Dieci anni di scuola statale in Italia

Più alunni, meno prof e precari ecco la foto della scuola italiana di Salvo Intravaia Mai così “precaria”, almeno nell’ultimo decennio.
E’ la scuola italiana descritta dall’ultimo rapporto del ministero dell’Istruzione dal titolo “10 anni di scuola statale”.
I ponderoso volume contiene migliaia di dati e si riferisce al decennio (dal 1998/1999 al 2007/2008) che probabilmente ha visto il maggior numero di riforme sulla scuola.
A fronte di un incremento degli alunni si è registrato un calo dei docenti stabili, quelli di ruolo, e un vero e proprio boom del precariato.
Ma non solo: le classi si sono riempite grazie all’ingresso degli alunni stranieri ha permesso alla popolazione scolastica italiana di crescere.
Il decennio viene contrassegnato anche da una svolta: la corsa ai licei e il crollo degli istituti tecnici.
E ancora: il progressivo spopolamento delle scuole del Sud a vantaggio degli istituti settentrionali.
In due lustri, la popolazione scolastica è cresciuta quasi del 3 per cento ma non è stato così in tutte le zone del Paese.
Nelle regioni del Nord le scuole hanno dovuto fare posto a 352 mila alunni in più vedendo crescere gli alunni del 13 per cento.
Al Sud le classi si sono svuotate inesorabilmente: in pochi anni, la popolazione scolastica si è assottigliata del 6 per cento.
Dieci anni fa, il Sud poteva contare su un milione di alunni in più rispetto al Nord, adesso il vantaggio è di appena 350 mila alunni.
Con ogni probabilità, a fare la differenza sono stati gli alunni stranieri.
Il loro numero è cresciuto di 6 volte e se non fosse stato per la loro presenza gli alunni italiani sarebbero diminuiti del 3 per cento.
Il decennio 1999/2008, nonostante abbia registrato un incremento della popolazione scolastica, ha visto calare il numero dei docenti di ruolo (del 3,4 per cento) e più che raddoppiare (da 64 mila a 141 mila) il numero dei supplenti impegnati dietro la cattedra.
Dieci anni fa, si contava un precario ogni 12 insegnanti, oggi ce n’è uno ogni 6.
Anche per questa ragione l’ex ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni, mise in cantiere un piano per stabilizzare 150 mila precari, messo in soffitta dall’attuale governo.
Oggi, le classi sono più affollate di dieci anni fa, soprattutto nei licei.
Gli scientifici hanno vissuto un decennio di grazia: più 27 per cento.
Stesso discorso per i classici e per i licei socio-psico-pedagogici (gli ex istituti magistrali) dove gli alunni sono cresciuti di un quinto.
E in misura minore anche gli istituti professionali hanno visto aumentare gli alunni (più 13 per cento).
Il tutto a scapito dell’istruzione tecnica, fiore all’occhiello del boom economico degli anni sessanta, che ha perso quasi il 7 per cento dei suoi alunni.
A conti fatti oltre 65mila studenti.
Repubblica (4 marzo 2009) Il ministero dell’istruzione ha messo in linea la pubblicazione “10 anni di scuola statale: a.s.
1998/99-a.s.
2007/08 – Dati, fenomeni e tendenze del sistema di istruzione ” che riporta e commenta le principali serie storiche del sistema di istruzione, rilevando dati dell’ultimo decennio sugli alunni, le classi, gli organici, il personale, le scuole.
I numerosi dati, riportati ed elaborati in tabelle e grafici, oltre che nei valori complessivi, sono riportati per settore scolastico e per territorio geografico e regioni.
Si tratta di un lavoro notevole, particolarmente interessante per capire fenomeni, tendenze e prospettive del sistema di istruzione.
Tra i tantissimi dati che meritano attenzione e valutazione anche da parte dei decisori politici vi è quello dell’andamento della popolazione scolastica che è specchio delle variazioni demografiche nazionali.
Nel decennio considerato si è determinata una specie di linea di demarcazione: dal centro in su vi è stato un aumento generalizzato di alunni; dal centro in giù tutte le regioni hanno perso iscritti.
Le variazioni sono dipese da due fenomeni: da una parte, l’immigrazione straniera verso le regioni settentrionali e centrali, dall’altra, il calo di nascite nelle regioni meridionali e insulari.
Il Sud e le Isole nel decennio hanno perso rispettivamente, si osserva nel commento dell’opera, 162 mila e 73 mila.
Un totale che supera l’attuale popolazione scolastica della Sardegna.
Se i 235 mila studenti in meno fossero stati tutti sardi, oggi l’intera isola non avrebbe né alunni, né scuole né docenti.
Alunni in meno, classi chiuse, calo di organici che si sono distribuiti, invece, in tutte le regioni del Sud e delle Isole.
L’opera è a cura della Direzione Generale per gli Studi e la Programmazione e per i Sistemi Informativi del MIUR.
Attraverso questo link, è possibile acquisire il file (3,5 Mb) dello studio.
Pubblicazione del MIUR ————————————————————————- tuttoscuola.com martedì 3 marzo 2009

Una speranza solida e affidabile in tempi di crisi

Una speranza solida e affidabile in tempi di crisi Il mondo ha bisogno di “una speranza salda e affidabile”: non “un ideale o un sentimento, ma una persona viva, Gesù Cristo”.
Lo scrive il Papa nel messaggio per la XXIV Giornata mondiale della gioventù, che si celebrerà nelle singole diocesi il 5 aprile, domenica delle Palme.
“Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10) Cari amici, la prossima Domenica delle Palme celebreremo, a livello diocesano, la XXIV Giornata Mondiale della Gioventù.
Mentre ci prepariamo a questa annuale ricorrenza, ripenso con viva gratitudine al Signore all’incontro che si è tenuto a Sydney, nel luglio dello scorso anno: incontro indimenticabile, durante il quale lo Spirito Santo ha rinnovato la vita di numerosissimi giovani convenuti dal mondo intero.
La gioia della festa e l’entusiasmo spirituale, sperimentati durante quei giorni, sono stati un segno eloquente della presenza dello Spirito di Cristo.
Ed ora siamo incamminati verso il raduno internazionale in programma a Madrid nel 2011, che avrà come tema le parole dell’apostolo Paolo: “Radicati e fondati in Cristo, saldi nella fede” (cfr.
Col 2, 7).
In vista di tale appuntamento mondiale dei giovani, vogliamo compiere insieme un percorso formativo, riflettendo nel 2009 sull’affermazione di san Paolo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10), e nel 2010 sulla domanda del giovane ricco a Gesù: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?” (Mc 10, 17).
La giovinezza, tempo della speranza A Sydney, la nostra attenzione si è concentrata su ciò che lo Spirito Santo dice oggi ai credenti, ed in particolare a voi, cari giovani.
Durante la Santa Messa conclusiva, vi ho esortato a lasciarvi plasmare da Lui per essere messaggeri dell’amore divino, capaci di costruire un futuro di speranza per tutta l’umanità.
La questione della speranza è, in verità, al centro della nostra vita di esseri umani e della nostra missione di cristiani, soprattutto nell’epoca contemporanea.
Avvertiamo tutti il bisogno di speranza, ma non di una speranza qualsiasi, bensì di una speranza salda ed affidabile, come ho voluto sottolineare nell’Enciclica Spe salvi.
La giovinezza in particolare è tempo di speranze, perché guarda al futuro con varie aspettative.
Quando si è giovani si nutrono ideali, sogni e progetti; la giovinezza è il tempo in cui maturano scelte decisive per il resto della vita.
E forse anche per questo è la stagione dell’esistenza in cui affiorano con forza le domande di fondo: perché sono sulla terra? che senso ha vivere? che sarà della mia vita? E inoltre: come raggiungere la felicità? perché la sofferenza, la malattia e la morte? che cosa c’è oltre la morte? Interrogativi che diventano pressanti quando ci si deve misurare con ostacoli che a volte sembrano insormontabili: difficoltà negli studi, mancanza di lavoro, incomprensioni in famiglia, crisi nelle relazioni di amicizia o nella costruzione di un’intesa di coppia, malattie o disabilità, carenza di adeguate risorse come conseguenza dell’attuale e diffusa crisi economica e sociale.
Ci si domanda allora: dove attingere e come tener viva nel cuore la fiamma della speranza? Alla ricerca della “grande speranza” L’esperienza dimostra che le qualità personali e i beni materiali non bastano ad assicurare quella speranza di cui l’animo umano è in costante ricerca.
Come ho scritto nella citata Enciclica Spe salvi, la politica, la scienza, la tecnica, l’economia e ogni altra risorsa materiale da sole non sono sufficienti per offrire la grande speranza a cui tutti aspiriamo.
Questa speranza “può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere” (n.
31).
Ecco perché una delle conseguenze principali dell’oblio di Dio è l’evidente smarrimento che segna le nostre società, con risvolti di solitudine e violenza, di insoddisfazione e perdita di fiducia che non raramente sfociano nella disperazione.
Chiaro e forte è il richiamo che ci viene dalla Parola di Dio: “Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, e pone nella carne il suo sostegno, allontanando il suo cuore dal Signore.
Sarà come un tamerisco nella steppa; non vedrà venire il bene” (Ger 17, 5-6).
La crisi di speranza colpisce più facilmente le nuove generazioni che, in contesti socio-culturali privi di certezze, di valori e di solidi punti di riferimento, si trovano ad affrontare difficoltà che appaiono superiori alle loro forze.
Penso, cari giovani amici, a tanti vostri coetanei feriti dalla vita, condizionati da una immaturità personale che è spesso conseguenza di un vuoto familiare, di scelte educative permissive e libertarie e di esperienze negative e traumatiche.
Per alcuni – e purtroppo non sono pochi – lo sbocco quasi obbligato è una fuga alienante verso comportamenti a rischio e violenti, verso la dipendenza da droghe e alcool, e verso tante altre forme di disagio giovanile.
Eppure, anche in chi viene a trovarsi in condizioni penose per aver seguito i consigli di “cattivi maestri”, non si spegne il desiderio di amore vero e di autentica felicità.
Ma come annunciare la speranza a questi giovani? Noi sappiamo che solo in Dio l’essere umano trova la sua vera realizzazione.
L’impegno primario che tutti ci coinvolge è pertanto quello di una nuova evangelizzazione, che aiuti le nuove generazioni a riscoprire il volto autentico di Dio, che è Amore.
A voi, cari giovani, che siete in cerca di una salda speranza, rivolgo le stesse parole che san Paolo indirizzava ai cristiani perseguitati nella Roma di allora: “Il Dio della speranza vi riempia, nel credere, di ogni gioia e pace, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo” (Rm 15, 13).
Durante questo anno giubilare dedicato all’Apostolo delle genti, in occasione del bimillenario della sua nascita, impariamo da lui a diventare testimoni credibili della speranza cristiana.
San Paolo, testimone della speranza Trovandosi immerso in difficoltà e prove di vario genere, Paolo scriveva al suo fedele discepolo Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10).
Come era nata in lui questa speranza? Per rispondere a tale domanda dobbiamo partire dal suo incontro con Gesù risorto sulla via di Damasco.
All’epoca Saulo era un giovane come voi, di circa venti o venticinque anni, seguace della Legge di Mosè e deciso a combattere con ogni mezzo quelli che egli riteneva nemici di Dio (cfr.
At 9, 1).
Mentre stava andando a Damasco per arrestare i seguaci di Cristo, fu abbagliato da una luce misteriosa e si sentì chiamare per nome: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”.
Caduto a terra, domandò: “Chi sei, o Signore?”.
E quella voce rispose: “Io sono Gesù, che tu perseguiti!” (cfr.
At 9, 3-5).
Dopo quell’incontro, la vita di Paolo mutò radicalmente: ricevette il Battesimo e divenne apostolo del Vangelo.
Sulla via di Damasco, egli fu interiormente trasformato dall’Amore divino incontrato nella persona di Gesù Cristo.
Un giorno scriverà: “Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2, 20).
Da persecutore diventò dunque testimone e missionario; fondò comunità cristiane in Asia Minore e in Grecia, percorrendo migliaia di chilometri e affrontando ogni sorta di peripezie, fino al martirio a Roma.
Tutto per amore di Cristo.
La grande speranza è in Cristo Per Paolo la speranza non è solo un ideale o un sentimento, ma una persona viva: Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
Pervaso intimamente da questa certezza, potrà scrivere a Timoteo: “Abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente” (1 Tm 4, 10).
Il “Dio vivente” è Cristo risorto e presente nel mondo.
È Lui la vera speranza: il Cristo che vive con noi e in noi e che ci chiama a partecipare alla sua stessa vita eterna.
Se non siamo soli, se Egli è con noi, anzi, se è Lui il nostro presente ed il nostro futuro, perché temere? La speranza del cristiano è dunque desiderare “il Regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1817).
Il cammino verso la grande speranza Come un giorno incontrò il giovane Paolo, Gesù vuole incontrare anche ciascuno di voi, cari giovani.
Sì, prima di essere un nostro desiderio, questo incontro è un vivo desiderio di Cristo.
Ma qualcuno di voi mi potrebbe domandare: Come posso incontrarlo io, oggi? O piuttosto, in che modo Egli si avvicina a me? La Chiesa ci insegna che il desiderio di incontrare il Signore è già frutto della sua grazia.
Quando nella preghiera esprimiamo la nostra fede, anche nell’oscurità già Lo incontriamo perché Egli si offre a noi.
La preghiera perseverante apre il cuore ad accoglierlo, come spiega sant’Agostino: “Il Signore Dio nostro vuole che nelle preghiere si eserciti il nostro desiderio, così che diventiamo capaci di ricevere ciò che Lui intende darci” (Lettere 130, 8, 17).
La preghiera è dono dello Spirito, che ci rende uomini e donne di speranza, e pregare tiene il mondo aperto a Dio (cfr.
Enc.
Spe salvi, 34).
Fate spazio alla preghiera nella vostra vita! Pregare da soli è bene, ancor più bello e proficuo è pregare insieme, poiché il Signore ha assicurato di essere presente dove due o tre sono radunati nel suo nome (cfr.
Mt 18, 20).
Ci sono molti modi per familiarizzare con Lui; esistono esperienze, gruppi e movimenti, incontri e itinerari per imparare a pregare e crescere così nell’esperienza della fede.
Prendete parte alla liturgia nelle vostre parrocchie e nutritevi abbondantemente della Parola di Dio e dell’attiva partecipazione ai Sacramenti.
Come sapete, culmine e centro dell’esistenza e della missione di ogni credente e di ogni comunità cristiana è l’Eucaristia, sacramento di salvezza in cui Cristo si fa presente e dona come cibo spirituale il suo stesso Corpo e Sangue per la vita eterna.
Mistero davvero ineffabile! Attorno all’Eucaristia nasce e cresce la Chiesa, la grande famiglia dei cristiani, nella quale si entra con il Battesimo e ci si rinnova costantemente grazie al sacramento della Riconciliazione.
I battezzati poi, mediante la Cresima, vengono confermati dallo Spirito Santo per vivere da autentici amici e testimoni di Cristo, mentre i sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio li rendono atti a realizzare i loro compiti apostolici nella Chiesa e nel mondo.
L’Unzione dei malati, infine, ci fa sperimentare il conforto divino nella malattia e nella sofferenza.
Agire secondo la speranza cristiana Se vi nutrite di Cristo, cari giovani, e vivete immersi in Lui come l’apostolo Paolo, non potrete non parlare di Lui e non farlo conoscere ed amare da tanti altri vostri amici e coetanei.
Diventati suoi fedeli discepoli, sarete così in grado di contribuire a formare comunità cristiane impregnate di amore come quelle di cui parla il libro degli Atti degli Apostoli.
La Chiesa conta su di voi per questa impegnativa missione: non vi scoraggino le difficoltà e le prove che incontrate.
Siate pazienti e perseveranti, vincendo la naturale tendenza dei giovani alla fretta, a volere tutto e subito.
Cari amici, come Paolo, testimoniate il Risorto! Fatelo conoscere a quanti, vostri coetanei e adulti, sono in cerca della “grande speranza” che dia senso alla loro esistenza.
Se Gesù è diventato la vostra speranza, ditelo anche agli altri con la vostra gioia e il vostro impegno spirituale, apostolico e sociale.
Abitati da Cristo, dopo aver riposto in Lui la vostra fede e avergli dato tutta la vostra fiducia, diffondete questa speranza intorno a voi.
Fate scelte che manifestino la vostra fede; mostrate di aver compreso le insidie dell’idolatria del denaro, dei beni materiali, della carriera e del successo, e non lasciatevi attrarre da queste false chimere.
Non cedete alla logica dell’interesse egoistico, ma coltivate l’amore per il prossimo e sforzatevi di porre voi stessi e le vostre capacità umane e professionali al servizio del bene comune e della verità, sempre pronti a rispondere “a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15).
Il cristiano autentico non è mai triste, anche se si trova a dover affrontare prove di vario genere, perché la presenza di Gesù è il segreto della sua gioia e della sua pace.
Maria, Madre della speranza Modello di questo itinerario di vita apostolica sia per voi san Paolo, che ha alimentato la sua vita di costante fede e speranza seguendo l’esempio di Abramo, del quale scrive nella Lettera ai Romani: “Egli credette, saldo nella speranza contro ogni speranza, e così divenne padre di molti popoli” (Rm 4, 18).
Su queste stesse orme del popolo della speranza – formato dai profeti e dai santi di tutti i tempi – noi continuiamo ad avanzare verso la realizzazione del Regno, e nel nostro cammino spirituale ci accompagna la Vergine Maria, Madre della Speranza.
Colei che ha incarnato la speranza di Israele, che ha donato al mondo il Salvatore ed è rimasta, salda nella speranza, ai piedi della Croce, è per noi modello e sostegno.
Soprattutto, Maria intercede per noi e ci guida nel buio delle nostre difficoltà all’alba radiosa dell’incontro con il Risorto.
Vorrei concludere questo messaggio, cari giovani amici, facendo mia una bella e nota esortazione di san Bernardo ispirata al titolo di Maria Stella maris, Stella del mare: “Tu che nell’instabilità continua della vita presente, ti accorgi di essere sballottato tra le tempeste più che camminare sulla terra, tieni ben fisso lo sguardo al fulgore di questa stella, se non vuoi essere spazzato via dagli uragani.
Se insorgono i venti delle tentazioni e ti incagli tra gli scogli delle tribolazioni, guarda alla stella, invoca Maria …
Nei pericoli, nelle angustie, nelle perplessità, pensa a Maria, invoca Maria…
Seguendo i suoi esempi non ti smarrirai; invocandola non perderai la speranza; pensando a lei non cadrai nell’errore.
Appoggiato a lei non scivolerai; sotto la sua protezione non avrai paura di niente; con la sua guida non ti stancherai; con la sua protezione giungerai a destinazione” (Omelie in lode della Vergine Madre, 2, 17).
Maria, Stella del mare, sii tu a guidare i giovani del mondo intero all’incontro con il tuo Figlio divino Gesù, e sii ancora tu la celeste custode della loro fedeltà al Vangelo e della loro speranza.
Mentre assicuro il mio quotidiano ricordo nella preghiera per ognuno di voi, cari giovani, di cuore tutti vi benedico insieme alle persone che vi sono care.
Dal Vaticano, 22 febbraio 2009

