Classe prima – Marzo

Seconda fase dell’attività a) La classe si divide in gruppetti di quattro o cinque persone, con portavoce.
In ciascun gruppo, tutti saranno dotati di un testo dei Vangeli.
Alcuni gruppi leggeranno, in Luca e Matteo, i “Vangeli dell’infanzia”; gli altri, dai racconti della Passione e Resurrezione alla conclusione, nell’ambito di uno dei quattro Vangeli.
I gruppi riassumeranno per scritto gli “interventi angelici” ritrovati nei testi, annotando poi: – la missione dell’Angelo o degli Angeli; – il modo di interagire con gli esseri umani e il tipo di rapporto instaurato con loro; – eventuali rapporti instaurati tra gli Angeli e Gesù.
I testi elaborati verranno presentati dai portavoce, confrontando le risposte dei gruppi in relazione agli stessi passi esaminati.
L’insegnante aiuterà poi la classe a sintetizzare per scritto, in breve, le giuste osservazioni.
b) L’insegnante propone agli allievi un questionario scritto; seguirà un confronto conclusivo delle risposte, in dibattito.
– Rispondi in breve: chi sono gli Angeli, secondo l’Antico e il Nuovo Testamento? Qual è il loro ruolo nella “Storia della Salvezza”? – Quale importanza può avere la loro esistenza, nell’ambito della storia umana e della storia di ogni singola persona, secondo i credenti? – Ci sono valori, vissuti o insegnati dagli Angeli, che qualsiasi essere umano, anche non credente, potrebbe condividere?  Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida 2) Nella Bibbia: Antico Testamento Nella Torah e nei Profeti l’angelo è soprattutto una “figura teologica” che indica una manifestazione di Dio, una personificazione della Sua Parola che salva e giudica.
Nel roveto ardente, Mosè vede “l’angelo del Signore”, ma subito dopo la narrazione continua così: «Il Signore vide che Mosè si era avvicinato e lo chiamò dal roveto» (Es 3,2-4).
L’identificazione Angelo-Dio si ritrova in molti altri passi biblici, per esempio in quello del sacrificio di Isacco (Gn 22,11-17).
In questo ruolo, l’angelo può assumere l’aspetto umano per rendersi visibile: Dio è “Altro” dall’uomo, ma anche a lui vicino, simile.
Nel capitolo 18 della Genesi, ripreso nella celebre icona del pittore A.
Rublev, quasi simboleggiando la Trinità tre Angeli si presentano davanti alla tenda di Abramo come viandanti, per annunciargli la nascita di Isacco; come un uomo misterioso un angelo lotta di notte con il patriarca Giacobbe, convinto tuttavia di “aver visto Dio faccia a faccia”.
L’Angelo è Parola che benedice, ma anche Parola che giudica: pensiamo all’essere che toglie la vita ai primogeniti degli Egiziani nell’Esodo…
Nella visione della “scala di Giacobbe” (Gn 28,12), gli Angeli che salgono e scendono indicano una Parola che rivela il collegamento tra cielo e terra, finito e infinito, Dio e uomo.
In moltissimi altri testi, gli Angeli si presentano non come simboli ma come entità reali, con identità proprie, soprattutto a partire dai testi successivi all’esilio babilonese degli Ebrei (dal VI secolo a.C.
in poi).
Diviene indiscutibile la presenza di un “angelo custode” a tutela del giusto.
L’idea di un angelo che non lascia solo il povero ritorna nei Salmi: «L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva…
Il Signore darà ordine ai suoi Angeli di custodirti in tutti i tuoi passi; sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede» (Sal 34, 91,11-12).
Nei Libro di Giobbe appare anche l’angelo che intercede per l’uomo presso il Signore.
Oltre a vegliare sugli individui, nella Bibbia miriadi di Angeli presiedono al destino delle nazioni (Dn 10,13-21); in una sorta di gerarchia angelica, spiccano Angeli con nomi che rivelano la loro missione, come Michele (“Chi è come Dio?”), protettore di Israele, grande combattente contro il male; Gabriele (“Dio è mia forza”), interprete incaricato di rendere comprensibili all’uomo i misteri della Rivelazione e Raffaele (“Dio guarisce”), incaricato delle guarigioni.
I “Cori angelici” esprimono la melodia e l’armonia perfetta dell’Amore di Dio; le loro gerarchie corrispondono a compiti d’immensa importanza.
Nella Gerarchia suprema, che loda e contempla Dio, i Serafini rappresentano il perfetto Amore, i Cherubini la conoscenza e la sapienza, i Troni la giustizia…
Nella seconda Gerarchia gli Angeli portano al mondo giusto ordine e bellezza e contrastano il male; nella Gerarchia inferiore, gli Angeli hanno incarichi di grande importanza presso gli uomini, sono ambasciatori della volontà di Dio.
Afferma S.
Agostino: «Dio li investe della Sua sapienza e della Sua gloria, e il loro sguardo sull’umanità è tenerezza infinita, innocenza di bambino…»  1) Chi sono? Il palcoscenico è avvolto nel buio.
Si accende un cono di luce che va a inquadrare un angelo, avvolto in una veste bianca.
È il prologo di un dramma di Santucci, uno dei più noti scrittori contemporanei, dal titolo L’angelo di Caino.
«Battezzati – esclama l’angelo rivolgendosi agli spettatori – porgetemi orecchio.
Nel dramma che ascolterete io sono l’angelo.
Chi sono gli angeli? C’è qualcuno tra voi che lo ricorda?».
Sulla platea scende un fitto silenzio.
L’angelo guarda negli occhi i suoi spettatori.
La pausa è densa di interrogativi.
«Ho udito i vostri pensieri.
No, non tutte queste cose soltanto».
Stende la mano e punta l’indice sulla platea immersa nel buio.
«Tu hai pensato a tua madre.
E tu al tuo piccino morto.
E voi altri a una musica, ad una immagine appesa in capo al letto.
Ma è giusto che voi sappiate.
Forse non potrete sopportare la nostra presenza, se ci pensate come siamo davvero, vicini a voi, in ogni istante!…
Ci pensiate o no, noi siamo con voi, o battezzati, nel modo preciso e perentorio che Dio ha voluto, sempre, sempre.
Senza distrazioni, senza vacanze».
                                                                           (C.
Fiore, I temi male detti, p.
29, Elledici) Afferma ancora lo scrittore Santucci: «Tanto rozzi siamo diventati che agli angeli più nessuno pensa.
Non vedendoli sul metrò o negli snack-bar o ai caselli dell’autostrada con gomito sporgente dal finestrino, li abbiamo aboliti.
Ne facciamo qualche accenno ai bambini.
Neppure più diremmo alla donna del cuore: sei il mio angelo.
Rideremmo entrambi…
Eppure gli angeli ci strappano come nessun’altra cosa dal puzzo di benzina, dal gracchiare del telegiornale…» In tutte le culture antiche compaiono esseri superiori agli uomini ma inferiori a Dio, “esseri-tramite”: li ritroviamo nelle primitive religioni animiste, in quelle dell’area mesopotamica, nei miti greco-romani; oggi nell’Induismo, nel Buddhismo, nell’Islam…
Soprattutto, sono chiaramente presenti nella Bibbia, nell’Antico e nel Nuovo Testamento; per i credenti, la “prova” dell’esistenza degli angeli risiede nella Parola di Dio.
Il termine greco “anghelos”, “messaggero”, traduce l’ebraico “mal ’akh”; esso ricorre nella Bibbia 215 volte.
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, «gli angeli sono creature spirituali che incessantemente glorificano Dio e servono i Suoi disegni salvifici nei confronti delle altre creature»; sono creature libere di scegliere, interamente spirituali, incaricate di sostenere gli uomini, di illuminarli, di aiutarli a compiere la volontà di Dio.
Secondo il teologo G.
Gozzelino, «hanno un misterioso potere sul cosmo e sulla storia.
Contribuiscono con Gesù, con la Chiesa e i Cristiani alla lotta contro le forze del male.
Annunciano agli uomini gli interventi divini e li aiutano a comprenderne il senso.
In breve: sono adoratori di fronte a Dio, governatori del cosmo e della storia di fronte al mondo, annunciatori e guide di fronte agli uomini».
3) Nel Nuovo Testamento L’angelo “interprete” del Nuovo Testamento aiuta e spiega l’azione di Dio (vedi Apocalisse), soprattutto il significato dell’Incarnazione di Cristo.
Le gerarchie angeliche hanno grandi poteri, ma è chiaro come siano semplicemente incaricate di un ministero: Gesù è l’unico Mediatore di una Nuova Alleanza tra Dio e uomo; l’angelo “spiega” e invita all’adesione della fede.
Nei Vangeli, gli Angeli compaiono soprattutto in quelli “dell’infanzia” (Mt 1-2 e Lc 1-2) e nei racconti di resurrezione (Mc 15 e paralleli).
Gabriele annuncia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,11-20) e a Maria la nascita di Gesù (Lc 1,26-28); un angelo guida Giuseppe alla scoperta della sua missione nei confronti di Gesù, cori angelici annunciano la Natività…
Angeli annunciano la resurrezione, presentati anche come “un giovane” (Mc 16,5), due uomini (Lc 24,4)…
Si ritrovano inoltre nei momenti in cui Gesù prega (Mt 4,11; Mc 1,13), specialmente nel Getsemani (Lc 22,43).
Gli Angeli proteggono gli uomini (Mt 18,10) e faranno da corona quando il Cristo tornerà per il giudizio finale e la vittoria definitiva sul male e sulla morte, alla fine dei tempi (Mt 16,27, Lc 12,8)…
Nel Nuovo Testamento Michele, l’Angelo del popolo ebraico, sembra divenire protettore della Chiesa universale (Ap 12,7).
La certezza della presenza dell’angelo custode (Mt 12,15) è ratificata dal Salvatore (Mt 18,10); gli Angeli sono anche accompagnatori delle anime nell’altra vita (Lc 16,22).
Essi, come noi, sono stati voluti dal Creatore di “tutte le cose visibili e invisibili”.
Il diavolo, dal greco “diabolos”, “colui che divide”, in ebraico “satan”, “avversario”, indica uno degli Angeli – potentissimo – che hanno usato male la loro libertà contrapponendosi a Dio in un sogno folle di potere; Satana sceglie il male, tenta di contrastare il Disegno di Dio soprattutto agendo come tentatore nei confronti dell’uomo.
Il Nuovo Testamento mette in risalto la vittoria di Cristo su ogni forma di male e sul diavolo.
Ci sono dunque esseri, secondo la Bibbia, che riempiono l’universo con la pienezza della Verità e dell’Amore; esseri capaci di lodare Dio e di servirlo con incessante fermezza (essi sono ciò che noi non siamo…
ma che possiamo diventare), potenti perché uniti a Lui e per amore Suo capaci di amare immensamente noi esseri umani, aiutandoci a elevarci; proteggendoci dai pericoli e da noi stessi, suscitando in noi il desiderio del bene; divenendo portatori della Parola, nella Scrittura e nei cuori.
Gli Angeli ci insegnano la dedizione assoluta a una missione di bene, l’amore-donazione gratuito e illimitato.
Unità di Lavoro biblica, per l’approfondimento e l’attualizzazione OSA di riferimento  Conoscenze   – Ricerca umana e Rivelazione di Dio nella storia.
– Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio.   Abilità  – Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere le caratteristiche degli angeli e il loro ruolo nella “Storia della Salvezza”.
– Comprendere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni brani biblici inerenti gli angeli.
– Elaborare ed esprimere opinioni personali in merito ai valori espressi dal messaggio biblico sugli angeli.   Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale  – Possedere essenziali conoscenze bibliche, storiche e dottrinali inerenti il Cristianesimo e riconoscere il contributo del pensiero cristiano al progresso culturale, artistico e sociale dell’intera umanità.
– Sapersi esprimere in modo personale oralmente e per scritto nell’ambito del linguaggio specifico, tramite testi di riflessione ed esperimenti di analisi e sintesi.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta agli allievi i testi-guida motivando il percorso.
Nella tradizione cristiana, gli angeli occupano un ruolo discreto, ma di primo piano; creature più evolute nella vicinanza a Dio, possono rappresentare il meglio di ciò che è “invisibile”, ma che può essere reale e che può spalancare nuovi, meravigliosi orizzonti all’esperienza umana.
Essi trasmettono valori degni di attenzione per chiunque voglia provare a migliorare il mondo.

“Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri”

