la mostra “Nigra sum sed formosa”

Per gli storici dell’arte la regina di Saba è la donna bellissima che, accompagnata dalle sue ancelle e dai suoi scudieri, si inginocchia come in trance, presa da premonizione, di fronte al legno del ponte sul fiume Siloe, legno destinato a diventare un giorno la croce di Cristo.
Ed è la regale ospite desiderata e a lungo attesa accolta da re Salomone in una reggia che assomiglia al tempio dell’Alberti a Rimini o al palazzo di Luciano Laurana e di Francesco di Giorgio a Urbino.
Sto parlando, naturalmente, del ciclo affrescato da Piero della Francesca ad Arezzo.
Per Jacopo da Varagine che inventò la storia affascinante e piena di colpi di scena della scomparsa e agnizione della Croce di Cristo (vero e proprio thriller archeologico alla Indiana Jones), per i francescani che quella storia moltiplicarono negli affreschi delle loro chiese a stupore ed edificazione dei credenti, la regina di Saba era importante.
Ed era importante anche per l’iconografo (forse l’umanista Ambrogio Traversari) che suggerì a Lorenzo Ghiberti il celebre pannello della Porta d’Oro nel Battistero fiorentino di San Giovanni, dove si vede l’incontro di Salomone con la regina africana.
Correva l’anno 1439, il Concilio aveva riunito a Firenze i dignitari della Chiesa di Roma e delle Chiese d’Oriente e quella iconografia era una promessa di pacificazione fra i cristiani.
La regina di Saba era ed è ancora importante, in maniera del tutto speciale, per la gente d’Etiopia.
La storia era conosciuta in Occidente e soprattutto a Venezia fino dal Medioevo.
Lassù, fra le montagne e gli altopiani dell’Africa più remota e inaccessibile, circondato dall’Islam, c’era un popolo cristiano che praticava la fede degli apostoli.
Non solo, c’era un re che aveva per emblema il leone di Giuda e che diceva di discendere dal seme di Salomone.
Il cristianesimo etiope è un sontuoso ieratico relitto che si è conservato immune da influssi culturali esterni e da ogni contaminazione.
Il sovrano d’Etiopia, il negus neghesti (re dei re) è stato fino a ieri, fino all’ultimo imperatore Hailé Selassié, l’autocrate dei credenti e il custode di una leggendaria ortodossia giudaico cristiana.
Tutta la civiltà religiosa letteraria e artistica dell’Etiopia ha nella regina di Saba la sua pietra angolare.
Il poema epico nazionale, il Kebra Negast (la gloria dei re) databile all’inizio del xiv secolo, racconta che re Salomone e la regina di Saba si amarono, che dalla loro unione nacque una regale discendenza, che la sapienza giudaica e l’Arca dell’Alleanza, al sicuro dagli infedeli musulmani e dagli eretici cristiani, riposano sugli altopiani d’Etiopia, protette dalla spada e dalla lancia del Negus.
Molto antica e molto nobile è la civiltà letteraria e artistica dell’Etiopia cristiana, affascinante nella produzione artigianale a destinazione religiosa – argenti, icone, codici miniati – nei monasteri ancestrali, nelle città sante che replicano i luoghi di Gerusalemme, come la mirabile Lâlibalâ che porta il nome del sovrano che la edificò fra xii e xiii secolo.
Ancora sorprende e imbarazza che gli italiani, negli anni Trenta del secolo scorso, abbiano potuto umiliare e devastare tutto questo con una feroce e stolida guerra coloniale di cui oggi non possiamo che vergognarci.
Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano.
Conviene quindi chiuderlo subito.
Consola invece sapere che alla regina di Saba e alla civiltà etiopica gli italiani di oggi dedicano una mostra.
Curatori sono Giuseppe Barbieri dell’ateneo Veneziano, Gianfranco Fiaccadori della Statale di Milano, l’architetto Mario Di Salvo.
Con loro ha lavorato un folto e prestigiosissimo comitato scientifico internazionale all’interno del quale spicca il nome di Stanislaw Chojncki patriarca dei moderni studi sull’arte etiopica.
Perché un’impresa scientifica ed espositiva così impegnativa e così inusuale è stata concepita a Venezia? Perché Venezia, fra tutte le nazioni dell’antica Europa, è stata quella che ha mantenuto i maggiori e più fruttuosi rapporti con il regno d’Etiopia e che più di ogni altra ha influito nella sua storia artistica.
Si chiamava Nicolò Brancaleon il pittore veneziano che giunse in Etiopia circa l’anno 1481.
Si firmava in latino in icone arrivate fino a noi, fondò una scuola pittorica che ebbe seguito e fortuna fino al XVIii secolo.
Gli ambasciatori portoghesi che lo incontrarono nel 1520 parlano di lui come di un uomo che abitava in Etiopia da circa quarant’anni, che parlava perfettamente la lingua della nuova patria dove amava farsi chiamare Mercurio, e che era diventato ricco, potente, onorato.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Mercoledì 4 è stata presentata in Vaticano la mostra “Nigra sum sed formosa” che sarà aperta dal 13 marzo al 10 maggio all’università Ca’ Foscari di Venezia.
Pubblichiamo l’intervento del direttore dei Musei Vaticani.
“Nigra sum sed formosa”, il versetto celebre del Cantico dei Cantici, è il titolo di questa mostra coltissima e raffinata che subito chiarisce nel sottotitolo il suo obiettivo: “Sacro e Bellezza nell’Etiopia Cristiana”.
Che la sposa del Cantico dei Cantici sia figura della Chiesa o mistico emblema della Vergine Maria – come hanno pensato e scritto gli antichi esegeti cristiani – o che, più realisticamente, sia la bellissima regina africana che va incontro all’amato re Salomone, protagonista della mostra è lei, Saba; la regina che è venuta dalle profondità dell’Africa, che ha incontrato la Legge, ha profetizzato l’Incarnazione, ha dato gloria e splendore alla nazione etiopica.