Il linguaggio nell’educazione religiosa

2.
Il quadro organizzativo.
Lo studio si apre con una panoramica, necessariamente rapida, sul linguaggio, la sua rilevanza nella cultura odierna, su autori e scuole che vi hanno dato rilevanza ed hanno offerto stimoli particolarmente significativi (Marchetto).
In questo quadro di insieme viene richiamata in particolare la novità della riflessione recente proprio in quegli apporti che offrono suggestioni preziose alla ricerca ermeneutica anche in ambito religioso (Freni).
Da quelle premesse muove l’analisi più specifica sul linguaggio religioso, le connotazioni che lo qualificano, le condizioni che rendono possibile l’accesso al mondo della Trascendenza: legittimano il linguaggio su Dio (Trenti).
Il tema del linguaggio viene pure verificato in un tentativo di andare oltre l’ermeneutica per salvaguardare la novità del rapporto con Dio e il primato della sua presenza; confermando forse la logica ermeneutica dal versante opposto a quello consueto (Currò).
Viene insomma esplorato l’orizzonte in cui situare il linguaggio specifico della tradizione religiosa; a cominciare da quella biblica, espressa a grandi linee nella ricchezza e varietà di apporti che offre (Bissoli).
E’ sembrato anche importante riservare almeno un cenno alla grande tradizione orientale, proposta in ciò che ha di più caratterizzante e significativo (De Souza).
E aprire infine uno squarcio sufficientemente avvertito e attento alla grande provocazione che i testi fondanti offrono a documentazione della varietà e profondità della ricerca religiosa, anche oltre la tradizione occidentale (Pajer).
Un orizzonte dunque piuttosto ambizioso, interpretativo del linguaggio religioso e della sua significatività culturale e pedagogica.
Proprio questa valenza educativa del linguaggio religioso viene sottolineata con l’ ultimo intervento di carattere esplicitamente didattico (Romio).
Corroborato da una breve appendice applicativa.
3.
L’intento Il tema del linguaggio è centrale per ogni ricerca.
Gli studi che lo hanno recentemente rinnovato offrono suggestioni straordinariamente significative per l’incontro con i grandi temi della ricerca umana, anche là dove incrocia la pista che ha da sempre qualificato la riflessione religiosa.
Dire Dio, chiamarlo per nome, è aspirazione che attraversa la ‘presunzione umana’ fin dal suo nascere alla cultura, dai primi inni vedici.
L’apporto singolare offerto dalla riflessione ermeneutica ci ha resi avvertiti di quanto dire Dio può risultare illuminante e risolutivo anche per dire uomo.
La traccia religiosa non è dunque una pausa di riposo, un’oasi felice nella corsa all’incontro con noi stessi; ne è una condizione straordinariamente rivelativa appena ci si interroghi su chi siamo e sull’approdo cui siamo incamminati.
Donde il richiamo esplicito alla sua valenza educativa, spesso richiamata in ciascuno dei contributi, esplicitamente suggerita nella parte conclusiva.
Cfr.
TRENTI Z.
( a cura ), Il linguaggio nell’educazione religiosa, Leumann, Elledici, 2008, pp.
7-8.
PS.
Per gentile concessione dell’Editore pubblichiamo, man mano, ampi stralci di uno studio, appena apparso in Libreria; tende a far e il punto sugli aspetti più significativi del linguaggio in ambito educativo, soprattutto giovanile.
Gli Autori intendono far opera di stimolo e di richiamo su un aspetto provocante dell’educazione religiosa attuale.
La Redazione della Rivista ringrazia per ogni indicazione, suggerimento e magari contributo che Collaboratori e Lettori vogliano farle pervenire.
1.
L’attenzione al linguaggio L’importanza che il linguaggio assume nella ricerca attuale è un fatto sorprendente, ma allo stesso tempo comprensibile; documenta la situazione tipica del nostro tempo, carico di provocazioni e fervido di novità.
Il prenderne coscienza in maniera lucida è urgenza perentoria ed avvertita.
Tanto più quando l’esperienza lascia presagire l’orma misteriosa e sollecitante della trascendenza.
Il linguaggio si porta al cuore dell’esplorazione esistenziale: si piega sulla vita, anche nella sua quotidianità, tende e a decifrarla in tutti i suoi richiami, quello religioso compreso.
Anzi la riflessione religiosa muove per lo più da interrogativi profondi e appassionanti: si sforza di darvi comprensione e risposta.
Va quindi forgiando un linguaggio singolarmente affinato e pertinente, di cui gli interventi che proponiamo offrono ampia documentazione.
Il quadro organizzativo globale dello Studio ha privilegiato la riflessione ermeneutica per la rilevanza e autorevolezza che gode nel panorama culturale odierno; dovuta anche al fatto che vi sono approdati studiosi e pensatori eminenti: hanno contribuito e contribuiscono a decifrare l’esperienza umana anche nel presagio che la rapporta alla Trascendenza.