BENEDETTO XVI E LA LETTERA AI VESCOVI Sfidato dalla storia di Ernesto Galli Della Loggia Per il suo carattere eccezionale e per le parole che contiene la lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici dice molto di più delle personali ambasce di un Papa il quale, a proposito del caso Williamson, si è visto attaccato e insidiato anche dai suoi, e che vede, in generale, come anche nella Chiesa — nella stessa Curia, ha fatto capire il direttore dell’Osservatore romano — «ci si morde e ci si divora».
La lettera e il suo contenuto tradiscono sentimenti di sconcerto e di disappunto che lasciano intravedere qualcosa di ben più importante, in realtà: e cioè una complessiva difficoltà di direzione che oggi grava sugli stessi vertici della Chiesa.
Da molti sintomi sembra, in effetti, che stiano venendo al pettine alcune contraddizioni accumulatesi nell’ultimo mezzo secolo intorno al ruolo del papato via via che questo ha conosciuto una profonda trasformazione storica.
Tale trasformazione ha avuto due aspetti principali con i quali la figura del Pontefice ha dovuto fare i conti: l’avvento della televisione e il Concilio.
L’avvento della televisione ha voluto dire la virtuale trasformazione del Papa da capo della Chiesa di Roma in una figura della scena mondiale quotidianamente alle prese con l’opinione pubblica planetaria, per lo più non cattolica e neppure cristiana.
Alle prese cioè con i media, che di tale opinione sono i servi-padroni.
Giovanni XXIII, eletto alla fine degli Anni 50, cioè in coincidenza con la piena diffusione planetaria della Tv, è stato il primo Pontefice che ha potuto godere dell’indubbia opportunità offerta da questo cambiamento: diventare di fatto un leader etico-carismatico universale, in certo senso meta-religioso (il papa «buono», quasi che i predecessori fossero «cattivi»: ma in certo senso così essi venivano fatti indirettamente apparire dalla potenza dei media, e di fatto così divenivano).
Ma naturalmente questa intrinsichezza con l’opinione pubblica mondiale e con i media rappresenta per il Pontefice un vincolo non da poco.
Specialmente perché è un vincolo che non ha sostanzialmente alcuna natura religiosa (neppure spirituale, forse), e però esso influenza non poco la popolarità del Papa nello stesso mondo cattolico, alle cui divergenze interne i media mondiali, tra l’altro, non mancano mai di offrirsi puntualmente come sponda interessata, quasi sempre, tra l’altro, definendo e enfatizzando quelle divergenze nel modo ideologicamente più banale.
Il Papa rischia così di divenire prigioniero da un lato dell’obbligo del carisma, dell’obbligo di «venire bene» in tv, di avere una congrua propensione scenica, di essere «simpatico », dall’altro dell’obbligo del politicamente corretto da cui il conformismo mediatico fa dipendere di solito il proprio consenso.
Insomma una specie di Dalai Lama con i paramenti pontificali.
La seconda trasformazione gravida di tensioni l’ha arrecata, al ruolo istituzionale del papato, il Vaticano II.
In pratica, infatti, il Concilio ha voluto dire la nascita dei partiti all’interno della Chiesa.
Intendiamoci, nella Curia ci sono sempre stati dei «partiti»: ma nella Curia, appunto, ai vertici dell’organizzazione e con tutta la felpata cautela del caso, non tra i fedeli, non nell’universo cattolico in generale.
Con il Vaticano II, e intorno ad esso, intorno ai suoi dettami e al suo «spirito », invece, questo universo cattolico si è diviso in due grandi tronconi: i cauti e i radicali.
I quali da quarant’anni si combattono apertamente e incessantemente, ognuno avendo i propri capi e rappresentanti più o meno autentici e più o meno interessati dentro la Curia.
I cui «partiti» in questo modo, però, potendo contare su un effettivo retroterra diciamo così di «seguaci», sono diventati ben più battaglieri, e quindi ben più riottosi e insidiosi, che nel passato.
Fino al punto, a quel che si capisce, di opporsi apertamente o di boicottare dietro le quinte la stessa autorità del Papa quando questi appartiene per caso al partito avverso.
E’ a questo punto che si configura in pieno la contraddittoria situazione che la storia ha creato.
Il Pontefice in realtà ha oggi una sola arma per superare l’ostilità del partito cattolico che gli si oppone, per affermare nel suo stesso regno la propria indiscutibile autorità di sovrano assoluto: l’arma dell’appeal carismatico-mediatico, del consenso metareligioso della platea mondiale, del gesto e della parola che bucano lo schermo della Cnn, che arrivano sulla prima pagina del New York Times.
Ma per farlo egli rischia di perdere un tratto essenziale del retaggio che si accompagna storicamente al suo ruolo: l’indipendenza spirituale.
Quell’indipendenza che non garantisce certo dagli errori, anche dai più riprovevoli, per carità, ma che almeno serve a tenere sempre aperta la possibilità di dare voce a qualcosa di diverso dai comandi del secolo.
Una cosa sembra certa: nella ricerca di una difficile via che possa conservare la libertà della Monarchia assoluta tra i partiti da un lato e l’opinione pubblica mediatico-mondiale dall’altro, tra queste due tipiche creature della modernità, Benedetto XVI appare dolorosamente, irrevocabilmente solo.
Corrriere della Sera 14 marzo 2009 Cari confratelli nel ministero episcopale! La remissione della scomunica ai quattro vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata.
Molti vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi.
Anche se molti vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo.
Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio [Vaticano II]: si scatenava cosi una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento.
Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede.
Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica.
Il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa.
Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò cosi nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico.
Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo, e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente.
Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema.
Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie.
Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco.
Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione.
La scomunica colpisce persone, non istituzioni.
Un’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perchè mette in questione l’unità del collegio episcopale con il papa.
Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità.
A vent’anni dalle ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto.
La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro vescovi ancora una volta al ritorno.
Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del papa e della sua potestà di pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio.
Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione.
La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave.
Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale.
Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali.
Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa.
Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione.
Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la pontificia commissione “Ecclesia Dei” – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col papa – con la congregazione per la dottrina della fede.
Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei papi.
Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei cardinali al mercoledì e la plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei prefetti di varie congregazioni romane e dei rappresentanti dell’episcopato mondiale nelle decisioni da prendere.
Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962: ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità.
Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa.
Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009.
Ora però rimane la questione: era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti.
Penso di aver evidenziato le priorità del mio pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio.
Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva.
La prima priorità per il successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: “Tu…
conferma i tuoi fratelli” (Luca 22, 32).
Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pietro 3, 15).
Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio.
Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr.
Giovanni 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso c risorto.
Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo.
Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti.
La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio.
Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema.
A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce.
È questo il dialogo interreligioso.
Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia: è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’enciclica “Deus caritas est”.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.
Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine a un grande chiasso, trasformandosi proprio cosi nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto.
Ma ora domando: era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che “ha qualche cosa contro di te” (cfr.
Matteo 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, cosi da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti, cosi che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme.
Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti.
Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni.
Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui, e con Lui il Dio vivente.
Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi? Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate: superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc.
Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori.
Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo, almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio.
E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel seminario romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Galati 5, 13-15.
Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri.
Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso.
Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”.
Sono stato sempre incline a considerare questa [ultima] frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo.
Sotto certi aspetti può essere anche cosi.
Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata.
È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia.
Di fatto: Maria ci insegna la fiducia.
Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci.
Egli ci guiderà, anche in tempi turbolenti.
Vorrei cosi ringraziare di cuore tutti quei numerosi vescovi che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera.
Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il successore di san Pietro.
Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace.
È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale benedizione apostolica mi confermo Vostro nel Signore BENEDICTUS PP.
XVI Dal Vaticano, 10 Marzo 2009 DOPO LA LETTERA SUI LEFEBVRIANI «La Chiesa risponde al suo Papa» “Il Papa non è solo, tutti i suoi più vicini collaboratori sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui”.
È quanto ha affermato il segretario di Stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone.
Riferendosi a quanto scritto oggi sui principali giornali italiani circa la solitudine del Papa, il porporato ha parlato di “comunione” e “amore” della Chiesa nei suoi confronti, e ha aggiunto: “Benedetto XVI in questi momenti ha sentito anche la comunione di molti vescovi, nonostante qualche voce stonata”.
“Tutti i suoi più vicini collaboratori sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui – ha detto Bertone prima di cominciare il suo discorso a conclusione di un seminario di tre giorni sulle comunicazioni sociali per i vescovi responsabili – a partire dai capi di dicastero e dal segretario di Stato, anche per la familiarità dei rapporti”.
Il segretario di Stato ha poi affermato che il Papa ha sentito “anche la comunione di tanti vescovi del mondo, nonostante qualche voce stonata, forse dovuta proprio a mancanza di fiducia nel Papa e nelle decisioni che compie, profondamente consapevole della sua missione che compie davanti a Dio, di essere pastore della Chiesa universale, pastore di tutti”.
Solidarietà da vescovi Germania, Svizzera e Francia.
Piena solidarietà a Benedetto XVI è arrivata oggi dagli episcopati tedesco, francese e svizzero; “il Papa non è solo”, affermano – in interviste alla Radio Vaticana – i rappresentanti dei presuli dei tre paesi, da cui si sono levate nelle scorse settimane forti riserve sulla revoca della scomunica ai lefebvriani.
””Non mi è mai capitato di leggere uno scritto di un Papa così personale e così aperto.
E questo mi piace molto”, ha detto il presidente dei vescovi tedeschi, Mons, Robert Zollitsch, che stamani ha incontrato Benedetto XVI.
È “un segno – ha sottolineato – della comunicazione, un segno del fatto che il Papa stesso desidera entrare in colloquio con i vescovi e spiegare a tutto il collegio episcopale quali sono state le ragioni che lo hanno spinto e come lui ha percepito tutta la situazione”.
Sulla stessa lunghezza d’onda il cardinale di Parigi, Andrè Vingt-Trois, e il vescovo di Lugano, mons.
Pier Giacomo Grampa.
Il “grazie” da Austria, Belgio e Inghilterra.
È arrivato anche il “grazie” dei vescovi belgi e inglesi al Papa per la lettera scritta riguardo alla remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani.
Lettera riproposta oggi sui siti ufficiali delle Conferenze episcopali europee nelle diverse lingue.
In una breve nota scritta, i vescovi del Belgio parlano di unalettera “al tempo stesso umile e forte”.
Ed aggiungono: “Il suo contenuto mostra chiaramente che la remissione delle scomuniche dei 4 vescovi tradizionalisti vuole essere un gesto di riconciliazione e non una rimessa in discussione del Concilio Vaticano II”.
In una dichiarazione, la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles parla di “un atto collegiale” e di una lettera “profondamente umile”.
I vescovi inglesi sottolineano il “forte” impegno del Papa “per il dialogo interreligioso, soprattutto con gli ebrei, e per il dialogo ecumenico con gli altri cristiani.
Egli rivela la sua passione per la riconciliazione e invitando tutti nella Chiesa a dare una migliore testimonianza, il Papa sottolinea che la priorità fondamentale della Chiesa è quello di condurre gli uomini e le donne a Dio”.
“Essenziale a questo compito – aggiungono i vescovi – è la necessità di unità e l’ufficio petrino è il centro e il promotore dell’unità della Chiesa e, come tale, una voce profetica”.
Gratitudine viene espressa al Papa anche dall’episcopato austriaco, riunito in questi giorni nell’assemblea di primavera.
In una nota, i vescovi dell’Austria sottolineano l’attenzione pastorale di Benedetto XVI, che ha voluto spiegare con ampiezza le ragioni che lo hanno portato a revocare la scomunica ai presuli lefebvriani.
Le altre reazioni.
Il card.
Antonio Canizares, prefetto della Congregazione per il Culto divino, ha espresso “amarezza” per la “sofferenza” arrecata a papa Benedetto XVI dalle polemiche sul caso della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
“Abbiamo ricevuto, letto e approfondito la lettera che ha inviato a tutto l’episcopato cattolico circa la remissione della scomunica”, ha detto Canizares, salutando il papa in occasione dell’udienza che questi ha concesso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Culto.
“Condividiamo l’amarezza della sofferenza recata a vostra Santità – ha proseguito – e mi faccio portavoce dell’unanime adesione di tutti i membri della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, a quanto espresso con chiarezza e fermezza dalla Santità vostra.
Il cardinale ha concluso esprimendo “la più sincera e profonda vicinanza e amorevole solidarietà soprattutto in questo particolare momento”.
La Lettera di Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo sulla revoca delle scomuniche ai lefebvriani, “non nasconde certo le difficoltà del momento e le loro cause immediate, anzi le sottolinea, ma per andare più in profondità, alle radici spirituali, culturali ed ecclesiali di quegli ostacoli che rendono faticoso il cammino della Chiesa e che richiedono a ciascuno di noi conversione e rinnovamento”.
Lo afferma il card.
Camillo Ruini che firma l’editoriale dell’Osservatore Romano.
La Lettera, scrive il cardinale, rappresenta “un’autentica novità” che “si manifesta anzitutto nel carattere fortemente personale di questa lettera, che pure è rivolta a tutti i vescovi della Chiesa cattolica e di fatto, essendo stata resa pubblica, anche a tutti i fedeli: una comunicazione personale che supera i limiti dell’ufficialità e si offre al lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire, nell’animo del Papa e di prender parte dal di dentro alla sua sollecitudine pastorale, alle motivazioni fondamentali che guidano le sue scelte e anche all’atteggiamento interiore con cui egli vive il suo ministero”.
La lettera ai vescovi cattolici resa nota ieri.
«Una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede.
Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa».
Con queste parole Benedetto XVI spiega il senso della «lettera ai vescovi della Chiesa cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre».
I quattro vescovi – Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso del Gallareta – erano stati consacrati il 30 giugno 1988 senza mandato pontificio ed erano quindi incorsi nella scomunica latae sententiae, cioè automatica, dichiarata formalmente dalla Congregazione per i vescovi il 1° luglio 1988.
La remissione della scomunica è giunta con un Decreto della medesima Congregazione, firmato il 21 gennaio 2009 dal cardinale prefetto Giovanni Battista Re.
Questo atto, scrive il Papa nella lettera resa nota oggi, «per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata».
«Una disavventura per me imprevedibile – scrive Benedetto XVI – è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica».
All’improvviso, spiega, «il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi è apparso come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei».
A tal riguardo il Pontefice precisa che “la condivisione” e la promozione fin dall’inizio dei «passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio» erano state «un obiettivo del mio personale lavoro teologico».
Il fatto che si siano sovrapposti «due processi contrapposti», prosegue il Papa, «è cosa che posso soltanto deplorare profondamente».
Ed aggiunge: «Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema.
Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie».
Benedetto XVI si dice «rattristato» dal fatto che «anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco».
Proprio per questo ringrazia «tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia», che «continua ad esistere» come «nel tempo» di Giovanni Paolo II.
La risposta dei lefebvriani.
“Ringraziamo profondamente il Santo Padre di aver riportato il dibattito al livello al quale deve svolgersi, quello della fede”: lo scrive, in un comunicato, il Superiore generale della lefebvriana Fraternità Sacerdotale San Pio X, mons.
Bernard Fellay, in seguito alla diffusione della lettera di papa Benedetto XVI ai vescovi cattolici per spiegare il senso della revoca della scomunica dei quattro vescovi lefebvriani.
“Condividiamo pienamente – scrive Fellay – la sua preoccupazione prioritaria della predicazione ‘nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimentò”.
“La Chiesa – osserva ancora Fellay – attraversa una grande crisi, che non potrà essere risolta se non con il ritorno integrale alla purezza della fede”.
Il superiore dei lefebvriani spiega che la sua comunità è “ben lontana dal voler arrestare la Tradizione al 1962” – come detto dal pontefice nella sua lettera – ma vuole “considerare il Concilio Vaticano II e l’insegnamento post-conciliare alla luce di questa Tradizione, senza rottura e all’interno di uno sviluppo perfettamente omogeneo.
La Fraternità – conclude Fellay – assicura al pontefice la sua “volontà di affrontare i colloqui dottrinali riconosciuti come ‘necessarì” dal decreto di revoca della scomunica, “con il desiderio di servire la Verità rivelata, il che è la prima carità da manifestare verso tutti gli uomini, cristiani e non”.
Avvenire 12 Marzo 2009