don Enzo di Nomadelfia

La formazione In realtà, il nome di battesimo di don Enzo era Luigi.
Ma don Zeno glielo cambiò in ricordo di un giovane seminarista ucciso dai nazifascisti.
Da allora per tutti è stato solo don Enzo.
Luigi Bertè – questo il suo cognome all’anagrafe – nasce il 3 aprile 1913 a Ponte dell’Olio, in diocesi e provincia di Piacenza.
A 3 anni e mezzo rimane orfano di madre.
Il padre – un operaio con idee socialiste – si sposa una seconda volta per dare una madre ai figli: don Enzo ricorderà la fatica nell’accettare la nuova figura materna, ma proprio questa esperienza lo renderà sensibile alla proposta di don Zeno.
La famiglia è povera e il padre non può permettersi di pagare neppure la retta minima del seminario di Piacenza.
I superiori del seminario riescono a farlo entrare nel Collegio Alberoni della città, a tutto provvede il lascito del fondatore dell’Istituto.
Per rendersi conto del prestigio dell’istituzione basti ricordare che allievi del Collegio e suoi compagni di studio sono i futuri cardinali Casaroli, Oddi, Samorè, Tonini.
Ordinato sacerdote il 13 marzo 1937, Luigi viene inviato come cappellano nella parrocchia di Morfasso (Piacenza), in una comunità con una forte tradizione e sensibilità cristiana, assecondata dallo zelo pastorale di un parroco energico, don Erminio Squeri.
L’incontro Il parroco – che invitava nella sua parrocchia vari sacerdoti per ritiri, tridui, ecc.
– nel maggio del 1942 invita anche don Zeno Saltini.
All’inizio il giovane Luigi, formato al Collegio Alberoni, è urtato dal modo di fare del prete carpigiano.
Pensa che sia stato un errore invitarlo.
Ma quando, più per dovere di coscienza, che per convinzione va ad ascoltare il primo discorso fatto ai giovani, ne rimane conquistato.
E cerca di parlare personalmente con don Zeno.
Il parroco, che ha intuito il desiderio del suo collaboratore, cerca di evitarlo, ma nell’ultimo giorno di permanenza, don Zeno e don Luigi parlarono per undici ore, dalle sei di sera alle cinque del mattino.
L’incontro lo sconvolge, tanto che don Luigi vorrebbe seguire don Zeno, il quale però lo invita a una maggiore riflessione.
Durante il viaggio di ritorno da Piacenza don Zeno gli scrive: “Carissimo, ho sempre presente la nostra notturna conversazione.
Se il Signore ti chiama, non dormirci sopra.
Se nell’eroico cammino qualche Piccolo Apostolo cade, diserta o tradisce, gli altri, nel nome di Gesù proseguono.
Ho sempre notato che il vacillare in questa chiamata tra le miserie più misere della vita moderna, è un cadere.
Tutti quelli che sono entrati nell’orbita del nostro apostolato, sono stati chiamati decisamente e hanno fatto strappi violenti.
Tra i Piccoli Apostoli di vocazione e gli altri, c’è in comune uno schianto…
Vittime i primi dell’Amore, vittime gli altri dell’abbandono; ma tutti vinti, atterrati, risorti.
Addio, oppure arrivederci nella nuova vita, condivisa tra lacrime, lotte, vittorie anche”.
Nella diocesi di Carpi Don Enzo ottiene – con grandi difficoltà – l’incardinazione nella diocesi di Carpi e arriva a San Giacomo Roncole il 21 luglio 1942.
È il primo sacerdote che abbraccia definitivamente la causa e l’opera di don Zeno.
Nel febbraio 1943 altri sacerdoti si uniscono a don Zeno e formano l’Unione dei Sacerdoti Piccoli Apostoli.
Dopo l’8 settembre 1943, don Zeno parte con alcuni giovani per attraversare il fronte e su don Enzo ricadono le responsabilità dell’Opera Piccoli Apostoli, diffusa in varie parrocchie del modenese.
In quei mesi don Enzo, oltre a produrre personalmente alcune carte d’identità false per gli ebrei, tiene i collegamenti con i sacerdoti dell’Opera che creano una rete di solidarietà per la resistenza e per i perseguitati.
Tra i sacerdoti basterebbe ricordare don Arrigo Beccari, don Ennio Tardini, don Ivo Silingardi i quali, per essere riusciti a far arrivare in Svizzera un centinaio di ebrei, furono arrestati.
Don Enzo fa centinaia di chilometri in bicicletta per tenere unita l’Opera, per visitare i confratelli imprigionati a Bologna, per evitare i lavori forzati in Germania ai giovani rimasti.
Alla fine dovrà lui stesso nascondersi perché ricercato.
La fame, i sacrifici e i pericoli vissuti in quegli anni gli procurano uno stato di prostrazione fisica che durerà a lungo.
Fino al 1950 don Enzo rimane parroco di San Giacomo Roncole, anche per mantenere aperti i contatti con i creditori, mentre don Zeno e i Piccoli Apostoli si trasferiscono nell’ex campo di concentramento di Fossoli, dove nasce Nomadelfia.
Nel 1950 don Zeno lo invia a Zambla Alta, in provincia di Bergamo, in una casa di Nomadelfia utilizzata come sanatorio per i giovani arrivati in precarie condizioni fisiche a causa della malnutrizione.
Vi rimane fino al 5 febbraio 1953, un anno dopo il decreto del Sant’Uffizio che impose a don Zeno di lasciare Nomadelfia.
Anche don Enzo – come tutti gli altri sacerdoti – dovrà allontanarsi da Nomadelfia e nei mesi successivi si dedicherà ad aiutare don Zeno nella sistemazione di alcune situazioni difficili che si erano venute a creare dopo lo scioglimento.
A Grosseto Nel novembre del 1953 don Zeno ottiene la laicizzazione pro gratia, richiesta allo scopo di poter continuare a seguire Nomadelfia.
Anche don Enzo e altri sacerdoti vorrebbero percorrere questa strada per condividere le sorti dei figli che hanno accolto insieme a don Zeno, ma non è possibile.
Si prospetta allora il tentativo di realizzare una nuova forma diocesana di convivenza e collaborazione fraterna fra sacerdoti, d’accordo con il vescovo di Grosseto, Paolo Galeazzi.
Idea che anticipava e superava le attuali “unità pastorali” perché prevedeva una comunione di beni tra sacerdoti, che erano vissuti in Nomadelfia, ma che tuttavia viene bloccata dall’intervento del Sant’Uffizio.
Il vescovo, viene deciso, può accogliere questi sacerdoti nella sua diocesi, dove c’è scarsità di clero, ma deve tenerli uno lontano dall’altro.
Alcuni sacerdoti ritornano nel modenese, altri rimangono.
A don Enzo viene assegnata una piccola parrocchia povera e abbandonata, Poggi del Sasso, in cui mancava tutto.
Per don Zeno è la parrocchia adatta a un sacerdote di Nomadelfia.
E don Enzo, lontano dalla sua Nomadelfia, vive con il popolo e riesce a far costruire la chiesa e la canonica.
Nel 1962, dopo la “seconda prima messa” di don Zeno, quando cioè gli viene permesso di riprendere il ministero sacerdotale, qualche sacerdote riesce a tornare a Nomadelfia, ma don Enzo dovrà attendere il 13 ottobre 1969, quando il nuovo vescovo, Primo Gasbarri, gli concede di lasciare la parrocchia.
A fianco del fondatore Dal 1969 al 1981 don Enzo è accanto a don Zeno, che lo porta spesso con sé a condividere i tentativi di lanciare progetti per il futuro di Nomadelfia.
Ma don Enzo dovrà anche sostituire don Zeno per lunghi periodi presso le famiglie che vivono a Subiaco e a La Verna.
Non ci sono impegni particolari, date da ricordare: don Enzo lavora nell’ombra, approfondisce.
Ma sta accanto a don Zeno.
Non può essere con don Zeno quando Giovanni Paolo II assiste a una “Serata” di Nomadelfia a Castel Gandolfo il 12 agosto 1980.
È malato come lo è tante volte.
Ma il 15 gennaio 1981, mentre don Zeno sta morendo, con alcuni figli di Nomadelfia incontra, in maniera imprevista e senza preavviso, Giovanni Paolo II e pregano insieme per il fondatore di Nomadelfia.
Il secondo successore di don Zeno Qualche mese dopo la morte di don Zeno, come è previsto, viene eletto il successore: un sacerdote che porti avanti tale difficile eredità.
Il primo successore è il più giovane don Ennio Tardini, un altro dei sacerdoti della prima ora.
Sembra che per don Enzo si aprano i tempi dello studio e della riflessione per trasmettere alle nuove generazioni la genuinità di quanto lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa in don Zeno.
Ma don Ennio muore in un incidente stradale il 17 novembre 1984.
La pesante eredità ricade su don Enzo, che nel febbraio 1985 è eletto come secondo successore di don Zeno e per diversi anni è contemporaneamente anche parroco di Nomadelfia.
Cosa hanno rappresentato questi anni per Nomadelfia? La scomparsa di due personalità energiche e – si potrebbe dire – vulcaniche come don Zeno e don Ennio lasciano a Nomadelfia un sacerdote con toni più dimessi.
Ma è una personalità per niente secondaria: la sua tenacia, la sua perseveranza portano Nomadelfia a ottenere l’approvazione della Costituzione da parte della Santa Sede nel 2000, dopo aver avuto la gioia di accogliere Giovanni Paolo II, il 21 maggio 1989, nella piccola parrocchia di Nomadelfia.
E questa personalità e la sua sofferenza intanto fanno crescere il popolo, perché Nomadelfia diventa sempre più la condivisione fraterna di una vita, come ha scritto nel suo breve testamento: “Mi permetto di ricordare ai volontari che se non si sforzano ogni giorno di vivere l’Unum invocato da Gesù nell’ultima cena non esiste la nostra fraternità, e non esiste Nomadelfia, perché la nostra fraternità deve permeare i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni: senza Unum si ricade nella vecchia civiltà”.
La fede di don Enzo, il suo legame con la Chiesa e con don Zeno, sono stati la roccia sicura per i nomadelfi in questi anni nel tentativo di realizzare la civiltà dell’amore.
E rappresentano anche il punto di partenza per l’avvenire.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Sono stati celebrati nella mattina di mercoledì 4 dal vescovo di Grosseto, Franco Agostinelli, i funerali di don Enzo di Nomadelfia – secondo successore di don Zeno Saltini alla guida della comunità sorta nel dopoguerra per dare famiglia agli orfani e ai bimbi abbandonati – morto alle prime ore di lunedì 2.
Oltre un migliaio di persone hanno partecipato al rito nella chiesa della cittadella toscana ricordando con commozione, affetto e gratitudine la paternità spirituale esercitata per ventiquattro anni da don Enzo.
Nel corso delle esequie – concelebrate dal vescovo di Carpi, Elio Tinti, e di Jesi, Gerardo Rocconi – è stata data lettura del telegramma, a firma del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, con il quale Benedetto XVI, inviando la benedizione apostolica, ricorda la figura dello “zelante sacerdote” scomparso, che negli anni ha seguito le “profetiche orme” di don Zeno.
Assicurando anche un “particolare ricordo nella preghiera”, Benedetto XVI ha incoraggiato i membri della comunità di Nomadelfia a “proseguire uniti” l’impegno della “vita fraterna” e della “testimonianza evangelica”.
Un messaggio è stato inviato inoltre dal cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero – dicastero da cui dipende la comunità di Nomadelfia – il quale anche ha ricordato “l’infaticabile zelo sacerdotale” di don Enzo, “servo buono e fedele”, che ha “contribuito alla realizzazione dell’autentica famiglia cristiana, nell’adesione all’ideale evangelico di don Zeno”.