Alle radici della spiritualità secolare

Il tema della creazione è stato spesso occasione di vivace polemica fra ricerca scientifica e riflessione teologica.
Allo schiudersi del nuovo anno proponiamo alcuni brevi interventi per sottolinearne la convergenza e la reciproca integrazione – un essenziale indicazione teorica, – alcuni riferimenti biblici o teologici per l’appropriazione più personale.
Questo primo contributo orienta la riflessione su un dato fondamentale: – l’intervento creatore di Dio all’origine del mondo organizzato (cosmo); – la soddisfazione con cui Dio stesso contempla la sua opera -Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona (Gn 1,31)- – quale stimolo per la corretta considerazione del mondo, della natura soprattutto.
In sintesi.
Le linee portanti della antica tradizione biblica circa la creazione si possono ricondurre ad alcune affermazioni: – Il mondo come casa della vita, organizzato in un cosmo (Gn 1); – Dio convoca nel cosmo ogni sorta di vita ad un grande banchetto; – L’ingresso dell’uomo corona l’opera e da inizio alla festa.
– La signoria dell’uomo sul cosmo è a servizio della vita (Gn.
1, 26-28); – La sua presenza è in grado di celebrare nella suggestione dell’universo la maestà di Dio, signore della vita.
Per la riflessione personale Per l’aggiornamento: LÖNING K.
– E.
ZENGLER, In principio Dio Creò.
Teologie bibliche della creazione, Brescia, Queriniana, 2007 RAD (Von) G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974.  1° Contributo: I mondo è opera mirabile di Dio creatore.
Il cosmo è frutto del gesto creatore di Dio.
La bibbia è una riflessione credente di Israele sulla propria vicenda di popolo che si sente investito di un compito straordinario.
Dio si erge fin dall’inizio e occupa intera la scena.
Da Lui prende origine il progetto grandioso che distende il cielo e la terra e ne fa una dimora superba dell’uomo.
I testi di cui disponiamo hanno attraversa una lunga gestazione Approssimativamente nel corso del secolo VI l’attitudine religiosa che caratterizza il mondo ebraico raccoglie un cumulo di tradizioni a spiegazione dell’origine e del significato dell’ universo, in cui presagisce una potenza arcana e benefica che lo governa.
Il Pentateuco rappresenta una singolare sintesi di lontane e illuminanti tradizioni che hanno progressivamente attraversato la vicenda ebraica; la casta sacerdotale, più colta ed abituata alla scrittura, le codifica finalmente in un’elaborazione unitaria e organica.
Risulta il documento più significativo della concezione ebraica e cristiana dell’origine del mondo.
Una doppia visione intensamente drammatica vede la vita imporsi sull’abisso, sul caos e tenta di esplorarne il vorticoso espandersi; ne interpreta il progressivo, dinamico compaginarsi nella figura di un mondo organizzato –cosmo-.
Con il primo capitolo della Genesi (Gn.
1.1-2.4) ci troviamo di fronte ad una suggestiva e lucida elaborazione degli inizi dell’universo; nel tentativo singolare di articolarne i momenti successivi, in una progressione che tende ad interpretare unitariamente il cosmo, in cui l’uomo trova dimora (i sei giorni della creazione).
Sulla figura dell’uomo si concentra con più accurata attenzione il documento successivo Gn 2.5-3.24; in un racconto immaginifico e suggestivo pone l’uomo al centro di un intervento straordinario di JHWH, che ne traccia a grandi linee il destino e il significato nella creazione.
La riflessione biblica non è preoccupata di interpretare il passaggio dal nulla all’essere.
Muove dall’intuizione che qualcosa è in movimento; non si interessa dell’origine della realtà; si appassiona a quello che constata e si domanda dove tenda il suo dinamismo.
Il testo consente di identificare quattro elementi che, per così dire, popolano il caos iniziale, su cui interviene Dio creatore a dare ordine e dinamismo vitale.
In una ricostruzione di sintesi dunque all’origine si afferma: la forza vitale creatrice di Dio, che si impone su alcunché di indefinito ed inerte, vi conferisce la vita, lo mette in moto, ne valuta autorevolmente il significato – ed era cosa molto buona -.
La sapienza ordinatrice del cosmo Israele ha probabilmente meditato a lungo su questo rapporto di JHWH con la sua creazione.
Nei libri sapienziali, più tardivi, il tema ritorna in un orizzonte interpretativo ormai garantito: la creazione vi risulta patrimonio acquisito e si pone a sfondo chiarificatore e spesso risolutivo dei temi che man mano s’impongono alla riflessione credente.
In particolare il libro dei Proverbi offre una singolare interpretazione dell’ordine mirabile in cui l’universo si compagina.
La Sapienza con cui Dio opera nella sua creazione è addirittura personificata: ‘Quando ancora non aveva fatto la terra e i campi, né le prime zolle del mondo; quando egli fissava i cieli, io ero là.’ (Proverbi, 8, 26.27) Suggestiva figura, garante di sovrana razionalità del cosmo.
Lungo le generazioni i Salmi raccolgono la suggestione del creato in una gamma di modulazioni singolarmente sincere e intense che vanno dall’ammirazione spontanea alla celebrazione corale di una creazione che parla con voce vibrante e persuasiva del suo creatore.
I salmi costituiscono un’epopea religiosa che non ha paragone; del resto straordinariamente sfruttata dalla tradizione cristiana.
A titolo esemplificativo, anche per quanto concerne il tema della creazione, il riferimento ad un paio di salmi resta carico di suggestione.
– efficace l’immagine del re buono del mondo che tiene a freno il caos e ne delimita la violenza distruttrice ( Salmo 93); – Toccante nostalgia di Dio che pervade l’universo e lo celebra (Salmo 104).

Annuario Pontificio del 2009

Benedetto XVI ha mostrato vivo interesse per i dati illu­strati e ha ringraziato per l’omaggio tutti coloro che hanno collaborato alla nuova e­dizione dell’Annuario.
Numerose le notizie sulla vita delle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche di tutto il mon­do, contenute nel volume.
Il numero dei ve­scovi ad esempio è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è l’Oceania (+ 4,7%), seguito da Africa (+ 3,0%) e da Asia (+ 1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+ 0,8%).
Nello stesso periodo l’America regi­stra una flessione dello 0,1%, mentre il pe­so delle varie aree geografiche è rimasto so­stanzialmente invariato nel tempo, con Eu­ropa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Anche il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio piutto­sto deludente.
I preti, infatti, sono aumen­tati nel corso degli ultimi otto anni, pas­sando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo del­le varie aree geografiche al dato comples­sivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dina­mica assai sostenuta (+ 27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché staziona­ria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita nega­tivi: meno 6,8% e meno 5,5% rispettiva­mente.
In espansione pure il numero dei diaconi permanenti.
Aumentano nel 2007, di oltre il 4,1% rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi mi­gliora a ritmi sostenuti in Africa, A­sia e Oceania, dove il loro numero non raggiunge ancora il 2% del to­tale mondiale, ma anche in aree do­ve la loro presenza è quantitativa­mente più rilevante.
In America ed in Europa, dove risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0%.
Più o meno stabile, invece, il numero dei seminaristi, passato da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione dif­ferente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibi­le crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazio­ne.
Mimmo Muolo Da Avvenire 01 03 2009 I dati statistici riferiti all’anno 2007 forniscono un’analisi sintetica delle principali dinamiche riguardanti la Chiesa Cattolica nelle 2.936 circoscrizioni ecclesiastiche del pianeta.
Nel corso degli ultimi due anni, la presenza dei fedeli battezzati nel mondo rimane stabile attorno al 17,3% , quale risultato dell’espansione del numero dei cattolici (1,4%) a ritmo sostanzialmente assimilabile a quello della popolazione mondiale nello stesso periodo (1,1%).
Nel 2007, si contano poco meno di 1.147 milioni di cattolici, a fronte dei 1.131 milioni circa nel 2006.
Il numero dei vescovi nel mondo è passato, dal 2006 al 2007, da 4.898 a 4.946, con un aumento dell’1%.
Il continente con maggiore incremento è quello dell’Oceania (+4,7%), seguito da Africa (+3,0%) e da Asia (+1,7%), mentre al di sotto della media complessiva risulta l’Europa (+0,8%).
Nello stesso periodo l’America registra un tasso di variazione di 0,1%, mentre il peso delle varie aree geografiche è rimasto sostanzialmente invariato nel tempo, con Europa ed America che, da sole, continuano ad aggirarsi attorno al 70% del totale.
Il numero dei sacerdoti si mantiene sul trend di crescita moderata inaugurato nel 2000, dopo oltre un ventennio di performance piuttosto deludente.
I sacerdoti, infatti, sono aumentati nel corso degli ultimi otto anni, passando da 405.178 nel 2000 a 407.262 nel 2006 e a 408.024 nel 2007.
Il contributo delle varie aree geografiche al dato complessivo appare diversificato.
Se Africa e Asia mostrano nel periodo 2000-2007 una dinamica assai sostenuta (+27,6% e 21,2%) e l’America si mantiene pressoché stazionaria, Europa e Oceania registrano, invece, nello stesso periodo, tassi di crescita negativi, del 6,8%e del 5,5%.
Il numero dei diaconi permanenti continua a mostrare una significativa dinamica evolutiva.
Aumentano, al 2007, di oltre il 4,1%, rispetto al 2006, passando da 34.520 a 35.942.
La consistenza dei diaconi migliora a ritmi sostenuti sia in Africa, Asia e Oceania, dove essi non raggiungono ancora il 2% del totale, sia in aree dove la loro presenza è quantitativamente più rilevante.
In America ed in Europa, dove al 2007 risiede circa il 98% della popolazione complessiva, i diaconi sono aumentati, dal 2006 al 2007, del 4,0% .
A livello globale, il numero dei candidati al sacerdozio è aumentato, passando da 115.480 nel 2006 a 115.919 nel 2007, con un incremento dello 0,4%, e un’evoluzione differente nei vari continenti.
Mentre, infatti, Africa e Asia hanno mostrato una sensibile crescita, nello stesso periodo l’Europa e l’America hanno registrato una contrazione, rispettivamente, del 2,1 e dell’1 per cento.
(©L’Osservatore Romano – 1 marzo 2009) È stabile nel mondo la presenza dei cattolici.
Poco meno di un miliardo e 147 milioni di persone distribuite nei cinque continenti.
Anzi, si può dire che il lo­ro numero cresce con lo stesso trend di cre­scita della popolazione mondiale, per cui i fedeli della Chiesa di Roma rappresentano il 17,3 per cento degli abitanti del pianeta.
I dati, riferiti all’anno 2007, sono contenu­ti nell’Annuario Pontificio del 2009, pre­sentato ieri al Papa dal cardinale segreta­rio di Stato Tarcisio Bertone e dal sostituto della segretaria di Stato, monsignor Fer­nando Filoni, alla presenza dei curatori del­l’opera (monsignor Vittorio Formenti ed Enrico Nenna dell’Ufficio centrale di stati­stica della Chiesa), che è stata stampata dalla Tipografia Vaticana e che sarà tra bre­ve in vendita nelle librerie.

Ponyo sulla scogliera

Il nuovo film di Hayao Miyazaki! Titolo originale: Gake no ue no Ponyo Titolo ad ideogramma: Titolo internazionale: Ponyo On The Cliff By The Sea Anno: 19 Luglio 2008 in Giappone Regia: Hayao Miyazaki Soggetto: Hayao Miyazaki Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Scenografie: Noboru Yoshida Capo Animatore: Katsuya Kondo Capo Colorista: Michiyo Yasuda Musiche: Joe Hisaishi canzone tema cantata da Fujioka Fujimaki e Ohashi Nozomi Durata: 100 min.
Produttore: Toshio Suzuki Distributore: Toho Data di uscita in Italia: 20 Marzo 2009 Distribuito da: Lucky Red Dvd in italiano: 2009 Il nuovo film di Hayao Miyazaki! Titolo originale: Gake no ue no Ponyo Titolo ad ideogramma: Titolo internazionale: Ponyo On The Cliff By The Sea Anno: 19 Luglio 2008 in Giappone Regia: Hayao Miyazaki Soggetto: Hayao Miyazaki Sceneggiatura: Hayao Miyazaki Scenografie: Noboru Yoshida Capo Animatore: Katsuya Kondo Capo Colorista: Michiyo Yasuda Musiche: Joe Hisaishi canzone tema cantata da Fujioka Fujimaki e Ohashi Nozomi Durata: 100 min.
Produttore: Toshio Suzuki Distributore: Toho Data di uscita in Italia: 20 Marzo 2009 Distribuito da: Lucky Red Dvd in italiano: 2009 PONYO, una deliziosa pesciolina sulla scogliera Durante un Festival capita spesso che le giornate siano noiose e difficili da sopportare per le tante pellicole costretti a visionare, per fare un buon lavoro di critica, soprattutto per consigliare al meglio i nostri lettori.
Ebbene Hayao Miyazaki, l’esperto maestro di cartoni animati giapponese, da qualche anno partecipa con le sue storie animate alla competizione della Mostra di Venezia.
Nel 2008 ha deliziato tutti i cinefili con Ponyo, la tenera storia di una intraprendente pesciolina che ne combina di tutti i colori e fa vivere momenti di armonia con la natura e i sentimenti.
In questi giorni il film viene proiettato sugli schermi italiani.
Correte a vederlo con i vostri bambini.
Ecco la storia Un villaggio in riva al mare.
Sosuke, un bimbo di cinque anni, vive in cima a una scogliera affacciata su Inland Sea.
Una mattina, giocando sulla spiaggia rocciosa sotto casa, trova Ponyo, una pesciolina rossa con la testa incastrata in un barattolo di marmellata.
Sosuke la salva e la mette in un secchio di plastica verde.
Ponyo è affascinata da Sosuke e il bimbo prova lo stesso verso la pesciolina.
Le dice: “Non preoccuparti, ti proteggerò e mi prenderò cura di te”.
Ma il padre di Ponyo, Fujimoto – una volta umano e ora stregone che abita i fondali marini – la obbliga a tornare con lui nelle profondità dell’oceano.
“Voglio essere umana!” esclama Ponyo e, determinata a diventare una bimba per tornare da Sosuke, tenta la fuga.
Ma prima di farlo, versa nell’oceano l’Acqua della Vita, la preziosa riserva dell’elisir magico di Fujimoto.
L’acqua del mare si alza.
Le sorelle di Ponyo sono trasformate in enormi onde dalla forma di pesce che si arrampicano alte fino alla scogliera dove si trova la casa di Sosuke.
Il caos sprigionato dall’oceano avvolge il villaggio di Sosuke che affonda sotto i flutti marini.