III Domenica di Quaresima (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 20,1-17 In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla ter-ra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla ter-ra, né di quanto è nelle acque sotto la terra.
Non ti pro-strerai davanti a loro e non li servirai.
Perché io, il Si-gnore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta genera-zione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia im-punito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo.
Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è ri-posato il settimo giorno.
Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai a-dulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo.
Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asi-no, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
Il testo del Decalogo nel libro dell’Esodo è preceduto, al cap.
19, dalla grandiosa teofa-nia in cui il Signore rivela la sua presenza sul Sinai, la «montagna sacra» (19,23).
Soltanto Mosè, in rappresentanza del popolo raccoglie le «Dieci parole» che racchiudono la volontà del Signore e le riferirà agli Israeliti, che prometteranno di osservarle accettando l’alleanza (24.3).
All’inizio del cap.
20 il Decalogo è introdotto bruscamente, senza collegamento di-retto quanto precede.
Improvvisamente, Dio parla: risalta cosi l’assoluta libertà dell’inizia-tiva divina.
Il Decalogo Non deve stupire la difficoltà a individuare con sicurezza nel testo i dieci comandamen-ti come sono formulati nei catechismi.
Già nella seconda stesura (nel Deuteronomio) il De-calogo presenta qualche differenza: è poi citato con notevole libertà nei Profeti, nei Salmi, in altri scritti dell’Antico Testamento, nei Vangeli.
Basta questo a farci comprendere che la legge del Signore, benché scolpita sulle «tavole di pietra», non deriva da questo la sua so-lidità, e che non è il rispetto esteriore e formale della «lettera» che conta, ma l’accordo inte-riore del «cuore» alla parola di Dio.
Otto comandamenti su dieci hanno una forma negativa, e questa lista di divieti può ur-tare qualcuno.
Ma tutto cambia se riflettiamo che dire «cosa non bisogna fare» ci lascia molto più liberi.
Dio pone dei divieti certo; ma è vietato solo ciò che priva noi e gli altri della li-bertà; la violenza, l’assassinio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza.
Per il resto, Dio non obbliga; cosa bisogna fare, è lasciato alla nostra libertà.
Dio non comanda nemmeno di essere adorato, non chiede sacrifici (cf.
Is 1,12-13; Ger 7 22): lo stesso comandamento del sabato, più che imporre una pratica religiosa, comanda di non fare qualcosa, di astenersi dal lavoro.
Note esegetiche vv.
2-3: In positivo, la prima parola del Decalogo — il 1° comandamento nella tradizio-ne dell’Ebraismo – non è precisamente un comandamento, e impegna Dio piuttosto che l’uomo.
Dio si presenta, offre le sue credenziali: non chiede di essere obbedito senza essere conosciuto.
Per questo può dire «non avrai altri dèi»: non basta confessare che Dio è uno, la Bibbia non predica un monoteismo filosofico, astratto, «numerico».
La Bibbia dice chi è Dio, raccontando quello che ha fatto per noi.
È il Dio che libera anzi il Dio che ha liberato te, oggi: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto».
Tutto il Decalo-go discende da questa affermazione iniziale, come un torrente dalla montagna.
vv.
4-6: La formulazione del divieto dell’idolatria è in stretto collegamento con il raccon-to della creazione in Gn 1.
Dio ha fatto cielo terra e mare e ciò che contengono; ha fatto l’uomo a sua immagine; ha dato all’uomo il compito di sottomettere la terra.
Nell’idolatria, l’ordine è stravolto: l’uomo adora le creature (astri, animali…) invece di dominarle, sosti-tuisce all’immagine creata da Dio immagini di idoli fatte con le sue mani.
Invece di adorare Colui che lo ha fatto, l’uomo adora la cosa che ha fatto.
Questo rovesciamento della verità – questa menzogna – è proibito, perché Dio è geloso: la gelosia dell’amore che ha scelto l’uomo e stabilito l’alleanza, amore sovrabbondante di grazia, mille volte più del castigo (v.
5b-6).
Tutti i peccati previsti nel Decalogo hanno radice nell’idolatria.
v.
7: Invano (lašawe) indica il vuoto, la falsità, anche la magia.
«Pronunciare invano il Nome» significa trattare Dio come un idolo: qualcosa di manipolabile, di cui l’uomo possa impadronirsi per strumentalizzarlo ai suoi fini.
La stessa parola è usata nell’8° comanda-mento: la falsa testimonianza contro il fratello, immagine di Dio, è grave come il falso culto a Dio.
Una pietà esteriormente corretta e ossequiente alle regole, cui non corrisponda la giustizia nei rapporti con gli altri, riduce a menzogna il Nome del Signore.
v.
8-11 : Il comandamento del sabato è la chiave di volta del Decalogo.
Come il quarto, è formulato in positivo («ricordati»); come gli altri, è anche negativo («non farai alcun lavo-ro…»); come il primo, è motivato con la creazione (nel Deuteronomio invece, con il ricordo della schiavitù in Egitto).
Non si interrompe il lavoro, banalmente, perché è bene riposarsi; ma piuttosto per imitare, quale immagine di Dio, il riposo del settimo giorno della crea-zione.
Si tratta quindi della più alta realizzazione dell’essere uomo: il sabato è un coman-damento che riguarda Dio (la «prima tavola»), ma è anche quello che con maggiore insi-stenza parla della comunità umana («né tu, né tuo figlio….»), e l’unico in cui esplicitamente sia citato lo straniero.
Il sabato è la legge più specifica che caratterizza l’identità ebraica, e insieme la più universale, perché l’ebreo è chiamato a condividere la santità del sabato con tutta la creazione, senza distinzioni di sesso, di condizione sociale (lo schiavo), di apparte-nenza etnica o religiosa (lo straniero) e perfino umana (il bestiame).
Anche qui c’è l’accen-no all’idolatria: il potere di «fare», di costruire opere (idoli) con le proprie mani, rischia di precipitare l’uomo in un delirio di onnipotenza, se non interviene la pausa del sabato a ri-condurre tutto al Creatore.
v.
12: Il quarto comandamento, come la «prima parola», rivolge l’uomo verso l’origine.
Il «padre e la madre» sono l’anello di congiunzione fra l’uomo di oggi e ciò che lo ha pre-ceduto, fino all’origine prima; attraverso padre e madre, nella tradizione ebraica e non so-lo, si trasmette la memoria dell’azione di Dio in favore del popolo, a partire dall’Esodo, e in favore dell’umanità, a partire dalla creazione.
Perciò questo comandamento è l’unico che parli di un «premio», una conseguenza positiva per l’uomo: la vita, dono di Dio dalla creazione in poi, cui l’uomo e la donna partecipano nel generare il figlio.
Adamo generò un figlio a sua immagine (Gn 5,3): il potere di generare, purificato dalla pretesa di onnipo-tenza possessiva e iscritto nell’onore (kavôd: la gloria, riservata a Dio) reso all’origine, si oppone al fare del lavoro, che deve essere interrotto nel giorno di sabato per non diventare costruzione di idoli.
vv.
13-16: Da qui, i comandamenti della «seconda tavola» che riguardano i rapporti umani.
Non uccidere, esteso a ogni forma di violenza; non commettere adulterio, perché l’amore sponsale è figura del rapporto unico fra Dio e il popolo.
Non dire falsa testimo-nianza, in parallelo con il v.
7.
v.
17: Il nono e il decimo comandamento sono nella tradizione ebraica uno solo: il Deca-logo si conclude penetrando nel segreto del cuore, dove si nasconde il desiderio.
Non è il desiderio in sé che è peccato, ma il desiderio contro giustizia: volere tutto, senza riconosce-re alcun ostacolo, nemmeno nella sfera di ciò che attiene all’altro.
Al fondo, è ancora la pre-tesa di sostituirsi a Dio, in una volontà di potenza accaparratrice che non lascia spazio al-l’amore, che non lascia vivere, che trascina inesorabilmente alla distruzione.
Seconda lettura: 1Corinzi 1,22-25 Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cerca-no sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scan-dalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
La prima lettera ai Corinzi si apre con la polemica fra l’Apostolo e gli avversari che hanno introdotto divisioni e contrasti all’interno della comunità.
Paolo difende con passio-ne sia l’unità del Vangelo di Cristo, sia la corrispondenza della sua predicazione con que-sto Vangelo.
A propria difesa, Paolo non invoca la «sapienza del discorso», ma la fedeltà alla croce di Cristo, che non deve essere «resa vana» (v.
17).
L’argomentare di Paolo proce-de con l’audace contrapposizione fra la «sapienza degli uomini» e la «stoltezza» della parola della croce (vv.
18-21).
A questa antitesi fra la parola di Dio e la parola del mondo si colle-ga il proclama di «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v.
23).
Note esegetiche v.
22: «Giudei» e «Greci» (o «Gentili»: v.
23) rappresentavano al tempo di Paolo le due parti dell’umanità, contrapposte non tanto dal punto di vista religioso, quanto per il modo di porsi di fronte alla realtà.
I Giudei, per credere, chiedono «segni» (semeia; miracoli, pro-digi), prove storiche su cui poggiare la loro fede; i Greci cercano «sapienza» (sofia), per esse-re razionalmente convinti.
v.
23: Un’avversativa, «noi invece…», sottolinea l’assoluta novità della predicazione di Paolo: «Cristo crocifisso», e introduce il secondo binomio: scandalo/stoltezza.
Alla «prova» chiesta dai Giudei si contrappone la «pietra d’inciampo» (skàndalon), alla razionalità dei Greci la «stoltezza della croce» (morì an).
v.
24: Il contrasto fra le due coppie di termini opposti è risolto nel cuore dell’annuncio, accolto dai «chiamati», sia Giudei che Greci: per loro la debolezza della croce mostra la po-tenza di Dio, e la stoltezza ne rivela la sapienza.
La comprensione della fede consente di leggere la realtà con occhi nuovi e di riconoscere l’azione di Dio nella dedizione incondi-zionata di Colui che «amò i suoi fino alla fine» (Gv 13,1).
Il Crocifisso è «il luogo dell’agire divino potentemente e sapientemente salvifico e tale appare agli occhi dei credenti» (G.
BARBAGLIO, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB 1996, p.
143).
v.
25: All’opposizione stoltezza/sapienza viene accostata qui quella debolezza/forza.
Non si tratta di anteporre la sapienza di Dio a quella umana dichiarandone la superiorità, ma di una alternativa assoluta fra due contrari.
Non si tratta nemmeno di paragonare semplicemente due punti di vista opposti, che provocano visioni fra loro incompatibili.
La morte sulla croce rimane follia e il Cristo consegnato ai carnefici mostra la sua debolezza, liberamente scelta; ma sono la debolezza e la follia di chi soccombe alla violenza piuttosto che farsene complice, di chi vince l’odio con la sovrabbondanza dell’amore, di chi viene a guarire dall’interno il cuore malato dell’uomo.
In questo, la debolezza si mostra più forte della forza, e la stoltezza più sapiente della sapienza.
Vangelo: Giovanni 2,13-25 Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusa-lemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una fru-sta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Rispose loro Gesù: «Distrug-gete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorge-re?».
Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusa-lemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i se-gni che egli compiva, credettero nel suo nome.
Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo.
Egli infatti co-nosceva quello che c’è nell’uomo.
Esegesi La «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano poco prima della Passione, è narrata da Giovanni all’inizio del ministero pubblico.
L’evangelista vuole così sottolineare subito sia la grande novità del messaggio di Gesù, sia la continuità ideale con la predica-zione dei profeti d’Israele.
L’episodio si inserisce chiaramente in un contesto pasquale, nel-la prima delle tre Pasque di Gesù a Gerusalemme ricordate da Giovanni.
Si distinguono due brevi scene, ciascuna seguita da un versetto di commento; a conclu-sione, un sommario storico aggiunge una riflessione sulla fede autentica.
vv.
13-16: La prima scena è la cacciata dei mercanti dal Tempio.
La notazione temporale e geografica è precisa: la Pasqua «dei Giudei», così differenziata dalla Pasqua cristiana, segnala una situazione di distacco tra la comunità cristiana e la si-nagoga, già definitiva al tempo della stesura del Vangelo.
Gesù è tuttavia un ebreo osser-vante, e da Cafarnao — posta sul lago sotto il livello del mare — «sale» a Gerusalemme, a 800 m.
di altezza.
I pellegrini che provenivano da ogni parte, non solo dalla Giudea, dovevano procurarsi in loco gli animali da offrire in sacrificio e pagare la tassa di mezzo siclo al Tempio.
Spesso però essi disponevano solo di denaro romano o di altri paesi, monete non ammesse al Tempio perché coniate con effigi pagane.
Era quindi necessaria, per lo svolgimento delle pratiche religiose, la presenza nelle vicinanze del Tempio di cambiavalute e mercanti di bestiame.
La parola qui usata (hieròn) indica il recinto sacro, esterno al Tempio vero e pro-prio e comprendente il cosiddetto «cortile dei pagani», dove era consentito l’ingresso an-che ai non israeliti.
Sembra quindi eccessiva la severità di Gesù, oltre che inconsueta ri-spetto al comportamento mite che la tradizione gli attribuisce.
Tuttavia nulla è casuale o fuori luogo nel Vangelo di Giovanni.
Il gesto di Gesù è chia-ramente simbolico, che non vuol dire romanzato o fantasioso, ma al contrario, l’atto spet-tacolare rinvia a significati profondi e ricchi di conseguenze per la vita della comunità.
Ge-sù si inserisce nella tradizione profetica e ne riprende linguaggio e atteggiamenti; il suo scopo non è scardinare il culto israelitico, ma riportarlo alla purezza originaria, impedire che l’osservanza esteriore di pratiche abituali scada nella superstizione e nel formalismo.
Le sue parole sono una citazione quasi letterale di passi dell’Antico Testamento (cf.
Zac 14,21; Sal 69,10; Ger 7,11).
Alcuni commentatori notano una sottile intenzione sociale, nella linea del profeta Amos: mentre rovescia i banchi dei cambiavalute e caccia il bestiame grosso, Gesù si mostra più paziente verso i venditori di colombe, animali offerti in sacrifi-cio dai poveri.
Notare il possessivo: «la casa del Padre mio», indizio di un rapporto unico di figliolanza tra Gesù e il Padre.
v.
17: Il versetto è il commento posteriore dell’evangelista, il ricordo interpretante che a posteriori, alla luce della Pasqua e sulla falsariga della rilettura dell’Antico Testamento, spiega il senso dell’evento.
Sono commenti tipici di Giovanni (cf.
v.
22): anche nei Sinottici è sottolineata la comprensione post-pasquale dei gesti e delle parole di Gesù, che solo alla luce della risurrezione rivelano il loro pieno significato; qui c’è in più la riflessione coscien-te, la consapevolezza che la distanza temporale dall’evento ha peso per l’ermeneutica e consente una comprensione progressiva della rivelazione.
Nella citazione del Sal 69,10 il verbo è cambiato dal presente «divora» al futuro «di-vorerà», per esplicitarne il valore di annuncio profetico della Passione.
vv.
18-21: I giudei rispondono, non tanto alle parole quanto ai gesti di Gesù.
Presen-tati da Giovanni come gli avversari di Gesù, essi tuttavia hanno ben capito che il suo com-portamento ricalca quello dei profeti, perciò gli chiedono un «segno» che ne attesti l’autori-tà.
Gesù, come spesso avviene in Giovanni, risponde in forma enigmatica.
Non rifiuta di dare il segno, ma invece di ricorrere a un prodigio come si aspettavano i giudei, propone loro una sfida che può essere letta su due livelli di senso, e che lascia quindi gli avversari davanti alla scelta tra la fede e l’incredulità.
L’imperativo «distruggete» sta per un condi-zionale, come in molti oracoli profetici; Gesù gioca sul doppio senso tra il Tempio di pietre e il Tempio del suo corpo, e lascia intendere sia il nuovo Tempio dell’era messianica, sia la sua risurrezione.
La parola usata nel v.
19 non è la stessa dei vv.
14-15; naòs è la costruzio-ne al centro del Tempio, con il Santo dei Santi, il luogo in cui abita Dio.
I giudei si fermano al primo livello, quello immediato: manca loro la fede necessaria a operare il salto di senso, per giungere al secondo livello, la spiegazione dell’evangelista nel v.
21.
v.
22: Anche i discepoli però non capiscono tutto subito: Giovanni sottolinea che solo dopo hanno capito il compimento della Scrittura.
vv.
23-25: II sommario storico distingue i diversi livelli della fede.
Molti credettero ve-dendo i segni: è già un primo passo rispetto all’incredulità dei giudei, ma non è ancora la fede autentica.
Per questo Gesù non si fida pienamente: sa che non tutti reggeranno alla prova della Passione e della morte e che non tutti sapranno leggere le Scritture.
La sua ve-nuta è anche per il giudizio, nel senso inteso qui: per svelare ciò che sta nel cuore degli uomini e porli davanti alla scelta fondamentale e sincera.
Meditazione Attraverso le dieci parole dell’alleanza, pronunciate da Dio sul Sinai (Es 20,1-17), al popo-lo di Israele era stato donato un cammino di libertà per raggiungere una pienezza di vita nell’umile servizio all’unico Signore.
La Legge diventava così un luogo privilegiato di in-contro e di comunione con Dio.
Ma per Israele in cammino verso la terra della promessa vi era un altro luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: la tenda, segno di un Dio che scende incontro all’uomo, cammina con lui, lo accompagna, lo guida.
La pretesa di Davide di costruire una dimora stabile per il Signore, aveva trovato resistenze in Dio stes-so che, per mezzo del profeta Natan, aveva risposto al re: «Il Signore ti annuncia che farà a te una casa» (2Sam 7,11).
Dio non abita in un luogo fatto con pietre ma in una casa di carne viva, di cui egli stesso è garante della sua perennità.
Nonostante questo, Dio accettò un tempio costruito dalle mani d’uomo, luogo di unità e di identità per Israele, ma allargando nello stesso tempo i suoi confini: secondo l’annuncio dei profeti, esso doveva diventare re-altà simbolica dell’incontro tra Dio e ogni uomo, «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7, citato in Lc 19,49, Mc 1,17 e Mt 21,13).
La promessa fatta a Davide trova il suo com-pimento in Gesù: in lui, il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr.
Gv 1,14).
In questa prospettiva deve essere compreso il gesto di Gesù al tempio di Gerusa-lemme: esso è un segno che rivela tutta la novità che si compie nella persona di Gesù, so-prattutto in relazione a uno degli aspetti costitutivi dell’esperienza religiosa di Israele, ap-punto il tempio.
In Gesù, tempio non costruito da mani d’uomo, ognuno può incontrare il vero volto di Dio e può invocarlo come Padre.
E possiamo aggiungere che, per il quarto vangelo, l’amore di Dio che ha preso ‘carne’ in Gesù si rivelerà in tutta la sua trasparenza nel momento in cui il Figlio dell’uomo sarà innalzato; lì, volgendo lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr.
Gv 19,37, paradossalmente a quel tempio distrutto a cui fa allusione Gesù in Gv 2,19), ogni uomo potrà incontrare il volto di compassione di Dio, quel roveto ardente che brucia senza consumarsi.
L’annuncio di Cristo crocifisso – ci ricorda Paolo – diventa «per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci…
potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24).
Soffermandoci ora sul testo di Giovanni che riporta la cacciata dei venditori dal tempio (collocato dai sinottici al termine del ministero pubblico di Gesù, dopo l’ingresso in Geru-salemme), possiamo evidenziare alcuni aspetti presenti in questo singolare gesto di Gesù e nelle parole che lo commentano.
E l’attenzione deve essere posta non tanto sull’effetto del-l’azione di Gesù quanto piuttosto sul significato che esso racchiude e che apre alla com-prensione della persona stessa di Gesù.
Certamente, cacciando quei venditori che trasfor-mano la casa di Dio in un mercato (cfr.
2,16), Gesù compie un gesto tipicamente profetico che rimanda a un culto autentico, libero da ogni ipocrisia, un culto che parte dal cuore e si armonizza con la vita: il luogo dove l’uomo incontra Dio non può esser luogo di ingiusti-zia, di abuso, di idolatria.
Tuttavia lo sguardo del profeta va oltre, è puntato al futuro.
Leggendo il gesto di Gesù alla luce di Mal 3,1-4 e di Zc 14,21, non si afferma solo la santità della casa di Dio, ma anche l’autorità di Gesù su quel luogo: è la casa del Padre mio, il luogo di una relazione famigliare e intima.
Gesù è il Figlio che non può permettere che venga violata l’intimità profonda di questo luogo; in Gesù si manifesta lo zelo di cui parla il Sal 69,10 (testo che serve ai discepoli da interpretazione del gesto), lo zelo proprio di un figlio che si sente personalmente coinvolto a difendere il ‘luogo’ del Padre da coloro che ne at-tentato l’integrità, stravolgendone il senso.
Ma il significato di questo gesto subisce un ulteriore approfondimento alla luce delle pa-role che Gesù pronuncia in risposta alla richiesta di un segno da parte dei Giudei (la cui re-azione lascia già intravedere il dramma della passione).
L’icona del tempio assume una nuova luce ed essa emerge dal confronto tra Gesù stesso e il tempio (viene qui usato il termine naos che indica il santuario, la parte più sacra dell’edificio, il luogo simbolico in cui risiede la presenza di Dio).
Possiamo notare che in questo confronto il segno del tempio, come spazio della presenza di Dio e incontro con Lui, rimane; ma vengono sostituite le modalità e il luogo stesso.
Il richiamo alla distruzione e alla ricostruzione di questo tempio orientano a un futuro di novità, a un tempio ‘nuovo’.
Sulle labbra di Gesù questa realtà to-talmente rinnovata diventa una allusione al suo mistero di morte e risurrezione; il tempio distrutto e ricostruito è il corpo stesso di Gesù (cfr.
2,21).
È Gesù vivente il nuovo tempio, il luogo in cui si comunica con il Padre; in Gesù risuscitato dai morti, Dio è definitivamen-te presente agli uomini e gli uomini definitivamente presenti a Dio.
Come nota Léon-Dufour: «il corpo di Gesù, la sua carne, è la dimora della gloria di Dio…
In questo santua-rio, dove il Padre fa abitare il suo nome, si raduneranno tutti gli adoratori e saranno con-sumati nell’unità: tutti parteciperanno alla santità del Tempio, “perché noi verremo a loro e faremo in loro la nostra dimora”».
In questa scena notiamo infine la presenza attiva dei discepoli (presenza che manca nei sinottici), soprattutto attraverso il ricordo, dopo l’evento pasquale, delle parole e dei gesti di Gesù per comprenderne più a fondo il mistero.
In questa ‘memoria ecclesiale’ ci viene rivelata l’icona stupenda della Chiesa come luogo, tempio, in cui si rende presente e si in-contra il Padre rivelato a noi in Cristo.
Non vi è tempio, non vi è chiesa senza la presenza dei credenti.
Il racconto si apre così sul tempo della Chiesa che fa memoria del Cristo cro-cefisso e risorto nella eucaristia, luogo autentico dell’incontro tra Dio e l’uomo, in Gesù.
In questo spazio di comunione, ogni credente viene plasmato a diventare lui stesso tempio di Dio, luogo in cui dimorano, mediante lo Spirito, il Padre e il Figlio.
Come dice sant’Ago-stino: «Vuoi pregare nel tempio? Prega dentro di te; ma cerca prima di essere tempio di Dio, affinché egli possa esaudire chi prega nel suo tempio».
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Breve apologo insegnato dal Vedanta Una vecchia leggenda indù racconta che vi fu un tempo in cui tutti gli uomini erano dèi.
Ma essi abusarono talmente della loro divinità che Brahma, il signore degli dèi, decise di togliere loro il potere divino e di nasconderlo in un posto dove sarebbe stato loro im-possibile ritrovarlo.
Il grande problema fu dunque di trovargli un nascondiglio.
Quando gli dèi minori furono convocati in Consiglio per risolvere il problema, gli pro-posero così: «Seppelliamo la divinità dell’uomo nella terra!» Ma Brahma rispose: «No, non sarà sufficiente, perché l’uomo la scaverà e la troverà…».
Allora gli dèi replicarono: «In questo caso, gettiamo la divinità nel più profondo degli oceani!» Ma Brahma rispose di nuovo: «No! Perché presto o tardi l’uomo esplorerà le pro-fondità di tutti gli oceani, ed è certo che un giorno la troverà e la riporterà in superficie…!».
E gli dèi minori conclusero: «Non sappiamo più dove nasconderla, perché non sembra esistere, sulla terra o nel mare, un posto in cui un giorno l’uomo non possa arrivare…».
Allora Brahma disse: «Ecco quello che faremmo della divinità dell’uomo: la nasconde-remo nel più profondo di se stesso, perché è il solo posto in cui non penserà mai di cerca-re…».
Da allora, l’uomo ha fatto il giro della terra, ha esplorato, scalato, si è immerso e scava-to…
alla ricerca di qualcosa che si trova in lui…
Il segreto del nostro cuore Siamo così tornati al mistero del nostro cuore, che è il centro della nostra vita e identità umana.
È nel cuore che le nostre idee, intuizioni, emozioni e decisioni più profonde hanno la loro sorgente.
Ma è anche nel cuore che spesso ci alieniamo di più da noi stessi.
Sappia-mo poco o nulla del nostro cuore.
Giriamo alla larga, come se ne avessimo paura.
Ciò che è più intimo ci spaventa di più.
Proprio dove siamo più veramente noi stessi, siamo spesso estranei a noi stessi.
È questo il lato doloroso del nostro ‘essere uomini’.
Non riusciamo a conoscere i nostri centri nascosti, e ci capita perfino di vivere e morire senza sapere chi siamo in realtà.
Se ci chiediamo perché pensiamo, sentiamo e agiamo in una data maniera, spesso non sappiamo rispondere, e dimostriamo così che siamo forestieri perfino in casa nostra.
Il mistero della vita spirituale è che Gesù vuole incontrarci nel segreto del nostro cuore, per farci conoscere il suo amore, liberarci dalle nostre paure e farci conoscere la nostra per-sonalità più profonda.
Nel segreto del nostro cuore, perciò, possiamo imparare non solo a conoscere Gesù ma anche, attraverso Gesù, a conoscere noi stessi.
Se ci rifletti su un istan-te, vedrai un’interazione tra l’amore di Dio che ti si rivela e una crescita costante nella co-noscenza che hai di te stesso.
Ogni volta che lasci penetrare l’amore di Dio più profonda-mente nel tuo cuore, perdi un po’ della tua ansietà, e ogni volta impari a conoscerti meglio e brami di essere più conosciuto dal tuo Dio che ti ama.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 75).
Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore.
Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace.
Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio.
Es-so è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non e concesso ai malvagi.
Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto.
Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.
Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce di-scorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella.
Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te.
Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23).
Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.
Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato.
Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te.
Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.
(Imitazione di Cristo).
40 giorni nel deserto Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.
Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire.
Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo.
Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua.
Tu devi tornare nella solitudine”.
L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un conven-to?” “No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.
Angeli smemorati Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato.
Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie.
Le stelle nel firmamento brillavano dando si-gnificato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli i-stintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente.
Po-veri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stel-le ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera! “Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose: “No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso.
Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro.
Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono.
Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e pas-sano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima tro-va l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi era-no … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un signi-ficato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”! Il luogo della lotta: il cuore La vita spirituale procede da un centro intimo, un organo centrale, una radice dell’esse-re umano che la Bibbia chiama “cuore”.
Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della vi-ta psicologica e morale, dunque della vita interiore.
Luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, come di molti altri sentimenti, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: esso designa ciò che per noi è la “persona”, soprattutto la “coscienza” per-sonale.
Luogo intimo nell’uomo ma scrutato e discreto da Dio, esso è il luogo del sorgere della fede, dell’accoglienza della Parola di Dio e dei doni divini: lo Spirito santo (Galati 4,6), l’amore di Dio (Romani 5,5), la pace di Cristo la pace di Cristo (Colossesi 3,15).
Il Cri-sto stesso abita per la fede nel cuore dell’uomo (Efesini 3,17) e dal cuore sale a Dio la rispo-sta umana in forma di amore, preghiera, invocazione (Galati 4,6; Efesini 5,19; Colossesi 3,16; Marco 12,30).
Luogo dell’incontro fra Dio e uomo, il cuore è anche, secondo la Bibbia, la sede di cupidigie e di passioni: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le in-tenzioni cattive» (Marco 7,21-23): così il cuore diviene il luogo della lotta spirituale, del combattimento interiore dove si scontrano le tendenze di peccato e l’azione della grazia di Dio.
Il cuore può indurirsi nel rifiuto di ascoltare e accogliere la Parola di Dio (Matteo 13,15; Atti 28,27), può chiudersi alla compassione (Marco 3,5), può essere incapace di com-prendere e di discernere (Marco 6,52; 8,17-21), può essere doppio, cioè insincero, menzo-gnero (Atti 8,21; Giacomo 1,8; 4,8), nutrire odio e rancore (Levitico 19,17), gelosia e invidia (Giacomo 3,14).
Prima di essere consumato esteriormente, nei gesti e nelle azioni, il pecca-to viene consumato nel cuore (cfr.
Matteo 5,28).
Si tratta allora, di far spazio allo Spirito santo perché Dio possa unificare (Salmo 86,11; Geremia 32,39), purificare (Salmo 51,12), circoncidere (Deuteronomio 10,16; 30,6), rinnovare (Ezechiele 36,26-27), ricreare (Salmo 51,12) il cuore dell’uomo.
Ecco dunque il cuore come luogo della lotta invisibile, luogo do-ve può avvenire la decisione del ritorno a Dio e l’accoglienza della grazia che rende possi-bile tale ritorno, e dove avviene anche la scelta a favore della vita e la rottura con il pecca-to.
(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 142-143).
Un cuore chiuso Ti aspettavo, Signore, ma non sei venuto.
L’attesa è stata lunga, e solo tardi ho capito che non eri entrato perché il cuore non ti aspettava.
Avevi bussato alla porta: «Alzati, amica mia, mia bella e vieni! Perché l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei campi, la stagione del canto è tornata e si sente cantare la tortora.
Aprimi!».
Ma il cuore era chiuso, appiattito su orizzonti terreni.
Ma quando sei finalmente entrato, vincendo la mia sordità, ho capito, Signore, che il cuore si popola di idoli quando tu scompari, e che tu abiti, soltanto, dove ti si lascia entrare.
Se preghi per te soltanto, preghi per il tuo interesse.
S.
Ambrogio (Vittorio PERI, Pregare è dire sì, Elledici-Velar, 2005).