Dieci anni di scuola statale in Italia

Più alunni, meno prof e precari ecco la foto della scuola italiana di Salvo Intravaia Mai così “precaria”, almeno nell’ultimo decennio.
E’ la scuola italiana descritta dall’ultimo rapporto del ministero dell’Istruzione dal titolo “10 anni di scuola statale”.
I ponderoso volume contiene migliaia di dati e si riferisce al decennio (dal 1998/1999 al 2007/2008) che probabilmente ha visto il maggior numero di riforme sulla scuola.
A fronte di un incremento degli alunni si è registrato un calo dei docenti stabili, quelli di ruolo, e un vero e proprio boom del precariato.
Ma non solo: le classi si sono riempite grazie all’ingresso degli alunni stranieri ha permesso alla popolazione scolastica italiana di crescere.
Il decennio viene contrassegnato anche da una svolta: la corsa ai licei e il crollo degli istituti tecnici.
E ancora: il progressivo spopolamento delle scuole del Sud a vantaggio degli istituti settentrionali.
In due lustri, la popolazione scolastica è cresciuta quasi del 3 per cento ma non è stato così in tutte le zone del Paese.
Nelle regioni del Nord le scuole hanno dovuto fare posto a 352 mila alunni in più vedendo crescere gli alunni del 13 per cento.
Al Sud le classi si sono svuotate inesorabilmente: in pochi anni, la popolazione scolastica si è assottigliata del 6 per cento.
Dieci anni fa, il Sud poteva contare su un milione di alunni in più rispetto al Nord, adesso il vantaggio è di appena 350 mila alunni.
Con ogni probabilità, a fare la differenza sono stati gli alunni stranieri.
Il loro numero è cresciuto di 6 volte e se non fosse stato per la loro presenza gli alunni italiani sarebbero diminuiti del 3 per cento.
Il decennio 1999/2008, nonostante abbia registrato un incremento della popolazione scolastica, ha visto calare il numero dei docenti di ruolo (del 3,4 per cento) e più che raddoppiare (da 64 mila a 141 mila) il numero dei supplenti impegnati dietro la cattedra.
Dieci anni fa, si contava un precario ogni 12 insegnanti, oggi ce n’è uno ogni 6.
Anche per questa ragione l’ex ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, mise in cantiere un piano per stabilizzare 150 mila precari, messo in soffitta dall’attuale governo.
Oggi, le classi sono più affollate di dieci anni fa, soprattutto nei licei.
Gli scientifici hanno vissuto un decennio di grazia: più 27 per cento.
Stesso discorso per i classici e per i licei socio-psico-pedagogici (gli ex istituti magistrali) dove gli alunni sono cresciuti di un quinto.
E in misura minore anche gli istituti professionali hanno visto aumentare gli alunni (più 13 per cento).
Il tutto a scapito dell’istruzione tecnica, fiore all’occhiello del boom economico degli anni sessanta, che ha perso quasi il 7 per cento dei suoi alunni.
A conti fatti oltre 65mila studenti.
Repubblica (4 marzo 2009) Il ministero dell’istruzione ha messo in linea la pubblicazione “10 anni di scuola statale: a.s.
1998/99-a.s.
2007/08 – Dati, fenomeni e tendenze del sistema di istruzione ” che riporta e commenta le principali serie storiche del sistema di istruzione, rilevando dati dell’ultimo decennio sugli alunni, le classi, gli organici, il personale, le scuole.
I numerosi dati, riportati ed elaborati in tabelle e grafici, oltre che nei valori complessivi, sono riportati per settore scolastico e per territorio geografico e regioni.
Si tratta di un lavoro notevole, particolarmente interessante per capire fenomeni, tendenze e prospettive del sistema di istruzione.
Tra i tantissimi dati che meritano attenzione e valutazione anche da parte dei decisori politici vi è quello dell’andamento della popolazione scolastica che è specchio delle variazioni demografiche nazionali.
Nel decennio considerato si è determinata una specie di linea di demarcazione: dal centro in su vi è stato un aumento generalizzato di alunni; dal centro in giù tutte le regioni hanno perso iscritti.
Le variazioni sono dipese da due fenomeni: da una parte, l’immigrazione straniera verso le regioni settentrionali e centrali, dall’altra, il calo di nascite nelle regioni meridionali e insulari.
Il Sud e le Isole nel decennio hanno perso rispettivamente, si osserva nel commento dell’opera, 162 mila e 73 mila.
Un totale che supera l’attuale popolazione scolastica della Sardegna.
Se i 235 mila studenti in meno fossero stati tutti sardi, oggi l’intera isola non avrebbe né alunni, né scuole né docenti.
Alunni in meno, classi chiuse, calo di organici che si sono distribuiti, invece, in tutte le regioni del Sud e delle Isole.
L’opera è a cura della Direzione Generale per gli Studi e la Programmazione e per i Sistemi Informativi del MIUR.
Attraverso questo link, è possibile acquisire il file (3,5 Mb) dello studio.
Pubblicazione del MIUR ————————————————————————- tuttoscuola.com martedì 3 marzo 2009

