Calendario Corsi Iconografia 2009 L’Arte di scrivere la Parola Vedere Dio è la speranza di ogni credente.
L’icona è il viatico di questa visione.
Nei corsi del Forum Europeo di Iconografia Cristiana imparare a scrivere un’icona non è soltanto un “fare”, ma anzitutto un inoltrarsi nella fede.
Pochi giorni bastano appena per scoprire il mistero della tecnica, dell’estetica e della teologia delle icone, ma possono disvelare l’epifania del volto dell’Assoluto.
A conclusione dell’Anno Paolino CORSO DI ICONOGRAFIA PAOLINA Formula week-end Tutti i 5 week-end di maggio 2009 Villa Clerici – Milano CORSO DI ICONOGRAFIA PAOLINA Formula residenziale (10 giorni) 20-29 giugno 2009 Monastero Benedettine – Pontasserchio (Pisa) CORSO DI ICONOGRAFIA BIZANTINA per allievi avanzati L’ANNUNCIAZIONE 14-23 luglio 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) CORSO DI ICONOGRAFIA MARIANA 06-15 agosto 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) CORSI MONOGRAFICI DI PERFEZIONAMENTO per allievi avanzati IL DISEGNO E LA GRAFIA 03-04 ottobre 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) LE LUMEGGIATURE 23-25 ottobre 2009 Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) LA DORATURA A MISSIONE 07-08 novembre 2009 Villa Clerici – Milano I COLORI NATURALI 28-29 novembre 2009 Villa Clerici – Milano IL VOLTO 27-30 dicembre 2009 Villa Chaminade Pallanza (Verbania) CORSO DI ICONOGRAFIA BASE 25 agosto – 3 settembre 2009 Santuario di Sant’Ignazio Pessinetto (Torino) CORSO DI ICONOGRAFIA BIZANTINA SCRIVERE GLI ANGELI 10-19 settembre 2009 Oasi San Francesco – La Verna (Arezzo) Per chi vuole essere assistito ad personam durante la realizzazione di una propria icona CORSO “OPEN” PER GLI ALLIEVI ICONOGRAFI Villa Chaminade – Pallanza (Verbania) 03-05 aprile 2009 Per info e prenotazioni clicca qui Corsi Residenziali Monografici Week End
Numeri e Fede/6: Beata matematica
L’intervista al professor Maurizio Brunetti, I Faà di Bruno erano una famiglia di scienziati, di religiosi e di eroi.
Francesco era sacerdote, il fratello Giuseppe era un padre Pallottino e si dedicò alle missioni; quanto a Emilio, morì nella sua nave inabissata a Lissa.
«Il nome di Francesco Faà di Bruno è legato a notevoli contributi, soprattutto a un’elegante formula per il calcolo delle derivate di ordine superiore di una funzione composta.
La sua vita fu talmente avventurosa che se ne potrebbe ricavare un film: militare, musicista, architetto, ingegnere – nel 1856, commosso dalla condizione dei non vedenti, lo era anche la sorella Maria Luigia, progettò e brevettò uno scrittoio per ciechi – e, soprattutto, sacerdote e fondatore di un ordine religioso.
Faà di Bruno era stato allievo di Augustin Louis Cauchy, uno dei padri dell’analisi matematica, anche lui uomo di fede vissuta.
Fu infatti tra i fondatori de l’Association pour la Protection de la Religion Catholique e della Societé Catholique de Bons Livres.
Le opere scientifiche di Cauchy sono state raccolte in 27 volumi.
Un grande scienziato, ma anche un grande uomo che si spendeva in innumerevoli opere di carità e di apostolato culturale: “benché oberato da ogni sorta di occupazioni, trovava il tempo e l’animo per andare a visitare i poveri nei loro tuguri” racconta Faà di Bruno.
Il matematico francese aveva molto a cuore anche la santificazione delle feste: grazie alla sue pressioni, molti negozi furono costretti a chiudere nei giorni festivi permettendo così ai dipendenti di andare a Messa».
Non si parla mai di questi personaggi.
«Eppure sono eccezionalmente interessanti.
Penso al matematico svizzero Leonhard Euler, da noi noto come Eulero.
Di religione protestante, tutte le sere riuniva la numerosa famiglia e leggeva un capitolo della Bibbia.
Eulero racconta di aver compiuto molte delle sue scoperte mentre aveva un bambino in braccio e altri marmocchi che si rotolavano ai suoi piedi.
Matematici credenti sono arcinoti a ogni studente alle prese con gli esami di geometria e analisi matematica.
Per esempio, Jacques Binet, Charles Hermite e anche il boemo Bernard Bolzano, proprio quello del teorema Bolzano-Weierstrass, di cui si ricordano i tentativi per dimostrare logicamente che la religione cattolica – rivelata, e quindi depositaria di risposte alle questioni fondamentali – è quella perfetta, non solo fra le religioni che esistono, ma anche fra tutte quelle pensabili.
Per lui, la religione era “la quintessenza di tutte le verità che ci guidano alla virtù e alla felicità”».
Lei è credente? «Sono cresciuto in Alleanza Cattolica, nutrendomi della sua spiritualità ignaziana.
Il mio non è un caso isolato.
Secondo un’indagine condotta negli Usa, i matematici sono la categoria di scienziati in cui la percentuale di atei è più bassa.
Ma, se è vero che la scienza permette solo a volte di trovare Dio, è però certo che è stato Dio a far trovare all’uomo la scienza».
Questo perché la realtà è conoscibile? «Facciamo una considerazione.
Perché a Newton saltasse in mente di formulare un modello matematico per il moto di una mela che cade a terra, era necessario un presupposto certo: credere che una mela sarebbe sempre caduta con le stesse modalità, un minuto, un giorno o cento anni dopo.
È stato proprio questo presupposto sulla logicità del creato, che è condiviso solo dalle culture occidentali, a permettere alla scienza moderna di nascere e svilupparsi.
L’universo ha le sue leggi, non è capriccioso.
Storici della scienza come Edward Grant e Stanley Jaki hanno individuato nell’avvento del cristianesimo una condizione addirittura necessaria – e, col senno di poi, anche sufficiente – per la nascita della scienza moderna, quella cioè che tralascia ogni considerazione di natura non quantitativa, espungendo deduzioni di carattere filosofico e limitandosi a utilizzare gli strumenti della matematica per l’interpretazione dei dati sperimentali».
Una scienza che, quindi, nasce molto prima del secolo XVII e sboccia già nel Medioevo cristiano.
«La matematica, sia quella più astratta e simbolica, sia quella applicata alla fisica, prende il volo in epoche in cui la temperatura religiosa è alta.
L’algebra vide la luce tra l’ottavo e il nono secolo nel mondo islamico e, prima che prevalesse la prospettiva teo-filosofica dei mutakallimum – secondo cui l’enunciazione di una legge fisica sarebbe in contraddizione con l’onnipotenza di Allah -, furono anche pubblicati dei manuali di dinamica dei fluidi.
Nell’Europa medievale cristiana, appartenevano alla matematica due delle quattro discipline del quadrivium, cioè l’aritmetica e la geometria.
La nascita della scienza moderna va perciò anticipata almeno di qualche secolo.
Fino a poco tempo fa, se ne festeggiava il compleanno ricordando la pubblicazione nel 1687 dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Isaac Newton.
Certo, quest’opera è in tutti i sensi moderna.
Tuttavia Newton riconobbe, facendo proprio l’aforisma medievale di Bernardo di Chartres, di essere “un nano sulle spalle di giganti”.
Questi giganti, oggi, sono stati identificati: Giordano Nemorario, che nel secolo XIII aveva già formulato le leggi della statica; Nicola Oresme, che aveva risolto l’obiezione più forte contro l’ipotesi di una Terra in movimento; Giovanni Buridano, che formulò la nozione di “forza a distanza”, arrivata a Newton attraverso Alberto di Sassonia, Leonardo da Vinci, Giambattista Benedetti e Galileo Galilei».
Avvenire 9 Gennaio 2009 Luigi Dell’Aglio Una lista di grandissimi matematici della storia, che sono stati credenti in modo fervido e autentico.
Sono tanti, e di loro non si parla quasi mai.
Ecco la risposta argomentata e “sperimentale” che va data a chi dubita che si possa essere, al tempo stesso, matematici e credenti».
Il professor Maurizio Brunetti, matematico specializzatosi in Gran Bretagna e ora docente all’Università Federico II di Napoli, non si ferma a Ennio De Giorgi (1928-1996), genio e trascinante uomo di fede.
Brunetti risale agli ultimi tre secoli.
E va anche più indietro.
Nella lista non include Leibniz, Newton o Cartesio, che certamente non erano atei; nell’elenco iscrive invece quei matematici la cui fede attiva si esprimeva con scelte di vita che la rendevano particolarmente riconoscibile.
E colloca al primo posto il torinese Francesco Faà di Bruno (1825-1888), che la Chiesa ha proclamato beato nel 1988.
Il concordato e i cattolici
Aspettative nell’imminenza dei Trattati e commenti subito dopo la firma colti da alcuni celebri epistolari dell’epoca.
[lettera di Giovanni Battista Montini ai familiari, 19 gennaio 1929] Si fa sempre un gan discorrere su una cosiddetta imminente soluzione della questione romana; e la soluzione, per attesa e lusinghiera che sia alle due parti, sembra non essere priva d’un certo aspetto ridicolo per entrambi: valeva la pena di protestare sessant’anni a quel modo per così (così? almeno come si dice nella chiacchera) esiguo risultato? E valeva la pena di far tanta professione d’indipendenza per poi cedere sul principio territoriale? Certo non è tutto qui: la cosa può essere tra le più grandi della storia nostra e anche tra le più belle.
Ma è strano che chi più ha atteso questo momento, fra la gente perbene, sia ora meno disposto a goderne; non per una sopravvivenza di consuetudinaria protesta, ma per il sospetto di peggiori eventuali condizioni.
Se la libertà del Papa non è garantita dalla forte e libera fede del popolo, e specialmente di quello italiano, quale territorio e quale trattato lo potrà? Ora sembra che i tempi che corrono e gli uomini che comandano siano tutt’altro che ben intenzionati per il rispetto di quella forza morale e spirituale del popolo.
Proprio in questi giorni, per dirne una, la nostra Fuci sta subendo nuove e – ahimé! – assai legali vessazioni che sono indici di propositi tutt’altro che rassicuranti per il bene della Chiesa.
Io spero e prego che le trattative, se vi sono realmente, tengano conto di questo; e dovrei anche crederlo, se con ciò ha connessione un’accentuata vigilanza sui nostri poveri casi.
Bisogna indubbiamente pregare molto perché il Signore assista la Chiesa di Roma in questi frangenti e non permetta al Suo Capo di acquistare una terrena libertà con la perdita di quella spirituale, sua e dei suoi figli.
Ma questi sono commenti sulle rime obbligate dei discorsi romani e delle mie piccole preoccupazioni.
Lasciamoli stare.
[risposta del padre, Giorgio Montini, 26 gennaio 1929] Per quanto scrivi, vedo le cose precisamente come le vedi tu; cogli stessi dubbi, gli stessi desideri, le medesime preoccupazioni: e se dovessi dir io una parola in argomento avrei sul cuore un bel peso.
Ma c’è chi deve pensare e provvedere, e noi dobbiamo attendere con fiducia piena, e partecipare frattanto con una intensificazione di preghiere.