Parte la sperimentazione di Cittadinanza e Costituzione

Portano la data del 4 marzo 2009 le Linee di indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” (vedi il pdf allegato), emanate dal ministro Gelmini in attuazione dell’art.
1 della legge 169/08 che prevedeva l’introduzione di questo nuovo insegnamento.
Per certi aspetti si potrebbe dire che la montagna ha partorito il topolino, dato che la massiccia campagna mediatica promossa su questa integrazione dei curricoli scolastici (l’unica novità su cui si sia registrato un consenso trasversale tra tutte le forze politiche, nell’opinione pubblica e all’interno del mondo della scuola) lasciava intendere una proposta forte per la nuova disciplina; invece le linee di indirizzo deludono un po’ le attese, ma sono coerenti con il dettato della legge 169/08.
In essa infatti si prevedeva di attivare, fin dal corrente anno scolastico 2008-09, «azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale finalizzate all’acquisizione … delle conoscenze e delle competenze relative a “Cittadinanza e Costituzione”».
Accanto ad esse doveva essere inoltre avviata una specifica sperimentazione nazionale.
Sugli organi di informazione invece si era parlato molto di questo nuovo insegnamento soprattutto quale appariva nel primo disegno di legge del 1-8-2008, che prevedeva una nuova «disciplina … oggetto di specifica valutazione».
La proposta era stata poi acquisita nella forma più debole della sperimentazione e sensibilizzazione dal decreto Gelmini, senza però perdere l’iniziale vis educativa, e la prospettiva che si andava delineando era quella di un vera e propria nuova materia scolastica.
L’appuntamento sembra solo rinviato e per ora ci si deve accontentare della fase interlocutoria di sensibilizzazione e sperimentazione che, avviata peraltro a soli tre mesi dalla fine dell’anno scolastico che doveva vederne il decollo, rischia di rimanere solo una pia dichiarazione d’intenti.
Del resto, è nel regolamento del primo ciclo (ormai in dirittura d’arrivo) che troviamo precise indicazioni in materia; e il regolamento andrà in vigore solo col prossimo anno scolastico.
Le Linee di indirizzo propongono quindi un’ampia ricostruzione storica e ideale delle vicende e delle motivazioni che hanno condotto a elaborare l’attuale progetto, chiedendo alle scuole di concorrere a meglio definirne la fisionomia, «in vista di un più maturo assetto ordinamentale della materia».
Dei limiti della vecchia educazione civica sembra superato solo il ridotto carico orario, dato che dalle due ore mensili previste dal Dpr 585/58 si passa a un’ora settimanale; ma per il resto, finché non si avrà una distinta valutazione, sembra difficile immaginare un’incidenza reale per una disciplina non ancora autonoma ma agganciata in forma subordinata all’area storico-geografica o storico-sociale.
È interessante notare lo spazio dedicato dalle Linee di indirizzo alla rafforzata valutazione del comportamento, per sottolineare come entrambe le novità della legge 169/08 intendano rispondere all’esigenza di restituire alla scuola quel compito più globalmente educativo che ultimamente sembrava aver perduto.
Proprio questa attenzione educativa può giustificare l’interesse dello stesso Irc per innovazioni che vanno ad incidere sull’area valoriale dei curricoli scolastici, finora lasciata piuttosto sguarnita e appannaggio quasi esclusivo dell’Idr.
È altresì noto che in Spagna la recente introduzione di un’analoga “Educazione alla cittadinanza” ha suscitato le vivaci proteste della Chiesa cattolica per il sospetto che si voglia fare concorrenza all’Irc attraverso l’insegnamento di una sorta di religione civile nutrita di laicismo ed espressione di uno stato etico.
Un rischio del genere ci sembra da escludere in Italia, non tanto per la diversa provenienza politica della proposta, quanto per la natura dell’insegnamento, che non si ferma alla sola cittadinanza (che presa da sola potrebbe essere equivocamente interpretata come conoscenza e condivisione forzata del sistema etico-giuridico nazionale) ma si arricchisce del fondamentale riferimento alla Costituzione.
Un paragrafo delle Linee di indirizzo è significativamente intitolato “Educare alla cittadinanza secondo Costituzione, in contesti multiculturali”, lasciando intendere che la natura della cittadinanza non possa essere separata dal riferimento fondante alla Costituzione, i cui principi generali sono senz’altro condivisibili e condivisi al di là degli schieramenti ideologici e costituiscono il correttivo di usi strumentali di un concetto unilaterale di cittadinanza (che peraltro va oggi coniugato in prospettiva multiculturale).
La Costituzione è infatti definita «non solo il documento fondativo della democrazia nel nostro Paese, ma anche un “mappa valoriale” utile alla costruzione della propria identità personale, locale, nazionale e umana».
Per ogni ordine e grado di scuola, dall’infanzia alla secondaria di II grado, sono individuati obiettivi di apprendimento e situazioni di compito per la certificazione delle competenze personali.
Queste ultime sono articolate ad ogni livello in quattro distinte aree, che già danno un’idea chiara dei punti di riferimento e dei possibili sviluppi: dignità umana, identità e appartenenza, alterità e relazione, partecipazione.
Spetterà ora alle scuole convalidare o emendare questa proposta per trasformarla in una vera e propria nuova disciplina d’insegnamento.