Una speranza solida e affidabile in tempi di crisi

Una speranza solida e affidabile in tempi di crisi Il mondo ha bisogno di “una speranza salda e affidabile”: non “un ideale o un sentimento, ma una persona viva, Gesù Cristo”.
Lo scrive il Papa nel messaggio per la XXIV Giornata mondiale della gioventù, che si celebrerà nelle singole diocesi il 5 aprile, domenica delle Palme.
“Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10) Cari amici, la prossima Domenica delle Palme celebreremo, a livello diocesano, la XXIV Giornata Mondiale della Gioventù.
Mentre ci prepariamo a questa annuale ricorrenza, ripenso con viva gratitudine al Signore all’incontro che si è tenuto a Sydney, nel luglio dello scorso anno: incontro indimenticabile, durante il quale lo Spirito Santo ha rinnovato la vita di numerosissimi giovani convenuti dal mondo intero.
La gioia della festa e l’entusiasmo spirituale, sperimentati durante quei giorni, sono stati un segno eloquente della presenza dello Spirito di Cristo.
Ed ora siamo incamminati verso il raduno internazionale in programma a Madrid nel 2011, che avrà come tema le parole dell’apostolo Paolo: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr.
Col 2, 7).
In vista di tale appuntamento mondiale dei giovani, vogliamo compiere insieme un percorso formativo, riflettendo nel 2009 sull’affermazione di san Paolo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10), e nel 2010 sulla domanda del giovane ricco a Gesù: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10, 17).
La giovinezza, tempo della speranza A Sydney, la nostra attenzione si è concentrata su ciò che lo Spirito Santo dice oggi ai credenti, ed in particolare a voi, cari giovani.
Durante la Santa Messa conclusiva, vi ho esortato a lasciarvi plasmare da Lui per essere messaggeri dell’amore divino, capaci di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità.
La questione della speranza è, in verità, al centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell’epoca contemporanea.
Avvertiamo tutti il bisogno di speranza, ma non di una speranza qualsiasi, bensì di una speranza salda ed affidabile, come ho voluto sottolineare nell’Enciclica Spe salvi.
La giovinezza in particolare è tempo di speranze, perché guarda al futuro con varie aspettative.
Quando si è giovani si nutrono ideali, sogni e progetti; la giovinezza è il tempo in cui maturano scelte decisive per il resto della vita.
E forse anche per questo è la stagione dell’esistenza in cui affiorano con forza le domande di fondo: perché sono sulla terra? che senso ha vivere? che sarà della mia vita? E inoltre: come raggiungere la felicità? perché la sofferenza, la malattia e la morte? che cosa c’è oltre la morte? Interrogativi che diventano pressanti quando ci si deve misurare con ostacoli che a volte sembrano insormontabili: difficoltà negli studi, mancanza di lavoro, incomprensioni in famiglia, crisi nelle relazioni di amicizia o nella costruzione di un’intesa di coppia, malattie o disabilità, carenza di adeguate risorse come conseguenza dell’attuale e diffusa crisi economica e sociale.
Ci si domanda allora: dove attingere e come tener viva nel cuore la fiamma della speranza? Alla ricerca della “grande speranza” L’esperienza dimostra che le qualità personali e i beni materiali non bastano ad assicurare quella speranza di cui l’animo umano è in costante ricerca.
Come ho scritto nella citata Enciclica Spe salvi, la politica, la scienza, la tecnica, l’economia e ogni altra risorsa materiale da sole non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo.
Questa speranza “può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere” (n.
31).
Ecco perché una delle conseguenze principali dell’oblio di Dio è l’evidente smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddisfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazione.
Chiaro e forte è il richiamo che ci viene dalla Parola di Dio: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene” (Ger 17, 5-6).
La crisi di speranza colpisce più facilmente le nuove generazioni che, in contesti socio-culturali privi di certezze, di valori e di solidi punti di riferimento, si trovano ad affrontare difficoltà che appaiono superiori alle loro forze.
Penso, cari giovani amici, a tanti vostri coetanei feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche.
Per alcuni – e purtroppo non sono pochi – lo sbocco quasi obbligato è una fuga alienante verso comportamenti a rischio e violenti, verso la dipendenza da droghe e alcool, e verso tante altre forme di disagio giovanile.
Eppure, anche in chi viene a trovarsi in condizioni penose per aver seguito i consigli di “cattivi maestri”, non si spegne il desiderio di amore vero e di autentica felicità.
Ma come annunciare la speranza a questi giovani? Noi sappiamo che solo in Dio l’essere umano trova la sua vera realizzazione.
L’impegno primario che tutti ci coinvolge è pertanto quello di una nuova evangelizzazione, che aiuti le nuove generazioni a riscoprire il volto autentico di Dio, che è Amore.
A voi, cari giovani, che siete in cerca di una salda speranza, rivolgo le stesse parole che san Paolo indirizzava ai cristiani perseguitati nella Roma di allora: “Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15, 13).
Durante questo anno giubilare dedicato all’Apostolo delle genti, in occasione del bimillenario della sua nascita, impariamo da lui a diventare testimoni credibili della speranza cristiana.
San Paolo, testimone della speranza Trovandosi immerso in difficoltà e prove di vario genere, Paolo scriveva al suo fedele discepolo Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10).
Come era nata in lui questa speranza? Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dal suo incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco.
All’epoca Saulo era un giovane come voi, di circa venti o venticinque anni, seguace della Legge di Mosè e deciso a combattere con ogni mezzo quelli che egli riteneva nemici di Dio (cfr.
At 9, 1).
Mentre stava andando a Damasco per arrestare i seguaci di Cristo, fu abbagliato da una luce misteriosa e si sentì chiamare per nome: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”.
Caduto a terra, domandò: “Chi sei, o Signore?”.
E quella voce rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (cfr.
At 9, 3-5).
Dopo quell’incontro, la vita di Paolo mutò radicalmente: ricevette il Battesimo e divenne apostolo del Vangelo.
Sulla via di Damasco, egli fu interiormente trasformato dall’Amore divino incontrato nella persona di Gesù Cristo.
Un giorno scriverà: “Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2, 20).
Da persecutore diventò dunque testimone e missionario; fondò comunità cristiane in Asia Minore e in Grecia, percorrendo migliaia di chilometri e affrontando ogni sorta di peripezie, fino al martirio a Roma.
Tutto per amore di Cristo.
La grande speranza è in Cristo Per Paolo la speranza non è solo un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
Pervaso intimamente da questa certezza, potrà scrivere a Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10).
Il “Dio vivente” è Cristo risorto e presente nel mondo.
È Lui la vera speranza: il Cristo che vive con noi e in noi e che ci chiama a partecipare alla sua stessa vita eterna.
Se non siamo soli, se Egli è con noi, anzi, se è Lui il nostro presente ed il nostro futuro, perché temere? La speranza del cristiano è dunque desiderare “il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1817).
Il cammino verso la grande speranza Come un giorno incontrò il giovane Paolo, Gesù vuole incontrare anche ciascuno di voi, cari giovani.
Sì, prima di essere un nostro desiderio, questo incontro è un vivo desiderio di Cristo.
Ma qualcuno di voi mi potrebbe domandare: Come posso incontrarlo io, oggi? O piuttosto, in che modo Egli si avvicina a me? La Chiesa ci insegna che il desiderio di incontrare il Signore è già frutto della sua grazia.
Quando nella preghiera esprimiamo la nostra fede, anche nell’oscurità già Lo incontriamo perché Egli si offre a noi.
La preghiera perseverante apre il cuore ad accoglierlo, come spiega sant’Agostino: “Il Signore Dio nostro vuole che nelle preghiere si eserciti il nostro desiderio, così che diventiamo capaci di ricevere ciò che Lui intende darci” (Lettere 130, 8, 17).
La preghiera è dono dello Spirito, che ci rende uomini e donne di speranza, e pregare tiene il mondo aperto a Dio (cfr.
Enc.
Spe salvi, 34).
Fate spazio alla preghiera nella vostra vita! Pregare da soli è bene, ancor più bello e proficuo è pregare insieme, poiché il Signore ha assicurato di essere presente dove due o tre sono radunati nel suo nome (cfr.
Mt 18, 20).
Ci sono molti modi per familiarizzare con Lui; esistono esperienze, gruppi e movimenti, incontri e itinerari per imparare a pregare e crescere così nell’esperienza della fede.
Prendete parte alla liturgia nelle vostre parrocchie e nutritevi abbondantemente della Parola di Dio e dell’attiva partecipazione ai Sacramenti.
Come sapete, culmine e centro dell’esistenza e della missione di ogni credente e di ogni comunità cristiana è l’Eucaristia, sacramento di salvezza in cui Cristo si fa presente e dona come cibo spirituale il suo stesso Corpo e Sangue per la vita eterna.
Mistero davvero ineffabile! Attorno all’Eucaristia nasce e cresce la Chiesa, la grande famiglia dei cristiani, nella quale si entra con il Battesimo e ci si rinnova costantemente grazie al sacramento della Riconciliazione.
I battezzati poi, mediante la Cresima, vengono confermati dallo Spirito Santo per vivere da autentici amici e testimoni di Cristo, mentre i sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio li rendono atti a realizzare i loro compiti apostolici nella Chiesa e nel mondo.
L’Unzione dei malati, infine, ci fa sperimentare il conforto divino nella malattia e nella sofferenza.
Agire secondo la speranza cristiana Se vi nutrite di Cristo, cari giovani, e vivete immersi in Lui come l’apostolo Paolo, non potrete non parlare di Lui e non farlo conoscere ed amare da tanti altri vostri amici e coetanei.
Diventati suoi fedeli discepoli, sarete così in grado di contribuire a formare comunità cristiane impregnate di amore come quelle di cui parla il libro degli Atti degli Apostoli.
La Chiesa conta su di voi per questa impegnativa missione: non vi scoraggino le difficoltà e le prove che incontrate.
Siate pazienti e perseveranti, vincendo la naturale tendenza dei giovani alla fretta, a volere tutto e subito.
Cari amici, come Paolo, testimoniate il Risorto! Fatelo conoscere a quanti, vostri coetanei e adulti, sono in cerca della “grande speranza” che dia senso alla loro esistenza.
Se Gesù è diventato la vostra speranza, ditelo anche agli altri con la vostra gioia e il vostro impegno spirituale, apostolico e sociale.
Abitati da Cristo, dopo aver riposto in Lui la vostra fede e avergli dato tutta la vostra fiducia, diffondete questa speranza intorno a voi.
Fate scelte che manifestino la vostra fede; mostrate di aver compreso le insidie dell’idolatria del denaro, dei beni materiali, della carriera e del successo, e non lasciatevi attrarre da queste false chimere.
Non cedete alla logica dell’interesse egoistico, ma coltivate l’amore per il prossimo e sforzatevi di porre voi stessi e le vostre capacità umane e professionali al servizio del bene comune e della verità, sempre pronti a rispondere “a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15).
Il cristiano autentico non è mai triste, anche se si trova a dover affrontare prove di vario genere, perché la presenza di Gesù è il segreto della sua gioia e della sua pace.
Maria, Madre della speranza Modello di questo itinerario di vita apostolica sia per voi san Paolo, che ha alimentato la sua vita di costante fede e speranza seguendo l’esempio di Abramo, del quale scrive nella Lettera ai Romani: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4, 18).
Su queste stesse orme del popolo della speranza – formato dai profeti e dai santi di tutti i tempi – noi continuiamo ad avanzare verso la realizzazione del Regno, e nel nostro cammino spirituale ci accompagna la Vergine Maria, Madre della Speranza.
Colei che ha incarnato la speranza di Israele, che ha donato al mondo il Salvatore ed è rimasta, salda nella speranza, ai piedi della Croce, è per noi modello e sostegno.
Soprattutto, Maria intercede per noi e ci guida nel buio delle nostre difficoltà all’alba radiosa dell’incontro con il Risorto.
Vorrei concludere questo messaggio, cari giovani amici, facendo mia una bella e nota esortazione di san Bernardo ispirata al titolo di Maria Stella maris, Stella del mare: “Tu che nell’instabilità continua della vita presente, ti accorgi di essere sballottato tra le tempeste più che camminare sulla terra, tieni ben fisso lo sguardo al fulgore di questa stella, se non vuoi essere spazzato via dagli uragani.
Se insorgono i venti delle tentazioni e ti incagli tra gli scogli delle tribolazioni, guarda alla stella, invoca Maria …
Nei pericoli, nelle angustie, nelle perplessità, pensa a Maria, invoca Maria…
Seguendo i suoi esempi non ti smarrirai; invocandola non perderai la speranza; pensando a lei non cadrai nell’errore.
Appoggiato a lei non scivolerai; sotto la sua protezione non avrai paura di niente; con la sua guida non ti stancherai; con la sua protezione giungerai a destinazione” (Omelie in lode della Vergine Madre, 2, 17).
Maria, Stella del mare, sii tu a guidare i giovani del mondo intero all’incontro con il tuo Figlio divino Gesù, e sii ancora tu la celeste custode della loro fedeltà al Vangelo e della loro speranza.
Mentre assicuro il mio quotidiano ricordo nella preghiera per ognuno di voi, cari giovani, di cuore tutti vi benedico insieme alle persone che vi sono care.
Dal Vaticano, 22 febbraio 2009