Vecchio come sono, ho avuto agio di assistere a tanti e tali avvenimenti che si svolgevano tempestosamente e confluivano per vie inattese a bene e gloria della Chiesa e a profitto dei suoi fedeli, che anche dai tetti in giù non so essere pessimista.
Ciascuno di noi faccia giorno per giorno tutto il bene che può, umilmente e fervidamente: stiamo tutti indefettibilmente congiunti alla Pietra che non crolla.
E poi basta.
Vi saranno lotte, sempre; ma la vittoria sarà dei buoni, sempre.
Seguo il tuo lavoro, e prego il Signore che ti dia lume e forza e conforto.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Paolo VI:«Un felice epilogo morale e spirituale» Parve un crollo; e per il dominio territoriale pontificio lo fu; e parve allora, e per tanti anni successivi, a molti ecclesiastici ed a molti cattolici non potere la Chiesa romana rinunciarci, e accumulando la rivendicazione storica della legittimità della sua origine con l’indispensabilità della sua funzione, si pensò doversi quel potere temporale ricuperare, ricostituire.
E sappiamo che ad avvalorare questa opinione per cui fu così travagliata e priva delle più cospicue sue forze, quelle cattoliche, la vita politica italiana, fu l’antagonismo sorto tra lo Stato e la Chiesa.
Parole concilianti, ma seguite da contrari fatti severi, non valsero a rassicurare il papato che privato, anzi sollevato, dal potere temporale, avrebbe potuto esplicare egualmente nel mondo la sua missione; tanto più che nell’opinione pubblica a lui avversa era diffusa la convinzione, anzi la triste speranza, che la secolare istituzione pontificia sarebbe caduta, come ogni altra istituzione puramente umana, col cadere dello sgabello terreno sul quale appoggiava da tanti secoli i suoi piedi, voglio dire la sua presenza politica nel mondo e la sua sempre mal difesa indipendenza.
Ma la Provvidenza, ora lo vediamo bene, aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti.
Il Concilio Vaticano I aveva infatti da pochi giorni proclamato somma ed infallibile l’autorità spirituale di quel papa che praticamente perdeva in quel fatale momento la sua autorità temporale.
Il papa usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma, com’è noto, fu allora che il papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell’irradiazione morale sul mondo, come prima non mai.
Oggi ci è difficile e quasi molesto comprendere le passioni che tanto commossero e amareggiarono le vicende di quel tempo e degli anni successivi.
Qualche cosa mancò alla vita italiana nella sua prima formazione, non foss’altro la sua interiore unità, la sua consistenza spirituale, la sua umanità patriottica, e di conseguenza la sua piena capacità a risolvere i problemi della sua società disuguale, tanto bisognosa di nuovi ordinamenti, e già fin d’allora attraversata da fiere correnti agitatrici e sovversive.
Per nostra fortuna abbiamo raggiunto una soddisfacente composizione con la famosa conciliazione del 1929 e con l’affermazione della libertà e della democrazia nel nostro Paese.
[il cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano, in un discorso in Campidoglio, 10 ottobre 1962] Solo solleciti di quella libertà e di quella indipendenza, che consentano alle Nostre spirituali funzioni, nell’Urbe e nel mondo, il loro normale esercizio, sempre convinti, anzi curanti, che questa Nostra dimora romana per nulla contrasti alla sovranità e alla libera espansione della vita civile italiana; Noi vogliamo anzi credere che la Nostra presenza sulla sponda del Tevere non poco conferisca all’amore e all’onore di Roma in tutta la terra.
Esiste oggi una onorata e pacifica condizione di rapporti fra l’Italia e la Sede Apostolica; un delicato e prezioso equilibrio fra Stato e Chiesa è stato raggiunto, com’è ben noto, mediante quei Patti Lateranensi, dei quali la Costituzione Italiana, con sagace e lungimirante visione, ha voluto, mediante particolare, solenne garanzia, assicurare la validità.
A noi pare che questi Patti, il Trattato, cioè, così come il Concordato […] possano essere ricordati con gratitudine a Dio e ad onore del Popolo Italiano nella menzionata ricorrenza centenaria di quel contrastato avvenimento come suo provvido coronamento giuridico e come suo felice epilogo morale e spirituale, non solo locale e temporaneo, ma generale e perpetuo.
[lettera di Paolo VI al Presidente della Repubblica Italiana nel centenario della presa di Roma, 18 settembre 1970] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) De Gasperi: «Fosse stato Papa avrebbe firmato anche don Sturzo» Credo che anche oggi, di fronte a Mussolini che picchiava forte alla porta di bronzo, il Papa non poteva non aprire e, una volta avviata la conversazione e trovato il terreno d’accordo, il suo alto senso di responsabilità, l’entità stessa della questione, lo portavano a conchiudere.
La conclusione è, vista oggi in Italia, un successo del regime, ma vista nella storia e nel mondo è una liberazione per la Chiesa e una fortuna per la Nazione Italiana.
Non si poteva esitare e credo che avrebbe firmato, fosse stato Papa, anche D.
Sturzo.
Per me l’essenza è che la S.
Sede è uscita dal vicolo chiuso delle proteste (vicolo che per sua natura non può essere eterno) ed ha liquidato la questione temporale senza i pericoli e gli aggravi del territorio e le compicazioni di formule internazionali.
[…] Certo ne guadagna il regime, si rinforza cioè la dittatura che dovrebbe pur essere un sistema transitorio, ma questa considerazione non poteva essere decisiva né per la conclusione né a noi per giudicare.
[…] Ma la realtà del sec.
xx non tarderà a farsi sentire, le grandi masse ricompariranno dietro allo scenario.
Auguriamoci che gli uomini di Chiesa non le perdano mai di vista, perché esse sono la realtà di oggi e di domani.
Io lo credo e lo spero, e per questo lieto che la Chiesa si sia liberata – trionfando su altri e su sé stessa – della questione romana, non ho paura di riconoscere anche il valore della politica mussoliniana, valore oggettivo; per il resto è giudice Iddio.
[lettera di Alcide De Gasperi a don Simone Weber, 12 febbraio 1929] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Pubblichiamo alcuni stralci del lungo discorso che Pio XI tenne l’11 febbraio 1929 ai parroci e ai predicatori del periodo quaresimale.
E ora accenniamo a quell’altra circostanza che Ci fa tanto più cara ed opportuna la vostra assistenza e che rende questa adunanza ben altrimenti memorabile e storica che non per le circostanze pur belle e solenni del settimo anniversario dell’incoronazione e dell’anno giubilare.
Proprio in questo giorno, anzi in questa stessa ora, e forse in questo preciso momento, lassù nel Nostro Palazzo del Laterano (stavamo per dire, parlando a parroci, nella Nostra casa parrocchiale) da parte dell’Eminentissimo Cardinale Segretario di Stato come Nostro Plenipotenziario e da parte del Cavaliere Mussolini come Plenipotenziario di Sua Maestà il Re d’Italia, si sottoscrivono un Trattato ed un Concordato.
(…) Non vi aspetterete ora da Noi i particolari degli accordi oggi firmati: oltre che il tempo, non lo permetterebbero i delicati riguardi protocollari, non potendosi chiamare quegli accordi perfetti e finiti, finché alle firme dei Plenipotenziari, dopo gli alti suffragi e colle formalità d’uso, non seguano le firme, come suol dirsi, sovrane: riguardi che evidentemente ignorano o dimenticano coloro che attendono per domani la Nostra benedizione solenne “Urbi et orbi” dalla loggia esterna della Basilica di San Pietro.
Vogliamo invece solo premunirvi contro alcuni dubbi e alcune critiche che già si sono affacciati e che probabilmente avranno più largo sviluppo a misura che si diffonderà la notizia dell’odierno avvenimento, affinché voi, a vostra volta, abbiate a premunire gli altri.
Non conviene che portiate queste cose, come suol dirsi, in pulpito; anzi, non dovete portarvele per non turbare l’ordine prestabilito alla vostra predicazione; ma anche all’infuori di questa, molti verranno a voi, sia per trarre particolare profitto dalla vostra eloquenza, con conferenze e simili, sia per avere anche sull’attuale argomento pareri tanto più autorevoli ed imparziali quanto più illuminati.
Dubbi e critiche, abbiamo detto; e Ci affrettiamo a soggiungere che, per quel che Ci riguarda personalmente, Ci lasciano e lasceranno sempre molto tranquilli, benché, a dir vero, quei dubbi e quelle critiche si riferiscano principalmente, per non dire unicamente, a Noi, perché principalmente, per non dire unicamente e totalmente, Nostra è la responsabilità, grave e formidabile invero, di quanto è avvenuto e potrà avvenire in conseguenza.
(…) Le critiche si divideranno in due grandi categorie.
Gli uni diranno che abbiamo chiesto troppo, gli altri troppo poco.
Forse alcuni troveranno troppo poco di territorio, di temporale.
Possiamo dire, senza entrare in particolari e precisioni intempestive, che è veramente poco, pochissimo, il meno possibile, quello che abbiamo chiesto in questo campo: e deliberatamente, dopo aver molto riflettuto, meditato e pregato.
(…) Volevamo mostrare in un modo perentorio che nessuna cupidità terrena muove il Vicario di Gesù Cristo, ma soltanto la coscienza di ciò che non è possibile non chiedere; perché una qualche sovranità territoriale è condizione universalmente riconosciuta indispensabile ad ogni vera sovranità giurisdizionale: dunque almeno quel tanto di territorio che basti come supporto della sovranità stessa; quel tanto di territorio, senza del quale questa non potrebbe sussistere, perché non avrebbe dove poggiare.
Ci pare insomma di vedere le cose al punto in cui erano in san Francesco benedetto: quel tanto di corpo che bastava per tenersi unita l’anima.
Così per altri Santi: il corpo ridotto al puro necessario per servire all’anima e per continuare la vita umana, e colla vita l’azione benefica.
Sarà chiaro, speriamo, a tutti, che il Sommo Pontefice proprio non ha se non quel tanto di territorio materiale che è indispensabile per l’esercizio di un potere spirituale affidato ad uomini in beneficio di uomini; non esitiamo a dire che Ci compiacciamo che le cose stiano così; Ci compiacciamo di vedere il materiale terreno ridotto a così minimi termini da potersi e doversi anche esso considerare spiritualizzato dall’immensa, sublime e veramente divina spiritualità che è destinato a sorreggere ed a servire.
Vero è che Ci sentiamo pure in diritto di dire che quel territorio che Ci siamo riservati e che Ci fu riconosciuto è bensì materialmente piccolo, ma insieme è grande, il più grande del mondo, da qualunque altro punto di vista lo si contempli.
Quando un territorio può vantare il colonnato del Bernini, la cupola di Michelangelo, i tesori di scienza e di arte contenuti negli archivi e nelle biblioteche, nei musei e nelle gallerie del Vaticano; quando un territorio copre e custodisce la tomba del Principe degli Apostoli, si ha pure il diritto di affermare che non c’è al mondo territorio più grande e più prezioso (…) Altri invece diranno, anzi hanno già detto od accennato, che abbiamo chiesto troppo in altro campo: si capisce, e vogliamo dire nel campo finanziario.
Forse si direbbe meglio nel campo economico, perché non si tratta qui di grandi finanze statali, ma piuttosto di modesta economia domestica.