Marzo

L’ideologia di una guerra santa così come si presenta in alcuni libri dell’Antico Testamento fa trasparire un’evoluzione che è parallela all’evoluzione religiosa della fede ebraica.
Una dottrina della guerra sembra risalire all’epoca della conquista e dell’insediamento in Palestina delle tribù di Israele, raccontate nei Libri di Giosuè e dei Giudici.
Gli ebrei andavano in guerra con il loro dio nazionale Yahweh.
I loro successi militari erano la prova della Sua superiorità rispetto alle altre divinità.
L’esaltazione religiosa della conquista popolare caratterizza questa fase che viene abbandonata con l’affermazione della monarchia e la conseguente creazione di un esercito del Regno.
Questa epoca premonarchica fu indicata come modello dal grande movimento di riforma religiosa di cui furono protagonisti i profeti, e le guerre di Israele furono interpretate come le guerre di Yahweh.
Così, le sconfitte che subiva il popolo ebraico furono messe in relazione al tradimento dell’Alleanza e all’adorazione di divinità straniere.
Il Libro del Deuteronomio contiene una vera codificazione della guerra, soprattutto nel capitolo 20 che è interamente dedicato a questo tema.
Vi si afferma che Yahweh «marcia al fianco di Israele»; è da ciò che il popolo eletto deriva la certezza della propria vittoria (Dt 20,2-4).
2 Quando sarete vicini alla battaglia, il sacerdote si farà avanti, parlerà al popolo 3 e gli dirà: Ascolta, Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai vostri nemici.
Il vostro cuore non venga meno.
Non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, 4 perché il Signore, vostro Dio, cammina con voi, per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi.
La presenza costante di Yahweh al fianco del popolo ebraico è l’aspetto essenziale della guerra santa: i guerrieri non devono mai temere il loro nemico perché Yahweh può intervenire in mille modi, anche miracolosi (Gs 10,11).
Fra le diverse prescrizioni legate alla guerra nell’Antico Testamento suscita stupore la pratica dell’herem che consisteva nel fare voto di distruggere interamente le cose e i beni di determinati nemici, in caso di vittoria (Nm 21,2; Gs 6,21).
Il Deuteronomio indica anche quali sono i popoli per i quali bisogna applicare l’herem (Dt 20,16-18).
20 Allora il popolo lanciò il grido di guerra e si suonarono le trombe.
Come il popolo udì il suono della tromba ed ebbe lanciato un grande grido di guerra, le mura della città crollarono; il popolo allora salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e occuparono la città.
21 Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l’ariete e l’asino.
(Gs 6,20-21).
Alla fine, quando la disfatta dell’ultimo regno di Israele fu consumata, la prospettiva del castigo lasciò spazio alla speranza e all’attesa della grande guerra escatologica: furono i profeti a sviluppare, accanto a una concezione positiva della guerra santa, anche una negativa, in cui le sconfitte erano comprese come un castigo per il popolo ebraico.
Questa nuova interpretazione è legata alla precedente perché, in un caso come nell’altro, Yahweh è presente nella guerra e castiga coloro che si scostano dalla retta via.
L’aspetto tragico del conflitto è presente in tutti i profeti, ma soprattutto in Geremia ed Ezechiele che furono contemporanei alla caduta di Gerusalemme e del suo tempio.
Il culmine di quella tensione conduce, poco per volta, alla prospettiva escatologica.
L’interpretazione della guerra da parte dei profeti sfocia nell’idea del “giorno di Yahweh”, il “giorno del Signore”, quello in cui Dio manifesterà la sua onnipotenza punendo coloro che si sono allontanati da lui (Is 2,10-12).
10 Entra fra le rocce, nasconditi nella polvere, di fronte al terrore che desta il Signore, allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra.
11 L’uomo abbasserà gli occhi superbi, l’alterigia umana si piegherà; sarà esaltato il Signore, lui solo in quel giorno.
12 Poiché il Signore degli eserciti ha un giorno contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza, per abbatterlo; 13 contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce del Basan, 14 contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, 15 contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro fortificato, 16 contro tutte le navi di Tarsis e contro tutte le imbarcazioni di lusso.
17 Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno.
18 Gli idoli spariranno del tutto.
(Is 2,10-18) Un ultimo sviluppo dell’interpretazione della guerra, che ritroviamo solamente in alcuni profeti, sarà la presa di posizione risolutamente pacifista che nega qualsiasi valore alle armi, intravedendo la sopravvivenza di Israele solo nel ritorno alla vera religione (Os 14,2; Is 31,1-3; 22,8-11; 30,15).
1 Guai a quanti scendono in Egitto per cercar aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo di Israele e senza cercare il Signore.
2 Eppure anch’egli è capace di mandare sciagure e non rinnega le sue parole.
Egli si alzerà contro la razza dei malvagi e contro l’aiuto dei malfattori.
(Is 31,1-2) Si tratta di una concezione che ha certamente poco a che fare con il moderno pacifismo, e ancor meno con la non-violenza: qui si afferma sostanzialmente il primato delle qualità spirituali sulla forza materiale, e la piccolezza dei mezzi umani di fronte alla volontà divina.
Con Ezechiele ci si incammina nella direzione della speranza di un ritorno a tempi di pace e all’annuncio di una grande guerra legata alla fine dei tempi.
36 Quando vi avrò purificati da tutte le vostre iniquità, vi farò riabitare le vostre città e le vostre rovine saranno ricostruite.
34 Quella terra desolata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà di nuovo coltivata 35 e si dirà: La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell’Eden, le città rovinate, desolate e sconvolte, ora sono fortificate e abitate.
36 Le nazioni che saranno rimaste attorno a voi sapranno che io, il Signore, ho ricostruito ciò che era distrutto e coltivato di nuovo la terra che era un deserto.
(Ez 36,33-37) Questa tendenza apocalittica proseguirà nei secoli successivi, e troverà il suo pieno sviluppo a partire dal II secolo a.C.
nei testi dell’apocalittica giudaica di cui il Libro di Daniele è un esempio.
Le visioni escatologiche che vi sono contenute sono direttamente legate ai turbamenti sociali e politici di quell’epoca; una delle idee centrali che esse veicolano è l’attesa del Messia: è in questo contesto che nascerà il cristianesimo.
Dopo la caduta del Tempio e la Diaspora il giudaismo ha molto poco considerato il problema della guerra.
La rilettura della Legge e la sua attualizzazione divenne l’occupazione fondamentale dei rabbini e della comunità ebraica e l’impossibilità politica, per duemila anni, di condurre una qualunque forma di guerra portò a una reinterpretazione totale del suo significato.
Con il genocidio perpetuato dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale, un altro personaggio biblico è venuto a imporsi nella coscienza giudaica, quello di Giobbe, l’uomo giusto e innocente che diventa vittima delle peggiori calamità.
Così, confrontandosi con lo sterminio, il giudaismo trova, nella storia biblica, non tanto una risposta alle sue domande, quanto il modello che pone la medesima domanda.
Alcuni pensatori ebrei, come André Neher, hanno così espresso l’interrogativo supremo: «Così come Geremia ebbe il coraggio di identificare in Nabucodonosor un servitore di Dio, allo stesso modo la generazione di Auschwitz avrà lo stesso coraggio di riconoscere in Auschwitz un’aggressione divina?».
La non violenza praticata nel cristianesimo primitivo derivava naturalmente dall’esempio di Gesù e dal comandamento mosaico: «Non uccidere».
L’omicidio era quindi profondamente proibito e ogni omicida era escluso dalla comunità cristiana.
Un simile rifiuto di uccidere era naturalmente incompatibile con il mestiere del soldato e il problema della legittimità del servizio militare dal punto di vista cristiano risale a quest’epoca.
I primi tre secoli della storia della Chiesa si pongono nella prospettiva inaugurata da Cristo stesso: l’ostilità delle autorità alla predicazione cristiana si è perpetuata fino all’editto di Costantino (313) e fu segnata da un’opposizione continua dello stato romano verso la nuova religione, opposizione degenerata spesso in aperta persecuzione.
L’atteggiamento dell’apostolo Paolo fu duplice: da un lato invitava a sottomettersi all’autorità dello stato, nella misura in cui questo partecipava all’ordine del mondo voluto da Dio; dall’altro, lo stato era un fenomeno passeggero al quale non ci si poteva interamente piegare.
La posizione legalista di Paolo si trova espressa in un celebre passo della Lettera ai Romani.
1 Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite.
Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio.
2 Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio.
E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna.
3 I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male.
Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, 4 poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene.
Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male.
(Rm 13,1-4) Il rispetto dell’autorità civile deve essere interpretato come un aspetto dell’atteggiamento generale dei cristiani, che è di rispetto per gli altri; non si tratta di sottomissione cieca al potere.
La legittimità del potere dello stato è solo in funzione della sua capacità di fare il bene.
Paolo, come Gesù, riconosce l’esistenza di un’autorità terrena che non deve essere rovesciata con la violenza e, malgrado le persecuzioni, fu la posizione seguita da tutti i vescovi fino alla conversione di Costantino.
Suvvia, egregi governatori: sarete ancora più egregi presso il popolo se gli immolerete i cristiani.
Orsù, coraggio, tormentateci, torturateci, condannateci, stritolateci: la vostra iniquità è la prova della nostra innocenza! Dio permette che noi soffriamo tutto questo…
Eppure a nulla giova la vostra squisita crudeltà, anzi è un’attrattiva per la nostra religione.
Più siamo mietuti da voi, più cresciamo: il sangue dei cristiani è un seme! (Tertulliano, Apologetico, 50) Anche se l’ostilità anticristiana era generale e periodicamente un editto imperiale scatenava tutte le atrocità contro di essi, si vedono ancora i vescovi e gli apologeti cristiani cantare le lodi dell’imperatore e proclamare la fedeltà dei cristiani alla pace romana.
L’adesione all’impero non poteva essere completa fintanto che questo continuava a celebrare i culti pagani; il giorno in cui l’imperatore si convertì, il cristianesimo da religione perseguitata divenne religione riconosciuta e protetta.
Il legalismo assunse allora un altro aspetto e si assistette all’unione del potere temporale e delle istituzioni religiose.
Fu così che la confusione tra Dio e Cesare, nettamente respinta da Gesù, si trovò personificata nell’imperatore Costantino.
L’alleanza tra Chiesa e stato trasformerà profondamente la prima: il legalismo temperato di Paolo diventerà bramosia di potere, l’eroismo dei martiri sarà sostituito con l’intolleranza e la persecuzione contro i pagani.
L’analisi dei conflitti internazionali mette in evidenza, tra gli altri elementi, anche l’importanza che riveste l’identità culturale dei popoli nella quale si integra l’identità religiosa.
La manifestazione violenta dei sentimenti religiosi diviene a volte uno strumento di lotta contro l’oppressione, la volontà di ritrovare la propria identità.
Lo scatenamento delle passioni comporta grandi pericoli ed è portatore delle peggiori follie omicide.
Ma la dimensione religiosa nella sua essenza, non ha niente a che vedere con questo scatenamento delle passioni, anzi è all’opposto, e non ha niente a che vedere con la guerra.
Religione significa, o dovrebbe significare, “pace”.
Questo è il suo unico oggetto, il messaggio centrale di tutte le religioni a cui bisogna continuamente ritornare.
Questa pace è il vero spazio del religioso, questo è il suo vero campo d’azione anche se è stato a lungo fuorviato (e lo è tuttora) sui campi di battaglia.
La caratteristica dell’ebraismo è lo studio della Torah, del cristianesimo è la fede in Cristo risorto, dell’islam la sottomissione ad Allah, dell’induismo è l’unione con Brahma, del buddismo il Risveglio alla propria natura universale.
In nessun caso si tratta mai di uccidersi.
In questa sede, e nel prossimo mese, cercheremo di evidenziare alcuni elementi centrali nella riflessione sul rapporto tra le religioni e la guerra che permettano di leggere, alla luce della storia e dei testi sacri delle principali religioni, gli eventi contemporanei.
La prima parte è dedicata all’ebraismo e al cristianesimo; il mese prossimo considereremo l’islam, l’induismo e il buddismo.
Il pacifismo della morale evangelica e la non-violenza dei martiri cristiani, pertanto, non sopravvissero a lungo al matrimonio tra Chiesa e stato.
La contraddizione evidente con tutte le violenze commesse nei secoli successivi nel nome di Cristo, non può che stupire chi osserva l’epopea del cristianesimo: conversioni forzate, inquisizione, crociate, guerre di religione costellano la storia dei cristiani la cui missione era proclamare la Buona Novella.
Certamente il cristianesimo non fu la sola religione che si servì della spada come strumento della fede, e la storia dei santi come san Francesco e san Vincenzo de’ Paoli, o il periodo di pace instaurato dalla Chiesa nell’alto Medioevo, stanno lì a ricordarci che il cristianesimo non era sinonimo di distruzione.
Tuttavia la violenza nella storia di questa religione stupisce più delle altre perché si oppone radicalmente all’insegnamento del suo fondatore.
Associata allo stato, la Chiesa fu presa, così, nell’ingranaggio infernale della giustificazione teologica delle azioni commesse dal potere temporale.
Essa stessa divenne la fonte di una nuova violenza, nella sua certezza di essere la sola detentrice di una verità valida per tutta l’umanità.
Ai conflitti tradizionali, si aggiunse la guerra alle divinità pagane e la caccia agli eretici.
Alcuni teologi giunsero fino a elaborare una teoria della “guerra giusta”: il principale promotore di questa fu sant’Agostino.
Egli, formatosi alla più elevata filosofia del suo tempo, dovette misurarsi con la difficoltà di conciliare la guerra con le Sacre Scritture.
Fortemente legato al precetto di “amare i propri nemici”, Agostino considerava l’atto di uccidere, anche solo per difesa, come un peccato; opponeva al regno di questo mondo un Regno spirituale (la Città di Dio), l’unico degno di vera attenzione da parte degli uomini.
Provava una profonda avversione per ogni guerra: Che tutti coloro che riflettono con dolore a questi mali così orribili e così crudeli, riconoscano che la guerra è una calamità; e se qualcuno li accetta o li pensa senza provare dolore morale, la sua sorte è più triste ancora, perché egli ha perduto ogni sentimento umano.
Eppure, al di là del suo pacifismo, Agostino fu costretto a constatare il pericolo reale e concreto rappresentato dalle invasioni barbariche che si apprestavano a distruggere la civiltà romana e le istituzioni della Chiesa (egli morì a Ippona assediata dai Vandali).
Doveva forse consigliare all’insieme dei cristiani di rifiutarsi di prendere le armi? Questa soluzione gli parve impossibile e intraprese quindi la strada della giustificazione della guerra, almeno sotto una certa forma.
Il primo punto della sua dottrina consiste nel distinguere le guerre giuste da quelle ingiuste.
Egli definisce «giuste le guerre che vendicano le ingiustizie quando quel popolo o quello stato a cui la guerra deve essere fatta non ha punito i misfatti dei suoi o non ha restituito ciò che è stato sottratto attraverso le ingiustizie».
Questa affermazione sottintende che, in ogni caso, le guerre difensive debbano essere giustificate.
Il secondo punto consiste nel ritenere la guerra come un mezzo per ottenere la pace; qualsiasi tipo di pace, è da lui così definita: «La pace è la tranquillità nella giustizia».
Questa posizione implica la moderazione nella conduzione della guerra: «Siate dunque pacificatori nella vostra guerra affinché la vostra vittoria conduca coloro che avete vinto a comprendere l’utilità della pace».
Bisogna quindi ricorrere alla guerra solo in caso di grande necessità, come estrema ratio.
La giustificazione della violenza conobbe, in seguito, un successo che Agostino non poteva immaginare.
Grazie a essa le conversioni forzate e gli abusi dell’Inquisizione poterono avvalersi dell’autorità del maestro di Ippona.
Per primo, egli aveva enunciato il famoso principio: Compelle intrare!, cioè “costringili ad entrare!”.
Senza saperlo, Agostino aveva dunque inaugurato per la Chiesa la lunga tradizione del ricorso al braccio secolare contro coloro che voleva punire.
La sua teoria della guerra giusta sarà il fondamento della teoria della guerra per tutto il Medioevo.
Successivamente, il diritto della guerra evolverà nella direzione del diritto generale, senza riferimento diretto alla dottrina cristiana.
Nel XVI secolo il domenicano spagnolo Francesco De Vittoria studierà il problema della guerra a partire dal diritto di ogni nazione, mentre un secolo più tardi, con Grozio, il problema della guerra sarà esaminato sotto l’angolatura del diritto internazionale.
Nel secolo scorso, in occasione delle due guerre mondiali, si è registrata la strenua opposizione dei due pontefici dell’epoca.
Benedetto XV definì la Prima Guerra «la più fosca tragedia della follia umana», mentre Pio XII nel tentativo di scongiurare la Seconda Guerra, così si pronunciava il 24 agosto 1939: «Nulla è perduto con la pace.
Tutto può esserlo con la guerra».
Benché Gesù abbia affermato «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17) la morale evangelica appare spesso ben lontana dalla morale dell’Antico Testamento.
È senza dubbio nel Discorso della Montagna che la morale evangelica raggiunge la più perfetta formulazione.
3 Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
4 Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
5 Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
(Mt 5,3-12) Gesù riprende antichi comandamenti dando loro un nuovo vigore, ricercando lo spirito dietro la lettera: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,21-22).
Gesù non esita a modificare le codificazioni della Legge che appaiono incompatibili con il suo insegnamento: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello» (Mt 5,38-40).
Inoltre, insiste senza sosta sull’amore del prossimo, fino all’estremo dell’amore per i nemici: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,43-44).
Tutte queste parole di Gesù evocano un insegnamento che esalta l’umiltà, la bontà, la pace e che esclude per i suoi seguaci il ricorso alla violenza e alla guerra.
Eppure, altri versetti dei Vangeli mostrano Gesù sotto tutt’altro aspetto.
Anche volendo ignorare alcuni passi di chiara portata apocalittica, ne troviamo altri in aperta contraddizione con la visione delle Beatitudini, come il seguente: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34).
Numerosi cristiani, lungo i secoli, non hanno esitato a servirsi di passaggi come questo dei Vangeli per trasgredire la morale del Discorso della Montagna.
Non bisogna però dimenticare che Gesù si esprime in un contesto sociale di forte agitazione, in cui la violenza politico-religiosa covava sotto la cenere, in cui le antiche profezie erano caricate di valenze distruttrici, e in cui le folle che lo seguivano vedevano in lui essenzialmente un liberatore nazionale.
Gesù, comunque, non esita a scontrarsi con i mercanti del Tempio, con gli scribi e i farisei, con i ricchi e gli ipocriti, con tutti coloro che rifiutano l’amore e la giustizia contenuti nella Legge che pretendono di osservare.
Si mostra anche intransigente con i suoi discepoli: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).
Tuttavia, riletti nella prospettiva dell’epoca, certi passaggi non sono in contraddizione con l’insegnamento fondamentale che Gesù propone e che esclude ogni violenza contro il prossimo.
La conferma di questa lettura sta nella sua accettazione delle sofferenze e della morte, senza cercare alcun ricorso alle armi, ma morendo con parole di perdono nei confronti dei suoi carnefici.
1.
Perché possiamo parlare di “guerra santa” nell’esperienza del popolo ebraico del periodo premonarchico? 2.
Quale differente atteggiamento nei confronti della guerra si riscontra nel Libro di Ezechiele rispetto alla concezione precedente? 3.
Quale Libro dell’Antico Testamento è stato maggiormente considerato nel pensiero ebraico successivamente ad Auschwitz e perché? 4.
Perché possiamo parlare, alla luce dei Vangeli, di “pacifismo cristiano”? 5.
Quando, e che cosa ha determinato nella Chiesa, lo smarrimento di questo ideale? 6.
Quali sono i punti fondamentali della teoria della “guerra giusta” secondo Agostino”?