Il linguaggio nell’educazione religiosa

2.
Il quadro organizzativo.
Lo studio si apre con una panoramica, necessariamente rapida, sul linguaggio, la sua rilevanza nella cultura odierna, su autori e scuole che vi hanno dato rilevanza ed hanno offerto stimoli particolarmente significativi (Marchetto).
In questo quadro di insieme viene richiamata in particolare la novità della riflessione recente proprio in quegli apporti che offrono suggestioni preziose alla ricerca ermeneutica anche in ambito religioso (Freni).
Da quelle premesse muove l’analisi più specifica sul linguaggio religioso, le connotazioni che lo qualificano, le condizioni che rendono possibile l’accesso al mondo della Trascendenza: legittimano il linguaggio su Dio (Trenti).
Il tema del linguaggio viene pure verificato in un tentativo di andare oltre l’ermeneutica per salvaguardare la novità del rapporto con Dio e il primato della sua presenza; confermando forse la logica ermeneutica dal versante opposto a quello consueto (Currò).
Viene insomma esplorato l’orizzonte in cui situare il linguaggio specifico della tradizione religiosa; a cominciare da quella biblica, espressa a grandi linee nella ricchezza e varietà di apporti che offre (Bissoli).
E’ sembrato anche importante riservare almeno un cenno alla grande tradizione orientale, proposta in ciò che ha di più caratterizzante e significativo (De Souza).
E aprire infine uno squarcio sufficientemente avvertito e attento alla grande provocazione che i testi fondanti offrono a documentazione della varietà e profondità della ricerca religiosa, anche oltre la tradizione occidentale (Pajer).
Un orizzonte dunque piuttosto ambizioso, interpretativo del linguaggio religioso e della sua significatività culturale e pedagogica.
Proprio questa valenza educativa del linguaggio religioso viene sottolineata con l’ ultimo intervento di carattere esplicitamente didattico (Romio).
Corroborato da una breve appendice applicativa.
3.
L’intento Il tema del linguaggio è centrale per ogni ricerca.
Gli studi che lo hanno recentemente rinnovato offrono suggestioni straordinariamente significative per l’incontro con i grandi temi della ricerca umana, anche là dove incrocia la pista che ha da sempre qualificato la riflessione religiosa.
Dire Dio, chiamarlo per nome, è aspirazione che attraversa la ‘presunzione umana’ fin dal suo nascere alla cultura, dai primi inni vedici.
L’apporto singolare offerto dalla riflessione ermeneutica ci ha resi avvertiti di quanto dire Dio può risultare illuminante e risolutivo anche per dire uomo.
La traccia religiosa non è dunque una pausa di riposo, un’oasi felice nella corsa all’incontro con noi stessi; ne è una condizione straordinariamente rivelativa appena ci si interroghi su chi siamo e sull’approdo cui siamo incamminati.
Donde il richiamo esplicito alla sua valenza educativa, spesso richiamata in ciascuno dei contributi, esplicitamente suggerita nella parte conclusiva.
Cfr.
TRENTI Z.
( a cura ), Il linguaggio nell’educazione religiosa, Leumann, Elledici, 2008, pp.
7-8.
PS.
Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo, man mano, ampi stralci di uno studio, appena apparso in Libreria; tende a far e il punto sugli aspetti più significativi del linguaggio in ambito educativo, soprattutto giovanile.
Gli Autori intendono far opera di stimolo e di richiamo su un aspetto provocante dell’educazione religiosa attuale.
La Redazione della Rivista ringrazia per ogni indicazione, suggerimento e magari contributo che Collaboratori e Lettori vogliano farle pervenire.
1.
L’attenzione al linguaggio L’importanza che il linguaggio assume nella ricerca attuale è un fatto sorprendente, ma allo stesso tempo comprensibile; documenta la situazione tipica del nostro tempo, carico di provocazioni e fervido di novità.
Il prenderne coscienza in maniera lucida è urgenza perentoria ed avvertita.
Tanto più quando l’esperienza lascia presagire l’orma misteriosa e sollecitante della trascendenza.
Il linguaggio si porta al cuore dell’esplorazione esistenziale: si piega sulla vita, anche nella sua quotidianità, tende e a decifrarla in tutti i suoi richiami, quello religioso compreso.
Anzi la riflessione religiosa muove per lo più da interrogativi profondi e appassionanti: si sforza di darvi comprensione e risposta.
Va quindi forgiando un linguaggio singolarmente affinato e pertinente, di cui gli interventi che proponiamo offrono ampia documentazione.
Il quadro organizzativo globale dello Studio ha privilegiato la riflessione ermeneutica per la rilevanza e autorevolezza che gode nel panorama culturale odierno; dovuta anche al fatto che vi sono approdati studiosi e pensatori eminenti: hanno contribuito e contribuiscono a decifrare l’esperienza umana anche nel presagio che la rapporta alla Trascendenza.

