre candidature.
Quindi è arrivato l’annuncio che il metropolita Filarete di Minsk si ritirava invitando i propri sostenitori a far convergere i voti su Kirill.
A quel punto restava in gara solo il metropolita Kliment, il tesoriere del Patriarcato dipinto dai mass-media come portabandiera dell’ala più conservatrice.
Ha ottenuto 162 voti, troppo pochi per sbarrare la strada a Kirill.
Con l’elezione di ieri la Chiesa ortodossa russa mette fine alla lunga transizione post-sovietica.
Kirill, sedicesimo patriarca di Mosca è anche il primo post-comunista
Il sogno di uno stato come un grande mosaico
Padre Elias Chacour è l’arcivescovo della diocesi melchita di Galilea, antichissima Chiesa orientale unita alla Chiesa di Roma.
È arabo-palestinese, cattolico e cittadino dello Stato di Israele.
Prima e ancor più dopo essere stato nominato vescovo di Haifa (2006), P.
Elias ha dedicato le sue energie a opere e iniziative a favore del popolo della sua diocesi: scuole elementari, una scuola superiore, una biblioteca, un Centro per la pace, un Centro regionale di aggiornamento per gli insegnanti delle scuole di Galilea e, in ultimo, la prima Università cristiana araba in Israele a servizio di persone di tutte le etnie e confessioni religiose presenti in Israele per formarsi, studiare e lavorare insieme per una nuova società fondata sul reciproco rispetto e riconoscimento.
Lo scorso 5 gennaio un gruppo di italiani, nel corso di un viaggio-seminario in Israele e nei territori palestinesi organizzato da Confronti, ha incontrato p.
Chacour ad Haifa, proprio nelle ore in cui giungevano le drammatiche notizie dell’invasione di Gaza da parte dell’esercito israeliano.
Per la grande tensione di quel momento, P.
Chacour aveva rifiutato di rilasciare qualsiasi tipo di intervista.
Ma, incontrando gli italiani in viaggio di studio che gli chiedevano proprio di essere aiutati a capire, il presule ha parlato loro quasi per confidare la sua amarezza, e non soltanto per quel che succedeva in quelle ore, ma, soprattutto, per le origini remote e mai rimosse della tragedia israelo-palestinese.
Di seguito le parole del vescovo.
Adista – Docuenti, 30 gennaio ‘09 Sono profondamente triste per quello che sta succedendo in queste ore a Gaza: scorre sangue ebreo e scorre sangue palestinese, sangue umano, che merita uguale rispetto da parte di tutti.
Non riesco a capire come i politici delle due parti, musulmani o ebrei, possano credere di essere dalla parte di Dio e contemporaneamente tentare di giustificare la loro azione di violenza.
Dio ordina chiaramente di non uccidere.
E in queste ore, invece, assistiamo alla corsa a chi può uccidere di più, dall’una e dall’altra parte.
Non importa quale giustificazione gli israeliani o i palestinesi possano portare: non c’è giustificazione per uccidersi.
E neppure ci potrà essere un vincitore in questa guerra: ci sono certamente due perdenti, uno più dell’altro.
Certo, si possono condannare i palestinesi che lanciano i loro razzi su Israele e si può dire che la rappresaglia israeliana è una barbarie, perché a Gaza uccide anche tanti civili.
Ma considerando questo evento al di fuori del suo contesto non è possibile capire.
Per farvi comprendere la situazione, vi parlerò di me, del mio essere palestinese, fiero palestinese e cittadino dello Stato di Israele.
Sulla vostra stampa normalmente un palestinese è musulmano e un cristiano non è arabo.
Io invece sono un palestinese arabo e sono cristiano.
Vi chiederete come un palestinese possa essere cristiano, arabo e cittadino di Israele.
Per capirlo bisogna tornare al 1948, quando i sopravvissuti della Shoa fecero proprio lo slogan di Teodor Herzl “Una terra senza nazione (la Palestina) appartiene a una nazione senza terra (Israele)”, rivendicando una terra tutta per loro.
E a chi gli faceva notare che la Palestina era sovrappopolata, lo stesso Herzl rispondeva: “Dobbiamo essere miopi: non vedere la realtà e fare come se lì non ci fosse nessuno”.
Questo è l’inizio della tragedia: i palestinesi erano lì e gli ebrei agivano come se non ci fosse nessuno.
Così, quella che gli ebrei chiamano guerra di indipendenza, nel 1948, per i palestinesi è la naqbah, la catastrofe.