A costoro vorremmo rispondere con un primo riflesso: se si computasse, capitalizzando, tutto quello di cui fu spogliata la Chiesa in Italia, arrivando fino al Patrimonio di San Pietro, che massa immane, opprimente, che somma strabocchevole si avrebbe? Potrebbe il Sommo Pontefice lasciar credere al mondo cattolico di ignorare tutto questo? Non ha egli il dovere preciso di provvedere, per il presente e per l’avvenire, a tutti quei bisogni che da tutto il mondo a lui si volgono e che, per quanto spirituali, non si possono altrimenti soddisfare che col concorso di mezzi anche materiali, bisogni di uomini e di opere umane come sono? Un altro riflesso non sembrano fare quei critici: la Santa Sede ha pure il diritto di provvedere alla propria indipendenza economica, senza la quale non sarebbe provveduto né alla sua dignità, né alla sua effettiva libertà.
Abbiamo fede illimitata nella carità dei fedeli, in quella meravigliosa opera di provvidenza divina che ne è l’espressione pratica, l’Obolo di San Pietro, la mano stessa di Dio che vediamo operare veri miracoli da sette anni in qua.
Ma la Provvidenza divina non Ci dispensa dalla virtù di prudenza né dalle provvidenze umane che sono in Nostro potere.
E troppo facilmente si dimentica che qualunque risarcimento dato alla Santa Sede evidentemente non basterà mai a provvedere se non in piccola parte a bisogni vasti come il mondo intero, come al mondo intero si estende la Chiesa cattolica: bisogni sempre crescenti, come sempre crescono con gigantesco sviluppo le opere missionarie raggiungendo i più lontani paesi; senza dire che anche nei paesi civili, in Europa, in Italia, – qui specialmente, dopo le spoliazioni sofferte – sono incredibilmente numerosi e non meno incredibilmente gravi, e tali bene spesso da muovere al pianto, i bisogni delle persone, delle opere e delle istituzioni ecclesiastiche, anche le più vitali, che ricorrono, Noi lo sappiamo, per aiuto alla Santa Sede, al Padre di tutti i fedeli.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Roncalli dalla Bulgaria: «Ciò che è avvenuto ha del prodigio e può portare un bene incalcolabile» Potete ben immaginare come io segua l’esultanza di tutta l’Italia in seguito alla pace fatta fra Vaticano e Quirinale.
Pensate che gioia per i nostri vecchi se fossero ancora vivi!…
Benediciamo il Signore! Tutto ciò che la massoneria cioè il diavolo, aveva fatto in 60 e più anni contro la Chiesa e contro il Papa in Italia, tutto è stato rovesciato.
Si vive in mezzo agli uomini con mille difetti.
Inconvenienti ce ne saranno anche in avvenire.
Non mancheranno altre pene.
Ma intanto bisogna avere il coraggio della lealtà e riconoscere che ciò che è avvenuto ha del prodigio e può portare un bene incalcolabile all’Italia e a tutto il mondo.
Ora chi aveva un po’ studiato e non andava in chiesa, e non era praticante in nome del patriottismo, ha perduto ogni scusa.
Ogni difficoltà è caduta.
Ancora una volta benediciamo il Signore.
[lettera di Roncalli al segretario di Stato Pietro Gasparri sulle reazioni in Bulgaria ai Patti Lateranensi, 31 marzo 1929] Fra i cattolici, naturalmente, esultanza completa e senza restrizioni.
Negli ambienti governativi – non avendo ricevuto nessuna notizia da trasmettere in una forma o nell’altra – ho creduto bene di non farmi vivo per la circostanza.
Seppi però qualche tempo dopo, dalle labbra stesse di Re Boris, che sul ministro Presidente Liaptceff gli avvenimenti Romani avevano fatto grande impressione, come esaltazione della dignità ed influenza morale del Papato presso tutte le nazioni del mondo.
[il patriarca di Venezia, nella basilica di San Marco, per i 25 anni della firma dei Patti Lateranensi, 11 febbraio 1954] Ecco quell’uomo [Mussolini] che la Provvidenza fece incontrare a Pio XI, e in cui l’assenza di preoccupazioni circa sistemi sorpassati era disposizione a veder più chiaro e con maggior profondità di intuizione nel grande problema della Conciliazione, è divenuto motivo di grande tristezza per il popolo italiano […] È però umano, è cristiano non contestargli almeno questo titolo di onore che, fra l’immensa sciagura, gli resta, cioè la sua valida e decisa cooperazione allo studio e alla conclusione dei Patti lateranensi; ed affidarne l’anima umiliata al mistero della misericordia del Signore, che nella realizzazione dei suoi disegni suole scegliere i vasi più acconci all’uopo, e ad opera compiuta li spezza, come se non fossero stati preparati che per questo.
[lettera dell’arcivescovo Angelo Giuseppe Roncalli – visitatore apostolico in Bulgaria – alle sorelle, 24 febbraio 1929] (©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home] Una firma per l’Italia pensando al mondo di Romeo Astorri Università Cattolica del Sacro Cuore La ricorrenza dell’ottantesimo anniversario della firma dei Patti Lateranensi, che quest’anno coincide con il venticinquesimo anniversario degli accordi di Villa Madama, rappresenta, almeno a mio avviso, un’occasione per una riflessione che, uscendo dalla logica della mera celebrazione, possa essere uno spunto per una qualche osservazione su ciò che essi sono stati a livello dei rapporti tra Stato e Chiesa nell’Italia che si avvia a festeggiare i centocinquanta anni della sua unità, ma anche per cogliere il contesto, che non può essere meramente italiano, nel quale sono stati firmati.
Gli accordi del 1929 hanno rappresentato per molti anni un segno di contraddizione per la storiografia e per la dottrina giuridica italiana.
La cultura italiana, storica e giuridica, o almeno larga parte di essa, ha considerato i Patti come la cifra interpretativa del pontificato di Pio XI, e li ha visti come il momento culminante della liquidazione, in nome del rapporto col governo Mussolini, dell’esperienza del cattolicesimo politico italiano.
Ricordo ancora la sensazione provata, partecipando ad un convegno su Pio XI, organizzato dall’École française di Roma, a cavallo degli anni Novanta nel quale, per i relatori italiani, Papa Ratti era il Papa dei Patti, e quindi un Pontefice definito storicamente dal rapporto privilegiato con un regime autoritario; per quelli francesi, al contrario, era il Pontefice della condanna dell’Action Française, e quindi della ferma denuncia di possibili derive autoritarie e integriste del cattolicesimo.
Credo che l’acquisizione di nuova documentazione storiografica e la riflessione della dottrina in tema di rapporti della Chiesa con gli Stati permettano di uscire da quella aporia e offrire la base di una lettura più convincente, ma soprattutto meno italiana dei Patti stessi.
Credo che una tale lettura si possa costruire lungo tre linee di riflessione, la prima riguarda la Questione romana, la seconda, il contesto di politica ecclesiastica più generale nella quale va collocato anche il Concordato lateranense, la terza, la loro connotazione più tipicamente italiana cercando di dar ragione del giudizio secondo il quale i Patti sono uno degli eventi che segna la storia dell’Italia post-unitaria e non un fatto legato alle contingenze storiche del momento.
Secondo alcuni osservatori la Questione romana aveva già trovato una sua prospettiva di soluzione durante la prima guerra mondiale.
Alcuni documenti conosciuti solo recentemente rafforzano la tesi di chi ha qualificato il periodo tra la guerra di Libia e la firma dei Patti come gli anni della conciliazione silenziosa.
Il primo è costituito dall’elaborazione da parte della Segreteria di Stato di una bozza di Trattato tra Italia e Santa Sede riguardante la creazione di uno Stato vaticano, discusso in una Plenaria della Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari il 17 marzo 1917, nel pieno del conflitto mondiale; l’altro è dato dalle due annotazioni presenti nel diario del barone Carlo Monti, direttore generale degli Affari del culto, che fu negli anni del pontificato di Benedetto xv “nunzio e ministro nello stesso tempo” per i rapporti tra la Santa Sede e il Governo italiano.
Il 7 dicembre 1918 egli riferisce di una conversazione con il cardinal Pietro Gasparri, il quale avrebbe osservato che “il Vaticano (…) noi non facciamo questione di un po’ di territorio, più o meno, purché la Santa Sede sia libera, non solo nella sostanza, ma anche nell’apparenza”.
E, annotando nello stesso diario le parole di Vittorio Emanuele Orlando, quando gli riferì della conversazione con il segretario di Stato, annota non solo che questi si era dichiarato disponibile a trovare una soluzione dopo l’avvio delle trattative di pace a Parigi, ma anche che, a suo avviso, sarebbe stato “un accordo che sarà il più grande avvenimento del secolo, per quanto esso non faccia che sanzionare una intesa che in questi quattro anni ha dato risultati soddisfacenti”.
Anche se i colloqui svoltisi a Parigi tra monsignor Bonaventura Cerretti e lo stesso Orlando non ebbero seguito, le sintetiche opinioni annotate dal Monti mostrano quanto la vicenda della guerra abbia influito sul mutamento del clima, se non della natura dei rapporti tra Italia e Santa Sede e abbia accelerato la soluzione della questione.
Il Trattato del Laterano rappresenta dunque il riconoscimento formale di una situazione che era andata maturando già durante il pontificato di Benedetto xv, di cui l’iniziativa di Pio XI e Mussolini rappresentò solo il momento finale.
A questo proposito credo debbano essere avanzate due altre osservazioni, la prima è che, sul piano dottrinale, la scuola canonistica romana, già sul finire del secolo XIC, aveva prospettato l’ipotesi, e tra i sostenitori ci fu anche il futuro cardinal Pietro Gasparri nelle sue Institutiones iuris publici, che il potere temporale appartenesse non all’esse ma al bene esse della Chiesa stessa; la seconda è il fatto che, malgrado qualche incomprensione e malinteso anche grave, la legge delle Guarentigie aveva permesso alla Santa Sede di mantenere, durante gli anni della guerra, la sua attività soprattutto di legazione attiva e che, sul piano internazionale, salvo qualche impuntatura dell’Italia che, come fece nel Patto di Londra, chiedeva l’introduzione di una clausola secondo la quale la Santa Sede non potesse partecipare ai congressi internazionali, nessuno, e lo confermava la vicenda stessa della guerra mondiale, metteva in discussione la soggettività giuridica a livello internazionale della Santa Sede stessa.
Alla luce di quanto si è osservato risulta comprensibile il motivo per cui, in questi ottanta anni, nessuno abbia mai posto seriamente in discussione il Trattato, nemmeno nel delicato passaggio intervenuto alla fine del secondo conflitto mondiale.
La questione dell’internazionalizzazione dei Patti, emersa al momento della firma ed evocata da monsignor Giovanni Battista Montini alla fine del secondo conflitto mondiale, come possibile richiesta della Santa Sede, la sopravvivenza dell’articolo 1 e dell’articolo 23 e le difficoltà derivanti dalla loro potenziale incoerenza con il nuovo assetto democratico dello Stato non hanno mai posto realmente in discussione l’esistenza del Trattato.
E le questioni legate ai due articoli sopra citati sono state risolte in sede di revisione del Concordato.
Anche l’articolo 24 sulla neutralità della Santa Sede nelle questioni temporali fra gli altri Stati ha superato le temperie derivanti dal maggiore interventismo della Santa Sede nelle vicende internazionali e in particolare con il ruolo assunto alla Conferenza di Helsinki sulla sicurezza e la cooperazione in Europa e con la sua attività in ordine alla elaborazione del testo del vii principio relativo ai diritti umani e alla libertà religiosa.