Alle radici della spiritualità secolare

Il tema della creazione è stato spesso occasione di vivace polemica fra ricerca scientifica e riflessione teologica.
Allo schiudersi del nuovo anno proponiamo alcuni brevi interventi per sottolinearne la convergenza e la reciproca integrazione – un essenziale indicazione teorica, – alcuni riferimenti biblici o teologici per l’appropriazione più personale.
Questo primo contributo orienta la riflessione su un dato fondamentale: – l’intervento creatore di Dio all’origine del mondo organizzato (cosmo); – la soddisfazione con cui Dio stesso contempla la sua opera -Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gn 1,31)- – quale stimolo per la corretta considerazione del mondo, della natura soprattutto.
In sintesi.
Le linee portanti della antica tradizione biblica circa la creazione si possono ricondurre ad alcune affermazioni: – Il mondo come casa della vita, organizzato in un cosmo (Gn 1); – Dio convoca nel cosmo ogni sorta di vita ad un grande banchetto; – L’ingresso dell’uomo corona l’opera e da inizio alla festa.
– La signoria dell’uomo sul cosmo è a servizio della vita (Gn.
1, 26-28); – La sua presenza è in grado di celebrare nella suggestione dell’universo la maestà di Dio, signore della vita.
Per la riflessione personale Per l’aggiornamento: LÖNING K.
– E.
ZENGLER, In principio Dio Creò.
Teologie bibliche della creazione, Brescia, Queriniana, 2007 RAD (Von) G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974.  1° Contributo: I mondo è opera mirabile di Dio creatore.
Il cosmo è frutto del gesto creatore di Dio.
La bibbia è una riflessione credente di Israele sulla propria vicenda di popolo che si sente investito di un compito straordinario.
Dio si erge fin dall’inizio e occupa intera la scena.
Da Lui prende origine il progetto grandioso che distende il cielo e la terra e ne fa una dimora superba dell’uomo.
I testi di cui disponiamo hanno attraversa una lunga gestazione Approssimativamente nel corso del secolo VI l’attitudine religiosa che caratterizza il mondo ebraico raccoglie un cumulo di tradizioni a spiegazione dell’origine e del significato dell’ universo, in cui presagisce una potenza arcana e benefica che lo governa.
Il Pentateuco rappresenta una singolare sintesi di lontane e illuminanti tradizioni che hanno progressivamente attraversato la vicenda ebraica; la casta sacerdotale, più colta ed abituata alla scrittura, le codifica finalmente in un’elaborazione unitaria e organica.
Risulta il documento più significativo della concezione ebraica e cristiana dell’origine del mondo.
Una doppia visione intensamente drammatica vede la vita imporsi sull’abisso, sul caos e tenta di esplorarne il vorticoso espandersi; ne interpreta il progressivo, dinamico compaginarsi nella figura di un mondo organizzato –cosmo-.
Con il primo capitolo della Genesi (Gn.
1.1-2.4) ci troviamo di fronte ad una suggestiva e lucida elaborazione degli inizi dell’universo; nel tentativo singolare di articolarne i momenti successivi, in una progressione che tende ad interpretare unitariamente il cosmo, in cui l’uomo trova dimora (i sei giorni della creazione).
Sulla figura dell’uomo si concentra con più accurata attenzione il documento successivo Gn 2.5-3.24; in un racconto immaginifico e suggestivo pone l’uomo al centro di un intervento straordinario di JHWH, che ne traccia a grandi linee il destino e il significato nella creazione.
La riflessione biblica non è preoccupata di interpretare il passaggio dal nulla all’essere.
Muove dall’intuizione che qualcosa è in movimento; non si interessa dell’origine della realtà; si appassiona a quello che constata e si domanda dove tenda il suo dinamismo.
Il testo consente di identificare quattro elementi che, per così dire, popolano il caos iniziale, su cui interviene Dio creatore a dare ordine e dinamismo vitale.
In una ricostruzione di sintesi dunque all’origine si afferma: la forza vitale creatrice di Dio, che si impone su alcunché di indefinito ed inerte, vi conferisce la vita, lo mette in moto, ne valuta autorevolmente il significato – ed era cosa molto buona -.
La sapienza ordinatrice del cosmo Israele ha probabilmente meditato a lungo su questo rapporto di JHWH con la sua creazione.
Nei libri sapienziali, più tardivi, il tema ritorna in un orizzonte interpretativo ormai garantito: la creazione vi risulta patrimonio acquisito e si pone a sfondo chiarificatore e spesso risolutivo dei temi che man mano s’impongono alla riflessione credente.
In particolare il libro dei Proverbi offre una singolare interpretazione dell’ordine mirabile in cui l’universo si compagina.
La Sapienza con cui Dio opera nella sua creazione è addirittura personificata: ‘Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo; quando egli fissava i cieli, io ero là.’ (Proverbi, 8, 26.27) Suggestiva figura, garante di sovrana razionalità del cosmo.
Lungo le generazioni i Salmi raccolgono la suggestione del creato in una gamma di modulazioni singolarmente sincere e intense che vanno dall’ammirazione spontanea alla celebrazione corale di una creazione che parla con voce vibrante e persuasiva del suo creatore.
I salmi costituiscono un’epopea religiosa che non ha paragone; del resto straordinariamente sfruttata dalla tradizione cristiana.
A titolo esemplificativo, anche per quanto concerne il tema della creazione, il riferimento ad un paio di salmi resta carico di suggestione.
– efficace l’immagine del re buono del mondo che tiene a freno il caos e ne delimita la violenza distruttrice ( Salmo 93); – Toccante nostalgia di Dio che pervade l’universo e lo celebra (Salmo 104).

Annuario Pontificio del 2009

Benedetto XVI ha mostrato vivo interesse per i dati illu­strati e ha ringraziato per l’omaggio tutti coloro che hanno collaborato alla nuova e­dizione dell’Annuario.
Numerose le notizie sulla vita delle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche di tutto il mon­do, contenute nel volume.
Il numero dei ve­scovi ad esempio è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è l’Oceania (+ 4,7%), seguito da Africa (+ 3,0%) e da Asia (+ 1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+ 0,8%).
Nello stesso periodo l’America regi­stra una flessione dello 0,1%, mentre il pe­so delle varie aree geografiche è rimasto so­stanzialmente invariato nel tempo, con Eu­ropa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Anche il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio piutto­sto deludente.
I preti, infatti, sono aumen­tati nel corso degli ultimi otto anni, pas­sando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo del­le varie aree geografiche al dato comples­sivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dina­mica assai sostenuta (+ 27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché staziona­ria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita nega­tivi: meno 6,8% e meno 5,5% rispettiva­mente.
In espansione pure il numero dei diaconi permanenti.
Aumentano nel 2007, di oltre il 4,1% rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi mi­gliora a ritmi sostenuti in Africa, A­sia e Oceania, dove il loro numero non raggiunge ancora il 2% del to­tale mondiale, ma anche in aree do­ve la loro presenza è quantitativa­mente più rilevante.
In America ed in Europa, dove risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0%.
Più o meno stabile, invece, il numero dei seminaristi, passato da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione dif­ferente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibi­le crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazio­ne.
Mimmo Muolo Da Avvenire 01 03 2009 I dati statistici riferiti all’anno 2007 forniscono un’analisi sintetica delle principali dinamiche riguardanti la Chiesa Cattolica nelle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche del pianeta.
Nel corso degli ultimi due anni, la presenza dei fedeli battezzati nel mondo rimane stabile attorno al 17,3% , quale risultato dell’espansione del numero dei cattolici (1,4%) a ritmo sostanzialmente assimilabile a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (1,1%).
Nel 2007, si contano poco meno di 1.147 milioni di cattolici, a fronte dei 1.131 milioni circa nel 2006.
Il numero dei vescovi nel mondo è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è quello dell’Oceania (+4,7%), seguito da Africa (+3,0%) e da Asia (+1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+0,8%).
Nello stesso periodo l’America registra un tasso di variazione di 0,1%, mentre il peso delle varie aree geografiche è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, con Europa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio di performance piuttosto deludente.
I sacerdoti, infatti, sono aumentati nel corso degli ultimi otto anni, passando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo delle varie aree geografiche al dato complessivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dinamica assai sostenuta (+27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché stazionaria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita negativi, del 6,8%e del 5,5%.
Il numero dei diaconi permanenti continua a mostrare una significativa dinamica evolutiva.
Aumentano, al 2007, di oltre il 4,1%, rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi migliora a ritmi sostenuti sia in Africa, Asia e Oceania, dove essi non raggiungono ancora il 2% del totale, sia in aree dove la loro presenza è quantitativamente più rilevante.
In America ed in Europa, dove al 2007 risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0% .
A livello globale, il numero dei candidati al sacerdozio è aumentato, passando da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione differente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibile crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazione, rispettivamente, del 2,1 e dell’1 per cento.
(©L’Osservatore Romano – 1 marzo 2009) È stabile nel mondo la presenza dei cattolici.
Poco meno di un miliardo e 147 milioni di persone distribuite nei cinque continenti.
Anzi, si può dire che il lo­ro numero cresce con lo stesso trend di cre­scita della popolazione mondiale, per cui i fedeli della Chiesa di Roma rappresentano il 17,3 per cento degli abitanti del pianeta.
I dati, riferiti all’anno 2007, sono contenu­ti nell’Annuario Pontificio del 2009, pre­sentato ieri al Papa dal cardinale segreta­rio di Stato Tarcisio Bertone e dal sostituto della segretaria di Stato, monsignor Fer­nando Filoni, alla presenza dei curatori del­l’opera (monsignor Vittorio Formenti ed Enrico Nenna dell’Ufficio centrale di stati­stica della Chiesa), che è stata stampata dalla Tipografia Vaticana e che sarà tra bre­ve in vendita nelle librerie.