Israele è nato come Stato nazionale indipendente moderno e la maggioranza dei palestinesi, deportati e cacciati da case e villaggi, ha sofferto una pulizia etnica: 460 villaggi palestinesi sono stati completamente svuotati e distrutti, compreso il mio.
E così è cominciata la diaspora dei palestinesi nei Paesi arabi confinanti: Libano, Siria, Giordania, Egitto.
Altri palestinesi, invece, non sono andati nei Paesi limitrofi, volendo vivere in un piccolo territorio palestinese non occupato dal-l’esercito israeliano: sono nati allora campi di rifugiati dappertutto, in Cisgiordania, a Ramallah, Hebron e molti altri luoghi.
Nella parte sud della Palestina c’è un piccolo territorio desertico che si chiama Striscia di Gaza: nel 1948 Gaza aveva 8.500 abitanti, ma in pochi mesi si è riempita di un milione e 500.000 rifugiati, imprigionati tra il deserto, il mare e Israele, senza più diritti umani se non quello di fare figli.
E hanno fatto molti figli, ambiziosi e intelligenti, ma senza avvenire.
Non hanno avuto altra possibilità che nascere, crescere, sposarsi, crescere altri figli, e morire.
20 anni, nel 1967 (con la guerra dei sei giorni, ndr), dal controllo egiziano sono caduti sotto il controllo israeliano e alla loro miseria si sono aggiunti tutti i controlli militari, i check point, luoghi di umiliazione molto più che luoghi di sicurezza.
Esistono infinite storie di umiliazione.
Per esempio: un soldato israeliano arrivato qui dall’Etiopia o da qualche altra parte del mondo, in servizio al check point, annoiato perché non ha niente da fare, prende la tessera di identità di rifugiato del palestinese che chiede di passare da una parte all’altra, e la getta nel cestino: 100, 200, 300 carte di identità e altrettanti palestinesi che attendono.
E il soldato dice loro: “cercate le vostre carte di identità e andatevene”.
Immaginate il divertimento del soldato, e l’umiliazione, la rabbia repressa e l’odio del palestinese.
Ancora: ogni giorno, il palestinese che deve raggiungere il luogo di lavoro deve percorrere magari appena 20 metri dalla sua casa, ma tra questi due punti c’è un check point e per attraversarlo deve aspettare tre o quattro ore la mattina e altrettante la sera per tornare a casa.
È qui la radice della rabbia dei giovani palestinesi che scelgono di fare i kamikaze.
Meglio morire con dignità che vivere con umiliazione, dicono i giovani palestinesi.
E da 60 anni Israele non domanda che la pace, shalom, shalom, shalom…
nient’altro che questo.
Ma la pace è impossibile senza giustizia e integrità, e queste sono impossibili senza la pace e la sicurezza per l’altra parte.
Ebrei e palestinesi gridano: “la terra è nostra, la terra ci appartiene”.
Hanno dimenticato che la terra non può appartenere né agli ebrei né ai palestinesi, perché la terra appartiene a Dio.
Palestinesi ed ebrei devono imparare che sono loro ad appartenere a questa terra e finché non lo faranno non ci sarà né pace né giustizia.
Nel 1948 i palestinesi sono stati dispersi e gli ebrei hanno preso il posto dei palestinesi.
Non è giustificabile.
Gli ebrei dicono: “questa è la nostra terra promessa”.
Per avere la terra promessa bisogna essere ebrei? Bisogna credere nella religione ebraica? E i musulmani e i cristiani? Noi cristiani non abbiamo una terra promessa, ma crediamo che ovunque ci si ritrovi in due o tre nel suo nome, lì c’è Dio.
È così che la terra diventa santa, che sia l’Italia, la Papuasia o l’America.
Gli ebrei non possono imporci la fede nella terra promessa.
I musulmani e i cristiani dicono agli ebrei: questa è la nostra ancestrale terra comune, eravamo qui insieme 2000 anni fa, quando un imperatore romano vi deportò, non siamo stati noi a cacciarvi; adesso voi ritornate e siete i benvenuti, non possiamo non accogliervi, ma non accettiamo che voi prendiate il nostro posto e ci cacciate.
Dobbiamo convincerci che oggi né gli ebrei né i palestinesi possono controllare autonomamente e autoritativamente la Palestina.
Dobbiamo comprendere che la terra appartiene a Dio e che tanto i musulmani quanto gli ebrei appartengono alla terra, in virtù della loro storia.
Abbiamo vissuto bene, insieme, per più di 1.600 anni: allora non c’erano ideologie islamiche né sioniste, non c’erano che musulmani ed ebrei che riconoscevano di discendere da un solo padre, un cittadino “iracheno” che si chiama Abramo.