Il secondo ordine di riflessioni prende in esame direttamente la questione concordataria.
Va da subito precisato che fu la Santa Sede a chiedere al governo italiano di concludere, assieme al Trattato che avrebbe posto fine alla Questione romana, un Concordato, rompendo così con la scelta separatista fatta dall’Italia liberale.
A mio giudizio, il Concordato del 1929 va perciò collocato nel contesto della politica concordataria del primo dopoguerra che, avviata durante il pontificato di Benedetto XV, trovò la sua attuazione durante il papato del suo successore.
Le scelte vaticane degli anni immediatamente successivi alla fine della prima guerra mondiale non furono lineari.
Ci fu un primissimo periodo nel quale la politica vaticana sembra inizialmente orientata verso l’accettazione di una “buona separazione”.
E questo sulla scia delle riflessioni del canonista Gasparri, che, secondo Carlo Fantappié, aveva proposto nelle Institutiones già citate due aspetti innovativi, un concetto di diritto canonico funzionale all’azione pastorale della Chiesa e un cambiamento di tono nelle relazioni tra Stato e Chiesa che sarà alla base del riconoscimento dell’autonomia dell’ordinamento degli Stati e che porterà ad una revisione del giudizio negativo sulla separazione in quanto tale, ma anche sulla base delle riflessioni dell’allora monsignor Eugenio Pacelli sulla natura dei concordati.
In questa direzione va il giudizio positivo, o comunque non negativo, espresso dal nunzio a Monaco, monsignor Pacelli, sugli articoli riguardanti la religione presenti nella costituzione di Weimar, che poneva fine al principio della religione di Stato e adottava quello che Ulrich Stutz, il maggior canonista tedesco del tempo, definirà separatismo non completo o zoppicante.
Una scelta che fu condivisa dal Gasparri, ma alla quale si opposero alcuni canonisti curiali, come il gesuita Benedetto Ojetti, e che fu fortemente contestata anche da alcuni canonisti tedeschi, come Joseph Hollweck, il quale scrisse a Pacelli che i numerosi canonici che sedevano in Parlamento avevano venduto la Chiesa in cambio di ben remunerate cattedre di teologia nelle università.
I mutamenti che intervennero in quel biennio portarono a verificare la possibilità concreta di aprire trattative concordatarie con vari Stati, la maggior parte delle quali si concluderanno, come si è detto, negli anni di Pio XI.
Una scelta che riprendeva una storia, che sembrava definitivamente conclusa con la denuncia da parte della Francia del concordato napoleonico.
Il modello assunto dai concordati tra le due guerre, che rimarrà immutato sino agli accordi spagnoli del 1976-79 e all’accordo di Villa Madama del 1984 è quello del Concordato completo, vale a dire di un accordo che, almeno nelle intenzioni deve regolare tutte le res mixtae, superando il modello del secolo precedente che si limitava a disciplinare alcune questioni specifiche, soprattutto le nomine.
Il Concordato lateranense, a differenza del Trattato, non si presenta quindi come una scelta collegata unicamente alle vicende italiane, ma deve essere visto, pur senza annullarne la specificità, nel contesto della politica vaticana nel dopoguerra.
Sotto questo profilo vanno quindi considerate le materie contenute nel Concordato lateranense.
La nuova regolazione delle nomine agli uffici, ricondotte tutte al principio codiciale della libera nomina dell’autorità ecclesiastica pontificia o episcopale che fosse, la fine della placitazione regia sostituita dalla clausola politica, la disciplina concordataria della materia dell’insegnamento religioso, la regolazione concordataria dell’insegnamento universitario della teologia o delle università cattoliche, la disciplina del finanziamento alla Chiesa cattolica e dei criteri per la definizione delle circoscrizioni diocesane, il riconoscimento degli effetti civili al matrimonio religioso si ritrovano in molti dei concordati firmati tra le due guerre, sia precedenti il 1929 sia successivi.
Certamente la regolazione dei vari istituti è funzionale alla situazione della Chiesa nei vari Stati, ma credo si possa constatare l’esistenza di un intento comune del legislatore canonico, quello di definire una legislazione canonica particolare che riguardasse l’intero Stato, o meglio tutta la Chiesa del Paese con il quale si era arrivati a firmare il Concordato.
E questo vale nel caso dei concordati con i Paesi dell’Europa centrale dove certamente prevale l’idea del superamento del particolarismo giuridico e di determinare un nuovo diritto particolare più coerente con la nuova codificazione del 1917.
Nel caso del Concordato lateranense va però rimarcato il fatto che esso segna la nascita della Chiesa italiana; si tratta infatti della prima legge canonica particolare che concerne la Chiesa italiana, visto che, durante il pontificato di Leone xiii, proprio per evitare la possibilità di una riunione dell’episcopato a livello nazionale, le varie diocesi erano state suddivise in regioni ecclesiastiche ed erano state create le conferenze episcopali regionali, paradossalmente.
Il ritardo, rispetto ad altre Nazioni, della nascita della conferenza episcopale deriva certamente, oltre che dalle difficoltà connesse al numero dei vescovi, anche dalla scelta operata da Leone xiii.
Un’ultima serie di brevi osservazioni va fatta in ordine alle condizioni politiche nel quale fu condotta la trattativa.
La dottrina ecclesiasticistica, ma di questo troviamo scarse tracce negli autori tedeschi che hanno studiato il fenomeno concordatario, ha visto nell’accordo italiano, il modello di un concordato con i Paesi autoritari, nel quale si realizzava uno scambio tra confessionalizzazione offerta dallo Stato (oltre all’Italia, Portogallo e Spagna) e legittimazione politica data dalla Chiesa.
Qualcuno ha anche individuato esaminando le bozze di due trattative concordatarie con la Francia e con la Spagna repubblicana, due tipologie di accordi concordatari, una alla quale appartiene il Concordato del Laterano, con i regimi autoritari, l’altra con i Paesi democratici.
Senza entrare nel merito degli istituti che giustificano questa analisi, e pur ritenendo che certamente, nel caso dell’Italia, il Concordato ha portato ad un’accelerazione del processo di confessionalizzazione già in atto dal primo dopoguerra, credo che questo fenomeno non possa, se non per taluni elementi specifici, essere collegato al carattere autoritario del regime fascista.
Credo piuttosto che dipenda, soprattutto per i Paesi belligeranti, dal fenomeno che porta, immediatamente dopo la guerra, i cattolici intransigenti, ad uscire, secondo l’espressione suggestiva, anche se discutibile di Altermatt, dal ghetto nel quale erano stati confinati (o si erano, secondo alcuni, confinati) durante l’età del liberalismo.
La Conciliazione, sotto tale profilo, non è soltanto un fenomeno italiano.
La consapevolezza di essere parte di una Nazione, e non un corpo estraneo, in quanto legati ad un potere sopranazionale, maturata nelle esperienze dei movimenti del cattolicesimo sociale e acquisita nelle trincee della prima guerra mondiale, porta a rafforzare la volontà degli uni di “ridare Dio alla patria” e determina il consenso di una classe politica, conscia della nuova situazione di uno Stato nel quale sono diventati protagonisti i partiti di massa.
Certamente gli anni tra il 1926 e il 1929 nei quali fu condotta la trattativa furono anche quelli del definitivo affermarsi del regime fascista e la conclusione dei Patti non poté che consolidare tale processo.
Va anche rilevato che la componente antimoderna presente nella cultura cattolica e in quella fascista hanno dato un’interpretazione dell’accordo nella quale sono stati sottolineati in modo particolare gli aspetti di rottura rispetto alla tradizione politica liberale.
Aldilà della contingenza di alcune delle scelte normative contenute nelle disposizioni concordatarie del 1929, va rilevato, a conferma di quanto osservato, come un giurista liberale come Arturo Carlo Jemolo nell’Italia repubblicana, e siamo già alla fine degli anni Sessanta, abbia pensato, al processo di revisione del Concordato lateranense come l’eliminazione delle “foglie secche”.
A mio avviso, la continuità dello strumento concordatario poggia su questa conciliazione, che non viene meno anche oggi, quando esso non è più prevalentemente guardato come un collegamento tra due ordinamenti secondo la lettura univoca della dottrina di quegli anni, ma, anche attraverso il riconoscimento del ruolo delle religioni nello spazio pubblico, in quanto momento di espressione della libertà religiosa di tutti, come dimostrano i testi non solo dell’accordo di Villa Madama, ma di tutti i concordati più recenti.
E l’augurio è che, anche questa presenza possa scongiurare il ripetersi di ciò che ha portato al pesante giudizio di Jemolo sull’età giolittiana, nella quale, sostiene lo studioso, la crisi di ideali portava a constatare la presenza di uno smarrimento che “con tratti ancora più confusi, con espressioni più volgari lo ritroveremmo, se potessimo indagarlo, in tutta la classe colta dell’Italia del tempo; tra coloro che sono rimasti fermi alla fede tradizionale, e gli altri che non hanno più alcun assillo religioso, e come hanno abbandonato le pratiche della religione, così hanno espulso dalla loro mente, con i problemi del divino, tutti quelli che non abbiano un contenuto pratico immediato”.
(©L’Osservatore Romano – 11 febbraio 2009) [Index] [Top] [Home]
Architettura sacra a Torino
Ferdinando Bonsignore – La chiesa della Gran Madre di Dio Esempio dello stile neoclassico in auge ai primi dell’Ottocento è la chiesa della Gran Madre di Dio, opera di Ferdinando Bonsignore, eretta tra il 1818 e il 1831 per festeggiare il ritorno di Vittorio Emanuele I di Savoia il 20 maggio 1814 dopo la sconfitta di Napoleone: sul timpano della chiesa si legge infatti l’epigrafe Ordo Populusque Taurinus Ob Adventum Regis (La città e i cittadini di Torino per il ritorno del re).
Lo schema dell’edificio si rifà, con spirito deliberatamente archeologico, a una diffusissima tipologia che trova il suo prototipo nel Pantheon, monumento romano del periodo adrianeo; una pianta rotonda sormontata da una cupola, e preceduta da un peristilio a frontone triangolare, il tutto poggiante su un alto zoccolo.
Guarino Guarini – La Cappella della Santa Sindone Il monaco teatino Guarino Guarini (1624-1683), modenese, può senz’altro considerarsi l’architetto più originale del XVII secolo, dopo Gian Lorenzo Bernini e Francesco Borromini.
Guarini viaggiò molto in Italia e all’estero e lasciò a Torino, dove fu chiamato da Carlo Emanuele II, le più alte affermazioni della sua genialità creativa, tra le quali la Cappella della Santa Sindone, incastonata tra quello che nel 1713 diventerà il Palazzo Reale dei Savoia e il Duomo di San Giovanni, edificato tra il 1491 e il 1498.
L’opera, iniziata nel 1668 e compiuta solo dopo undici anni dalla morte del maestro, trova la sua più suggestiva espressione nella cupola.
Su una base formata da sei grandi finestre, collegate esternamente da una cornice ondulata, parte una raggiera di contrafforti che si intrecciano a cornici sghembe fino a sostenere le cornici concentriche del tamburo della lanterna, quest’ultima illuminata da finestre ovali.
Da questo capolavoro di ingegneria piove all’interno un guizzante e segmentato gioco di luci.
Guarino Guarini – La Chiesa di San Lorenzo Come nella Cappella della Sindone, anche nella chiesa di San Lorenzo Guarino Guarini sviluppa il motivo dell’organismo centrale, di ridotte dimensioni e articolato verso l’alto, già caro al Borromini.