Ponyo sulla scogliera

Il nuovo film di Hayao Miyazaki! Titolo originale: Gake no ue no Ponyo Titolo ad ideogramma: Titolo internazionale: Ponyo On The Cliff By The Sea Anno: 19 Luglio 2008 in Giappone Regia: Hayao Miyazaki Soggetto: Hayao Miyazaki Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Scenografie: Noboru Yoshida Capo Animatore: Katsuya Kondo Capo Colorista: Michiyo Yasuda Musiche: Joe Hisaishi canzone tema cantata da Fujioka Fujimaki e Ohashi Nozomi Durata: 100 min.
Produttore: Toshio Suzuki Distributore: Toho Data di uscita in Italia: 20 Marzo 2009 Distribuito da: Lucky Red Dvd in italiano: 2009 Il nuovo film di Hayao Miyazaki! Titolo originale: Gake no ue no Ponyo Titolo ad ideogramma: Titolo internazionale: Ponyo On The Cliff By The Sea Anno: 19 Luglio 2008 in Giappone Regia: Hayao Miyazaki Soggetto: Hayao Miyazaki Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Scenografie: Noboru Yoshida Capo Animatore: Katsuya Kondo Capo Colorista: Michiyo Yasuda Musiche: Joe Hisaishi canzone tema cantata da Fujioka Fujimaki e Ohashi Nozomi Durata: 100 min.
Produttore: Toshio Suzuki Distributore: Toho Data di uscita in Italia: 20 Marzo 2009 Distribuito da: Lucky Red Dvd in italiano: 2009 PONYO, una deliziosa pesciolina sulla scogliera Durante un Festival capita spesso che le giornate siano noiose e difficili da sopportare per le tante pellicole costretti a visionare, per fare un buon lavoro di critica, soprattutto per consigliare al meglio i nostri lettori.
Ebbene Hayao Miyazaki, l’esperto maestro di cartoni animati giapponese, da qualche anno partecipa con le sue storie animate alla competizione della Mostra di Venezia.
Nel 2008 ha deliziato tutti i cinefili con Ponyo, la tenera storia di una intraprendente pesciolina che ne combina di tutti i colori e fa vivere momenti di armonia con la natura e i sentimenti.
In questi giorni il film viene proiettato sugli schermi italiani.
Correte a vederlo con i vostri bambini.
Ecco la storia Un villaggio in riva al mare.
Sosuke, un bimbo di cinque anni, vive in cima a una scogliera affacciata su Inland Sea.
Una mattina, giocando sulla spiaggia rocciosa sotto casa, trova Ponyo, una pesciolina rossa con la testa incastrata in un barattolo di marmellata.
Sosuke la salva e la mette in un secchio di plastica verde.
Ponyo è affascinata da Sosuke e il bimbo prova lo stesso verso la pesciolina.
Le dice: “Non preoccuparti, ti proteggerò e mi prenderò cura di te”.
Ma il padre di Ponyo, Fujimoto – una volta umano e ora stregone che abita i fondali marini – la obbliga a tornare con lui nelle profondità dell’oceano.
“Voglio essere umana!” esclama Ponyo e, determinata a diventare una bimba per tornare da Sosuke, tenta la fuga.
Ma prima di farlo, versa nell’oceano l’Acqua della Vita, la preziosa riserva dell’elisir magico di Fujimoto.
L’acqua del mare si alza.
Le sorelle di Ponyo sono trasformate in enormi onde dalla forma di pesce che si arrampicano alte fino alla scogliera dove si trova la casa di Sosuke.
Il caos sprigionato dall’oceano avvolge il villaggio di Sosuke che affonda sotto i flutti marini.

Scuola: varati i due regolamenti sulla riforma e il dimensionamento

Questa mattina il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro dell’Istruzione, dell’Universita’ e della Ricerca, Mariastella Gelmini ha approvato i due regolamenti che riguardano la riforma della scuola, in particolare il “maestro unico-prevalente”, e il dimensionamento scolastico.
Sui due regolamenti, spiega il comunicato di Palazzo Chigi, sono stati acquisiti i pareri della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato, per quello che riguarda “la riorganizzazione e la razionalizzazione, rispettivamente, della rete scolastica e dell’utilizzo delle risorse umane, nonchè della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”.
Questi i punti salienti del primo regolamento: “entrano in vigore le norme che introducono la figura del maestro unico – prevalente nella scuola primaria e i modelli di orario su 24, 27 e 30 ore.
Restano confermati gli attuali modelli per gli anni successivi alle prime classi con la riduzione delle compresenze, garantendo, comunque, l’assistenza alle mense.
E’ confermato il tempo pieno secondo il modello delle 40 ore settimanali con 2 docenti per classe”.
“Per la scuola secondaria di primo grado restano confermate le 30 ore settimanali di cui una dedicata allo studio della Cittadinanza e della Costituzione.
È confermato anche il tempo prolungato anche alle scuole medie, con 36 ore settimanali elevabili a 40.
E’ prevista, inoltre, l’organizzazione oraria su base annuale oltre che settimanale per consentire una maggiore flessibilità all’autonomia delle scuole”.
“Per le scuole dell’infanzia e per le sezioni primavera resta confermata la normativa attuale, ma viene attribuito un ruolo più incisivo ai docenti che valuteranno pedagogicamente l’opportunità dell’anticipo”.
Circa il secondo regolamento, “prevale il principio per il quale le scelte sul dimensionamento scolastico saranno oggetto di un confronto condiviso con gli enti locali e le Regioni, per individuare insieme gli eventuali interventi di supporto e di aiuto come l’organizzazione delle mense e il trasporto scolastico, puntando a ridurre al minimo i disagi per le famiglie e per gli studenti.
Viene inoltre salvaguardata l’attuale normativa per i docenti di sostegno”.
——————————————————————————– tuttoscuola.com venerdì 27 febbraio 2009