Tutto questo oggi è stato cancellato: quello che conta è solo il numero dei vostri aerei da combattimento, quante bombe terribili possedete, se l’America vi sostiene, ecc.
Non conta più né il diritto né la ragione.
Detto altrimenti, vale solo quello che ha scritto La Fontaine: “La ragione del più forte è sempre la migliore”.
E così oggi, a Gaza, Israele distrugge ciò che vuole, ha la ragione di essere il più forte.
Ma è la stessa cosa agli occhi di Dio? Io non credo.
Con la creazione di Israele, un piccolo numero di palestinesi ha potuto restare nel territorio palestinese che è diventato Israele: ne costituisce la minoranza araba.
Vi sono un milione e duecentomila palestinesi cittadini di Israele, fra i quali si trova una piccolissima minoranza cristiana che ha subìto la stessa sorte dei musulmani: i cristiani sono attualmente per il 75% rifugiati o in diaspora, solo il 25% ha deciso di restare.
Siamo appena 147mila, distribuiti in varie comunità cristiane.
La comunità più grande è formata dai greco cattolici, detti greco melchiti o anche “uniati” (uniti a Roma).
Dei greco cattolici nessuno è greco e non so quanti siano cattolici: contiamo 76mila cristiani e da 3 anni io sono il loro arcivescovo.
Non so cosa io abbia fatto perché il Signore mi abbia condannato a diventare arcivescovo, ma sia fatta la sua volontà.
La seconda comunità è formata da circa 40mila greco-ortodossi.
Anche in questo caso nessuno è greco e non so quanti siano ortodossi: sono tutti arabi, ma la loro gerarchia (proveniente dalla Grecia) non parla arabo e quindi non riescono a comunicare direttamente.
La terza comunità è formata dai romano-cattolici o latini: non si capisce come gli arabi possano essere romano-cattolici, tuttavia esistono.
Sono circa 10mila e 500, hanno un patriarca, 4 vescovi, centinaia di preti, moltissimi religiosi e religiose, moltissime suore.
Un po’ li invidio: se mi dessero 10 preti e un po’ di suore farei la rivoluzione in Israele, ma ciascuno resta nella propria Chiesa.
La quarta comunità è formata dai maroniti: sono poco più di 8mila, hanno cominciato ad arrivare in Palestina dal Libano nel XVII secolo, sono cristiani molto pii, tutti cattolici, non romano cattolici, con un clero molto spirituale.
Infine ci sono gli anglicani, arabo-anglicani: non so come sia possibile, ma ci sono.
Oggi il nostro più grande ideale è raggiungere l’unità all’interno di queste diversità: non vogliamo che l’anglicano diventi romano-cattolico, accettiamo la diversità.
E ci chiediamo se sarà possibile un futuro comune anche con i nostri fratelli ebrei.
Sogniamo uno Stato di Israele come un grande mosaico: ogni tessera ha il suo colore e tutte insieme, nella loro diversità, creano l’immagine di ciò che ciascuno è di per sé e di ciò a cui aspira.
Pur in questa difficile situazione, noi crediamo ancor di più nel nostro ideale di unità nella diversità.
Io sono un mendicante internazionale: non mendico soldi, ma amicizia e solidarietà.
Se avete amici ebrei, anche amici ebrei fanatici, io, palestinese, vi supplico: continuate a donare loro la vostra amicizia, ne hanno bisogno più che mai.
Ma perché la vostra amicizia con gli ebrei dovrebbe significare inimicizia con i palestinesi? E se siete amici dei palestinesi, se prendete le loro parti, una volta tanto sarete dalla parte giusta.
Ma se essere amici dei palestinesi dovesse significare odio per gli ebrei, questa amicizia non ci serve.
Noi abbiamo bisogno della vostra solidarietà, ma chi vi dice che l’amicizia verso di noi sia automaticamente inimicizia verso gli ebrei? Noi abbiamo un problema con gli ebrei, ed è con essi che dobbiamo risolverlo; se voi prendete le parti di uno contro l’altro, diventerete un nemico in più, e oggi non abbiamo bisogno ancora di un altro nemico.
Abbiamo bisogno, invece, di un amico comune.
Solo nell’amicizia potremo risolvere i problemi, ma non sarà facile: del resto, non c’è nulla di prezioso che possa essere raggiunto facilmente.
E che c’è di più prezioso della riconciliazione fra ebrei e palestinesi? Adista – Documenti, 29 gennaio ’09
Il Papa: «Solidale con gli ebrei»
Subito dopo, il Papa ha espresso la sua indiscutibile “solidarietà” ai fratelli ebrei ed ha detto che la shoah rimane un monito contro ogni oblio e negazionismo.