Compiuta nel 1687, la chiesa ha una pianta quadrata con pareti convesse in luogo dei quattro angoli.
La cupola, ornata di costoloni intrecciati, si ispira probabilmente alla Catedral de la Seo di Saragozza, cattedrale gotica costruita nel XIV secolo.
La sensibilità del Guarini per l’arte gotica, specie straniera, era già evidente nella cupola della Sindone, simile a una guglia.
All’adesione, peraltro puramente fantastica, all’architettura gotica, il Guarini aggiunge una straordinaria padronanza tecnica di assoluta modernità.
Nelle sue originali concezioni strutturali si può cogliere, tra l’altro, l’aspetto tipicamente barocco della «meraviglia» come fine dell’arte.
Filippo Juvarra – La Basilica di Superga La basilica, che con la Mole antonelliana può considerarsi uno dei simboli di Torino, fu fatta erigere da Vittorio Amedeo II di Savoia tra il 1715 e il 1731, in adempimento di un voto fatto nel 1706, prima della battaglia per liberare Torino dall’assedio dei francesi.
È forse l’opera più celebre di Filippo Juvarra, architetto messinese che lavorò a Torino per circa un ventennio, lasciandovi numerose testimonianze della sua genialità non solo di costruttore, ma anche di scenografo e urbanista.
In quest’opera i temi rinascimentali e l’amore per le forme michelangiolesche vengono interpretati in chiave scenografica, perfettamente intonata al paesaggio circostante, sull’alto di un colle panoramico.
Come già nel Pantheon, massimo tempio dell’età imperiale romana, il pronao s’innesta a un corpo centrale.
Nei campanili laterali sono evidenti reminiscenze della fantasia borrominiana (già elaborata a Torino, come abbiamo visto, nelle opere del Guarini).
Nei sotterranei della basilica sono raccolte le tombe dei re di Sardegna, da Vittorio Amedeo II a Carlo Alberto, e dei principi sabaudi dal 1700 in poi.
Helder Câmara profeta di giustizia e di pace
Si sono aperte ufficialmente in Brasile le celebrazioni per il centenario della nascita di dom Helder Câmara (1909-1999), l’arcivescovo universalmente conosciuto per il suo impegno a favore dei poveri e per lo sforzo di sensibilizzare le coscienze all’uso della non violenza per il superamento delle ingiustizie.
Nato il 7 febbraio 1909 a Fortaleza, capitale dello Stato del Cearà, è considerato il fondatore della Conferenza episcopale brasiliana (Cnbb), di cui fu segretario generale per dodici anni.
E proprio il presidente dei vescovi brasiliani, dom Geraldo Lyrio Rocha, arcivescovo di Mariana, ha aperto l’anniversario con una messa celebrata sabato 7 a Recife, la città di cui Câmara è stato arcivescovo.
Ma iniziative e celebrazioni si stanno susseguendo in questi giorni un po’ in tutto il Paese.
E un francobollo commemorativo è stato emesso dalle poste brasiliane.
Una messa è stata celebrata a Belo Horizonte, in una delle zone più povere del Paese.
Presieduta dall’arcivescovo, Walmor Oliveira de Azevedo, la celebrazione eucaristica ha visto la partecipazione di diverse centinaia di persone, tra cui i parenti del presule scomparso, e studenti e insegnanti della scuola, fondata nel 2002, e intitolata proprio a dom Helder Câmara.
“Belo Horizonte – ha sottolineato nell’occasione padre Paolo Stumpf Humberto, direttore del collegio – è stato il terreno fertile in cui il messaggio di pace di dom Helder ha portato frutti e continua ancora a portarne.
Egli figura tra i grandi leader che più hanno lottato per la libertà di espressione e per i diritti umani.
È stato la finestra del Brasile sul mondo per denunciare le ingiustizie”.
Particolarmente significativa è stata, soprattutto, l’omelia pronunciata dal presidente della Conferenza episcopale brasiliana, il quale ringraziando Dio per la vita di dom Helder Câmara, lo ha definito come un “profeta” e come un “dono” speciale per la Chiesa e per i fratelli.
L’arcivescovo Geraldo Lyrio Rocha ha ricordato come tutta la vita di dom Helder sia stata segnata dall’affidarsi docile nelle mani del Padre, atteggiamento ben sintetizzato nel motto episcopale che lo stesso dom Helder volle scegliersi: “Nelle Sue mani”.
Una fede salda e operosa ha caratterizzato, dunque, tutto il suo ministero.
“Dom Helder era solito ricordare – ha detto l’arcivescovo presidente della Cnbb – che quando informò la sua famiglia dell’intenzione di diventare sacerdote il padre lo mise in guardia: “Figlio mio, essere sacerdote è molto impegnativo: il sacerdote e l’egoismo non possono vivere insieme””.
Così dopo essersi dedicato per anni all’educazione dei giovani, alla formazione di un laicato maturo come assistente dell’Azione cattolica, diede vita a Rio de Janeiro – di cui dal 1952 è diventato vescovo ausiliare – alla “Crociata di San Sebastiano”, per dare casa e dignità umana alle folle di baraccati della capitale.
Nel 1955, durante il Congresso eucaristico internazionale, a Rio de Janeiro, partecipò attivamente alla creazione del Consiglio episcopale latinoamericano (Celam).
“Il suo ministero episcopale – ha sottolineato monsignor Lyrio Rocha – è stato caratterizzato dagli stessi sentimenti di Gesù che vedendo la gran folla ha avuto compassione, perché erano come pecore senza pastore (cfr.
Marco, 6, 30-34)”.
Ma gli anni più impegnativi dovevano ancora arrivare.
Sia sul fronte strettamente ecclesiale, con il concilio Vaticano ii, che sul versante interno al Brasile.
Nominato nel 1964, da Paolo vi, arcivescovo di Olinda e Recife, nel nord-est del Brasile, una delle zone più povere del pianeta, quasi contemporaneamente un colpo di Stato militare impose la dittatura.
Al regime erano note le sue posizioni a difesa dei diritti dei poveri, la promozione della giustizia, della democrazia e della libertà di espressione.
Per il nuovo arcivescovo iniziarono anni di sofferenze e persecuzioni, con minacce di morte, accuse, insulti e denigrazioni.
Molti dei suoi collaboratori, sacerdoti e laici, accusati di attività sovversive vennero arrestati, torturati e persino uccisi.
E tra la popolazione si diffuse un clima di paura.
Di fronte a questi fatti – ricorda monsignor Lyrio Rocha – il suo “messaggio è stato intriso del sapore e del contenuto della missione profetica.
Si è presentato come il vescovo di tutti: “Il mio cuore e la mia porta – dirà – sono aperti a tutti, assolutamente tutti.
Cristo è morto per tutti””.
Una posizione non tollerabile dal regime, che nel 1970 – ricorda ancora il presidente della Cnbb – finì per imporre ai mass media il divieto di parlare, a favore o contro, di dom Câmara.
“Se da un lato l’atteggiamento dei militari ha limitato la sua azione di pastore diocesano – ha rilevato monsignor Lyrio Rocha – dall’altro ha lanciato la sua azione profetica al di là dei confini del Brasile, con continui inviti a conferenze in molte parti del mondo.
La sua presenza ha irradiato la fiducia nell’impegno evangelico.
È stato segno di contraddizione e segno di speranza, soprattutto per i più poveri e tutti coloro che lottano per la speranza e la pace”.
Anche la celebrazione del concilio ha offerto a dom Helder la possibilità di diventare un “missionario”, un “pellegrino della giustizia e della pace”.
E infatti – ha ricordato monsignor Lyrio Rocha – “uno speciale rapporto di amicizia si formò con i vescovi più sensibili al tema del Terzo Mondo.
In questo contesto è nato il famoso gruppo di vescovi che si riuniva ogni venerdì sulla missione della Chiesa con i poveri e che, sul finire del concilio si riunì in una catacomba di Roma per firmare il Patto delle Catacombe, in cui ciascuno si impegnava a vivere povero, a respingere emblemi e simboli del potere, in modo da rendere evidente l’opzione evangelica per i poveri”.
Come un san Paolo dei tempi moderni – ha concluso monsignor Lyrio Rocha – si è impegnato nella sua attività missionaria “sperando contro ogni speranza”, come Abramo (cfr.
Lettera ai Romani, 4, 18), incoraggiando le “minoranze abramitiche” alle quali ha insegnato che una società giusta e fraterna si costruisce con la non violenza.
(©L’Osservatore Romano – 9-10 febbraio 2009)
Un sussidio per la pastorale della sanità
L’Ufficio Nazionale per la pastorale della sanità e la sua Consulta hanno indicato il tema “Educare alla salute, educare alla vita” come ambito prioritario di riflessione per la Chiesa che è in Italia, in occasione della XVII Giornata Mondiale del Malato, il prossimo 11 febbraio 2009.
Il sussidio, elaborato con la piena collaborazione dell’Istituto Teologico Camillianum mira a sottolineare l’importanza di un rigoroso e profondo pensiero come premessa indispensabile per un’efficace azione pastorale in questi ambiti.
Ulteriori informazioni nel sito ”Il tempo che stiamo vivendo porta alla nostra attenzione lo smarrimento, o quantomeno l’indebolimento, del significato e del valore della vita umana, e le drammatiche vicende della cronaca recente ne sono la dimostrazione eclatante – scrive nella presentazione del sussidio don Andrea Manto, direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della sanità -.
Sembra quasi che al crescere delle conoscenze per curare il corpo umano corrisponda un disinteresse sempre più ampio per il significato della vita e per la dignità della persona umana”.
D’altra parte, il disinteresse sistematico per la dignità dell’uomo e per le sue domande più caratterizzanti e profonde (il senso della vita e della morte, della sofferenza e della salvezza) è forse la principale causa di quella “emergenza educativa” che il Santo Padre Benedetto XVI ha richiamato in diversi pronunciamenti.
“Ci è sembrato opportuno, perciò, suggerire agli operatori sanitari e pastorali e alla comunità cristiana una riflessione sul legame tra i temi dell’educazione, della salute e della vita, per ribadirne la costitutiva interdipendenza e per evidenziarne la crescente fecondità pastorale” aggiunge don Manto.
Ulteriori informazioni nel sito internet www.chiesacattolica.it/sanita Documenti allegati:Messaggio del Santo Padre
Un pc come sesto senso
Un TELEFONINO, una webcam, un mini proiettore e, soprattutto, una connessione web.
In tutto 300 euro di spesa, ovvero quanto hanno speso gli studenti e iricercatori del gruppo “Fluid Interfaces” del MIT Media Lab nel Massachusetts per mettere a punto un dispositivo indossabile in grado di trasformare qualsiasi superficie in uno schermo interattivo.
Una sorta di senso per l’uomo.
Sì, perché lo scopo di questa combinazione hi-tech è quella di fornire un supporto informativo accessorio a quello sviluppato dai cinque sensi, sfruttando l’immenso bacino di informazioni e conoscenze offerto dal web.
Ecco come funziona.
La fotocamera legge le informazioni di partenza dalla superficie inquadrata; il telefonino, tramite uno speciale software, le elabora con l’ausilio del web, e proietta sempre sulla stessa superficie il risultato delle proprie ricerche.