Scuola: varati i due regolamenti sulla riforma e il dimensionamento

Questa mattina il Consiglio dei Ministri, su proposta del ministro dell’Istruzione, dell’Universita’ e della Ricerca, Mariastella Gelmini ha approvato i due regolamenti che riguardano la riforma della scuola, in particolare il “maestro unico-prevalente”, e il dimensionamento scolastico.
Sui due regolamenti, spiega il comunicato di Palazzo Chigi, sono stati acquisiti i pareri della Conferenza unificata e del Consiglio di Stato, per quello che riguarda “la riorganizzazione e la razionalizzazione, rispettivamente, della rete scolastica e dell’utilizzo delle risorse umane, nonchè della scuola dell’infanzia e del primo ciclo dell’istruzione”.
Questi i punti salienti del primo regolamento: “entrano in vigore le norme che introducono la figura del maestro unico – prevalente nella scuola primaria e i modelli di orario su 24, 27 e 30 ore.
Restano confermati gli attuali modelli per gli anni successivi alle prime classi con la riduzione delle compresenze, garantendo, comunque, l’assistenza alle mense.
E’ confermato il tempo pieno secondo il modello delle 40 ore settimanali con 2 docenti per classe”.
“Per la scuola secondaria di primo grado restano confermate le 30 ore settimanali di cui una dedicata allo studio della Cittadinanza e della Costituzione.
È confermato anche il tempo prolungato anche alle scuole medie, con 36 ore settimanali elevabili a 40.
E’ prevista, inoltre, l’organizzazione oraria su base annuale oltre che settimanale per consentire una maggiore flessibilità all’autonomia delle scuole”.
“Per le scuole dell’infanzia e per le sezioni primavera resta confermata la normativa attuale, ma viene attribuito un ruolo più incisivo ai docenti che valuteranno pedagogicamente l’opportunità dell’anticipo”.
Circa il secondo regolamento, “prevale il principio per il quale le scelte sul dimensionamento scolastico saranno oggetto di un confronto condiviso con gli enti locali e le Regioni, per individuare insieme gli eventuali interventi di supporto e di aiuto come l’organizzazione delle mense e il trasporto scolastico, puntando a ridurre al minimo i disagi per le famiglie e per gli studenti.
Viene inoltre salvaguardata l’attuale normativa per i docenti di sostegno”.
——————————————————————————– tuttoscuola.com venerdì 27 febbraio 2009

Laicità e bene comune

Una laicità definita da Benedetto XVI “sana” e “positiva”, è quella che congiunga all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del “senso religioso” che portiamo dentro di noi.
Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l’intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili.
Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a parere del Card Ruini, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.
Laicità e bene comune di Camillo Ruini Riflettere sulla laicità in rapporto al bene comune mi sembra un approccio fondamentale, e assai stimolante, in ordine alla comprensione e all’apprezzamento della laicità, in particolare per il discernimento e la valutazione dei vari e molto diversi significati che il concetto di laicità ha ormai assunto.
A questo scopo, però, dobbiamo anzitutto avere un’idea il più possibile chiara e determinata del significato dell’espressione “bene comune”, alla luce della quale cercheremo di renderci conto dei fondamenti e delle funzioni della laicità.
Come è noto, “bene comune” è un concetto tipico – anche se non esclusivo – del pensiero sociale cattolico.
Sembra giusto pertanto riferirsi al significato che gli viene attribuito in questo contesto.
Il “Compendio della dottrina sociale della Chiesa”, pubblicato nel 2004 dal pontificio consiglio della giustizia e della pace, considera il bene comune come il primo dei principi di questa dottrina e lo fa derivare “dalla dignità, unità e uguaglianza di tutte le persone”.
Esso indica anzitutto “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alla collettività sia ai singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente”.
In concreto il bene comune è “bene di tutti gli uomini e di tutto l’uomo”, dato che “la persona non può trovare compimento solo in se stessa, a prescindere cioè dal suo essere ‘con’ e ‘per’ gli altri”.
Il bene comune, pertanto, “non consiste nella semplice somma dei beni particolari di ciascun soggetto del corpo sociale.
Essendo di tutti e di ciascuno è e rimane comune, perché indivisibile e perché soltanto insieme è possibile raggiungerlo, accrescerlo e custodirlo, anche in vista del futuro”.
Pur essendo così fondato nella natura e dignità del nostro essere, il bene comune ha una sua evidente storicità: infatti “le esigenze del bene comune derivano dalle condizioni sociali di ogni epoca e sono strettamente connesse al rispetto e alla promozione integrale della persona e dei suoi diritti fondamentali” (“Compendio”, nn.
164-166).
Non è possibile, e forse non sarebbe nemmeno utile ai nostri fini, disporre di una determinazione altrettanto chiara e organica del concetto di laicità.
È indispensabile però una precisazione iniziale: in questo contesto parliamo di “laicità” non nel senso teologico ed ecclesiale, per il quale, come dice il Concilio Vaticano II nella “Lumen gentium” (n.
31), “Col nome di laici si intendono…
tutti i fedeli a esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso…, i fedeli cioè, che, dopo essere stati incorporati in Cristo col battesimo e costituiti popolo di Dio…
per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano”.
Dei laici così intesi è proprio e peculiare “il carattere secolare”, nel senso che “per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”.
Questo carattere secolare e il rapporto con le realtà temporali costituiscono in qualche modo il ponte che consente un collegamento e un passaggio all’altro grande significato dei termini “laici” e “laicità”, che è quello a cui ci riferiremo d’ora in poi.
Qui laico e laicità sono infatti concetti che indicano e implicano un’autonomia e una distinzione da ciò che è ecclesiastico e che fa capo alla Chiesa, e più ampiamente al cristianesimo e ad ogni religione.
Per la genesi di questo concetto resta fondamentale il grande studio di G.
de Lagarde “La naissance de l’esprit laïque, au déclin du moyen âge”.
Indicativo della pluralità e anche del contrasto delle interpretazioni che vengono date oggi di tale concetto è il modo in cui Giovanni Fornero, nella terza edizione da lui stesso curata del “Dizionario di filosofia” di Nicola Abbagnano, tratta la voce “Laicismo”, che nel linguaggio comune sta ad indicare una versione dura, polemica ed “esclusiva” della laicità.
Per Fornero con “laicismo” si intende “il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che tali attività si svolgano secondo regole proprie, che non siano ad esse imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui esse si ispirano”.
Ma questa autonomia è affermata, in termini formalmente assai simili, dal Concilio Vaticano II (“Gaudium et spes”, n.
36), che afferma: “Se per autonomia delle realtà terrene intendiamo che le cose create e la stessa società hanno leggi e valori propri, che l’uomo gradatamente deve scoprire, usare e ordinare, allora si tratta di un’esigenza legittima, che non solo è postulata dagli uomini del nostro tempo, ma anche è conforme al volere del Creatore.
Infatti è dalla stessa loro condizione di creature che le cose tutte ricevono la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro ordine; e tutto ciò l’uomo è tenuto a rispettare, riconoscendo le esigenze di metodo proprie di ogni singola scienza o arte”.
È anche assai interessante che Fornero riconduca l’origine del concetto di laicismo a papa Gelasio I il quale, alla fine del V secolo, formula con chiarezza il principio della distinzione dei due poteri del papa e dell’imperatore e su queste basi rivendica l’autonomia della sfera religiosa da quella politica.
In termini simili si esprime l’allora cardinale Joseph Ratzinger, nel libro “Senza radici” (pp.
51-52), che individua qui anche la matrice di una profonda differenza tra cristianesimo d’Occidente e d’Oriente, tra cattolicesimo e ortodossia, nella quale invece l’imperatore era capo anche della Chiesa e questa appariva quasi identificata con l’impero.
*** Ma questa convergenza, o consenso, sul principio della laicità non può nascondere le divergenze che si sono formate nella storia e che oggi emergono sempre di nuovo.
Il tornante decisivo è quel “nuovo scisma” – per usare le parole del cardinale Ratzinger nel libro già citato (pp.
56-57) – che si è verificato soprattutto in Francia tra la fine del secolo XVIII e l’inizio del XIX e che tuttora è tipico soprattutto dei paesi latini di matrice cattolica.
È qui che la rivendicazione della ragione e della libertà affermatasi con l’illuminismo assume un volto decisamente ostile alla Chiesa e, non di rado, chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo nel distinguere tra le istanze anti-cristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente.
Il “nuovo scisma” è pertanto tra cattolici e “laici”, dove la parola “laico” assume un significato di opposizione alla religione che prima non aveva.
È interessante notare che uno scisma analogo non si è verificato nel mondo protestante, perché il protestantesimo, che fin dall’inizio ha concepito se stesso come un movimento di liberazione e purificazione dai vincoli dell’autorità ecclesiastica, ha sviluppato facilmente un rapporto di parentela con l’illuminismo, con il rischio però – e a volte non soltanto il rischio – di svuotare dall’interno la verità cristiana e di ridursi a un dato di cultura, piuttosto che di fede in senso autentico.
Il terreno più immediatamente sensibile – anche se a mio parere non il più profondo – delle tensioni tra cristianesimo e illuminismo è stato quello dei rapporti tra Chiesa e Stato.
E qui si è sviluppata una seconda e importantissima divaricazione, anzitutto all’interno del mondo protestante.
Mentre in Europa le Chiese nate dalla Riforma si sono costituite come Chiese di Stato, in una maniera assai più pregnante di quel che è avvenuto nel cattolicesimo, dove le Chiese di Stato hanno sempre dovuto fare i conti con l’unità e l’universalità transnazionale della Chiesa cattolica, del tutto diversa è la vicenda degli Stati Uniti d’America.
La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di Stato vigente in Europa e che formavano libere comunità di credenti.
Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti.
In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi, reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero.
Non siamo dunque lontani dagli intenti e dagli obiettivi della distinzione affermata da papa Gelasio I.
Siamo invece lontanissimi da quella separazione fondamentalmente “ostile” alla religione e tendente a subordinare le Chiese allo Stato che è stata imposta dalla Rivoluzione francese e dai sistemi statali che ad essa hanno fatto seguito.
Per conseguenza, tutto il sistema dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale.
In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, nonostante le resistenze di quell’ideologia che voleva riservare la piena titolarità “nordamericana” soltanto ai protestanti.
In concreto i cattolici hanno riconosciuto ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l’importanza della libertà religiosa così garantita.
*** Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso.
Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto, ma come affermazione di un diritto, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana.
Non per caso la dichiarazione conciliare “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa, che afferma chiaramente tale diritto – evitando però di fondarlo su di un approccio relativistico che metta in forse la verità del cristianesimo –, è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani.
Il Vaticano II non si è limitato a togliere di mezzo l’ostacolo riguardante la libertà religiosa, ma ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo a cui ho accennato in precedenza.
Esso infatti ha posto le basi di una vera conciliazione tra Chiesa e modernità e della riscoperta della profonda corrispondenza che esiste tra cristianesimo e illuminismo.
In concreto, il Concilio ha fatto propria la “svolta antropologica” che fin dall’inizio dell’età moderna aveva posto l’uomo al centro: ha mostrato infatti le radici cristiane di questa svolta e l’infondatezza dell’alternativa tra centralità dell’uomo e centralità di Dio.
Analogamente ha affermato, come si è visto, la legittima autonomia delle realtà terrene, i diritti e le libertà degli uomini e dei popoli, riconoscendo al contempo la validità del grande sforzo che l’umanità sta compiendo per trasformare il mondo.
Con il Vaticano II, pertanto, è stata inaugurata una nuova stagione dei rapporti tra Chiesa e laicità, come tra religione cattolica e libertà: una stagione nella quale si è coltivata inizialmente la speranza che ogni contenzioso sulla laicità fosse ormai alle nostre spalle.
Non era una speranza priva di ragioni concrete, anche e particolarmente per quanto riguarda il terreno “sensibile” dei rapporti tra Chiesa e Stato.
Con il pieno riconoscimento della libertà religiosa da parte del Concilio Vaticano II veniva meno, infatti, la giustificazione di principio di una “religione di Stato”, che aveva costituito l’ostacolo sostanziale alla laicità dello Stato stesso e delle sue istituzioni.
Anche la differenza tra regimi “concordatari” e regimi di separazione tra Stato e Chiesa diventava a questo punto meno rilevante, dato che anche i Concordati – come mostra esemplarmente l’accordo di revisione del Concordato stipulato tra lo Stato italiano e la Santa Sede nel 1984 – si pongono ormai espressamente al di fuori di un’ottica di religione di Stato.
Si legge infatti nel protocollo addizionale di tale accordo, in relazione all’articolo 1: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
*** Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti dentro a una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità.
A ben vedere, tuttavia, l’oggetto del contendere si è profondamente modificato: non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni.
A questo riguardo infatti la distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità.
Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.
Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili.
Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico.
Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica.
Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare in Italia la Chiesa cattolica.
In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni.
Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno della Chiesa italiana a Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire “il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto, anzi, nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica”.
Giovanni Paolo II domandò pertanto alla Chiesa italiana di “operare, con umile coraggio e piena fiducia nel Signore, affinché la fede cristiana abbia o ricuperi – anche e particolarmente in una società pluralista e parzialmente scristianizzata – un ruolo-guida e un’efficacia trainante nel cammino verso il futuro”.
*** Il contenzioso riguardo alla laicità incentrato sulle grandi problematiche etiche ed antropologiche ha oggi d’altronde un altro protagonista, che proprio riguardo a tali problematiche si pone in modo antitetico rispetto alla Chiesa e al cristianesimo.
Il suo nucleo concettuale è la convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile all’universo fisico, mentre sul piano etico e giuridico il suo assunto fondamentale è quello della libertà individuale, in rapporto alla quale va evitata ogni discriminazione.
Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico.
In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo.
Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato “la dittatura del relativismo”, una forma di cultura cioè che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.
Proprio questo taglio radicale è però lontano dall’essere da tutti condiviso in quello che si suole chiamare “il mondo laico”.
Anzi, molti “laici” ritengono di dover rifiutare un simile taglio per rimanere fedeli alle radici e motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo.
L’allora cardinale Ratzinger, nel libro che ho già ricordato, ha fornito una motivazione storica e anche teologica di questa nuova sintonia tra laici e cattolici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri “dev’essere relativizzata” (“Senza radici”, pp.
111-112).
In una lettera scritta a Marcello Pera in occasione della recente pubblicazione del libro di quest’ultimo “Perché dobbiamo dirci cristiani.
Il liberalismo, l’Europa, l’etica”, Benedetto XVI ha preso di nuovo e fortemente posizione a favore del legame intrinseco tra liberalismo e cristianesimo.
Inoltre, nella relazione tenuta a Subiaco il 1° aprile 2005, il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, aveva avanzato “una proposta ai laici”: sostituire la formula di Ugo Grozio “etsi Deus non daretur” – anche se Dio non esistesse –, ormai storicamente consunta perché nel corso del secolo XX è progressivamente venuta meno quella larga coincidenza di contenuti tra etica pubblica civile e morale cristiana che costituiva il senso concreto di tale formula, con la formula inversa, “veluti si Deus daretur” – come se Dio esistesse –.
Anche chi non riesce a trovare la via dell’accettazione di Dio dovrebbe cioè cercare di vivere e indirizzare la propria vita come se Dio ci fosse: “Così nessuno viene limitato nella sua libertà, ma tutte le nostre cose trovano un sostegno e un criterio di cui hanno urgente bisogno” (J.
Ratzinger, “L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture”, pp.
60-63).
È doveroso aggiungere che non tutti, tra i cattolici, condividono l’apertura cordiale a questo genere di laici.
Non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto – a mio parere ingiusto –, temendo che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici.
Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica.
In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati in materia di laicità al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche etiche ed antropologiche.
*** L’analisi del concetto di laicità nel suo concreto articolarsi storico consente di tentare una risposta non generica alla questione del rapporto tra laicità e bene comune.
Quando è intesa come autonomia delle attività umane, che devono reggersi secondo norme loro proprie, e in particolare come indipendenza dello Stato dall’autorità ecclesiastica, la laicità è certamente richiesta dal bene comune, come del resto ha ampiamente mostrato la storia dell’Europa moderna a partire dalle guerre di religione.
Ernst-Wolfgang Böckenförde, nel suo classico saggio su “La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione”, è tra coloro che hanno meglio evidenziato come soltanto l’indipendenza dello Stato dalle diverse confessioni religiose poteva assicurare la pace delle nazioni e la stessa libertà dei credenti.
Diverso è invece il discorso quando il concetto di laicità viene esteso ad escludere ogni riferimento delle attività umane e in particolare delle leggi dello Stato e dell’intera sfera pubblica a quelle istanze etiche che trovano il loro fondamento nell’essenza stessa dell’uomo, oltre che a quel “senso religioso” nel quale si esprime la nostra costitutiva apertura alla trascendenza.
Come infatti ha mostrato lo stesso Böckenförde alla fine del saggio che ho ricordato, lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su “Fede e democrazia” pubblicato sulla rivista “Aspenia” nel 2008 (pp.
206-208), ha proposto un assai interessante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella sua riduzione alla natura e di quel totale relativismo che sono all’origine delle predette interpretazioni della laicità.
È l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde.
Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita, e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
Sono questi i motivi per i quali Benedetto XVI ha ripetutamente proposto una laicità da lui stesso definita “sana” e “positiva”, che congiunga all’autonomia delle attività umane e all’indipendenza dello Stato non già la preclusione ma l’apertura nei confronti delle fondamentali istanze etiche e del “senso religioso” che portiamo dentro di noi.
Solo una laicità così intesa sembra realmente corrispondere alle esigenze attuali del bene comune, perché capovolge quelle strane tendenze che sembrano compiacersi di prosciugare le riserve di energia vitale e morale di cui vive ciascuno di noi, il nostro popolo e l’intero Occidente, senza darsi pensiero di come sostituirle, o meglio non avvertendo che esse in concreto non sono sostituibili.
Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che invece accomuna oggi molti cattolici e laici e che, a mio parere, indica un grande compito comune che ci attende: dare qualcosa di noi stessi per rinvigorire, e non per depauperare, tali riserve.