Quasi in contemporanea, il portavoce della Santa Sede, padre Federico Lombardi, ha voluto dare un’immediata risposta alla minaccia di rottura delle relazioni con il Vaticano trapelata da fonti del Rabbinato di Israele.
“Le parole del Papa, nelle diverse occasioni in cui già in passato si è espresso, e che oggi sono state pronunciate ancora una volta sul tema della Shoah – ha detto padre Lombardi – dovrebbero essere più che sufficienti per rispondere alle attese di chi esprime dubbi sulla posizione del Papa e della Chiesa cattolica sull’argomento”.
Il commento del card.
Bertone.
Sulla questione è poi tornato in serata anche il cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato della Santa Sede.
“Benedetto XVI ha pronunciato questa mattina parole chiarissime”.
ha detto sottolineando che per il Papa le incomprensioni con il mondo ebraico seguite al perdono ai lefbvriani “è stato un episodio dolorosissimo”.
Secondo il card.
Bertone, a ferire in modo particolare sono state le parole le parole di David Rosen, già ambasciatore presso la Santa Sede, che aveva definito la riabilitazione del vescovo negazionista Richard Williamson una decisione grave fino al punto di contaminare tutta la Chiesa.
“Penso – ha spiegato il cardinale – che non sia giusto nè bene giudicare continuamente l’operato del Papa, e lo dico anche a un rabbino amico, David Rosen, perchè dire che Benedetto XVI ha contaminato la Chiesa è abnorme”.
Il segretario di Stato ha tenuto questa sera un discorso al Circolo di Roma sul magistero del pontificato di Benedetto XVI.
Per Bertone, anche se gravissimo l’episodio delle dichiarazioni negazioniste di Williamson a una tv svedese, invece “non deve essere enfatizzato più di quanto valga in se stesso, perchè le chiarificazioni in proposito sono state nette e precise”.
“Nel processo di riavvicinamento tra i lefebvriani e la Chiesa Cattolica – ha ricostruito Bertone – c’è stato un intralcio prodotto da questo intervento: un fatto anomalo, improvviso e inaspettato, che però non poteva fermare il processo di revoca della scomunica”.
“Benedetto XVI ha agito – ha concluso il porporato – seguendo una delle linee portanti del suo magistero, cioè quella di realizzare il più possibile la comunione e l’unità dei cristiani”.
Il Rabbinato d’Israele.
Stamane il quotidiano Jerusalem Post, citando una fonte anonima interna all’autorevole istituzione ebraica, aveva sostenuto che il Rabbinato d’Israele ritiene «difficile proseguire il dialogo con il Vaticano» qualora non vi fosse un atto di pubbliche scuse e di ritrattazione delle dichiarazioni sulla Shoah del vescovo lefebvriano Richard Williamson, coinvolto nel recente provvedimento di annullamento della scomunica contro i tradizionalisti deciso dal Papa.
E nel pomeriggio il rabbinato di Israele ha accolto le parole odierne di papa Benedetto XVI sulla Shoah come «un grande passo in avanti per la soluzione della questione» sollevata dalla recente revoca della scomunica nei confronti del vescovo lefevbriano negazionista Richard Williamson.
La dichiarazione è stata fatta all’agenzia Ansa dal direttore generale del Rabbinato Oded Wiener, secondo il quale si tratta di «una dichiarazione molto importante per noi e per il mondo intero».
Padre Lombardi: «Il dialogo continui».
«Le parole del Papa, nelle diverse occasioni in cui già in passato si è espresso, e che oggi sono state pronunciate ancora una volta sul tema della Shoah, dovrebbero essere più che sufficienti per rispondere alle attese di chi esprime dubbi sulle posizioni del Papa e della Chiesa cattolica sull’argomento».
Lo ha detto il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi.
«Ci auguriamo – ha aggiunto – che, anche alla luce di esse, le difficoltà presentate dal Rabbinato di Israele possano essere oggetto di ulteriore e più approfondita riflessione, in dialogo con la Commissione per i rapporti con l’ebraismo del Consiglio per l’unità dei cristiani, in modo che il dialogo della Chiesa Cattolica con l’ebraismo possa continuare con frutto e serenità».
(Avvenire, 29 gennaio ’09) Il Papa ha espresso oggi, durante l’udienza, la sua indiscutibile “solidarietà” ai fratelli ebrei e ha detto che la Shoah rimane un monito contro ogni oblio e negazionismo.