Questo prototipo, frutto di quattro mesi di lavoro, è la versione finale di una soluzione inizialmente basata su un braccialetto in grado di leggere i codici a barre dei prodotti, evolutosi poi in un dispositivo più sofisticato, da indossare a tracolla sopra il petto.
Grazie a quattro sensori colorati sulle dita di una mano, i gesti effettuati dall’utente vengono riconosciuti dal dispositivo che li “vede” tramite la webcam e li interpreta come comandi.
Ad ogni movimento delle dita, è possibile far corrispondere un diverso comando, e l’effetto finale ricorda molto da vicino quello che, solo in fantascienza, i fratelli Wachowsky avevano immaginato nel loro film culto “Matrix”, con la realtà virtuale proiettata su superfici reali.
In questo video, realizzato dal MIT Media Lab, vengono mostrati una serie di funzioni di questo prototipo.
Tra tanti c’è, per esempio, la possibilità di “chiedere al telefonino” di scattare una fotografia, semplicemente disegnando un quadrato con le proprie dita intorno all’area interessata; in seguito, utilizzando il proiettore del prototipo sarà possibile riguardare a casa, su un muro o su un foglio bianco, tutte le immagini catturate.
Ancora.
Per conoscere lo stato del proprio volo o avere maggiori informazioni su un prodotto in vendita in un supermercato, basta semplicemente mostrare al dispositivo la carta di imbarco o l’etichetta del oggetto in acquisto, e questi è in grado di ritrovare tramite web, informazioni utili come eventuali ritardi in partenza o l’ecocompatibilità del prodotto esposto.
Naturalmente sono possibili anche operazioni più semplici come controllare l’ora, leggere le email o digitare un numero di telefono per una chiamata vocale.
Ma con il prototipo MIT, va detto, assumono un fascino tutto nuovo, visto che l’orologio o la tastiera, entrambi virtuali, vengono proiettati sul nostro polso o sul palmo della mano, e sempre tramite gesti è possibile scegliere di volta in volta l’applicazione da utilizzare.
Insomma, massima informazione ed utilità con il minimo sforzo.
Sono queste le parole chiave con cui studenti e professori del laboratorio Fluid Interfaces, hanno presentato orgogliosamente il loro prototipo al pubblico, durante il TED (Technology, Entertainment, Design) 2009.
L’idea di base è quella di voler fornire agli utenti, nuove interfacce che superino le ristrettezze imposte, in termini di superficie, dagli attuali display, muovendosi sempre più verso un maggior sfruttamento degli spazi su “tre dimensioni”.
Se infatti questo è il momento dei display touchscreen, soprattutto per quel che riguarda i cellulari, il futuro vede nel “riconoscimento gestuale” uno dei più accreditati spazi di sviluppo per prodotti commerciali innovativi.
Negli ultimi tre anni grandi aziende come Nokia, Sony Ericsson e Samsung, hanno depositato numerosi brevetti di soluzioni che riconoscono il movimento manuale, e lo tramutano in comandi per il cellulare.
Al momento la soluzione del MIT risulta molto immatura per diventare un prodotto commerciale ma stupisce per la sua semplicità (specie nei componenti utilizzati).
Traccia però una via da seguire.
Pur nel suo essere molto artigianale, presenta degli interessanti spunti sotto l’aspetto delle possibili nuove forme di interazione uomo-macchina ed è un chiaro simbolo dell’attuale trend tecnologico.
L’unione tra riconoscimento gestuale e connettività web ci dà un anticipo di futuro.
Un futuro nel quale il nostro accesso alle informazioni diventerà sempre più “fisico” e per questo anche più coinvolgente ed efficace.
(8 febbraio 2009)
Il vissuto dei ragazzini dai sette anni in poi sul web,
A raccontare i bambini nella rete, è un’indagine di Eurispes e Telefono Azzurro che verrà presentata oggi in occasione del Safer Day, la giornata per la sicurezza di Internet quest’anno dedicata ai social network.
Dati che illustrano il mondo vissuto dai ragazzini dai sette anni in poi sul web, con l’aiuto di esperti tra i quali Google, Microsoft, Facebook, E-bay. Nel dettaglio i numeri spiegano che il 33 % dei bambini tra i 7 e gli 11 anni che a casa hanno un computer parlano con gli amici via rete.
Il 24 partecipa a giochi di ruolo sul web, mentre il 56 fa videogiochi, il 49 scarica musica, film, video, il 22 legge dei blog e il 45 cerca nei vari siti materiale utile allo studio e il 78% guarda abitualmente Youtube.
A sette anni chattano in rete con amici e sconosciuti.
Non hanno ancora finito le elementari, eppure 33 bambini su cento già frequentano abitualmente Facebook, le communities e i blog.
Usano il web per giochi di ruolo, per minacciare coetanei come dei veri cyber bulli, pronti ad insultare, impaurire, escludere usando la rete.
Amicizie e incontri, violenze e soprusi corrono ormai più su internet che sul marciapiede sotto casa o ai giardini del quartiere.
Scontri e dissidi decisi con un semplice clic e passa la paura del confronto.
Perché a volte è più facile parlare e dichiararsi, deridere, accusare a chilometri di distanza, nascosti davanti ad un video che affrontare il “rivale” in carne e ossa.
Tra giochi casalinghi e sfide a portata di mouse, i giovanissimi vivono sempre di più in un mondo a parte dai genitori.
A raccontare i bambini nella rete, è un’indagine di Eurispes e Telefono Azzurro che verrà presentata oggi in occasione del Safer Day, la giornata per la sicurezza di Internet quest’anno dedicata ai social network.
Dati che illustrano il mondo vissuto dai ragazzini dai sette anni in poi sul web, con l’aiuto di esperti tra i quali Google, Microsoft, Facebook, E-bay.
E confrontando i numeri raccolti negli ultimi anni è impressionante come cresca vertiginosamente, l’universo di bambini e adolescenti che vive la sua vita di relazione soprattutto attraverso la rete.
Nel dettaglio i numeri spiegano che se nel 2005 era solo il 13 % dei bambini tra i 7 e gli 11 anni che comunicava tramite chat, ora è il 33 % di quelli che a casa hanno un computer a parlare con gli amici via rete.
Il 24 partecipa a giochi di ruolo sul web, mentre il 56 fa videogiochi, il 49 scarica musica, film, video, il 22 legge dei blog e il 45 cerca nei vari siti materiale utile allo studio e il 78% guarda abitualmente Youtube.
Non solo vita di relazione virtuale trascorsa sullo schermo tra emoticon e fotografie, ma anche piccole e grandi vendette, gelosie, ripicche e minacce su consumano tramite il computer per gli adolescenti dai 12 ai 19 anni.
Il 13,2 per cento infatti ammette di aver diffuso su internet false informazioni su coetanei, mentre l’11% ha molestano, infastidito, minacciato altri adolescenti usando il web.
E tornano alla memoria le tante le storie di questi mesi che raccontano di ragazzine ricattate da ex fidanzati pronti a mettere in rete, alla portata di tutti come una gogna mediatica, le loro foto ingenuamente osée scattate col telefonino quando le amavano ancora.
Mentre il 5 % racconta di aver diffuso messaggi foto e video minacciosi e quasi l’11 % ha utilizzato la rete per escludere volontariamente una persona dal gruppo.
E se usano Facebook soprattutto per contattare vecchi amici, e non tanto per trovarne di nuovi, gli adolescenti che subiscono molestie in rete sembrano capaci di gestirle.
Il 7,7 % ha detto di aver incrociato sul web dei molestatori ma di aver chiuso la faccenda troncando ogni rapporto, evitando di rispondere, 45%, evitando quella chat (13%) o semplicemente invitando il molestatore a non dare più fastidio.
Solo il 3% ne ha parlato con un adulto.
(10 febbraio 2009)
La riforma del primo ciclo è in dirittura di arrivo
Come garantire la qualità dell’istruzione contenendo i costi? Questa è la grande sfida della nostra scuola.
Ma tale sfida presuppone un salto di qualità non solo da parte dei docenti, ma di tutta la comunità scolastica, che deve lavorare in sintonia con enti e istituzioni del territorio per andare incontro alle reali necessità del contesto in cui opera.
Infatti da anni alla scuola viene attribuita una forte responsabilità educativa e formativa che trova la sua ragione nell’elaborazione di pratiche didattiche innovative, nonché di progetti che portino gli alunni ad essere protagonisti del proprio sapere e saper essere.
L’obiettivo della scuola e quindi di ogni docente deve essere educare istruendo, individuare cioè un senso dentro la trasmissione dei saperi e delle competenze e rispondere alle domande di una specifica comunità.
Con l’avvio della riforma e l’abolizione delle compresenze si costituirà l’organico d’istituto e sul suo utilizzo si giocherà e si svilupperà la responsabilità dei dirigenti e dei docenti nell’ambito di un’autonomia sostanziale e non formale.
L’utilizzo dell’organico d’istituto dovrà allora essere indirizzato ad obiettivi comuni e realistici, non rispondere a logiche di tipo personalistico o di una singola classe, nel rispetto comunque della libertà di educazione e di metodologie didattiche del docente.
Il Collegio docenti potrà trasformarsi così da luogo di decisioni prese altrove in un gruppo di lavoro di professionisti, tesi ad individuare obiettivi, indicatori di risultato e quindi di qualità, a monitorare, valutare e correggere la propria azione educativa rispetto alla progettazione della risposta complessiva della scuola, sentendosi parte di una comunità e avvertendo una forte responsabilità collettiva.
Da quanto detto si capisce che la vera sfida della scuola è l’autonomia che, se è effettiva, deve diventare anche creativa: tiene conto dei bisogni emergenti degli alunni, della realtà territoriale e delle risorse finanziarie disponibili.
Oltre all’assegnazione dell’organico d’istituto è auspicabile una maggiore flessibilità nell’utilizzo dei fondi con l’assegnazione alle scuole di tutte le risorse di cui hanno diritto, senza nessun vincolo di spesa predefinito, per la realizzazione compiuta dell’autonomia.
Se la riforma “Gelmini” si pone l’obiettivo non solo di razionalizzare i costi, ma anche di migliorare la qualità d’insegnamento e favorire la libertà di scelta educativa della famiglia è indispensabile responsabilizzare le scuole e i docenti ridefinendo il profilo della loro professione e operando una revisione del loro stato giuridico.
da www.ilsussidiario.net _________________ Il Regolamento sulla riforma del primo ciclo è in dirittura d’arrivo e contiene novità rilevanti soprattutto sul piano organizzativo, che tuttavia vanno ad incidere anche sul piano educativo-didattico.
Per quanto riguarda la scuola primaria, in estrema sintesi, dall’anno scolastico 2009/2010, a partire dalle classi prime, le famiglie potranno scegliere fra due modelli base di 24 o 27 ore settimanali, che prevedono un unico maestro di riferimento oppure richiedere, sulla base dell’organico assegnato alla scuola, un modello orario di 30 ore con attività facoltative o di 40 ore (tempo pieno) con conferma dell’organico del T.P.
Si prevede la soppressione del modulo a più maestri e delle compresenze, mentre l’insegnamento dell’inglese e il sostegno non subiscono variazioni.
È chiaro che tutta la partita nella primaria verrà giocata sulla dotazione organica d’istituto, assegnata a ciascuna istituzione scolastica.
Quale che sia il modello orario che sarà prospettato alle famiglie (24-27-30-…) l’organico delle classi non a tempo pieno è determinato a 27 ore.