8 MARZO 2009

E qualche battuta, tra il vero e il faso su di noi, ci farà sorridere di certo.
Eccole: 1.
Qual e’ la differenza fra le donne di 8, 18, 28, 38 e 48 anni? Quelle di 8 anni le si mettono a letto e si racconta loro delle storie; quelle di 18 anni si raccontano loro delle storie e si mettono a letto; quelle di 28 anni non hanno bisogno che si racconti loro delle storie per metterle a letto; quelle di 38 anni vi raccontano delle storie e vi portano a letto; a quelle di 48 bisogna che le raccontiate delle storie per evitare di andarci a letto.
2.
Potremo dire di avere raggiunto la parità tra i sessi quando donne mediocri occuperanno posizioni di responsabilità.
(Francois Giroud) 3.
Cosa vuol dire quando una donna e’ fuori della cucina? Che la catena e’ troppo lunga.
4.
Una donna affascinante e’ l’inferno dell’anima, il purgatorio del portafoglio, ed il paradiso degli occhi.
(Fontenelle) 5.
Una donna e’ come un buon libro: divertente, ispira, istruisce.
Talvolta ci sono troppe parole, ma se la rilegatura e le decorazioni sono belle e’ irresistibile.
Vorrei potermi permettere una biblioteca.
(Marcus Long) 6.
Le donne sarebbero più affascinanti se si potesse cadere fra le loro braccia senza cadere nelle loro mani.
(Ambrose Bierce) 7.
Era così piatta che di reggiseno non aveva la prima, ma la retromarcia.
(Giorgio Faletti) 8.
Quando la donna che t’ama ti loda, non t’insuperbire: loda se stessa.
9.
Se una donna desidera un diadema di diamanti, vi spiegherà che e’ per evitarvi di comperarle un cappello.
(Jerome K.
Jerome) 10 Dopo tanto discorrere resta dubbio se le donne preferiscano essere prese, comprese o sorprese.
(Gesualdo Bufalino) 11.
Le donne non hanno mai niente da dire.
Ma lo sanno dire così bene! (Oscar Wilde).
12.
Le donne sono straordinarie con la loro mania di far dormire gli altri nel modo in cui loro gli rifanno il letto.
(Samuel Beckett) La prima donna italiana a prendere la penna con intenti letterari fu Compiuta Donzella, una musica fiorentina del 1200, di cui ci restano tre sonetti.
Da Compiuta ad oggi, molte grandi donne italiane si sono avvicinate alla scrittura, ognuna per un motivo e con un intento differente.
I risultati sono stati i più disparati.
Nel percorso che presento, vi sono alcune tra le scrittrici italiane più significative, nella speranza che, attraverso le loro vite, spesso difficili, e le loro opere, sia possibile comprendere anche li diversi momenti che ha attraversato, nel tempo, la società italiana.
Senza strombazzature e botti pirotecnici.
Naturalmente, di ognuna indicherò solo il periodo storico, fermandomi agli Anni Settanta, altrimenti… 1347-80 S.
Caterina da Siena 1450 Antonia Pulci Alessandra Macinghi Strozzi Isotta Nogarola Cassandra Fedele Laura Cereta Gaspara Stampa 1450 – 1500 Lucrezia detta Imperia Vittoria Colonna Tullia d’Aragona Chiara Matraini Laura Battiferri Amannati Veronica Franco Isabella di Morra 1530 Olympia Morata 1550 Moderata Fonte Isabella Andreini Lucrezia Marinella 1600 – 1700 Maria Clemente Ruoti Faustina Maratti Zappi Luisa Bergagli fine 1700 Diodata Saluzzo Roero Gaetana Agnesi Eleonora Fonseca Pimentel Cristina Tivulzio Belgioioso 1850 – 1900 Matilde Serao Caterina Percoto Contessa Lara Vittoria Aganoor Pompilj Grazia Deledda Neera Maria Messina 1900 Amalia Guglielminetti Ada Negri Sibilla Aleramo Futurismo: Rosa Rosà Gianna Manzini Anna Banti Neorealismo: Fausta Cialente Alba de Cespedes Elsa Morante SECONDA GUERRA MONDIALE Natalia Ginzburg II° DOPOGUERRA Antonia Pozzi Amelia Rosselli Giulia Niccolai Margherita Guidacci Maria Luisa Spanzani ANNI ’70 Amanda Guiducci Gina Lagorio Dacia Maraini ……….
Invece le annotazioni che seguono sono preziose per coloro che intendono meglio approfondire i loro studi sul contributo femminile nei vari campi del sapere: Indirizzi: A Celebration of Women Writers: Un sito dedicato alle donne scrittrici, con elenchi suddivisi per epoca e per paese.
Interessante per ricerche specialistiche, dato che compaiono nomi di scrittrici provenienti anche dai paesi più piccoli.
African Women’s Bibliographic Database Un database – suddiviso per paese e per zona – specifico sulle donne africane: dalla situazione sociale alla letteratura, agli studi di genere.
American Women History Un database sulla storia delle donne americane: libri, riviste, tesi, con un indice per soggetto.
E-book by Women Writers – University of Virginia Sito dell’Università della Virginia che offre un elenco di donne scrittrici, soprattutto per il periodo 1800-1900.
I libri sono stati riportati in versione html, e possono quindi essere letti direttamente.
Early Modern Women Database Database delle biblioteche dell’Università del Maryland, suddiviso per temi, paesi, e tipi di documenti cercati.
Feminist Science Fiction, Fantasy and Utopia Sito che offre molto materiale sulla fantascienza e sul genere fantasy scritto da donne e da un punto di vista femminista: bibliografia suddivisa in ordine alfabetico, riviste, documentari e film.
Feminist Studies Collections: Women in History Sito della Stanford University (California) molto ricco di materiale sugli Women’s Studies: amplia soprattutto la parte dedicata alla storia delle donne, con link a siti specifici.
Medieval Feminist Index Questo sito offre la possibilità di consultare giornali, libri, articoli, saggi, riviste sulle donne, la sessualità e il genere nel Medio Evo.
Sito serio, collegato alle Università di Notre Dame, Yale, Princeton, Berkley e Toronto.
SOSIG Women and Education Questo sito, che fa parte dello UK Resource Discovery Network, offre una serie di link che si occupano del campo di Women’s and Gender Studies da vari punti di visti: ogni link viene ampliamente descritto e presentato.
WMST-L File Collection Sito contenente molto materiale suddiviso per tema: dai libri alla storia, dalla sessualità al linguaggio.
The World Wide Web Virtual Library Women’s History Reference Offre molti dati interessanti per quanto riguarda gli Women’s Studies: dallle riviste ai link alle università di tutto il mondo che si occupano di questo campo.
Women’s EuroMap Sito del Centro di Women’s Studies di Anversa, Belgio.
Vuole essere una “guida” ai siti di particolare interesse per gli Women’s Studies nella rete.
Si focalizza soprattutto sull’Europa.
Women’s Studies Database Database dell’Università del Maryland: bibliografie, saggi e informazioni utili per i posti di lavoro vacanti nell’area di Women’s Studies.
Women’s studies information sources Sito dell’Università di York (Inghilterra), con un database specifico, una lista di riviste che si occupano di Women’s e Gender Studies e la possibilità di consultare la biblioteca via internet.
Toglimi il pane, se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso(Pablo Neruda) Non si può ancora affermare che la nostra società dia alle donne la possibilità di svolgere contemporaneamente i propri compiti di madri, di mogli e anche di altri lavori.
Questo e’ quello che occorre ancora ottenere e- sinceramente- impegnarsi per onorare la lotta intrapresa dalle donne più di cent’anni fa.
Mi imbarazza, ma ci sono troppe giovani donne che non sanno il perché di questa “memoria”- non festa- quindi un minimo di vicenda bisogna proporla.
E poi desidero offrire due o tre cose che sfuggono a tanti, ma che vale la pena di conoscere, visto che ci possiamo “abbracciare” come umanità in ricerca con Internet.
Nel 1908 Preceduta da una marcia di 15.000 donne nel 1908 per il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’ottenimento del diritto al voto, la prima festa della donna si è svolta il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti d’America.
La sua istituzione internazionale risale al 1910 nel corso della seconda Conferenza dell’Internazionale Socialista svoltasi a Copenaghen nella Folkets Hus (Casa del Popolo) chiamata poi “ungdomshuset”.
Qui più di 100 donne rappresentanti di 17 paesi scelsero di istituire una festa per onorare la lotta femminile per l’ottenimento dell’uguaglianza sociale.
Dal 1912 la festa vuole ricordare anche un grave incendio avvenuto nel 1911 a New York, nella Triangle Shirtwaist Company dove morirono 140 donne in prevalenza italiane ed ebree.
Nel febbraio del 1913 anche le donne russe parteciparono alla loro prima festa con l’intento di dichiarare la loro posizione contro la guerra, ma si ritrovarono a manifestare il 23 febbraio 1917 (l’8 marzo del calendario giuliano) per la morte di circa 2 milioni di soldati russi scomparsi in guerra.
Le proteste continuarono per vari giorni fintanto che lo Zar fu costretto ad abdicare ed il governo dovette concedere il diritto al voto anche alle donne.
Da quell’anno la festa viene celebrata in una data fissa, mentre precedentemente era onorata l’ultima domenica di febbraio.
In Italia, nel secondo dopoguerra, la giornata internazionale della donna fu ripresa e rilanciata dall’UDI (Unione Donne Italiane) associando nel contempo alla data dell’8 marzo l’ormai tradizionale fiore della mimosa.

il digiuno quaresimale

Il digiuno – come il nutrimento – ha una grande importanza nella Bibbia e nelle tradizioni ebraica, cristiana e musulmana, in quanto esprime in modo straordinario la relazione fra corporeità e spiritualità, il rapporto di fede tra la creatura e la bontà e la misericordia di Dio.
Il Creatore onnipotente, che dà il cibo a ogni vivente, chiede all’uomo e alla donna una risposta consapevole, in quanto creati a sua immagine; perciò anche l’assunzione del cibo – come l’astinenza da esso – non sono privi di un profondo senso simbolico e spirituale.
Una veglia in attesa della risurrezione di Nicola Gori Una veglia prolungata nell’attesa della risurrezione: è l’immagine che le comunità cristiane d’Oriente usano per spiegare il significato del digiuno.
Come nella tradizione orientale i monaci vegliavano per tre giorni la salma di un loro confratello defunto, allo stesso modo i fedeli devono praticare il digiuno come attesa della risurrezione della carne.
Ne abbiamo parlato in questa intervista con il gesuita Robert Taft, professore emerito di liturgia orientale al Pontificio Istituto Orientale.
Vi sono caratteristiche comuni tra la tradizione del digiuno nelle diverse Chiese orientali cattoliche e ortodosse? La tradizione del digiuno è la stessa sia nelle Chiese orientali cattoliche sia in quelle ortodosse.
La tradizione ortodossa prescrive che in modo progressivo, cominciando due settimane prima dell’inizio della quaresima, ci si prepari al digiuno.
La prima settimana è chiamata la settimana del digiuno dalla carne: alla fine di essa non si mangia più carne per tutta la quaresima.
La seconda settimana che precede la quaresima è detta dei latticini, perché alla fine della settimana ci si deve astenere dai latticini.
Durante i primi sette giorni della quaresima – detti del grande digiuno – si dovrebbe osservare un’astinenza molto severa.
Bisogna però distinguere un po’ l’usanza monastica da quella dei laici.
Nei monasteri si mangia solo un pasto al giorno, nel pomeriggio, osservando l’astinenza da tutti i cibi proibiti.
Per i laici il digiuno è più vicino a quella che in Occidente si chiama astinenza.
Ci sono indicazioni particolari riguardo alla quantità di cibo consentita? Non c’è una prescrizione specifica per la quantità di quello che si mangia.
Non si possono bere alcolici o mangiare carne o latticini, ma si possono mangiare i cibi permessi in quantità necessaria per nutrirsi.
Questa antica pratica adesso è osservata soprattutto nei monasteri.
È importante ricordare che la liturgia celebrata nei mercoledì e nei venerdì di quaresima è una liturgia pomeridiana, perché nell’antichità anche ricevere la Comunione significava rompere il digiuno.
Digiunare voleva dire non mangiare nulla.
Era un’astinenza totale fino a sera, quando era permesso un pasto.
Come praticavano il digiuno i Padri del deserto? Nelle diverse tradizioni locali dell’ortodossia e delle Chiese cattoliche orientali ci sono usanze differenti.
Lo stesso vale per i Padri del deserto.
In genere, mangiavano soltanto una quantità minima di pane e di acqua.
Era un digiuno quasi permanente.
Siamo peccatori, per questo occorre digiunare per fare penitenza.
Il Vangelo dice metanoèite, che normalmente viene tradotto in “fate penitenza”: non nel senso di fare qualcosa che ci costa sacrificio, perché metanoia vuole dire cambiare mentalità, convertirsi.
Allora questa conversione è sempre in senso escatologico.
Il digiuno, soprattutto in questo periodo, è un tipo di veglia prolungata nell’attesa della venuta del Signore, proprio come nell’antichità si vegliava la salma di un monaco o di una monaca, perché questa era un’espressione liturgica della fede nella risurrezione dei morti.
Questo vuol dire veglia: una vigilia in attesa, nella speranza della risurrezione dei morti.
Tra i fedeli delle comunità orientali la pratica del digiuno è sufficientemente seguita? Normalmente, durante la prima settimana della quaresima e anche la grande settimana – quella che in occidente si chiama la settimana santa – il digiuno più severo è seguito da quasi tutti i fedeli, almeno nell’ortodossia.
Nel cattolicesimo c’è stata una moderazione nella pratica del digiuno nel periodo del dopo Vaticano II.
Nel rito latino la gente non ha sempre compreso a fondo che, nell’intenzione delle riforma post-conciliare, l’idea della moderazione era legata all’invito a fare altre cose importanti nella vita cristiana, cioè dare l’elemosina ai poveri, fare del bene al prossimo, chiedere perdono per le offese.
(©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home] ”Ciò è particolarmente evidente in alcuni momenti fondanti dell’esperienza d’Israele, come è per il digiuno dei quaranta giorni che Mosè compie sul Sinai, prima di ricevere la santa Torah, e con essa l’alleanza di salvezza per il popolo ebraico” ci spiega monsignor Pier Francesco Fumagalli, dottore della Biblioteca Ambrosiana e profondo conoscitore dell’ebraismo (dal 1986 al 1993 è stato segretario della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo, di cui oggi è consultore).
“Anche la regina Ester, nel momento del massimo pericolo per il popolo minacciato di sterminio – aggiunge – digiuna e prega prima di presentarsi a intercedere presso il re Assuero suo sposo.
Nel libro di Giona gli abitanti di Ninive e persino gli animali indicono un digiuno e si coprono di sacco e cenere, per implorare il perdono e allontanare i castighi divini minacciati dal profeta”.
Questo costante collegamento tra misericordia, peccato e salvezza, si è mantenuto e approfondito lungo i millenni nella tradizione ebraica, il cui calendario tuttora comprende il digiuno di Ester (13 di Adar), quello dei primogeniti prima di Pasqua (14 di Nisan) e il solenne digiuno dell’Espiazione o Kippùr (10 di Tishri).
Nella tradizione cristiana il digiuno recepisce sostanzialmente questi medesimi valori dell’ebraismo, anche se lungo i due millenni del cristianesimo – ammette Fumagalli – “dolorose polemiche hanno spesso offuscato la coscienza di questo debito spirituale”.
“Gesù stesso – ricorda in proposito – prima dell’inizio della sua vita pubblica segue un digiuno di quaranta giorni nel deserto, e i cristiani ne seguono l’esempio, secondo la dottrina della imitatio Christi, orientandosi a ricevere il dono della salvezza nella Pasqua di risurrezione, dopo un periodo di quaranta giorni o quaresima”.
La principale differenza – al di là delle varianti normative specifiche – consiste “nel riferimento cristocentrico tipico della fede cristiana, che però paradossalmente diventa anche la radice di ciò che i cristiani possono imparare dalla tradizione religiosa del popolo ebraico di ieri e di oggi”.
In questo rapporto unico che in Cristo lega l’innesto cristiano sulla “santa radice” di Israele “sta tutta la forza e la necessità di riferirsi costantemente all’eredità dei padri e delle madri della fede, da Abramo e Sara fino all’epoca contemporanea”.
Ci sarebbe da chiedersi cosa possono i cristiani imparare dagli ebrei nella pratica del digiuno.
“Innanzitutto – secondo Fumagalli – la fortissima tensione di speranza escatologica e di purificazione dal peccato in vista del dono divino di piena redenzione sostengono la comunità ebraica unita nel digiuno e nella preghiera, come si vede in modo particolarmente solenne e pubblico nel Kippùr”.
Per il cristiano, perciò, “che rischia talora di limitare il proprio orizzonte escatologico a una speranza già totalmente realizzata nella Pasqua di Cristo, con il conseguente impoverimento dell’attesa messianica e dell’impegno verso il futuro salvifico divino, forse il dono maggiore che l’ebreo può offrire in questo campo è l’esempio di un’ardente, inestinguibile sete di perdono e di comunione fraterna”.
(mario ponzi) (©L’Osservatore Romano – 7 marzo 2009) [Index] [Top] [Home]

II Domenica di Quaresima (Anno B).