Laicità in pericolo.

Bianchi è personaggio con largo seguito, in Italia e in altri paesi.
È autore di libri di grande diffusione, predica ritiri a sacerdoti e vescovi, scrive su giornali laici ma anche su “Avvenire”, il giornale della conferenza episcopale italiana, il più impegnato nella campagna in difesa della vita di Eluana, e quindi anche il maggiore imputato di “indegnità”.
Alle tesi di Enzo Bianchi ha replicato implicitamente – senza farne il nome – il patriarca di Venezia, cardinale Angelo Scola, in un editoriale su “Avvenire” del 20 febbraio.
Ma in questo stesso editoriale il cardinale Scola ha analizzato la questione della “laicità” a più largo raggio, in quanto rapporto generale tra la Chiesa e la sfera pubblica.
E lo stesso ha fatto nei medesimi giorni – nella forma più estesa e più argomentata di una conferenza – un altro cardinale di spicco della Chiesa italiana, Camillo Ruini, già presidente della CEI e vicario del papa per la diocesi di Roma dal 1991 al 2007.
Sulla rivista sono pubblicati (nella rubrica: sapere religioso) , integrali, entrambi gli interventi: l’editoriale del cardinale Scola su “Avvenire” del 20 febbraio e la conferenza tenuta dal cardinale Ruini a Genova il 18 febbraio.
Sulla questione della “laicità” – con le variazioni intervenute negli ultimi tempi – i due testi sono quanto di più autorevole e rappresentativo si possa leggere oggi da parte di due alti uomini di Chiesa, entrambi culturalmente molto vicini a papa Joseph Ratzinger.
In più, il lettore italiano troverà di seguito altri due testi su una questione strettamente connessa: la configurazione concreta che ha preso in Italia il dialogo tra laici e cattolici.
A giudizio del professor Ernesto Galli della Loggia questo dialogo ha avuto un momento felice agli inizi degli anni Novanta, ma poi è praticamente fallito.
Mentre a giudizio del professor Pietro De Marco le cose non stanno affatto così.
Ha aperto la disputa Galli della Loggia con un editoriale sul “Corriere della Sera” del 15 febbraio.
E De Marco gli ha replicato sul giornale on line “l’Occidentale”.
Mercoledì 18 febbraio, al termine dell’udienza generale, Benedetto XVI ha incontrato brevemente Nancy Pelosi.
Pelosi è cattolica, e ha tenuto a rimarcarlo: ha mostrato al papa le foto di una sua visita con i genitori in Vaticano negli anni Cinquanta e si è complimentata per l’azione della Chiesa nel combattere la fame e la povertà.
Ma al termine dell’incontro, il comunicato diffuso dalla sala stampa vaticana è stato di tutt’altro tenore: “Il papa ha colto l’occasione per illustrare che la legge morale naturale e il costante insegnamento della Chiesa sulla dignità della vita umana dal concepimento alla morte naturale impongono a tutti i cattolici, e specialmente ai legislatori, ai giuristi e ai responsabili del bene comune della società, di cooperare con tutti gli uomini e le donne di buona volontà per promuovere un ordinamento giuridico giusto, inteso a proteggere la vita umana in ogni suo momento”.
Nancy Pelosi, infatti, come altri cattolici della nuova amministrazione americana, è attiva sostenitrice di politiche pro aborto.
E il papa non ha esitato a rivolgerle questo richiamo pubblico, incurante di dare esca con ciò alle ricorrenti accuse di “invadenza” del campo politico che tanti difensori della “laicità” lanciano contro la Chiesa.
Il secondo fatto è di dimensioni più ampie.
Ed è la sorte inflitta in Italia a Eluana Englaro, una giovane donna in stato vegetativo persistente, privata di cibo e di acqua per sentenza di tribunale e così fatta morire, lo scorso 9 febbraio.
Come quattro anni fa per Terri Schiavo negli Stati Uniti, anche per Eluana c’è stato in Italia un crescendo di azioni tese a salvarne la vita, sia da parte di cattolici che di non credenti, sia sul terreno religioso che su quello civile e politico.
La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla “laicità”.
Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.
Ma non solo.
La polemica ha diviso anche il campo cattolico.
Per alcuni, il parlare e l’agire in difesa della vita di Eluana erano “indegni dello stile cristiano”, uno stile che dovrebbe essere fatto di silenzio, di riserbo, di misericordia, di non invasione dello spazio più intimo e personale di ciascuno.
La voce più emblematica di questa tendenza è stata quella del fondatore e priore del monastero di Bose, Enzo Bianchi, in un articolo sul quotidiano “La Stampa” di domenica 15 febbraio:  > Vivere e morire secondo il Vangelo   Il dovere dei laici: misurarsi col cattolicesimo nella sua integrità di Pietro De Marco Improvvisamente, almeno per me (ve ne saranno state avvisaglie, ma mi sono sfuggite), Ernesto Galli della Loggia ha annunciato il tramonto della “stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici”.
L’ha fatto sul “Corriere della Sera” di domenica 15 febbraio.
Si tratta naturalmente di una prognosi ragionata, su cui vorrei anch’io ragionare.
Galli della Loggia evoca due date: i primi anni Novanta (per comodità, la scomparsa della DC storica) e l’11 settembre 2001, come acceleratore del convergere dialogico.
Eventi e soglie storiche che “aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi…
riguardanti l’Italia e il mondo”, dalla rivoluzione delle tecnoscienze alle nuove situazioni geopolitiche, tali da far “immaginare una nuova collocazione e una nuova missione politica”, per i cattolici e per quei laici.
Una nuova libertà nel rivolgersi ai problemi critici accomunava quei cattolici e laici; per la prima volta nella storia italiana, l’intreccio tra “la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico” vi è stato, e produttivo.
Galli della Loggia rileva però, da un lato, stanchezza e ripetitività, dall’altro il sopraggiungere, congiunturale ma potenzialmente distruttivo, di “nuove ostilità” tra le parti.
Così appare a lui irraggiungibile, oggi più di ieri, l’obiettivo di “una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso”.
Quello che a Galli della Loggia sembra una seria crisi avrebbe, però, origine interna, il che spiegherebbe la vulnerabilità dell’incontro tra laici e cattolici nella recente congiuntura bioetica (qualcuno dice piuttosto biopolitica).
Cos’è avvenuto? A suo giudizio, sul lato cattolico gli interlocutori sono stati, nel laicato, prevalentemente i “giovani intellettuali dei movimenti”, spesso radicali e instabili nel loro contributo al dialogo.
Sarebbe prevalsa in effetti una partnership ecclesiastica, gerarchica.
Galli della Loggia non fa nomi, ma tutti pensiamo al ruolo di primo rilievo, in questo “incontro”, del cardinale Camillo Ruini.
La prevalente partnership gerarchica avrebbe implicato due effetti negativi per l’incontro: non avrebbe ricevuto “l’apporto di energie vaste e profonde”, fatte salve appunto quelle ecclesiastiche, e lo avrebbe trasformato in un confronto diretto con la Chiesa, etichettabile come politico e tale da suscitare un fuoco di interdizione (che Galli della Loggia giudica “alla fine efficace”) da settori del mondo cattolico e dalle sinistre.
Devo proseguire la mia parafrasi, perché possono sfuggire al lettore dei passaggi importanti dell’argomentazione.
Il ruolo preponderante assunto nel dialogo dalla Chiesa come tale, dice Galli della Loggia, in realtà da pochi uomini della gerarchia cattolica, sarebbe sintomo di un “ulteriore fattore negativo”: “l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli ad improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente”.
L’autoreferenzialità si manifesterebbe nella troppo variabile e contraddittoria disponibilità della gerarchia ora a colloquiare con i “laici di orientamento liberale”, ora a dare visibilità e voce in convegni e giornali (persino con maggiore convinzione, pensa Galli della Loggia) ai loro aspri critici ed avversari di sinistra, critici ed avversari dei laici liberali proprio per il loro dialogo con la Chiesa! Avversari trasversali, potrei aggiungere, perché ad essi si sommano dei cattolici, e non solo entro il laicato, critici della stessa gerarchia coinvolta nel dialogo.
Tale “autoreferenzialità”, indotta dalle condizioni di storica separatezza della Chiesa e del “retroterra sociale che fa capo ad essa” nella società nazionale, avrebbe oggi una evidenza ed un costo proprio nella manifesta impossibilità della stessa Chiesa “di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”.
Su questa mancata scelta della Chiesa a favore di un mondo laico (quello liberale, dialogico e favorevole) rispetto ad un altro (ostile e scarsamente dialogico), una mancata scelta che all’editorialista del “Corriere” pare anzitutto espressione di spregiudicatezza politica, il dialogo tra cattolici e laici liberali starebbe naufragando.
La diagnosi e la prognosi di Galli della Loggia mi trovano, una volta tanto, in dissenso.
Potrei essere d’accordo su dettagli che però, rispetto alla questione centrale, ritengo poco rilevanti, o contingenti.
Propongo quindi un mio riesame dei termini, che riguardi, nei seguenti tre punti: il laicato cattolico italiano, la Chiesa come “societas” e nella società, e i laici liberali e la loro precomprensione dell’interlocutore cattolico.
1.
IL LAICATO CATTOLICO ITALIANO Negli anni Novanta, la formula dell’incontro tra laici e cattolici si presentava, concettualmente, ambiziosa e indeterminata.
Lo dico avendo seguito la vicenda in riviste, incontri, libri.
Se la chiamata non poteva non essere per tutti, forze e uomini in campo erano ben circoscritti.
Penso alla terna composta da Ferdinando Adornato, Galli Della Loggia, Giorgio Rumi, e agli interlocutori delle prime annate di “Liberal”.
Si trattava di alcuni laici liberali e di alcuni cattolici, dunque, prevalentemente uomini di cultura.
E quelli che avevano accolto l’iniziativa e frequentato gli spazi di “Liberal” erano singoli cattolici “conservatori” (nel senso di Roger Scruton), non “i cattolici” in senso lato.
Galli della Loggia sa bene, ma non dà alla cosa giusto peso nell’articolo, che i cattolici eredi delle antiche sinistre, di quella già democristiana come di quella già del partito comunista (i numerosi cattolici “berlingueriani”), giudicarono gli intellettuali e le tesi di “Liberal”, come le personali tesi di Galli della Loggia, marcate a destra, “revisionistiche”, confinanti e presto coincidenti con lo spirito del nuovo centrodestra politico.
Il compianto Rumi collaborava a “Liberal” per la sua grande libertà e intelligenza, coraggioso outsider.
In quell’incontro tra laici e cattolici, di fatto tra due minoranze uscite a fatica da maggioranze molto condizionanti, operò una comune geometria di distacchi e di revisioni.
Per i cattolici il distacco dall’eredità democristiana, l’emancipazione dalle derive culturali del postconcilio, l’affinità col programma di Giovanni Paolo II; per i laici liberali l’emancipazione da mezzo secolo di Italia repubblicana a metamorfica dominante gramsciana (nel senso di Augusto Del Noce).
Ma un dialogo tra queste minoranze, dotate di una insorgente forza critica, poteva ragionevolmente porsi obiettivi di breve periodo? Galli della Loggia attribuisce il “fallimento” dell’incontro al mancato intervento del laicato intellettuale cattolico e alla spregiudicatezza della parte ecclesiastica.
Ma chiedo: le attese laico-liberali, ed anche quelle in certo modo cattolico-liberali presenti, erano per parte loro ben registrate sulla complessità cattolica? Devo insistere su un chiarimento (ne ho scritto in www.chiesa dell’11 settembre 2008).
Se per “laici cattolici” si intendono i quadri del laicato di Azione Cattolica o simili, non era pensabile, proprio allora, in quegli anni Novanta di mobilitazione per la “difesa della costituzione” e di risorgente dossettismo, trovare in essi dei dialoganti con Galli della Loggia o con Adornato, o con iniziative autonome ma non divergenti, come quelle di Marcello Pera! In più, e più profondamente, va ricordato che l’incontro del laicato cattolico “qualificato” con la laicità dei tempi moderni, avviato negli anni del Concilio, si era già consumato negli anni Settanta, sotto i traumi e i vincoli del dopo Sessantotto.
Sappiamo tutti, e non fu mai nascosto, che per tanti cattolici il riconoscimento dei valori laici ebbe allora i caratteri della scoperta dei “valori moderni” e dell’immersione in essi.
Le opzioni prevalenti ed esemplari di quel laicato furono sempre a sinistra, entro, fuori e oltre la DC, prima e dopo della sua scomparsa.
Per questo laicato la proposta di “Liberal”, l’incontro tra liberali e cattolici erano e appaiono tuttora anacronistici, e segnati per di più dall’incombere di un nuovo “rischio di destra”.
Ma il laicato cattolico non è esclusivamente quel laicato “qualificato”, ordinariamente definito da un rapporto di collaborazione unitaria, diretta, organizzata, con i pastori.