Tale quadro, che vede in un certo senso l’abbandono di consolidate abitudini, genera nei docenti una serie di perplessità che vanno a toccare sia lo svolgimento del loro lavoro quotidiano, sia il loro rapporto contrattuale di lavoro con il timore inoltre di non rendere un servizio di qualità e soprattutto di non poter svolgere un insegnamento basato sulla personalizzazione, tanto auspicato dalla riforma Moratti.
Il teologo protestante Reinhold Niebuhr maestro di Obama
Se il realismo di Niebuhr arriva alla Casa Bianca di Gianni Dessì In un colloquio di qualche tempo fa con David Brooks, uno dei più noti tra i commentatori politici conservatori del “New York Times”, il neoeletto presidente Obama ha ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori preferiti (1).
Niebuhr, figura poco nota in Italia, è stato un teologo protestante, insegnante di etica sociale alla Columbia University di New York, che ha avuto una grande influenza sulla cultura politica nordamericana almeno a partire dal 1932, anno nel quale pubblicò “Uomo morale e società immorale”, sino al 1971, anno della sua morte.
Al suo realismo politico si sono riferiti intellettuali e politici, conservatori e liberali.
Hans Morgenthau e George Kennan, i più noti tra i liberali conservatori che nell’immediato dopoguerra elaborarono quell’insieme di motivazioni che avrebbero costituito il riferimento intellettuale di molti americani negli anni della guerra fredda, della contrapposizione al blocco sovietico, si riferirono esplicitamente a Niebuhr e al suo realismo politico (2).
D’altra parte anche Martin Luther King, certamente non un conservatore, fu particolarmente sensibile alle critiche di Niebuhr all’ottimismo della cultura liberale e all’idea che la giustizia potesse essere realizzata attraverso esortazioni morali: egli riconobbe che doveva a Niebuhr la consapevolezza della profondità e della persistenza del male nella vita umana (3).
Obama, intervistato da Brooks, affermava di dovere a Niebuhr “l’idea irrefutabile che c’è il male vero, la fatica e il dolore nel mondo.
Noi dovremmo essere umili e modesti nel nostro credere di poter eliminare queste cose.
Ma non dovremmo usarlo come scusa per il cinismo e l’inattività”.
In poche espressioni vengono sottolineati alcuni aspetti essenziali delle posizioni di Niebuhr.
L’idea che dal mondo siano ineliminabili “il male vero, la fatica, il dolore” rimanda alla critica di Niebuhr all’ottimismo che egli riteneva uno dei tratti costitutivi del pensiero religioso e sociale americano; così l’idea che anche colui che agendo politicamente si trovi a lottare contro la presenza dell’ingiustizia e del male debba essere “umile”, rinvia alla consapevolezza che non è possibile eliminare il male dalla storia ed è pericolosa illusione crederlo.
D’altra parte tale persistenza del male non può essere scusa per “il cinismo e l’inattività”.
Viene delineata una posizione che intende evitare sia “l’idealismo ingenuo” sia il “realismo amaro” (nel linguaggio di Niebuhr: sia il sentimentalismo sia il cinismo).
Come nelle opere di Niebuhr si definisce questa prospettiva? Quali i suoi riferimenti storici e culturali? Luigi Giussani, in Italia, già dalla fine degli anni Sessanta aveva colto la rilevanza del realismo di Niebuhr nel pensiero teologico e, più in generale, nella cultura statunitense.
Giussani ricordava come nella formazione del pastore protestante avesse certamente svolto un ruolo l’esistenzialismo teologico europeo, ma una “netta originalità segna sin dagli inizi la sua produzione, la cui ispirazione e le cui tendenze chiave si formano e delineano nell’esperienza vissuta come pastore della luterana Bethel Evangelical Church di Detroit” (4).
Niebuhr, giovanissimo, si trovò a essere pastore di una piccola comunità di Detroit negli anni dello sviluppo della casa automobilistica Ford e della prima guerra mondiale, tra il 1915 e il 1928.
Di formazione liberale, egli sperimentò l’inadeguatezza dell’ottimismo antropologico di tale concezione e della sua declinazione sociale, quella del movimento del Social Gospel, nel comprendere la persistenza del male individuale e dell’ingiustizia.
Furono gli anni dell’autocritica alle proprie convinzioni liberali e ottimistiche.
Di fronte alle speranze di una moralizzazione della società attraverso la predicazione religiosa egli, in un appunto del 1927, constatava che “una città costruita attorno a un processo produttivo e che solo casualmente pensa e offre un’attenzione accidentale ai propri problemi è realmente una sorta di inferno” (5).
Tale autocritica trovò piena espressione nel libro “Uomo morale e società immorale”.
In esso, come ha scritto Giussani, la “realtà inevitabile del male […] è affermata e documentata contro ogni ottimismo che non veda l’impossibilità esistenziale del passaggio dalla coscienza del bene, che l’individuo ha, alla realizzazione di esso, impossibilità che specialmente nella sfera del collettivo si accusa in modo inesorabile” (6).
Il libro, del 1932, scritto durante gli anni nei quali Niebuhr subì l’influenza del marxismo, rappresentò negli Stati Uniti degli anni Trenta la denuncia forse più incisiva dell’ottimismo e del moralismo, da una parte, e dell’indifferenza e del cinismo, dall’altra, che avevano caratterizzato la società americana negli anni successivi alla prima guerra mondiale.
Nel breve periodo che va dal 1917, l’anno dell’entrata in guerra dell’America, al 1919, l’anno dei trattati di pace che penalizzarono fortemente le nazioni sconfitte, si consumò l’idealismo del movimento progressista e del presidente Woodrow Wilson.
Le motivazioni morali che Wilson e molti intellettuali progressisti avevano indicato come ragioni della partecipazione degli americani alla guerra erano state contraddette dall’esasperato realismo dei trattati di pace che esprimevano in modo palese la sanzione dei nuovi rapporti di forza tra le potenze vincitrici e quelle sconfitte.
Nell’America degli anni Venti, proprio in reazione alle crociate ideali di Wilson, si affermò un’esigenza di ritorno alla normalità, che trovò espressione nell’elezione del presidente Warren Harding il quale a tale ideale aveva ispirato la propria campagna elettorale.
In realtà la società americana di quegli anni conobbe uno sviluppo economico mai visto, la diffusione della pubblicità e del consumo di massa, insieme a una forte polarizzazione tra ricchi e poveri.
Tale società appariva agli occhi di un attento osservatore come Niebuhr la sconfessione, o la riduzione a retorica, di ogni forma di moralismo ed era caratterizzata dall’emergere di atteggiamenti sempre più cinici e disillusi.
L’emendamento XVIII alla costituzione, che vietava la produzione, il trasporto e la vendita di alcolici sul territorio americano, può essere considerato emblematico di questa situazione: esso, approvato nel 1919, come simbolo della battaglia per la moralizzazione dei costumi, favoriva di fatto lo sviluppo di diverse forme di criminalità organizzata che proprio dal commercio illegale di alcolici traevano i maggiori profitti.
Niebuhr, in quegli anni, riteneva che una società più giusta non sarebbe stata la conseguenza di esortazioni morali o religiose, ma di concrete iniziative storiche e politiche, che proprio in quanto tali avrebbero dovuto confrontarsi con realtà poco elevate.
Egli, che dal 1928 aveva lasciato Detroit e aveva iniziato a insegnare alla Columbia University di New York, ricorderà come proprio le esigenze dell’insegnamento lo abbiano condotto ad approfondire la conoscenza di sant’Agostino.
In una intervista del 1956 affermava: “Mi sorprende, in un esame retrospettivo, notare quanto tardi io abbia iniziato lo studio di Agostino: ciò è ancora più sorprendente se si tiene presente che il pensiero di questo teologo doveva rispondere a molte mie domande ancora irrisolte e liberarmi finalmente dalla nozione che la fede cristiana fosse in qualche modo identica all’idealismo morale del secolo scorso” (7).
Il riferimento a sant’Agostino è stato centrale sia per quanto riguarda la consapevolezza delle ragioni che distinguono la fede dall’idealismo, sia per superare alcune aporie che Niebuhr aveva maturato nei primi anni della propria riflessione.
Il cristianesimo appare al giovane Niebuhr segnato da un aspetto, quello dell’assoluta gratuità, che si pone oltre ogni tentativo umano di realizzare gli ideali etici.
L’uomo può, con grande sincerità, impegnarsi per realizzare sfere di convivenza caratterizzate da quello che Niebuhr definisce “mutual love”, amore fondato sulla reciprocità: Cristo è invece testimone di un altro tipo di amore, definito “sacrifical love”.
Nel 1935 in “An Interpretation of Christian Ethics” egli aveva esplicitamente richiamato tale radicale differenza scrivendo: “Le esigenze etiche poste da Gesù sono d’impossibile compimento nell’esistenza presente dell’uomo […].
Qualunque cosa meno dell’amore perfetto nella vita umana è distruttivo della vita.
Ogni vita umana sta sotto un incombente disastro perché non vive la legge dell’amore” (8).
Nel 1940, riprendendo alcune di queste riflessioni e riferendole all’ambito politico, aveva sostenuto che una concezione “che aveva semplicemente e sentimentalmente trasformato l’ideale di perfezione del Vangelo in una semplice possibilità storica” aveva prodotto una “cattiva religione” e una “cattiva politica”, una religione in contrasto con il dato essenziale della fede cristiana, e una politica irrealistica, che rendeva le nazioni democratiche sempre più deboli (9).
D’altra parte, pur criticando il sentimentalismo e l’ottimismo della cultura liberale, egli constatava l’ineliminabile presenza della certezza del significato dell’esistenza, della sua positività, come tratto caratteristico di un’esistenza sana.
Questa certezza, scrive, “non è qualcosa che risulti da un’analisi sofisticata delle forze e dei fatti che circondano l’esperienza umana.
È qualcosa che è riconosciuto in ogni vita sana […].
Gli uomini possono non essere in grado di definire il significato della vita e malgrado ciò vivere attraverso la semplice fede la certezza che essa ha significato” (10).
L’opera nella quale tali diverse suggestioni trovano una sintesi è “The Nature and Destiny of Man”, pubblicata in due volumi tra il 1941 e il 1943.
In essa si legge: “L’uomo, secondo la concezione biblica, è un’esistenza creata e finita sia nel corpo, sia nello spirito” (11).
La chiave per comprendere la natura umana è da una parte il riconoscimento della creazione: l’ottimismo essenziale che caratterizza un’esistenza sana è legato alla percezione di essere creato, voluto da Dio.
Dall’altra è la libertà umana, che, come segno posto da Dio nel cuore dell’uomo, come possibilità di aderire a tale intuizione o di rifiutarla, diviene assolutamente centrale.
L’uomo può (e Niebuhr sembra dire “inevitabilmente”) cercare soddisfazione nei beni creati e non in Dio.
Il male nasce quando l’uomo conferisce a un bene particolare un valore assoluto: è l’uso sbagliato della libertà – il peccato – che genera il male, non la sensibilità o la materialità.
La presenza di Agostino in questa che è l’opera maggiore e più sistematica di Niebuhr è evidente e costante: la concezione realistica della natura umana che Niebuhr propone rimanda esplicitamente alla concezione biblica e ai testi agostiniani.
In un saggio del 1953, “Augustine’s Political Realism”, incluso nel volume dello stesso anno “Christian Realism and Political Problems”, Niebuhr riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di Agostino e precisa in quale senso il santo sia da ritenere il primo grande realista del pensiero occidentale e perché la sua prospettiva gli sembri attuale.