Il Papa ha chiesto anche ai vescovi lefebvriani ai quali ha revocato la scomunica l’impegno a «realizzare i passi necessari» per realizzare la piena comunione con la Chiesa riconoscendo il Concilio Vaticano II.
Ratzinger ha spiegato di aver concesso “la remissione della scomunica in cui erano incorsi i quattro vescovi ordinati nel 1988 da mons.
Lefebvre senza mandato pontificio”, “in adempimento” del servizio all’unità della Chiesa affermato dal Vangelo.
“Ho compiuto questo atto di paterna misericordia – ha detto – perchè ripetutamente questi presuli mi hanno manifestato la loro viva sofferenza per la situazione in cui si erano venuti a trovare.
Auspico – ha aggiunto – che a questo mio gesto faccia seguito il sollecito impegno da parte loro di compiere gli ulteriori passi necessari per realizzare la piena comunione con la Chiesa, testimoniando così vera fedeltà e vero riconoscimento del magistero e dell’autorità del Papa e del Concilio Vaticano II”.
I 150° della Fondazione della Sua Congregazione.
VERBALE DELL’ATTO DI FONDAZIONE DELLA CONGREGAZIONE SALESIANA Torino, 18 dicembre 1859 Testo critico preparato dall’Istituto Storico salesiano Nel Nome di Nostro Signor Gesù Cristo Amen 1859.
L’anno del Signore mille ottocento cinquantanove alli diciotto di Dicembre in questo Oratorio di S.
Francesco di Sales nella camera del Sacerdote Bosco Gioanni alle ore 9 pomeridiane si radunavano, esso, il Sacerdote Alasonatti Vittorio, i chierici Savio Angelo Diacono, Rua Michele Suddiacono, Cagliero Gioanni, Francesia Gio Battista, Provera Francesco, Ghivarello Carlo, Lazzero Giuseppe, Bonetti Gioanni, Anfossi Gioanni, Marcellino Luigi, Cerruti Francesco, Durando Celestino, Pettiva Secondo, Rovetto Antonio, Bongiovanni Cesare Giuseppe, il giovane Chiapale Luigi, tutti allo scopo ed in uno spirito di promuovere e conservare lo spirito di vera carità che richiedesi nell’opera degli Oratorii per la gioventù abbandonata e pericolante, la quale in questi calamitosi tempi viene in mille maniere sedotta a danno della società e precipitata nell’empietà ed irreligione.
Piacque pertanto ai medesimi Congregati di erigersi in Società o Congregazione che avendo di mira il vicendevole ajuto per la santificazione propria si proponesse di promuovere la gloria di Dio e la salute delle anime specialmente delle più bisognose d’istruzione e di educazione │ ed approvato di comune consenso il disegno proposto, fatta breve preghiera ed invocato il lume dello Spirito Santo, procedevano alla elezione dei Membri che dovessero costituire la direzione della società per questa e per nuove Congregazioni se a Dio piacerà favorirne l’incremento.
Pregarono pertanto unanimi Lui iniziatore e promotore a gradire la carica di Superiore Maggiore siccome del tutto a Lui conveniente, il quale avendola accettata colla riserva della facoltà di nominarsi il prefetto, poiché nessuno vi si oppose, pronunziò che gli pareva non dovesse muovere dall’uffizio di prefetto lo Scrivente il quale finqui teneva tal carica nella casa.
Si pensò quindi tosto al modo di elezione per gli altri Socii che concorrono alla Direzione, e si convenne di adottare la votazione a suffragi secreti per più breve via a costituirne il Consiglio, il quale doveva essere composto di un Direttore Spirituale, dell’Economo e di tre Consiglieri in compagnia dei due predescritti uffiziali.
Or fatto Segretario a questo scopo lo Scrivente, ei protesta di aver fedelmente adempito l’uffizio │ commessogli di comune fiducia, attribuendo il suffragio a ciascuno dei Soci secondoché veniva nominato in votazione; e quindi essergli risultato nella elezione del direttore Spirituale all’unanimità la scelta nel Chierico Suddiacono Rua Michele che non se ne ricusava.
Il che ripetutosi per l’Economo, riuscì e fu riconosciuto il Diacono Angelo Savio il quale promise altresì di assumersene il relativo impegno.
Restavano ancora da eleggere i tre consiglieri; pel primo dei quali fattasi al solito la votazione venne il cherico Cagliero Giovanni.
Il secondo consigliere sortì il chierico Gio Bonetti.