E non tanto perché vi sono altre forme di pratica cattolica intensa, di comunità, di movimenti.
Ma perché, costitutivamente, il laicato cattolico è la totalità dei “christifideles”, sia militanti (nel senso di un’attiva disponibilità e mobilitazione) che non militanti.
La maggioranza degli italiani costituisce tuttora il laicato; o, se si preferisce, una costellazione di laicati cattolici “sui generis”, composti o meno di “virtuosi” (nel senso weberiano) comunque diversi tra loro, ma portatori di pratica, spiritualità e ethos cattolici.
Da questa costellazione, che permea la stratificazione sociale e generazionale, vengono anche gli uomini e donne che sono oggi fulcro del voto di centrodestra.
Sono, naturalmente, gli “strani cristiani” deprecati dalle sinistre anticlericali; ma la ricerca sociologica sulla religiosità degli italiani, se non viene messa a servizio della sindrome “minoritaria”, parla diversamente.
Per gli “strani cristiani”, un orizzonte di “nuovi compiti per cattolici e laici” (parole di Galli della Loggia) diversi da quelli della stagione democristiana e del dissenso cattolico è, infatti, banco di prova dell’avvenuta emancipazione dal blocco culturale dell’Italia postbellica.
Ma, osserverebbe Galli della Loggia, questi laicati cattolici non conformi alla tipologia “catto-comunista”, questi cattolici non “clericali” (nel senso che tale parola ha in Del Noce) e non “progressisti”, come si manifestano? Ai fini del dialogo appaiono a lui assenti.
A ben vedere, no.
Direi anzitutto: non sono questo laicato cattolico “sui generis” molti uomini e donne dei quadri politici e intellettuali del centrodestra? Non sono cattolici, e quindi laicato, parte degli uomini e delle donne che operano con “Magna Carta”, che scrivono su “il Foglio”, sull’attuale “Liberal” e su vari altri periodici oppure scrivono, intervengono, dibattono sui tanti forum on line? Senza contare la morfologia di piccoli gruppi, centri di cultura, associazioni, riviste, bollettini, che confermano l’originalità storica con cui l’ecclesiosfera (bella formula di Émile Poulat) si dispone negli interstizi delle società complesse.
Questo mondo è laicato cattolico attivo e permeabile nell’incontro che sta a cuore a Galli della Loggia.
Questo differenziato interlocutore, nelle sue varietà estranee alla classica formazione di Azione Cattolica ma spesso anche a quella di altri movimenti o associazioni, è oggi capace di esistere politicamente e di conservare una conformità cattolica fuori dell’unità politica e associativa dei cattolici “qualificati”.
Ma va saputo riconoscere e legittimare come interlocutore.
Ho arrischiato altrove il giudizio che queste culture e generazioni, questi soggetti dell’ecclesiosfera, sono spesso più in sintonia con l’episcopato e con Roma dei laicati “virtuosi” che prestano opera nelle parrocchie, plasmati nei decenni dalla “vague” postconciliare; dei laicati, cioè, che si alimentano alla diuturna lettura di Enzo Bianchi o del cardinale Carlo Maria Martini.
Insomma, è una ecclesiosfera (meglio, un vasto sottoinsieme della ecclesiosfera totale) al di là del movimento cattolico.
Ritenere che questo laicato cattolico non abbia consistenza intellettuale, non faccia cultura, non partecipi al dibattito pubblico, è un errore simmetrico a quello dei “cattolici democratici”, anzi, indotto dalla loro diagnosi: secondo la quale ci sarebbe un generale “silenzio del laicato” che in realtà è solo il loro silenzio, conseguenza della loro perdita di autorità e influenza.
La stessa gerarchia ecclesiastica non ha sempre il polso di questa complessità cattolica.
I dati delle ricerche socioreligiose vengono letti con le lenti di un pastoralismo pessimistico associato a dubbie ecclesiologie microcomunitarie, che considerano il praticante discontinuo e di modesta formazione religiosa qualcosa come un’entità non più cattolica, perduta.
Con la conseguenza di indurre i vescovi a muoversi nella direzione di una specie di nichilismo minoritarista.
Come non bastasse lo spettacolo delle rovine di quelle grandi Chiese nazionali europee che hanno battuto questa strada.
Forse l’incontro tra cattolici e laici liberali può servire anche su questo fronte.
2.
LA CHIESA COME “SOCIETAS” E NELLA SOCIETÀ Se la configurazione del laicato cattolico risulta complicata, un’altra dimensione del ragionamento autorizza ad un giudizio inequivoco.
Galli della Loggia ritiene che una secolare autoreferenzialità strategica e tattica renda ancora oggi impossibile alla Chiesa una decisa, univoca, scelta di strategia culturale e politica.
Direi di no.
Anzitutto, quella che egli chiama autoreferenzialità e che sarebbe in corso “da due secoli” è forse piuttosto la condizione di fatto e di diritto di un corpo ecclesiastico spinto dagli ordinamenti e dalle ideologie moderne verso una condizione formale di marginalità rispetto all’ordinamento statuale, ai suoi poteri e valori, nell’attesa che tale marginalità, dettata unilateralmente da un ordinamento, divenisse un fatto.
Questo tentativo della modernità politico-giuridica non ha avuto successo con la Chiesa cattolica, che non solo ha conservato la sua “perfectio” e la sua peculiare giurisdizione sui fedeli, sviluppando contemporaneamente l’alta dottrina dello “ius ecclesiasticum publicum”, ma ha nel tempo stesso ridefinito e rafforzato la sua missione universale, “erga omnes”.
Anche per ragioni sostanziali, dunque, il termine “autoreferenziale” non va.
Se la Chiesa cattolica degli ultimi due secoli si riconfigura come una vasta forma militante certamente coesa e gerarchica, vigile su quanto avviene al proprio interno, la sua azione resta essenzialmente ordinata “ad extra”.
La stessa Chiesa militante di Pio XI e Pio XII, le cui fondazioni sono nell’età di Leone XIII e di Pio X, è sotto questo aspetto tutt’altro che rivolta su di sé.
Appare molto più autoreferenziale, piuttosto, la Chiesa delle insofferenti autonomie parrocchiali di oggi.
La contemporanea condizione ecclesiastica è cosciente di sé, ordinata e ordinante, universalistica.
La fine della stagione del partito e del movimento cattolico ha liberato la Chiesa anche dalla pressione proveniente da una sua cultura interna, la quale, negli anni Settanta e oltre, la spingeva a presentarsi illuministicamente come una forza mondiale di progresso e giustizia, magari di rivoluzione: una suggestiva drammatica tentazione alla perdita di sé.
L’uscita dal Novecento ha rafforzato entro l’ecclesiosfera la manifestazione della varietà, quella che insisto a chiamare, con i classici, la “complexio oppositorum” cattolica, che è tutt’altra cosa dal pluralismo istituzionale, che in linea di diritto è incompatibile con la natura della Chiesa.
Siamo oggi a mio avviso in una imprevista situazione di nuova cristianità: una cristianità postmilitante (almeno finché non vengano dal moderno sovrano attentati ai princìpi), entro una società complessa ossia ad alta differenziazione sociale.
È una tale recuperata “complexio” cattolica sul terreno sociale e politico-religioso che richiede alla gerarchia la riproposizione pubblica diretta e immediata di paradigmi di fede, criteri di giudizio, implicazioni di condotta, a “christifideles” così variamente radicati nella fede cattolica e diversi (o in conflitto) tra di loro nello spazio pubblico.
Le implicazioni di questo modello sul ragionamento di Galli della Loggia mi paiono evidenti.
Poiché né lui né io siamo interessati all’aneddotica, non importa veramente chi e in quali contesti particolari abbia oggi promosso il dialogo tra cattolici e laici liberali e domani dato voce ai suoi oppositori, siano questi laici anticlericali oppure provenienti dal laicato cattolico e ideologicamente parenti dei primi (i cattolici, ad esempio, che nella discussione pubblica militano dal lato di Eugenio Scalfari e Gustavo Zagrebelsky).
Importa, piuttosto, capire quanto sia incompatibile con la struttura profonda della Chiesa l’obbligo di darsi un’unica “visione strategica” nella sfera pubblica, consistente nel “fare scelte nette e conseguenti”, nello “scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no”, per usare le parole stesse di Galli della Loggia.
Persino la Chiesa di Pio XII, dotata per vitale necessità di visione strategica unitaria e di nette alleanze, non fu univoca nello scegliere “i propri amici culturali”.
Quanto ai recenti, critici, anni Novanta e oltre, Galli della Loggia sa che neppure la grande personalità che ha guidato l’episcopato italiano nella transizione, cioè il cardinale Ruini, ha scelto univocamente.
Ha invece aperto innovativamente la riflessione cattolica anche ad “amici culturali” nuovi, quali appunto i laici liberali non legati alle “sociétés de pensée” laiciste e di sinistra.
Lo stesso Galli della Loggia e altri sono stati e sono oggi ascoltati con attenzione.
Così il lavoro di Giuliano Ferrara è seguito e accolto spesso con ammirazione.
Ad alti livelli il dialogo tra Joseph Ratzinger, cardinale poi papa, e Marcello Pera è stato davvero importante.
Tutto questo non è senza conseguenze, già avvertibili, nella formazione dell’ethos cattolico.
Ce ne danno prova, in negativo, i modi sprezzanti, assieme alla mancata riflessione teorica e storica, con cui i laici liberali aperti al dialogo sono stati trattati dai due fronti d’avanguardia del cattolicesimo della conclusa stagione del secondo Novecento, quello sociale-politico e quello “critico” della milizia postconciliare.
Un trattamento di disprezzo che si è mosso in parallelo con l’opposizione al governo del cardinale Ruini, col festeggiamento della presunta “irreversibile fine” della stagione ruiniana della Chiesa italiana, insomma, con la complessiva “damnatio” di quanto ho descritto fino qui.
3.
I LAICI LIBERALI E LA LORO PRECOMPRENSIONE DELL’INTERLOCUTORE CATTOLICO Un ultimo punto, appena un poco “ad hominem”.
Galli della Loggia perdonerà, conosce la mia stima.
Avvezzo com’ero a un sostanziale accordo con lui, mi colpì un suo intervento sul “Corriere della Sera” del 23 marzo del 2000, dal titolo “Il mea culpa dimenticato”.
L’editoriale si rammaricava di una mancata richiesta di perdono (nella congiuntura giubilare del grande rito del mea culpa, celebrato da Giovanni Paolo II il 12 marzo) per la condanna nel 1907 dei modernisti, e riprendeva con accenti personali un giudizio non nuovo sulle conseguenze di quella condanna: “L’Italia [cui aveva attribuito, qualche riga prima, una ‘povertà di vita religiosa e il suo essere storicamente soverchiata dalla gerarchia’] è rimasta un paese privo di una vera cultura religiosa, dove a lungo la coscienza moderna si è fatta un vanto di sottrarsi all’indispensabile dialogo con la voce misteriosa che viene dal fondo dei tempi e che pretende all’eterno”.
Ho trovato sintomatica in Galli della Loggia, nonostante l’esibito realismo storiografico, questa valorizzazione delle potenzialità dei modernismi cattolici e di una “riforma religiosa” (che giudico una ancora inguaribile sindrome dei liberali, laici e cattolici).
Conosco l’autorità e l’influenza del modello di Arturo Carlo Jemolo: “riforma religiosa e laicità dello stato”, anche se dubito sia pertinente invocarlo oggi (di Jemolo l’editrice Morcelliana ha riproposto di recente in un piccolo volume, “Coscienza laica”, a cura di Carlo Fantappiè, pagine importanti e poco accessibili).
Ma l’incontro con i cattolici non può pretendere la “riforma” della Chiesa: non lo può pretendere di diritto, ovviamente, ma nemmeno di fatto, e questo è per uno storico l’argomento principe.
Il dialogo con un cristianesimo riformato è già avvenuto, ed è stato quello del liberalismo con il protestantesimo nelle sue diverse espressioni.
Quella vicenda è conclusa, e possiamo giudicarla: le eredità protestanti liberali sono oggi indistinguibili dalle laicità etico-politiche agnostiche; il loro richiamo a Cristo e alla Chiesa è talmente impoverito nei suoi fondamenti cristologici e trinitari (sono una “fides qua” senza “fides quae”) da poter essere condiviso da chiunque senza conseguenze che dichiarino la differenza cristiana.
A conclusione del percorso si dovrebbe dire: “reformata reformanda”.
Quando nei titoli di un giornale laico come “la Repubblica” si vede comparire la formula polemica: “la Chiesa del dogma”, come se il rimando al canone della fede fosse una strana reviviscenza di qualcosa andato in desuetudine, non si può non sorridere.