Laicità e bene comune

Una laicità definita da Benedetto XVI “sana” e “positiva”, è quella che congiunga all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del “senso religioso” che portiamo dentro di noi.
Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l’intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili.
Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a parere del Card Ruini, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.
Laicità e bene comune di Camillo Ruini Riflettere sulla laicità in rapporto al bene comune mi sembra un approccio fondamentale, e assai stimolante, in ordine alla comprensione e all’apprezzamento della laicità, in particolare per il discernimento e la valutazione dei vari e molto diversi significati che il concetto di laicità ha ormai assunto.
A questo scopo, però, dobbiamo anzitutto avere un’idea il più possibile chiara e determinata del significato dell’espressione “bene comune”, alla luce della quale cercheremo di renderci conto dei fondamenti e delle funzioni della laicità.
Come è noto, “bene comune” è un concetto tipico – anche se non esclusivo – del pensiero sociale cattolico.
Sembra giusto pertanto riferirsi al significato che gli viene attribuito in questo contesto.
Il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa”, pubblicato nel 2004 dal pontificio consiglio della giustizia e della pace, considera il bene comune come il primo dei principi di questa dottrina e lo fa derivare “dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone”.
Esso indica anzitutto “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente”.
In concreto il bene comune è “bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo”, dato che “la persona non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere cioè dal suo essere ‘con’ e ‘per’ gli altri”.
Il bene comune, pertanto, “non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale.
Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro”.
Pur essendo così fondato nella natura e dignità del nostro essere, il bene comune ha una sua evidente storicità: infatti “le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali” (“Compendio”, nn.
164-166).
Non è possibile, e forse non sarebbe nemmeno utile ai nostri fini, disporre di una determinazione altrettanto chiara e organica del concetto di laicità.
È indispensabile però una precisazione iniziale: in questo contesto parliamo di “laicità” non nel senso teologico ed ecclesiale, per il quale, come dice il Concilio Vaticano II nella “Lumen gentium” (n.
31), “Col nome di laici si intendono…
tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso…, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati in Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio…
per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano”.
Dei laici così intesi è proprio e peculiare “il carattere secolare”, nel senso che “per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”.
Questo carattere secolare e il rapporto con le realtà temporali costituiscono in qualche modo il ponte che consente un collegamento e un passaggio all’altro grande significato dei termini “laici” e “laicità”, che è quello a cui ci riferiremo d’ora in poi.
Qui laico e laicità sono infatti concetti che indicano e implicano un’autonomia e una distinzione da ciò che è ecclesiastico e che fa capo alla Chiesa, e più ampiamente al cristianesimo e ad ogni religione.
Per la genesi di questo concetto resta fondamentale il grande studio di G.
de Lagarde “La naissance de l’esprit laïque, au déclin du moyen âge”.
Indicativo della pluralità e anche del contrasto delle interpretazioni che vengono date oggi di tale concetto è il modo in cui Giovanni Fornero, nella terza edizione da lui stesso curata del “Dizionario di filosofia” di Nicola Abbagnano, tratta la voce “Laicismo”, che nel linguaggio comune sta ad indicare una versione dura, polemica ed “esclusiva” della laicità.
Per Fornero con “laicismo” si intende “il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui esse si ispirano”.
Ma questa autonomia è affermata, in termini formalmente assai simili, dal Concilio Vaticano II (“Gaudium et spes”, n.
36), che afferma: “Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e la stessa società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di un’esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore.
Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte”.
È anche assai interessante che Fornero riconduca l’origine del concetto di laicismo a papa Gelasio I il quale, alla fine del V secolo, formula con chiarezza il principio della distinzione dei due poteri del papa e dell’imperatore e su queste basi rivendica l’autonomia della sfera religiosa da quella politica.
In termini simili si esprime l’allora cardinale Joseph Ratzinger, nel libro “Senza radici” (pp.
51-52), che individua qui anche la matrice di una profonda differenza tra cristianesimo d’Occidente e d’Oriente, tra cattolicesimo e ortodossia, nella quale invece l’imperatore era capo anche della Chiesa e questa appariva quasi identificata con l’impero.
*** Ma questa convergenza, o consenso, sul principio della laicità non può nascondere le divergenze che si sono formate nella storia e che oggi emergono sempre di nuovo.
Il tornante decisivo è quel “nuovo scisma” – per usare le parole del cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp.
56-57) – che si è verificato soprattutto in Francia tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX e che tuttora è tipico soprattutto dei paesi latini di matrice cattolica.
È qui che la rivendicazione della ragione e della libertà affermatasi con l’illuminismo assume un volto decisamente ostile alla Chiesa e, non di rado, chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo nel distinguere tra le istanze anti-cristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente.
Il “nuovo scisma” è pertanto tra cattolici e “laici”, dove la parola “laico” assume un significato di opposizione alla religione che prima non aveva.
È interessante notare che uno scisma analogo non si è verificato nel mondo protestante, perché il protestantesimo, che fin dall’inizio ha concepito se stesso come un movimento di liberazione e purificazione dai vincoli dell’autorità ecclesiastica, ha sviluppato facilmente un rapporto di parentela con l’illuminismo, con il rischio però – e a volte non soltanto il rischio – di svuotare dall’interno la verità cristiana e di ridursi a un dato di cultura, piuttosto che di fede in senso autentico.
Il terreno più immediatamente sensibile – anche se a mio parere non il più profondo – delle tensioni tra cristianesimo e illuminismo è stato quello dei rapporti tra Chiesa e Stato.
E qui si è sviluppata una seconda e importantissima divaricazione, anzitutto all’interno del mondo protestante.
Mentre in Europa le Chiese nate dalla Riforma si sono costituite come Chiese di Stato, in una maniera assai più pregnante di quel che è avvenuto nel cattolicesimo, dove le Chiese di Stato hanno sempre dovuto fare i conti con l’unità e l’universalità transnazionale della Chiesa cattolica, del tutto diversa è la vicenda degli Stati Uniti d’America.
La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di Stato vigente in Europa e che formavano libere comunità di credenti.
Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti.
In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi, reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero.
Non siamo dunque lontani dagli intenti e dagli obiettivi della distinzione affermata da papa Gelasio I.
Siamo invece lontanissimi da quella separazione fondamentalmente “ostile” alla religione e tendente a subordinare le Chiese allo Stato che è stata imposta dalla Rivoluzione francese e dai sistemi statali che ad essa hanno fatto seguito.
Per conseguenza, tutto il sistema dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale.
In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, nonostante le resistenze di quell’ideologia che voleva riservare la piena titolarità “nordamericana” soltanto ai protestanti.
In concreto i cattolici hanno riconosciuto ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l’importanza della libertà religiosa così garantita.
*** Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso.
Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto, ma come affermazione di un diritto, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana.
Non per caso la dichiarazione conciliare “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa, che afferma chiaramente tale diritto – evitando però di fondarlo su di un approccio relativistico che metta in forse la verità del cristianesimo –, è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani.
Il Vaticano II non si è limitato a togliere di mezzo l’ostacolo riguardante la libertà religiosa, ma ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo a cui ho accennato in precedenza.
Esso infatti ha posto le basi di una vera conciliazione tra Chiesa e modernità e della riscoperta della profonda corrispondenza che esiste tra cristianesimo e illuminismo.
In concreto, il Concilio ha fatto propria la “svolta antropologica” che fin dall’inizio dell’età moderna aveva posto l’uomo al centro: ha mostrato infatti le radici cristiane di questa svolta e l’infondatezza dell’alternativa tra centralità dell’uomo e centralità di Dio.
Analogamente ha affermato, come si è visto, la legittima autonomia delle realtà terrene, i diritti e le libertà degli uomini e dei popoli, riconoscendo al contempo la validità del grande sforzo che l’umanità sta compiendo per trasformare il mondo.
Con il Vaticano II, pertanto, è stata inaugurata una nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e laicità, come tra religione cattolica e libertà: una stagione nella quale si è coltivata inizialmente la speranza che ogni contenzioso sulla laicità fosse ormai alle nostre spalle.
Non era una speranza priva di ragioni concrete, anche e particolarmente per quanto riguarda il terreno “sensibile” dei rapporti tra Chiesa e Stato.
Con il pieno riconoscimento della libertà religiosa da parte del Concilio Vaticano II veniva meno, infatti, la giustificazione di principio di una “religione di Stato”, che aveva costituito l’ostacolo sostanziale alla laicità dello Stato stesso e delle sue istituzioni.
Anche la differenza tra regimi “concordatari” e regimi di separazione tra Stato e Chiesa diventava a questo punto meno rilevante, dato che anche i Concordati – come mostra esemplarmente l’accordo di revisione del Concordato stipulato tra lo Stato italiano e la Santa Sede nel 1984 – si pongono ormai espressamente al di fuori di un’ottica di religione di Stato.
Si legge infatti nel protocollo addizionale di tale accordo, in relazione all’articolo 1: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
*** Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti dentro a una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità.
A ben vedere, tuttavia, l’oggetto del contendere si è profondamente modificato: non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni.
A questo riguardo infatti la distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità.
Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.
Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili.
Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico.
Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica.
Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare in Italia la Chiesa cattolica.
In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni.
Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno della Chiesa italiana a Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire “il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto, anzi, nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica”.
Giovanni Paolo II domandò pertanto alla Chiesa italiana di “operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia o ricuperi – anche e particolarmente in una società pluralista e parzialmente scristianizzata – un ruolo-guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro”.
*** Il contenzioso riguardo alla laicità incentrato sulle grandi problematiche etiche ed antropologiche ha oggi d’altronde un altro protagonista, che proprio riguardo a tali problematiche si pone in modo antitetico rispetto alla Chiesa e al cristianesimo.
Il suo nucleo concettuale è la convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile all’universo fisico, mentre sul piano etico e giuridico il suo assunto fondamentale è quello della libertà individuale, in rapporto alla quale va evitata ogni discriminazione.
Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico.
In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo.
Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato “la dittatura del relativismo”, una forma di cultura cioè che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.
Proprio questo taglio radicale è però lontano dall’essere da tutti condiviso in quello che si suole chiamare “il mondo laico”.
Anzi, molti “laici” ritengono di dover rifiutare un simile taglio per rimanere fedeli alle radici e motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo.
L’allora cardinale Ratzinger, nel libro che ho già ricordato, ha fornito una motivazione storica e anche teologica di questa nuova sintonia tra laici e cattolici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri “dev’essere relativizzata” (“Senza radici”, pp.
111-112).
In una lettera scritta a Marcello Pera in occasione della recente pubblicazione del libro di quest’ultimo “Perché dobbiamo dirci cristiani.
Il liberalismo, l’Europa, l’etica”, Benedetto XVI ha preso di nuovo e fortemente posizione a favore del legame intrinseco tra liberalismo e cristianesimo.
Inoltre, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, aveva avanzato “una proposta ai laici”: sostituire la formula di Ugo Grozio “etsi Deus non daretur” – anche se Dio non esistesse –, ormai storicamente consunta perché nel corso del secolo XX è progressivamente venuta meno quella larga coincidenza di contenuti tra etica pubblica civile e morale cristiana che costituiva il senso concreto di tale formula, con la formula inversa, “veluti si Deus daretur” – come se Dio esistesse –.
Anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe cioè cercare di vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse: “Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno” (J.
Ratzinger, “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”, pp.
60-63).
È doveroso aggiungere che non tutti, tra i cattolici, condividono l’apertura cordiale a questo genere di laici.
Non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto – a mio parere ingiusto –, temendo che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici.
Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica.
In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati in materia di laicità al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche etiche ed antropologiche.
*** L’analisi del concetto di laicità nel suo concreto articolarsi storico consente di tentare una risposta non generica alla questione del rapporto tra laicità e bene comune.
Quando è intesa come autonomia delle attività umane, che devono reggersi secondo norme loro proprie, e in particolare come indipendenza dello Stato dall’autorità ecclesiastica, la laicità è certamente richiesta dal bene comune, come del resto ha ampiamente mostrato la storia dell’Europa moderna a partire dalle guerre di religione.
Ernst-Wolfgang Böckenförde, nel suo classico saggio su “La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione”, è tra coloro che hanno meglio evidenziato come soltanto l’indipendenza dello Stato dalle diverse confessioni religiose poteva assicurare la pace delle nazioni e la stessa libertà dei credenti.
Diverso è invece il discorso quando il concetto di laicità viene esteso ad escludere ogni riferimento delle attività umane e in particolare delle leggi dello Stato e dell’intera sfera pubblica a quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo, oltre che a quel “senso religioso” nel quale si esprime la nostra costitutiva apertura alla trascendenza.
Come infatti ha mostrato lo stesso Böckenförde alla fine del saggio che ho ricordato, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su “Fede e democrazia” pubblicato sulla rivista “Aspenia” nel 2008 (pp.
206-208), ha proposto un assai interessante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella sua riduzione alla natura e di quel totale relativismo che sono all’origine delle predette interpretazioni della laicità.
È l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde.
Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
Sono questi i motivi per i quali Benedetto XVI ha ripetutamente proposto una laicità da lui stesso definita “sana” e “positiva”, che congiunga all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del “senso religioso” che portiamo dentro di noi.
Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l’intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili.
Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a mio parere, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.