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La Trasfigurazione del Signore Chiesa dei Santi Giacomo e Giovanni, Milano Nella tradizione cristiana, la Trasfigurazione è sempre stata letta nella chiave del mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo e come mistero centrale anche per la vita dell’uomo, in quanto anticipo di ciò che le energie della risurrezione compiranno nella nostra carne mortale: la nostra divinizzazione.
L’umanità di Gesù è realmente il luogo vivo in cui l’uomo diventa Dio, perché, da quando il Verbo ha preso un corpo, Egli è in relazione umana con il Padre e con tutti gli uomini.
“In lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità” (Col 2,9).
E Paolo aggiunge, nel versetto successivo: “Voi avete in lui parte alla sua pienezza”.
Ormai è abolita la distanza tra la materia e la divinità.
Nel corpo di Cristo, la nostra carne è in comunione con il Signore della vita, senza confusione, ne separazione.
Di ciò che il Verbo ha inaugurato con la sua incarnazione e manifestato a partire dal battesimo con i suoi miracoli, la trasfigurazione fa intravedere la pienezza: il corpo del Signore Gesù è il sacramento che dona la vita di Dio agli uomini.
Nella misura in cui la nostra umanità acconsente ad unirsi all’umanità di Gesù, partecipa della natura divina (cf 2Pt 1,4).
Cristo nelle vesti bianche rigonfie, mosse dallo Spirito, si trova inserito nella tradizionale mandorla blu scura che indica due cose: anzitutto, che Cristo si rivela come Dio dunque è inaccessibile alla nostra mente, il mistero non si può scrutare; secondariamente, che Cristo nella luce del monte Tabor è la vera luce, il vero sole, tanto da oscurare i raggi del sole cosmico.
Le tenebre del mondo, anche quelle che sommergeranno Cristo nella passione, non resistono davanti all’assolutezza della sua luce.
La trasfigurazione, in realtà, è quella degli apostoli, che per un istante hanno ricevuto la grazia di vedere l’umanità del Cristo come un corpo di luce, grazia di contemplare la gloria del Signore nascosta sotto la sua kenosis.
Dopo questa breve irruzione dell’Ottavo Giorno, è alla sua luce che bisogna riprendere la vita quotidiana.
«Per mostrare la trasformazione dei mortali assunti nella tua gloria, o Salvatore, al momento del tuo secondo e tremendo avvento, sul monte Tabor ti sei trasfigurato.
Elia e Mosè parlavano con te; tu chiamasti tre dei tuoi discepoli, ed essi vedendo, o Sovrano, la tua gloria, per il tuo fulgore restarono sbigottiti.
O tu che un tempo su costoro hai fatto brillare la tua luce, illumina le anime nostre».
(Orthros della trasfigurazione nel rito bizantino).
Il Tabor e il Getsemani Quanto più la preghiera diventa preghiera del cuore tanto più si ama e si soffre, si vedono più luce e più tenebre, più grazia e più peccato, più Dio e più umanità.
Quanto più si scende nel profondo del cuore estendendosi di laggiù fino a Dio, tanto più la solitudine parlerà alla solitudine, l’abisso all’abisso, il cuore al cuore.
Laggiù amore e dolore si fondono.
Per due volte Gesù invitò gli amici più cari, Pietro, Giovanni e Giacomo, a condividere la sua preghiera più segreta.
La prima volta li portò sulla vetta del monte Tabor e lassù essi videro il suo volto brillare come il sole e le sue vesti divenire candide come la luce (Mt 17,2).
La seconda volta egli li condusse nel giardino di Getsemani dove essi videro il suo volto angosciato e il sudore fluire come gocce di sangue che cadevano a terra (Lc 22,44).
La preghiera del cuore conduce al Tabor ma anche al Getsemani.
Dopo aver visto Dio nella gloria lo si vedrà anche nel tormento e dopo aver sentito l’abiezione della sua umiliazione si sperimenterà la bellezza della sua trasfigurazione.
(Henri J.M.
NOWEN, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo, Brescia, 1980, 140).
L’immagine tra luce e ombra La nostra cultura sembra affascinata dalla rivelazione.
Tutto deve essere svelato: la vita più intima e i sentimenti più profondi, ma anche i pensieri occasionali e le opinioni inverosimili.
Si è inseguiti da mille documenti sulla privacy ma si è sempre più ossessionati dalla spettacolarizzazione della vita privata.
La passione per la rivelazione è bene espressa nella insistenza sulla luce.
Tutto deve venire alla luce, tutto deve essere illuminato, anche la notte.
Se c’è un fenomeno emergente è proprio quello di una notte «bianca», sempre più illuminata.
L’unico pudore rimasto sembra quello riservato agli interessi privati e poco puliti.
Tutto il resto deve essere svelato e illuminato.
Eppure un eccesso di luce impedisce agli occhi di vedere, non tanto perché si rimane accecati quanto perché non si scorgono più le ombre.
[…] Ma la luce e i riflettori non sono la stessa cosa.
La luce crea le ombre consegnandoci a un gioco quasi infinito di sfumature, dove il visibile si alterna all’invisibile.
I riflettori illuminano le ombre destinandole così a svanire, con la prepotenza di un visibile che ha cacciato l’invisibile.
I media visivi o audiovisivi, nelle svariate forme della fotografia, del cinema, della televisione, proprio come i nostri stessi occhi, appartengono a questa ambiguità, potendosi affidare alla luce o ai riflettori.
Chi li gestisce e li utilizza non dovrebbe mai dimenticare la contraddizione del riflettore che illumina le ombre, distruggendo così proprio ciò a cui è più interessato.
Si è soliti definire la nostra come una società delle immagini.
Ma l’immagine non è ciò che sta di fronte al riflettore.
L’immagine non è quella che viene illuminata con strumenti tecnici più o meno sofisticati.
È piuttosto essa a illuminare.
La vera immagine non è illuminata ma illuminante, non è vista ma consente di vedere anche ciò che non cade direttamente sotto gli occhi o sotto i riflettori.
L’immagine è la luce che sa farsi assente nell’ombra che proietta, nel buio che rispetta, nella notte che accoglie.
Il pittore non illumina il quadro ma fa luce col quadro, affidandosi alle ombre.
L’immagine è tra la luce e l’ombra.
E la rivelazione di cui parlavamo sopra? La rivelazione non è la luce ma l’immagine, ossia è il gioco tra la luce e l’ombra.
In ogni caso la rivelazione non è il riflettore.
La notte di Betlemme ha accolto la Luce nel mondo.
I riflettori dei potenti non se ne sono accorti, ma l’ombra degli umili ha visto la Luce.
È venuto il momento della risurrezione, ma neppure quello è stato il tempo dei riflettori: solo l’ombra della fede ha visto la risurrezione, ossia la gloria di Dio.
La religione è tutta in questa rivelazione fatta di immagini, concentrata su Colui che è veramente a immagine di Dio.
(Giorgio BONACCORSO, Comunicare la speranza, in E.
AFFINATI et al., Saper sperare.
Racconti e riflessioni sulla speranza, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2006, 123-125).
Una sola tenda Gesù condusse con lui tre suoi discepoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, e si trasfigurò alla loro presenza per cui il suo volto divenne splendente come la viva luce del sole.
Erano dunque essi quei tali che erano presenti e che non avrebbero visto la morte prima di vedere il Signore nel suo regno.
Alla fine del mondo però tutti avranno lo splendore che il Signore mostrò in se stesso.
Le sue membra risplenderanno come risplendette il capo.
Sta scritto: Trasformerà il nostro misero corpo e lo renderà simile al suo corpo glorioso (Fil 3,21).
Ecco, egli sul monte rifulse come il sole (Mt 17,2), ma non era ancora risorto.
Non era ancora morto ma pur nella carne era Dio e con la carne non ancora risorta, grazie al potere divino, compiva le azioni che voleva.
[…] Apparvero poi Mosè ed Elia, si misero ai fianchi del Signore e conversavano con lui.
San Pietro provava gioia in quella solitudine, era stanco della turbolenza del genere umano.
Vedeva il monte, vedeva il Signore, Mosè ed Elia.
Erano lassù solo coloro che erano a lui simili nell’aspetto.
Godeva di vivere quieto senza preoccupazioni, e felice, disse al Signore: Signore, è bello per noi starcene qui.
Perché dovremmo scendere dal monte in mezzo alle preoccupazioni e non preferiamo restare qui nella gioia? È bello per noi starcene qui.
Se vuoi, facciamo tre tende: una per te, una per Mosè, una per Elia.
Pietro, non sapendo ancora come doveva parlare, voleva fare una separazione.
Credeva fosse bene ciò che diceva.
Ma che cosa fece il Signore? Fece scendere una nuvola dal cielo e ricoprì tutti, come se volesse dire a Pietro: «Perché vuoi fare tre tende? Eccone una sola».
Allora udirono una voce dalla nube: Questo è il mio Figlio diletto, perché non paragonassero a lui Mosè e Elia e credessero che il Signore fosse da ritenersi come uno dei profeti, mentre era il Signore dei profeti: Questo è il mio Figlio, ascoltatelo.
All’udire questa voce i discepoli caddero bocconi.
Ma il Signore si avvicinò, li rialzò ed essi non videro altro che il solo Gesù.
(AGOSTINO, Discorso 79/A, 1-2, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp.
576-578) Riconoscere Cristo Nella Bibbia ci sono pagine molto belle sulla realtà del fatto che non si può vedere Dio in volto perché si morirebbe subito, si conoscerebbe la verità, e per l’uomo la conoscenza improvvisa e totale di tutta la verità significa la morte.
C’è un passo meraviglioso, in cui Dio asseconda la richiesta di Mosè di mostrarsi e si fa vedere da lui, ma solo di spalle.
Mosè è probabilmente il patriarca, il profeta che incontra più da vicino Dio, quello col quale Lui dimostra la maggiore intimità.
Stanno insieme a lungo sul monte Sinai, al momento della consegna delle tavole della legge.
Dio vuole compiacere Mosè quanto possibile, ma non si può mostrare che di spalle, per non uccidere il suo amico.
La realtà di Dio è che si nasconde, anche nella natura.
Quando si rivela e si proclama non dice: “Io ho la verità”, ma: “Io sono la verità”, che significa tutt’altro.
Spesso è l’uomo che si rifiuta di riconoscerlo, come Ponzio Pilato, che si volta dall’altra parte, e questa è la sua vera colpa: aver incontrato Cristo e non averlo voluto riconoscere.
(Piegiorgio ODIFFREDI – Sergio VALZANI, La via lattea, Longanesi, Milano, 2008, 44-45).
Ancora e sempre sul monte di luce Cristo ci guidi perché comprendiamo il suo mistero di Dio e di uomo, umanità che si apre al divino.
Ora sappiamo che è il figlio diletto in cui Dio Padre si è compiaciuto; ancor risuona la voce: «Ascoltatelo», perché egli solo ha parole di vita.
In lui soltanto l’umana natura trasfigurata è in presenza divina, in lui già ora son giunti a pienezza giorni e millenni, e legge e profeti.
Andiamo dunque al monte di luce, liberi andiamo da ogni possesso; solo dal monte possiamo diffondere luce e speranza per ogni fratello.
Al Padre, al Figlio, allo Spirito santo gloria cantiamo esultanti per sempre: cantiamo lode perché questo è il tempo in cui fiorisce la luce del mondo.
(D.
M.
Turoldo) Lectio – Anno B Prima lettura: Genesi 22,1-2.9.10-13.15-18 In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò».
Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio.
L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce».
Il libro della Genesi si divide in due parti; la prima (1-11) contiene la rivelazione sulle origini del mondo e dell’umanità; la seconda (12-50) contiene le storie dei Patriarchi.
Il brano della lettura fa parte della storia di Abramo e racconta il sacrificio del suo figlio Isacco.
Aspetti di esegesi Il racconto riguarda Abramo e Isacco; esso sottolinea l’obbedienza di Abramo a Dio, pone al centro la costruzione dell’altare e ritorna a lodare la disponibilità di Abramo ad eseguire il sacrificio del proprio figlio per aderire a Dio, essergli unito e gradito.
Il testo biblico riferisce anzitutto il comando di Dio al Patriarca: «In quei giorni, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gn 22,1-2).
Abramo esegue il volere divino.
«Così arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato; qui Abramo costruì l’altare, collocò la legna.
Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio.
Ma l’angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: «Abramo, Abramo!».
Rispose: «Eccomi!».
L’angelo disse: «Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli niente! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unigenito».
Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete, impigliato con le corna in un cespuglio.
Abramo andò a prendere l’ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio» (Gn 22,9-13).
La descrizione del pellegrinaggio del patriarca con il figlio Isacco verso il monte del sacrificio è un capolavoro narrativo che non è compreso nella lettura (Gn 22,3-8).
L’interesse di questo racconto è concentrato sull’atteggiamento di Abramo in rapporto a Dio e in rapporto a Isacco.
Per Abramo il comando divino è incomprensibile: il figlio a lui donato da Dio stesso, l’unico che può condurre a quella posterità che è stata promessa, deve venire restituito a Dio in sacrificio.
All’inizio della sua storia ad Abramo era stato chiesto di separarsi dal suo passato (Gn 12,1), ora gli viene chiesto di rinunciare al futuro, all’avvenire, privandosi della discendenza.
È la prova che Dio fa di Abramo per sondarne la fiducia e la fedeltà.
Viene poi la costruzione dell’altare e la disposizione al compimento dell’immolazione, impedita dall’angelo di Dio.
«L’angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: «Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non hai risparmiato tuo figlio, il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici.
Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce» (Gv 22,15-18).
Nel seguito della Scrittura Abramo viene più volte esaltato per questo evento.
I libri sapienziali lodano la sua forza d’animo e la sua fedeltà: «La sapienza riconobbe il giusto e lo conservò davanti a Dio senza macchia e lo mantenne forte nonostante la tenerezza per il suo figlio» (Sap 10,5).
«Abramo nella prova fu trovato fedele» (Si 44,20).
La disponibilità a donare il proprio figlio valse ad Abramo l’imputazione della giustizia: «Abramo nostro padre non fu forse giustificato per le opere quando offrì Isacco suo figlio sull’altare?» (Gc 1,21).
L’epistola agli Ebrei interpreta l’episodio come simbolo di risurrezione: «Per fede Abramo messo alla prova offrì Isacco e proprio lui che aveva ricevuto la promessa offrì il suo unico figlio del quale era stato detto: in Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome.
Egli pensava infatti che Dio è capace di fare risorgere anche dai morti; per questo lo riebbe e fu come un simbolo» (Eb 11,17-19).
In tutto il dramma delle prove di Abramo il culmine del valore si concentra nella fede di lui che lo rende disponibile ad immolare il proprio figlio Isacco per obbedienza a Dio.
La parola che gli viene rivolta come elogio a fondamento della benedizione divina: «Non hai risparmiato il tuo figlio, il tuo unico figlio per me» (Gv 22,16) prefigura la rivelazione che san Paolo da di Dio Padre in ordine alla nostra salvezza: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32).
Seconda lettura: Romani 8,31-34 Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! La lettera ai Romani tra il prologo (1,1-15) e l’epilogo (15,14-16,27) si divide in due parti; la prima, dottrinale, svolge l’insegnamento sulla salvezza per mezzo della fede (1,16-11,36); la seconda esorta alla coerenza della vita con l’insegnamento impartito (12,1-15,13).
Il testo della lettura si trova al termine del capitolo ottavo nel quale l’apostolo delinea la vita nello Spirito.
Aspetti di esegesi «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui? Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!» (Rm 8.31b-34).
L’insieme è un inno di fiducia.
Inizia con: «Fratelli, se Dio è per noi, chi sarà contro di noi»; significa: dopo tutti i motivi di speranza che abbiamo addotto fin qui, quale conclusione dobbiamo trarre? La conclusione è che non abbiamo nulla da temere, poiché Dio è con noi e perciò nessuno può nuocerci realmente.
Dio ha dato il proprio Figlio per noi, e il suo Figlio si è consegnato per noi alla morte; avendoci dato il suo Figlio, non solo il Padre è disposto a darci ogni cosa, come chi avendo dato il più può dare il meno, ma con lui e in lui ha già dato tutto.
L’apostolo compie un ultimo sforzo per allontanare da noi ogni timore con una serie di domande.
Su queste non vi è interpretazione unanime tra gli studiosi.
Infatti vi sono vari modi di separare e punteggiare le frasi; il ritmo di questi versetti è discusso.
La frase finale offre il centro della nostra fede: «Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi!»; sono le prove dell’amore di Cristo per noi; morì per giustificarci, risuscitò per associarci alla sua gloria, sta alla destra di Dio per associarci a questa sua condizione, continua a intercedere per noi come sommo sacerdote.
Tale è l’efficacia della sua carità verso di noi.
La fedeltà di Dio nei confronti di Abramo annunciata nella prima lettura è qui pienamente proclamata.
Vangelo: Marco 9,2-10 In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche.
E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.
Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati.
Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!».
E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti.
Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Esegesi Il vangelo di Marco, dopo l’inizio, che descrive la preparazione del ministero di Gesù (1,1-13), si articola in quattro parti; la prima presenta il ministero di Gesù in Galilea (1.14-7,23), la seconda descrive i viaggi di Gesù fuori dalla Galilea (7,24-10,52); la terza descrive il ministero di Gesù a Gerusalemme (11,1-13,37), la quarta contiene il racconto della passione e delle apparizioni pasquali del Risorto (14,1-16,20).
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, dopo il secondo racconto della moltiplicazione del pane e la professione di fede di Pietro.
È la rivelazione della trasfigurazione del Signore.
Aspetti di esegesi Questa pericope, nel secondo vangelo, è un momento culminante della rivelazione su Gesù.
Poco prima egli, che è stato dichiarato Cristo, cioè Messia da Pietro nella confessione di Cesarea (9,29), e ha risposto a tale dichiarazione dando il primo annuncio della sua passione, cioè mostrando che il suo modo di essere messia consiste nella sofferenza, nella morte e nella risurrezione, ora nella trasfigurazione compie una manifestazione della sua dignità trascendente di Figlio di Dio.
Mentre il primo vangelo fa della trasfigurazione una proclamazione di Gesù nuovo Mosè e il terzo vangelo insiste sulla preparazione alla passione vicina, il vangelo di Marco la presenta soprattutto come una epifania gloriosa del Cristo, del messia nascosto; questa scena di gloria, anche se momentanea, manifesta ciò che realmente è e ciò che sarà presto in modo definitivo Gesù che deve sperimentare l’abbassamento e l’umiliazione del servo sofferente.
Gesù sceglie tre dei Dodici: gli stessi scelti per assistere ad altri due momenti importanti: quando il Signore richiama alla vita la figlia di Giairo (Mc 5,37) e nel tempo della preghiera nell’orto degli ulivi prima dell’arresto (Mc 14,33); si tratta di Pietro, che sarà il capo degli apostoli, di Giacomo, il primo dei Dodici che darà la testimonianza del sangue (At 12,2), Giovanni, l’ultimo superstite del gruppo apostolico (Gv 21.23).
Conduce questi tre su un «alto monte», fin dall’antichità identificato con il Tabor, che si erge solitario nella pianura di Galilea (alcuni pensano al monte Hermon); e lì compie il prodigio della trasfigurazione.
La trasfigurazione è una epifania che si produce senza preparazione, all’improvviso, in un istante; Marco la indica con il verbo che significa «metamorfosi», cambiamento non soltanto esterno nelle qualità sensibili, ma nella stessa sostanza, o meglio, un cambiamento in tutte le qualità esterne con rapporto di effetto rispetto alla essenza; il miracolo consiste nel fatto che la persona divina di Gesù in quel momento partecipò la sua gloria alla sua umanità così che questa apparve gloriosa come dopo la risurrezione e la glorificazione.
Gesù rimane identico mostrandosi glorioso.
Lo splendore di Gesù è celeste.
La visione del Cristo trasfigurato lasciava intendere ai tre apostoli la sua identità divina.
I paragoni ingenui e popolari, come il particolare dato da Marco: «nessun lavandaio sulla terra potrebbe rendere le vesti così bianche» mostra la pratica impossibilità di dare una descrizione adeguata del fenomeno avvenuto davanti ai tre testimoni.
«E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (Mc 9,4).
Mosè ed Elia che hanno ricevuto ambedue rivelazioni sul monte Sinai (Es 19,33-34; 1Re 19,9-13) rappresentano uno la legge l’altro i profeti, cioè tutta l’economia religiosa dell’antico Testamento e rendono testimonianza al Figlio di Dio che era venuto a dare perfezione alla legge e compimento alle profezie.
Essi discorrono con Gesù.
Il racconto di Luca dice l’argomento della conversazione, cioè la passione e morte del Signore qualificata come esodo (Lc 9.31).
«Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia».
Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati».
Pietro parla; egli è ancora sotto l’impressione della tristezza provata all’annuncio della passione; qui dichiara la sua felicità di trovarsi in quella esperienza nei confronti di Gesù ed esprime il desiderio di rendere permanente quella condizione proponendo di innalzare tre tende una per Gesù, le altre due per Mosè e per Elia apparsi nella visione in conversazione con il Signore (Mc 9,5-6).
È quasi un tentativo ingenuo di fermare Gesù sul monte nella trasfigurazione per impedirgli di compiere il suo itinerario verso la passione.
«Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (Mc 9,7).
La nuvola luminosa è il segno della presenza e della manifestazione di Dio; la voce di Dio Padre che dichiara: questo è il mio Figlio, rivelando l’identità di Gesù; sono le stesse parole pronunciate nella teofania del battesimo che inaugurava il ministero pubblico del Signore (Mc 1,11); essa ha un prezioso complemento: «ascoltatelo»; egli infatti è il nuovo e definitivo profeta, il perfetto rivelatore del Padre.
La nuvola splendente e la voce dal cielo costituiscono il vertice della manifestazione e rivelazione.
Come la teofania avvenuta nel battesimo di Gesù inaugurava la prima fase del suo ministero, così la teofania della trasfigurazione da inizio, con il sigillo divino, al secondo periodo.
«E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti» (Mc 9,8-10).
Gesù ritorna nel suo aspetto abituale e si avvia verso Gerusalemme ove darà compimento all’opera della redenzione.
L’evento si conclude con la stessa semplicità con cui era iniziato.
I tre testimoni conservano nel loro cuore il ricordo della esperienza cui sono stati chiamati, di cui leggiamo l’eco nella seconda lettera di Pietro: «Infatti, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, non perché siamo andati dietro a favole artificiosamente inventate, ma perché siamo stati testimoni oculari della sua grandezza.
Egli infatti ricevette onore e gloria da dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: “Questi è il Figlio mio, l’amato, nel quale ho posto il mio compiacimento”.
Questa voce noi l’abbiamo udita discendere dal cielo mentre eravamo con lui sul santo monte» (2Pt 1,16-18).
Meditazione Come avviene per ogni cammino, anche per quello quaresimale viene tracciato un itinerario simbolico che comporta alcuni spazi significativi da attraversare o da raggiungere perché quel misterioso viaggio che la liturgia ci fa compiere possa realmente trasformare la nostra vita.
In qualche modo l’itinerario quaresimale obbedisce a una sorta di geografia spirituale: è scandito da alcuni luoghi la cui valenza coinvolge in profondità la nostra vita, collocandola appunto nello spazio dello Spirito.
Abbiamo infatti iniziato il cammino collocandoci con Gesù nel deserto, il luogo della solitudine e della verità, dove sono messi alla prova i nostri desideri più profondi e dove vengono purificati perché si trasformino nei desideri dello Spirito, nei desideri del Figlio.
E, d’altra parte, nella aridità del deserto, abbiamo contemplato proprio il volto del Figlio di Dio nella sua drammatica solidarietà con la fragilità umana.
Il passaggio nel deserto è tuttavia necessario per raggiungere un altro luogo, la città simbolica di Gerusalemme, il luogo del compimento della promessa: solo lì, sul Golgota e di fronte al sepolcro vuoto, potremo contemplare in tutta la sua trasparenza il volto di un Dio che ci ha tanto amati da donare se stesso per riscattarci dalla schiavitù del peccato.
Ma tra il deserto e Gerusalemme c’è ancora un altro luogo che ci viene donato come tappa, in cui, allo stesso tempo, viviamo un momento di riposo e ritroviamo la forza di riprendere il cammino.
Questo luogo è un monte: un luogo appartato ed elevato, dal quale si ha la grazia di raggiungere, con un unico sguardo, quella meta a cui si arriva solo con fatica, passo dopo passo, alla fine del viaggio.
È il monte della trasfigurazione in cui ci viene anticipata la gioia della luce pasquale, in cui possiamo fissare lo sguardo sullo splendore del Padre che si riflette nel volto Figlio amato ed aprirci all’ascolto della sua Parola.
Siamo introdotti a questa esperienza dal racconto dell’evangelista Marco, il quale colloca l’episodio della trasfigurazione quasi al centro della sua narrazione, all’interno di quel cammino verso Gerusalemme che Gesù compie con i suoi discepoli.
È un cammino in cui il discepolo stesso è plasmato dal Maestro ma lungo il quale si rivela anche tutta la fatica della sequela, le resistenze e le paure del discepolo di fronte al destino di Gesù.
Infatti i versetti che ci narrano l’esperienza della trasfigurazione sono collocati subito dopo il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (Mc 8,31) e la reazione di Pietro (dietro la quale è nascosta la subdola logica di satana), in cui il discepolo si ribella a questa prospettiva poco degna di un Messia, cercando di impedire questo assurdo viaggio (8,32-33).
La trasfigurazione diventa allora come un dono, come uno sguardo di speranza su questo faticoso cammino.
È come una ulteriore risposta alla domanda centrale del vangelo di Marco: «Ma voi, chi dite che io sia?» (8,29).
Sul monte viene rivelato al discepolo il volto misterioso di quel Messia che cammina verso Gerusalemme.
Notiamo solo alcuni elementi del racconto.
Anzitutto, paradossalmente, questo racconto deve piuttosto essere ‘contemplato’, visto, per essere veramente ‘ascoltato’.
Marco stesso se ne rende conto: la parola umana non può narrare la gloria di Dio.
Solo il linguaggio della parola stessa di Dio, la sua forza evocativa capace di lasciarci affacciare nel mondo di Dio, può farci intuire qualcosa della doxa, della gloria, che si riflette sul volto di Gesù.
In qualche modo è appropriato il commento alla reazione di Pietro: «non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati» (9,6).
Pietro, Giacomo e Giovanni (i discepoli che ricompaiono anche nel racconto del Getsemani, Mc 14,32-42, episodio con il quale il nostro ha molte somiglianze), sono condotti da Gesù su questo alto monte, in disparte.
E lui che li prende con sé, che fa loro il dono di fermarsi in disparte, nella solitudine del monte.
Non dobbiamo mai dimenticare questo: salire sul monte e stare con Gesù non è qualcosa che può decidere il discepolo, programmarlo fissando al Signore un appuntamento in base ai propri desideri; il discepolo può solamente accogliere quell’invito che gli viene rivolto, nello stupore e nella gioia, e lasciarci condurre per mano.
Ciò che avviene sul monte è una esperienza sconvolgente (e Marco nota che i discepoli erano spaventati) : «fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime» (9,3).
Su questo monte tutto diventa luce, tutto diventa sguardo.
Al centro c’è un volto, il volto di Gesù: e questo volto rivela tutta la sua bellezza.
Marco tenta di descrivere questa luce: non è luce naturale, ma splendore.
È il colore delle realtà celesti ed escatologiche, è la gloria di Dio, il suo mistero che, paradossalmente, si rivela subito dopo in quella «nube che coprì (i discepoli) con la sua ombra» (9,6).
Ma ciò che sorprende nel racconto della trasfigurazione è un altro elemento che entra all’improvviso e orienta la dinamica della scena.
E l’elemento della Parola e l’atteggiamento conseguente dell’ascolto.
Gesù, nella sua trasfigurazione, non è solo: «apparve (ai discepoli) Elia con Mosè e conversavano con Gesù» (9,4).
C’è un dialogo tra Gesù, Mosè ed Elia: queste due figure, simbolo della Legge e dei Profeti, ci ricordano le manifestazioni del Sinai in cui Dio si è rivelato attraverso il dono della sua Parola.
E questi due grandi profeti convergono (conversavano) verso Gesù: in Gesù giungono a compimento le attese, l’alleanza, la Legge.
Gesù è la Parola piena e definitiva di Dio.
Dunque, dal Volto il discepolo è invitato a passare alla Parola.
E questo passaggio si compie attraverso l’invito stesso del Padre che orienta il discepolo all’ascolto: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!» (9,7).
Per il discepolo il passaggio dal Volto alla Parola non è senza resistenze.
La contemplazione appagante di Gesù fa dire a Pietro: «Rabbì, è bello per noi essere qui: facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè, una per Elia» (9,5).
L’allusione alla festa dei Tabernacoli (le tre capanne), colorata nel giudaismo post-esilico di forte messianismo, innesta nella proposta di Pietro una pretesa: quella di anticipare il compimento post-pasquale e di fissarlo.
E in fondo la tentazione di localizzare il mistero, prolungare l’istante benedetto e fissare per sempre la storia.
Ma è anche la pretesa di costruire una dimora per Dio, una dimora in cui poter abitare assieme a questo Gesù e vedere ormai tutto alla sua luce, senza più la fatica di proseguire un cammino così incerto e duro.
Ancora una volta emerge nel discepolo la protesta contro quell’annuncio così assurdo che Gesù ripeterà subito dopo (Mc 9,30-32).
Proprio nella parola del Figlio, l’amato, quel Figlio che Dio dona all’uomo (e qui è chiara l’allusione alla richiesta di Dio ad Abramo narrata in Gen 22,1-18, la prima lettura della liturgia), è possibile fare sempre questa esperienza di trasfigurazione, sempre scoprire il volto di Gesù.
Al discepolo è richiesto di riprendere il cammino con questa Parola da seguire e da ascoltare.
Il discepolo non è solo lungo la via che conduce a Gerusalemme.
Marco nota alla fine dell’episodio: «guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro» (9,8).
Con il discepolo c’è ancora Gesù; lui lo ha condotto sul monte e lui lo fa discendere continuando a camminare assieme, per guidarlo a quella meta che è anche la sua.
Il discepolo non ha nulla da temere in questo cammino.
Può far sue le parole di Paolo: «Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31).
Veramente, alla luce del volto di Gesù e nell’ascolto della sua parola, anche il nostro volto e quello dei nostri fratelli diventano belli; anche la nostra vita, gli eventi che la compongono, anche quelli più difficili da accogliere, le nostre contraddizioni e le nostre fatiche, le cose che amiamo, i desideri più nascosti, tutto può diventare luminoso e trasfigurato: le ombre non scompaiono, ci sono, ma non spaventano più perché lo sguardo riesce a raggiungere la meta.
Veramente quel volto di luce ha la forza di illuminare ogni realtà.