Pel terzo ed ultimo essendo riusciti eguali i suffragi a favore dei chierici Ghivarello Carlo e Provera Francesco, fattasi altra votazione la maggioranza risultò pel chierico Ghivarello, e così fu definitivamente costituito il corpo di amministrazione per la nostra Società.
Il quale fatto come venne finqui complessivamente esposto fu letto in piena Congrega di tutti i prelodati Soci ed ufficiali per ora nominati, i quali riconosciutane la veracità, concordi fermarono che se ne conservasse l’originale, a cui per l’autenticità si sottoscrisse il Superiore Maggiore e come Segretario Sac.
Bosco Gio.
Alasonatti Vittorio Sac.
Prefetto
Numeri e fede/4: Se Dio si cela nella teoria dei giochi
«Come fece Pascal anche il matematico valuta i pro e i contro e arriva a credere per ‘convenienza’».
Parla Marco Andreatta.
«Con Ennio De Giorgi penso che il mistero sia più una condizione necessaria che un ostacolo alla verità della religione.
Chi crede accetta con facilità l’etica scientifica».
«È di pochi giorni la notizia che un giovane, laureato in fisica nella mia facoltà, è stato ordinato diacono dal vescovo di Trento.
Sono molti i colleghi e amici che, scienziati (anzi soprattutto matematici) di professione, hanno,come me, una fede.
Anche se – ovviamente – non per tutti è una fede cristiana».
Marco Andreatta, è professore ordinario di geometria, e preside della Facoltà di Scienze all’ateneo tridentino.
Per lui, matematica e fede sono due aspetti del pensiero umano che operano in ambiti sostanzialmente separati ma che alle volte si intersecano con conseguenze molto interessanti.
Intervista al Professor Marco Andreatta, Che cosa hanno in comune? «Il matematico è forse il ragionatore razionale per antonomasia; da Galileo in poi, di ogni nuova teoria si dice che è scientifica se si basa sulla matematica e sui suoi procedimenti logico-deduttivi.
Ma questo non impedisce a un matematico né, ad esempio, di innamorarsi (attività non sempre ‘razionale’) né di provare sentimenti di solidarietà, passioni politiche, nè di credere in una religione e nei suoi dogmi di fede.
E, d’altro canto, come una donna può innamorarsi di un matematico, per il suo ‘sapere’, il suo modo di fare e di pensare, così la fede può entrare nell’ animo del matematico ».
Alcuni matematici, nel corso della storia, per spiegare il loro essere uomini di fede, hanno addotto argomentazioni provenienti dalla loro esperienza di scienziati.
«Personalmente non mi ha mai entusiasmato la prova ontologica di Anselmo (che un matematico come Cartesio sintetizza affermando che ‘l’esistenza di Dio è compresa nella sua essenza’ e che il logico-matematico Kurt Gödel ha formalizzato nel secolo scorso).
Mi ha sempre colpito invece l’argomento di Pascal, riconducibile a quella che oggi si definisce ‘teoria dei giochi’: dopo un’accurata analisi dei pro e dei contro, il filosofo-matematico francese (inventore del calcolo delle probabilità) sostiene che la scelta di credere in Dio e in una vita eterna sia più ’conveniente’.
Non ho mai dato troppo peso all’aspetto utilitaristico, ma ho sempre pensato che sotto questo ragionamento razionale ci fosse la speranza che la fatica terrena avrà, per i più sfortunati e per gli ultimi, un senso superiore».
Per alcuni, accettare il mistero è la via migliore per arrivare a un approdo.
«Tra i tanti punti di vista, il mio preferito è sicuramente quello del matematico italiano Ennio De Giorgi, così espresso in un importante intervento sull’Osservatore Romano del 18 novembre 1978: ‘operando come matematico mi sono forzato ad ammettere che: non solo le cose che esistono sono, come è ovvio, più di quelle che conosco, ma per poter parlare delle cose conosciute sono costretto a fare riferimento a cose sconosciute ed umanamente inconoscibili; …perciò il fatto che la religione preveda il mistero appare (al matematico) più come condizione necessaria per la sua credibilità che non come ostacolo all’accettarla’.
Ma attenzione, ammonisce più avanti De Giorgi, ‘Dio non può essere ridotto al primo ente autocomprensivo’.
Abbiamo allora la sensazione di non poter applicare categorie puramente logiche (pensiamo all’umiltà di ascolto, al ‘beati i puri di cuore’…)».
Nella sua vita c’è un evento che l’ha spinto a credere? «Ho un ricordo personale, forse semplice, ma per me di intenso significato: a sette anni frequentavo la catechesi per la prima comunione, insegnata da un giovane e brillante sacerdote, don Giampaolo.