Niebuhr inizia questo saggio offrendo una schematica definizione del termine realismo: esso “indica la disposizione a prendere in considerazione tutti i fattori che in una situazione politica e sociale offrono resistenza alle norme stabilite, particolarmente i fattori di interesse personale e di potere”.
Al contrario, l’idealismo, per i suoi sostenitori, è “caratterizzato dalla fedeltà agli ideali e alle norme morali, piuttosto che al proprio interesse”; cioè, per i suoi critici, da “una disposizione a ignorare o a essere indifferenti alle forze che, nella vita umana, offrono resistenza agli ideali e alle norme universali” (12).
Niebuhr precisa che idealismo e realismo in politica sono disposizioni, più che teorie.
In altri termini anche il più idealista degli individui dovrà inevitabilmente confrontarsi con i fatti, con la forza di ciò che è; anche il più realista dovrà confrontarsi con la tendenza umana a ispirare l’azione a valori ideali, a ciò che deve essere (13).
Niebuhr ritiene che sant’Agostino sia stato “per riconoscimento universale il primo grande realista nella storia occidentale.
Egli ha meritato questo riconoscimento perché l’immagine della realtà sociale, nella sua ‘Civitas Dei’, offre un’adeguata considerazione delle forze sociali, delle tensioni e competizioni che sappiamo essere quasi universali a ogni livello di comunità” (14).
Per il teologo protestante il realismo di sant’Agostino si lega alla sua concezione della natura umana, e in modo particolare al giudizio sulla presenza del male nella storia.
Infatti per sant’Agostino “la fonte del male è l’amor proprio, piuttosto che un qualche residuo impulso naturale che la ragione non ha ancora dominato”.
Il male non deriva quindi né dalla sensibilità né dalla materialità, che non sono contrapposte allo spirituale.
Il fare dei propri interessi materiali o ideali un fine ultimo è una caratteristica umana che ha a che vedere con la libertà e che si esprime in ogni livello dell’esistenza umana e collettiva, dalla famiglia alla nazione all’ipotetica comunità mondiale.
Il realismo di Agostino permette inoltre di rispondere all’accusa rivolta dai liberali a coloro che sostengono una concezione non ottimistica della natura umana: all’accusa cioè di considerare nello stesso modo e quindi di approvare qualsiasi forma di potere.
“Il realismo pessimistico – scrive Niebuhr – ha infatti spinto sia Hobbes sia Lutero a una inqualificabile approvazione dello stato di potere; ma questo soltanto perché non sono stati abbastanza realisti.
Essi hanno visto il pericolo dell’anarchia nell’egoismo dei cittadini, ma hanno sbagliato nel percepire il pericolo della tirannia nell’egoismo dei governanti” (15).
Il realismo di sant’Agostino, in altri termini, non cede al cinismo e all’indifferenza nei confronti del potere perché “mentre l’egoismo è naturale nel senso che è universale, non è naturale nel senso che non è conforme alla natura dell’uomo”.
Infatti “un realismo diviene moralmente cinico o nichilistico quando assume che una caratteristica universale del comportamento umano debba essere considerata anche come normativa.
La descrizione biblica del comportamento umano, sulla quale Agostino basa il suo pensiero, può rifuggire sia l’illusione sia il cinismo perché essa riconosce che la corruzione della libertà umana può rendere universale un modello di comportamento senza farlo diventare normativo” (16).
L’idea di un realismo che sia in grado di evitare l’indifferenza, il cinismo e l’approvazione incondizionata di qualsiasi forma di potere, così come il sentimentalismo, l’idealismo e le illusioni nei confronti della politica e dell’esistenza umana, emerge con forza da questa rilettura che Niebuhr propone di sant’Agostino.
A questa prospettiva – che, come ricordava Niebuhr, esprime una disposizione più che una teoria – sembra riferirsi Obama.
NOTE (1) C.
Blake, “Obama and Niebuhr”, in “The New Republic”, 3 maggio 2007.
(2) Cfr.
R.C.
Good, “The National Interest and Political Realism: Niebuhr’s ‘Debate’ with Morgenthau and Kennan”, in “The Journal of Politics”, n.
4, 1960, pp.
597-619.
(3) C.
Carson, “Martin Luther King, Jr., and the African-American Social Gospel”, in Paul E.
Johnson (ed.), “African American Christianity” University of California Press, Berkeley 1994, pp.
168-170.
(4) L.
Giussani, “Grandi linee della teologia protestante americana.
Profilo storico dalle origini agli anni Cinquanta”, Jaca Book, Milano 1988 (I edizione 1969), p.
131.
(5) R.
Niebuhr, “Leaves from the Notebook of a Tamed Cynic”, The World Publishing Company, Cleveland 1957 (I edizione 1929), p.
169.
(6) L.
Giussani, “Teologia protestante americana”, cit., p.
132.
(7) R.
Niebuhr, tr.it., “Una teologia per la prassi”, Queriniana, Brescia 1977, p.
55.
(8) R.
Niebuhr, “An Interpretation of Christian Ethics”, Scribner’s, New York 1935, p.
67.
(9) R.
Niebuhr, “Christianity and Power Politics”, Scribner’s, New York 1952 (I edizione 1940), pp.
IX-X.
(10) Ibid., p.
178.
(11) R.
Niebuhr, “The Nature and Destiny of Man.
A Christian Interpretation.
Vol.
I, Human Nature”, Scribner’s, New York 1964 (I edizione 1941), p.
12.
(12) R.
Niebuhr, tr.it., “Il realismo politico di Agostino”, in G.
Dessì, “Niebuhr.
Antropologia cristiana e democrazia”, Studium, Roma 1993, pp.
77-78.
(13) Riprendo questa terminologia da Alessandro Ferrara, “La forza dell’esempio.
Il paradigma del giudizio”, Feltrinelli, Milano 2008, pp.
17-33.
Una terza grande forza, oggetto del libro, è quella di “ciò che è come dovrebbe essere”.
(14) R.
Niebuhr, tr.it., “Il realismo politico di Agostino”, cit., p.
79.
(15) Ibid., p.
85.
(16) Ibid., p.
88.
La rivista sulla quale – per ora solo nell’edizione italiana – è uscito il saggio di Gianni Dessì su Reinhold Niebuhr: > 30 Giorni __________ L’articolo di p.
Robert Imbelli su “L’Osservatore Romano” del 28 gennaio 2009, di commento al discorso di insediamento di Obama: > Per un vero patto di cittadinanza.
Obama, Lincoln e gli angeli __________ Una presentazione del libro dell’arcivescovo di Denver, Charles Chaput, “Render Unto Caesar”, pubblicato poco prima delle elezioni presidenziali: > Come far politica da cattolici.
Il promemoria di Denver (13.8.2008) __________ Un’analisi della geopolitica vaticana, con una particolare attenzione alla sua componente “realista”: > Tra Venere e Marte, la Chiesa di Roma sceglie tutti e due (12.12.2005) __________ L’insediamento di Barack Obama alla presidenza degli Stati Uniti è stato salutato dalla Santa Sede con espressioni di fiducia.
Su “L’Osservatore Romano” del 28 gennaio il sacerdote e teologo newyorkese Robert Imbelli ha commentato positivamente il discorso inaugurale del nuovo presidente, in una nota in prima pagina dal titolo: “Per un vero patto di cittadinanza.
Obama, Lincoln e gli angeli”.
Tuttavia le righe finali della nota facevano balenare un timore.
Imbelli accostava il discorso di Obama a quello di Abraham Lincoln del 1861, che terminava con una preghiera affinché prevalessero “gli angeli migliori della nostra natura”.
E proseguiva: “Questa resta la speranza e la preghiera dell’America.
Ma noi preghiamo anche affinché non vengano trascurati gli angeli dei bambini concepiti, ma ancora non nati.
Preghiamo affinché i vincoli d’affetto della nazione raggiungano anche loro.
Affinché non vengano esclusi dal patto di cittadinanza”.
Imbelli è lo stesso che ha recensito con favore su “L’Osservatore Romano”, la scorsa estate, il libro “Render Unto Caesar” dell’arcivescovo di Denver, Charles J.
Chaput: un appello ai cattolici americani perché il loro “dare a Cesare”, cioè il servire la nazione, consista nel vivere integralmente la propria fede nella vita politica.
L’arcivescovo Chaput, prima e dopo le elezioni presidenziali, è stato uno dei più decisi nel criticare il cedimento pro aborto di tanti cattolici e cristiani americani.
E i primi passi della nuova amministrazione hanno confermato i suoi timori.
In un’intervista al settimanale italiano “Tempi” del 5 febbraio, alla domanda se Obama sia “un protestante da caffetteria”, lui che “dice di essere cristiano ma è considerato il presidente più favorevole all’aborto di sempre”, Chaput ha risposto: “Nessuno può giustificare l’aborto e al tempo stesso proclamarsi cristiano fedele, ortodosso, protestante o cattolico che sia.
[…] Penso però che il cristianesimo protestante, vista la sua grande enfasi sulla coscienza individuale, è più portato ad essere una ‘caffetteria’ di credenze”.
Sta di fatto che, tra i primi atti della sua presidenza, Obama ha autorizzato i finanziamenti federali alle organizzazioni che promuovono l’aborto come mezzo di controllo delle nascite nei paesi poveri.
Inoltre, ha annunciato il suo sostegno al Freedom of Choice Act, che toglierà i limiti all’aborto, e il finanziamento all’utilizzo delle cellule staminali embrionali.
* * * Ciò non toglie che Obama sia, tra i presidenti americani, uno dei più espliciti nel dichiarare il fondamento religioso della propria visione.
In ripetute occasioni ha anche fatto i nomi dei suoi autori di riferimento, noti e meno noti: da Dorothy Day a Martin Luther King, da John Leland ad Al Sharpton.
Tra quelli da lui citati, ce n’è uno che ha un’importanza particolarissima: è il protestante Reinhold Niebuhr (1892-1971), professore alla Columbia University e poi allo Union Theological Seminary di New York.
Niebuhr fu anzitutto teologo, e di prima grandezzza, ma i suoi studi hanno inciso anche nel campo politico.
È considerato un maestro del “realismo” nella politica internazionale, i cui massimi esponenti negli Stati Uniti, nella seconda metà del Novecento, sono stati Hans Morgenthau, George Kennan, Henry Kissinger.
Ispirarsi o no a Niebuhr – e alla sua interpretazione e attualizzazione della “Città di Dio” di sant’Agostino – è decisione che orienta in modo determinante la visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
Ad esempio, niente è più distante dalle posizioni di Niebuhr del pacifismo.
Ma è l’insieme del pensiero di questo grande teologo che è utile approfondire.
È quanto fa, nel saggio che segue, il massimo esperto italiano di Niebuhr, Gianni Dessì, docente di filosofia e di storia delle dottrine politiche all’Università di Roma Tor Vergata.
Il saggio è uscito pochi giorni fa sull’ultimo numero dell’edizione italiana di “30 Giorni”, il mensile cattolico forse più letto dai vescovi di tutto il mondo, nelle sue edizioni in più lingue.
“30 Giorni” è diretto dall’anziano senatore Giulio Andreotti – più volte presidente del consiglio e ministro degli esteri – e si occupa spesso di politica internazionale secondo una linea che si potrebbe definire “realista moderata”: una linea che coincide con quella tradizionale della diplomazia vaticana.