Cosa ha autorizzato questi laici a pensare che la Chiesa cattolica abbia abbandonato il Credo, la tradizione dei Concili, la dottrina dei suoi dottori (intelletti tra i più alti della storia mondiale) e dei suoi spirituali? E credono davvero questi laici che sarebbe stato meglio così? Che ne è dell’Europa protestante e della cattolica che ne segue le tracce, dove i cristiani balbettano solo il credo del politicamente corretto e dei diritti individuali? Galli della Loggia non ha niente a che fare col pensiero di Scalfari e Zagrebelsky, né con la concezione ottocentesca di una Chiesa che nel suo stesso esistere, come istituzione e dottrina, tradirebbe la predicazione di Gesù.
Ma nell’elogio delle istanze modernistiche pare non intendere, neppure lui, la necessità cristiana della “Chiesa del dogma”.
Infatti, è essenzialmente sul fronte del dogma, della “fides quae”, che i seguaci odierni della battaglia modernistica appaiono disorientati e vulnerabili; così come i loro maestri (i Tyrrell, i Loisy) furono decisamente nell’errore.
Condannandoli, Pio X fece ciò che doveva, secondo l’imperativo della funzione di Pietro: il “confirma fratres tuos”.
Il dialogo con i cattolici, quindi, non può oggi essere condotto dai laici nell’attesa di trovarsi ancora di fronte cattolici “della riforma”, ennesimi “sempiterni riformatori”, come scriveva tra ironia e irritazione Delio Cantimori, di fronte a questo inguaribile topos storiografico, concomitante con quello ideologico della “riforma mancata”.
Non perché dei “sempiterni riformatori” in campo cattolico non ve ne siano; hanno anzi influenzato la cultura ecclesiale per decenni.
Ma proprio perché cattolici di questo tipo non hanno alcun interesse a dialogare con dei laici liberali.
Sono loro i primi ad essere ostili, come lo è sempre stata la cultura laica di sinistra, a ciò che Galli della Loggia va proponendo da decenni.
Più a fondo, se vuole dialogare, la modernità liberale deve darsi il compito nuovo, cui si è sottratta negli ultimi due secoli, di misurarsi sul cattolicesimo nella sua ingtegrità, che è anche la compiutezza del canone occidentale; non sulle sue semplificazioni modernizzanti.
Deve misurarsi su di un cristianesimo che è Tradizione e “confessio fidei” pubblica, con un patrimonio di fede determinato e fondante, non “liquido”, e con una gerarchia che presiede alla trasmissione e interpretazione autentica.
Deve misurarsi su enunciati di fede che sono enunciati di realtà, congeniali al “Logos” e non bei simboli e buoni sentimenti.
È naturalmente un impegno che si può desiderar di evitare, poiché esige un riesame critico della struttura profonda del paradigma liberale moderno.
Ma è l’unico impegno utile, e credo vitale, per il liberalismo presente e per il suo futuro.
Tutto il resto è già stato sperimentato, e nei laici delle correnti radicali ha come pietrificato obiettivi e convincimenti irreversibili.
La strada di Galli della Loggia e di altri è aperta e promettente, per tutti.
Ma dobbiamo tornare, nell’incontro tra laici e cattolici, sulla frattura moderna più insidiosa, che individuo nella “Lettera sulla tolleranza” di Locke.
Là dove si affianca, e di fatto si condiziona, la neutralità del magistrato al carattere congregazionale (“a free and voluntary society”) di una Chiesa e alla sua “innocuità” sociale, di cui il magistrato civile sarebbe giudice.
La Chiesa cattolica non è questo per essenza, né è riducibile a questo; né come mistero dell’incorporazione in Cristo (il dono trinitario della “historia salutis” non dipende davvero dalla nostra “libera volontà”), né come istituzione conforme alla sua originaria chiamata universalistica.
Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è divenuta dopo Lutero o dopo Locke, né dopo la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.
Non lo è oggi, con un’evidenza tanto più forte quanto più alcuni sviluppi postconciliari volgerebbero, senza il saldo governo di Roma, verso “autonomie” congregazionalistiche e privatistiche.
Attenzione, dunque, al paradosso per cui i cattolici che dispiacciono a Galli della Loggia sono per l’appunto i cattolici più ratzingeriani e sono ad un tempo quelli che già hanno dialogato con i liberali.
Altri cattolici, i più “laici” ad esempio sul fronte della legislazione in materie bioetiche, non hanno interesse al dialogo da lui proposto.
Non si tratta del “fallimento” del dialogo; si tratta di capire che i cattolici con cui dialogare non possono essere dei neomodernisti; né si può accettare che la norma del credere sia un “bonum” sociale definito da altri (che è il significato autentico della “religione civile” di Locke e Rousseau).
Si tratta di capire, anche, che un certo attraente neomodernismo cristiano odierno non è liberale ma “laico” alla maniera delle grandi firme di “la Repubblica” e sostanzialmente invisibile nella sfera pubblica.
La “ratio” di un dialogo con esso è già risolta, dissolta.
È preferibile attraversare francamente il terreno indicato dal patriarca di Venezia, Angelo Scola, anche in questi giorni.
__________ Il giornale on line su cui Pietro De Marco ha pubblicato, con alcune varianti, la sua replica a Ernesto Galli della Loggia: > L’Occidentale __________ 23.2.2009 Due fatti recenti hanno riacceso la controversia sulla “laicità”, ossia sull’azione dei cristiani nella società civile.
Due fatti accomunati da un’identica questione, riguardante la vita umana “dal concepimento alla morte naturale”.
Il primo di questi fatti, apparentemente minore, è l’incontro al termine dell’udienza generale, tra Benedetto XVI e Nancy Pelosi speaker della camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, e il secondo è la grande mobilitazione contro la morte di Eluana Englaro per sentenza di un tribunale.
La battaglia ha naturalmente portato a una fase acuta la polemica sulla “laicità”.
Da più parti si è accusata la Chiesa di prevaricare sulla libertà delle scelte individuali.
Ma non solo.
La polemica ha diviso anche il campo cattolico.
L’INCONTRO TRA LAICI E CATTOLICI Una stagione al tramonto di Ernesto Galli della Loggia Tutto sembra indicare che una stagione italiana sta finendo: la stagione che è andata sotto il nome di incontro o dialogo tra laici e cattolici.
Si capisce a quale stagione, a quale incontro mi riferisco: a quella che si aprì intorno agli inizi degli anni Novanta, nel momento della crisi della Prima Repubblica e con essa della Democrazia cristiana, del centro sinistra, ma anche del Partito comunista colpito a morte dalla fine dell’Urss, e che ricevette una spinta decisiva dall’attentato newyorkese dell’11 settembre.
Quegli eventi, nonché la sensazione più generale che si stesse chiudendo un’intera epoca storica, aprirono o catalizzarono una serie di interrogativi e di problemi riguardanti l’Italia e il mondo: immaginare una nuova collocazione e una nuova «missione» politica sia per i cattolici che per le forze laiche non attratte nell’ orbita del vecchio Partito comunista; elaborare l’avvicinarsi di una temperie culturale nuova aperta dai progressi impressionanti della tecnoscienza in settori quali l’ingegneria genetica; affrontare le inedite tensioni geopolitiche, vieppiù dominate da componenti fondamentalistiche, che sembravano imporre un ripensamento/rilancio della categoria di Occidente.
Dunque un dialogo tra laici e cattolici che però aveva poco a che fare con quello tradizionale della storia politica italiana, a suo tempo avviato dal Pci togliattiano, e proseguito per decenni, con la sinistra cattolica poi ribattezzata con il nome di «cattolicesimo democratico».
Diversi i contenuti, ancora più diversi i protagonisti.
I risultati non sono mancati: soprattutto, direi, la nascita di quotidiani, riviste, libri, iniziative culturali varie, dove, per la prima volta in modo così continuo e sistematico nella storia italiana, la tradizione liberale e il cristianesimo cattolico hanno intrecciato analisi, rilevato coincidenze e scambiato punti di vista; dove si sono stabiliti importanti rapporti e consuetudini anche personali.
Da tempo però tutto sembra avviato verso una ripetitività sempre più stanca, i contenuti non si rinnovano, non si aggiungono energie nuove mentre all’opposto si sommano nuove ostilità.
E mentre continua ad apparire sempre assai lontano, quasi irraggiungibile, il traguardo della nascita nel nostro Paese di una cultura civica capace di coniugare quotidianamente, senza contrasti ultimativi, una dimensione pubblica della religione e un ethos democratico condiviso.
Qui mi limiterò a indicare alcuni motivi che a mio giudizio hanno reso sempre più difficile e sempre meno produttivo il dialogo di cui sto dicendo.
Innanzi tutto tale dialogo, che aveva una natura sostanzialmente culturale (anche se con possibili, evidenti, conseguenze politiche), si è trovato fortemente squilibrato per la scarsissima presenza in campo cattolico di un’opinione pubblica colta non orientata a sinistra.
Sul versante cattolico i pochi interlocutori disponibili sono stati perlopiù figure di giovani intellettuali, quasi sempre cresciuti nei movimenti, e alcuni di quegli stessi movimenti (penso specialmente a Comunione e Liberazione).
Dominati tuttavia, gli uni e gli altri, da un fortissimo spirito di parte, orientati a un forte radicalismo, pronti assai spesso a perdere repentinamente interesse, e magari a guardare con sospetto, proprio coloro dell’altro campo con i quali fino al giorno prima si erano trovati a discutere insieme.
E’ accaduto così che il dialogo ha finito per vedere protagonisti, da parte cattolica, soprattutto gli esponenti della gerarchia, la Chiesa.
Molti prelati vi hanno visto un’occasione, nel caso migliore per uscire dal proprio ruolo intellettualmente non troppo appagante, nel caso peggiore per mettersi in mostra, per acquistare un’immagine pubblica di maggior rilievo.
Ne sono derivate due conseguenze negative intrecciate insieme.
Che l’incontro tra laici e cattolici, non avendo visto alcun impegno di parti significative del laicato cattolico, non ha potuto ricevere l’apporto di energie culturali vaste e profonde che non fossero quelle di qualche vescovo o cardinale (pochi per la verità, ben pochi!).
Con il che, però, esso è divenuto di fatto un incontro con la Chiesa, caricandosi in tal modo di un significato immediatamente e inevitabilmente politico, o comunque potendo facilmente essere così etichettato.
E dunque facilmente suscitando, da parte dei laici intransigenti e della sinistra, un fuoco d’interdizione rivelatosi alla fine efficace.
Il ruolo assunto dalla Chiesa ha evidenziato un ulteriore fattore negativo.
Ha infatti reso ancora più chiara l’autoreferenzialità con la quale il mondo cattolico è abituato da un paio di secoli a improntare il suo rapporto con chi non ne fa parte storicamente, e che nel caso dell’organizzazione ecclesiastica raggiunge l’apice.
Autoreferenzialità significa difficoltà di stabilire rapporti realmente paritari con chi è fuori da quel mondo, difficoltà di farsi persuaso che perché ci sia una reale interlocuzione con chiunque è necessario dare nella stessa misura in cui si riceve, non lesinare riconoscimento e visibilità, capire che se si vogliono conseguire obiettivi di rilievo non si può prendere come bussola solo se stessi, solo il proprio immediato tornaconto.
E’ così accaduto tante volte, per esempio, che pur mostrandosi molto interessata al dialogo con i laici di orientamento liberale la Chiesa e i suoi esponenti fossero pronti, però, con lo stesso interesse (anzi assai spesso di più), a incontrarsi con i più aspri avversari di quelli, con quei laici intransigenti che magari vituperavano gli altri proprio a causa — colmo dei paradossi — del dialogo da essi intrattenuto con il mondo cattolico: fossero pronti a invitarli, a scrivere sui loro giornali, a chiederne la collaborazione.
Forse qualcuno potrebbe giudicare tutto ciò una manifestazione di quella malizia e spregiudicatezza talvolta considerate proprie della più sofisticata abilità politica.
Sono convinto del contrario.
A ben vedere, infatti, l’autoreferenzialità — di cui tanto spesso la Chiesa e il suo mondo ancora non riescono a liberarsi, e che è emersa con chiarezza nel dialogo con i laici interessati ad avviare un rapporto nuovo con il cattolicesimo — non è che la conseguenza della separatezza a cui la vicenda storica ha costretto la Chiesa stessa insieme al retroterra sociale che fa capo ad essa.
Una separatezza che costituisce un grave ostacolo proprio rispetto alla possibilità di fare politica davvero, cioè di avere una visione strategica, di fare scelte nette e conseguenti, di scegliere chi sono i propri amici culturali e chi no, magari perfino di farsi arricchire da essi (non oso dire cambiare).
E’ su questi scogli che il dialogo tra laici e cattolici si è incagliato e forse sta naufragando.
Di sicuro non sarà qualche progetto di legge disposto a recepire per intero il punto di vista della Santa Sede che cambierà le cose.
EDITORIALE DEL “CORRIERE DELLA SERA” DEL 15 FEBBRAIO 2009