Disegnò sulla lavagna non il solito triangolo con l’occhio al centro ma un magnifico cerchio e disse: così come capite che il cerchio non ha un punto di inizio e uno di fine, così potete anche capire che Dio è tutto, è inizio e fine al tempo stesso.
Ho sempre pensato che questa lezione sia tra le cose che mi hanno spinto da grande ad occuparmi di quella parte della matematica che è la geometria».
Qui abbiamo il caso della fede che spinge verso la matematica.
«Penso che anche in questo caso De Giorgi avesse ragione quando affermava ‘che è più facile per chi crede accettare il principio fondamentale dell’etica scientifica, cioè la ricerca appassionata della verità’, e quindi accettare mutamenti culturali in questa direzione.
Con l’attenzione a tenere ben chiari i vincoli del ragionamento scientifico, perché, citando Galileo, ‘non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi come ogni effetto di natura’.
Lo scienziato ha obblighi-vincoli rigorosi nel ragionare: gli derivano dal comportamento della natura dal quale non può prescindere; la mela cade dall’albero, non vola in alto.
Richard.
Feynman, illustre fisico teorico, diceva che una cosa è pensare e discutere di un angelo custode, che ognuno può immaginare un po’ come vuole; altra cosa è pensare ad esempio al campo elettrico, che è soggetto a talmente tante specifiche…».
Oggi si può ancora dire che la matematica è l’anima delle scienze e che da essa dipende in gran parte il futuro dell’umanità? «Certo.
Si pensi ad esempio alla possibilità di controllare gli eventi provocati dai cambiamenti climatici e ai sofisticati modelli matematici necessari per questo, la matematica delle singolarità e del caos.
Proprio la centralità del futuro dell’uomo come argomento di fondo della ricerca matematica dovrebbe portare il credente a interessarsi della matematica, perché questa disciplina fornisce buona parte delle regole interne a tutta la ricerca scientifica.
Indubbiamente il vorticoso sviluppo tecnologico, più che la scienza stessa, ha in questi anni fatto nascere un’enorme quantità di questioni.
Nel mio campo basti pensare ai formidabili e irrisolti problemi legati alla complessità matematica intrinseca nelle nuove tecnologie: dalla biologia alla rete mondiale dell’informazione, tutti oggi chiedono alla matematica paradigmi e strumenti concettuali nuovi ed efficienti per poter gestire, condividere e sviluppare le nuove scoperte.
Anche per questo la matematica odierna è una scienza ricchissima di nuovi sviluppi e molti pensano che i prossimi anni saranno prodigiosi in questo campo.
Problemi in ambiti diversi vengono posti all’umanità dalle nuove tecnologie: sono quelli riguardanti la libertà e la responsabilità: questioni inedite, che anche la Chiesa, con ragione, solleva, e sulle quali è possibile e auspicabile un dialogo aperto e costruttivo, dato che, citiamo ancora Galileo, ’due verità non possono mai contrariarsi’.
Spero che la fede possa condividere con la scienza la fiducia nelle capacità razionali dell’uomo sulle quali, in buona parte, si fondano le nostre speranze di pace e di progresso».
Luigi Dell’Aglio
Globalizzazione della Croce
Professore, il cristianesimo si scoprì iconofilo, “amico” delle immagini, solo in modo progressivo.
Perché? «Ancor oggi, la rappresentazione di Dio nell’arte cristiana è vista come una sorta di paradosso.
Tanto più dagli altri monoteismi, più scettici o addirittura ostili verso le immagini.
Il teologo ebreo Martin Buber ha scritto che “al contempo senza immagine e immaginato è il Dio dei cristiani”.
Parla dell’immagine di un Dio che dovrebbe non avere immagini.
Il dogma cristiano ha infatti sempre sottolineato che per ogni pittore la raffigurazione di Dio è un’impresa impossibile.
L’imitazione del reale, la mimesis, non può essere impiegata, dato che Dio non ha una forma, essendo un Essere puramente spirituale.
Al contempo, a partire dall’arte paleocristiana, Dio è stato espresso progressivamente da un capitale di figure antropomorfe molto familiari e sempre più abituali.
Ma queste immagini, come sottolinea Buber, sono soprattutto un elemento del presente vissuto dei credenti».
In che epoca, la raffigurazione divina acquistò piena legittimità? «Molte residue diffidenze si dissiparono dopo il secondo concilio di Nicea (787).
Grazie anche all’eredità dei Padri della Chiesa, il concilio sostenne in un testo molto preciso che quando si crede nel Verbo incarnato non vi è ragione di rifiutare la sua icona.