Cattolici, laici e società civile

“L’Occidente deve decidersi a capire quale peso ha la fede nella vita pubblica dei suoi cittadini, non può rimuovere il problema”.
Queste parole fulminanti, espresse da un vescovo mediorientale ad Amman durante il comitato scientifico internazionale della rivista “Oasis”, mi sono tornate alla mente in questi giorni, nei quali si è acceso sui media un vivo dibattito circa l’azione dei cristiani nella società civile, il dialogo tra laici e cattolici – che secondo qualcuno sarebbe addirittura giunto al capolinea –, la presunta sconfitta del cristianesimo e l’ingerenza degli uomini di Chiesa nelle vicende pubbliche.
In una parola, circa lo stile con cui i cattolici dovrebbero intervenire o meno sui delicati temi della vita comune, quali quelli della bioetica.
Mi sembra che spesso si perda di vista il cuore della questione: ogni fede va sempre soggetta a un’interpretazione culturale pubblica.
È un dato inevitabile.
Da una parte perché, come scrisse Giovanni Paolo II, “una fede che non diventi cultura sarebbe non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.
Dall’altra, essendo la fede – quella giudaica e quella cristiana – frutto di un Dio che si è compromesso con la storia, ha inevitabilmente a che fare con la concretezza della vita e della morte, dell’amore e del dolore, del lavoro e del riposo e dell’azione civica.
Perciò è essa stessa inevitabilmente investita da diverse letture culturali, che possono entrare in conflitto tra di loro.
In questa fase di “post-secolarismo”, nella società italiana si confrontano, in particolare, due interpretazioni culturali del cristianesimo.
A me sembrano entrambe riduttive.
La prima è quella che tratta il cristianesimo come una religione civile, come mero cemento etico, capace di fungere da collante sociale per la nostra democrazia e per le democrazie europee in grave affanno.
Se una simile posizione è plausibile in chi non crede, a chi crede deve essere evidente la sua strutturale insufficienza.
L’altra, più sottile, è quella che tende a ridurre il cristianesimo all’annuncio della pura e nuda Croce per la salvezza di “ogni altro”.
Occuparsi, per esempio, di bioetica o biopolitica distoglierebbe dall’autentico messaggio di misericordia di Cristo.
Come se questo messaggio fosse in sé astorico e non possedesse implicazioni antropologiche, sociali e cosmologiche.
Un simile atteggiamento produce una dispersione, una diaspora dei cristiani nella società e finisce per nascondere la rilevanza umana della fede in quanto tale.
Al punto che di fronte ai drammi anche pubblici della vita si giunge a domandare un silenzio che rischia di svuotare il senso dell’appartenenza a Cristo e alla Chiesa agli occhi degli altri.
Nessuna di queste due interpretazioni culturali, secondo me, riesce ad esprimere in maniera adeguata la vera natura del cristianesimo e della sua azione nella società civile: la prima perché lo riduce alla sua dimensione secolare, separandolo dalla forza sorgiva del soggetto cristiano, dono dell’incontro con l’avvenimento personale di Gesù Cristo nella Chiesa; la seconda perché priva la fede del suo spessore carnale.
A me sembra più rispettosa della natura dell’uomo e del suo essere in relazione un’altra interpretazione culturale.
Essa corre lungo il crinale che separa la religione civile dalla diaspora e dal nascondimento.
Propone l’avvenimento di Gesù Cristo in tutta la sua interezza – irriducibile ad ogni umano schieramento –, ne mostra il cuore che vive nella fede della Chiesa a beneficio di tutto il popolo.
In che modo? Attraverso l’annuncio, ad opera del soggetto ecclesiale, di tutti i misteri della fede nella loro integralità, sapientemente compendiati nel catechismo della Chiesa.
Giungendo però ad esplicitare tutti gli aspetti e le implicazioni che da tali misteri sempre sgorgano.
Essi si intrecciano con le vicende umane di ogni tempo, mostrando la bellezza e la fecondità della fede per la vita di tutti i giorni.
Solo un esempio: se credo che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio, avrò una certa concezione della nascita e della morte, del rapporto tra uomo e donna, del matrimonio e della famiglia.
Concezione che inevitabilmente incontra e chiede di confrontarsi con l’esperienza di tutti gli uomini, anche dei non credenti.
Qualunque sia il loro modo di concepire questi dati elementari dell’esistenza.
Rispettando lo specifico compito dei fedeli laici in campo politico, è tuttavia evidente che se ogni fedele, dal papa all’ultimo dei battezzati, non mettesse in comune le risposte che ritiene valide alle domande che quotidianamente agitano il cuore dell’uomo, cioè se non testimoniasse le implicazioni pratiche della propria fede, toglierebbe qualcosa agli altri.
Sottrarrebbe un positivo, non contribuirebbe al bene civile di edificare la vita buona.
Oggi poi, in una società plurale e perciò tendenzialmente molto conflittuale, questo paragone deve essere a 360 gradi e con tutti, nessuno escluso.
In un simile confronto, che porta i cristiani, papa e vescovi compresi, a dialogare umilmente ma tenacemente con tutti, si vede che l’azione ecclesiale non ha come scopo l’egemonia, non punta a usare l’ideale della fede in vista di un potere.
Il suo vero scopo, a imitazione del suo Fondatore, è offrire a tutti la consolante speranza nella vita eterna.
Una speranza che, già godibile nel “centuplo quaggiù”, aiuta ad affrontare i problemi cruciali che rendono affascinante e drammatico il quotidiano di tutti.
Solo attraverso questo instancabile racconto, teso al riconoscimento reciproco, rispettoso delle procedure pattuite in uno stato di diritto, si può mettere a frutto quel grande valore pratico che scaturisce dal fatto di vivere insieme.