Ciò si tradurrà in un diritto di creazione, d’esposizione e di venerazione delle immagini di Cristo, della Vergine, degli Angeli e dei Santi.
Grazie a un chiarimento dogmatico straordinario, verrà stabilita una sorta di piattaforma definitiva sulla legittimità dell’iconografia cristiana».
Quali fattori influenzeranno la proliferazione d’immagini in epoca medievale? «Non ho mai creduto alla teoria del bisogno, fondata su un’opposizione fra autorità e fedeli.
Ovvero, a un bisogno d’immagini rivendicato dal popolo dei fedeli e al quale le autorità ecclesiastiche dovettero cedere.
Di fatto, sono numerosi gli esempi di grandi vescovi teologi che ebbero il gusto delle immagini.
Credo molto più a ciò che definirei il dinamismo espressivo delle forti intuizioni.
Una religione vissuta in modo intenso da una civiltà deve essere espressa.
E dopo le parole, il cristianesimo ha conquistato in modo logico altri registri espressivi, dalle arti plastiche al teatro, dalla musica alla letteratura.
Hanno poi influito fattori più specifici, come la riflessione su certi passaggi evangelici, in particolare di Giovanni, in cui Gesù impiega il verbo “vedere”».
L’arte cristiana porta in sé le tracce dei grandi sconvolgimenti storici? «È molto difficile imporre all’insieme delle rappresentazioni di Dio una periodizzazione fondata sulla storia politica, demografica, economica e persino ecclesiastica.
Fra uno sconvolgimento epocale come la grande peste e le immagini sacre, ad esempio, non vi fu una stretta correlazione.
In un’epoca in cui tutti associavano la peste a una punizione divina, non si osserva un incupimento dello stile.
Questa storia iconica sembra dunque possedere una certa autonomia, un altro ritmo legato alle permanenze profonde del senso della fede».
Quali sono state le epoche di maggiore fioritura? «Fra l’estrema fine dell’XI secolo e la prima metà del XII secolo, in epoca romanica, vengono creati i 5 grandi schemi iconografici della Trinità ancor oggi noti.
Un’altra fase che definirei miracolosa copre la fine del Trecento e l’inizio del Quattrocento.
In queste epoche, gli stili godranno del favore di tutti gli strati della popolazione.
Non si può parlare di un’iconografia delle élite, di un’altra dei borghesi o ancora dei ceti popolari».
L’epoca contemporanea segnerebbe la crisi dell’arte sacra.
Condivide? «In Europa, a partire dalla fine del Seicento, i grandi artisti cominciano ad interessarsi ad altri temi.
Ma non senza momenti di tormento.
Nel suo Autoritratto con Cristo giallo, Gauguin sembrerà dire: come artista autonomo di una nuova generazione, fingo di occuparmi solo di me stesso, ma in realtà continuo a pensare a Lui.
Al contempo, l’immagine sacra migra sempre più negli altri continenti, conoscendo spesso fuori dall’Europa un successo ancor oggi crescente».
In che modi si esprime questa nuova vitalità? «Per fare un solo esempio, l’iconografia della Trinità conosce oggi in Messico un successo senza precedenti.
Ed anche in altri Paesi, si assiste a una sorta di euforia nell’arte sacra.
Inoltre, viviamo nell’epoca della globalizzazione della crocifissione.
Il successo senza precedenti di questo tema pare legato in ogni continente al bisogno di denunciare le ingiustizie e gli orrori del nostro tempo: Nagasaki, la Shoah, il Ruanda, le spoliazioni dei contadini sudamericani e tanto altro.
I drammi contemporanei trovano nell’uomo in croce un’immagine dall’eloquenza insuperabile.
E nessuno poteva prevederlo».
«Le immagini cristiane riguardano soggetti coi quali entrare in relazione intersoggettiva.
In fondo, l’icona è una presenza in vista di un incontro.
A ben guardare, non si tratta di una verità, né dell’illustrazione di un tema, né della presentazione di una tappa o di una storia.
L’icona scavalca l’illustrazione e la narrazione».
Lo storico e teologo domenicano François Boespflug, docente all’Università di Strasburgo, ha maturato questa convinzione dopo oltre 30 anni di ricerche sulla rappresentazione divina lungo la storia del cristianesimo.
Un lavoro adesso condensato nel vasto volume Dieu et ses images.
Une histoire de l’Eternel dans l’art (Dio e le sue immagini.
Una storia dell’Eterno nell’arte), edito in Francia da Bayard.