la mostra “Nigra sum sed formosa”

Per gli storici dell’arte la regina di Saba è la donna bellissima che, accompagnata dalle sue ancelle e dai suoi scudieri, si inginocchia come in trance, presa da premonizione, di fronte al legno del ponte sul fiume Siloe, legno destinato a diventare un giorno la croce di Cristo.
Ed è la regale ospite desiderata e a lungo attesa accolta da re Salomone in una reggia che assomiglia al tempio dell’Alberti a Rimini o al palazzo di Luciano Laurana e di Francesco di Giorgio a Urbino.
Sto parlando, naturalmente, del ciclo affrescato da Piero della Francesca ad Arezzo.
Per Jacopo da Varagine che inventò la storia affascinante e piena di colpi di scena della scomparsa e agnizione della Croce di Cristo (vero e proprio thriller archeologico alla Indiana Jones), per i francescani che quella storia moltiplicarono negli affreschi delle loro chiese a stupore ed edificazione dei credenti, la regina di Saba era importante.
Ed era importante anche per l’iconografo (forse l’umanista Ambrogio Traversari) che suggerì a Lorenzo Ghiberti il celebre pannello della Porta d’Oro nel Battistero fiorentino di San Giovanni, dove si vede l’incontro di Salomone con la regina africana.
Correva l’anno 1439, il Concilio aveva riunito a Firenze i dignitari della Chiesa di Roma e delle Chiese d’Oriente e quella iconografia era una promessa di pacificazione fra i cristiani.
La regina di Saba era ed è ancora importante, in maniera del tutto speciale, per la gente d’Etiopia.
La storia era conosciuta in Occidente e soprattutto a Venezia fino dal Medioevo.
Lassù, fra le montagne e gli altopiani dell’Africa più remota e inaccessibile, circondato dall’Islam, c’era un popolo cristiano che praticava la fede degli apostoli.
Non solo, c’era un re che aveva per emblema il leone di Giuda e che diceva di discendere dal seme di Salomone.
Il cristianesimo etiope è un sontuoso ieratico relitto che si è conservato immune da influssi culturali esterni e da ogni contaminazione.
Il sovrano d’Etiopia, il negus neghesti (re dei re) è stato fino a ieri, fino all’ultimo imperatore Hailé Selassié, l’autocrate dei credenti e il custode di una leggendaria ortodossia giudaico cristiana.
Tutta la civiltà religiosa letteraria e artistica dell’Etiopia ha nella regina di Saba la sua pietra angolare.
Il poema epico nazionale, il Kebra Negast (la gloria dei re) databile all’inizio del xiv secolo, racconta che re Salomone e la regina di Saba si amarono, che dalla loro unione nacque una regale discendenza, che la sapienza giudaica e l’Arca dell’Alleanza, al sicuro dagli infedeli musulmani e dagli eretici cristiani, riposano sugli altopiani d’Etiopia, protette dalla spada e dalla lancia del Negus.
Molto antica e molto nobile è la civiltà letteraria e artistica dell’Etiopia cristiana, affascinante nella produzione artigianale a destinazione religiosa – argenti, icone, codici miniati – nei monasteri ancestrali, nelle città sante che replicano i luoghi di Gerusalemme, come la mirabile Lâlibalâ che porta il nome del sovrano che la edificò fra xii e xiii secolo.
Ancora sorprende e imbarazza che gli italiani, negli anni Trenta del secolo scorso, abbiano potuto umiliare e devastare tutto questo con una feroce e stolida guerra coloniale di cui oggi non possiamo che vergognarci.
Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano.
Conviene quindi chiuderlo subito.
Consola invece sapere che alla regina di Saba e alla civiltà etiopica gli italiani di oggi dedicano una mostra.
Curatori sono Giuseppe Barbieri dell’ateneo Veneziano, Gianfranco Fiaccadori della Statale di Milano, l’architetto Mario Di Salvo.
Con loro ha lavorato un folto e prestigiosissimo comitato scientifico internazionale all’interno del quale spicca il nome di Stanislaw Chojncki patriarca dei moderni studi sull’arte etiopica.
Perché un’impresa scientifica ed espositiva così impegnativa e così inusuale è stata concepita a Venezia? Perché Venezia, fra tutte le nazioni dell’antica Europa, è stata quella che ha mantenuto i maggiori e più fruttuosi rapporti con il regno d’Etiopia e che più di ogni altra ha influito nella sua storia artistica.
Si chiamava Nicolò Brancaleon il pittore veneziano che giunse in Etiopia circa l’anno 1481.
Si firmava in latino in icone arrivate fino a noi, fondò una scuola pittorica che ebbe seguito e fortuna fino al XVIii secolo.
Gli ambasciatori portoghesi che lo incontrarono nel 1520 parlano di lui come di un uomo che abitava in Etiopia da circa quarant’anni, che parlava perfettamente la lingua della nuova patria dove amava farsi chiamare Mercurio, e che era diventato ricco, potente, onorato.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Mercoledì 4 è stata presentata in Vaticano la mostra “Nigra sum sed formosa” che sarà aperta dal 13 marzo al 10 maggio all’università Ca’ Foscari di Venezia.
Pubblichiamo l’intervento del direttore dei Musei Vaticani.
“Nigra sum sed formosa”, il versetto celebre del Cantico dei Cantici, è il titolo di questa mostra coltissima e raffinata che subito chiarisce nel sottotitolo il suo obiettivo: “Sacro e Bellezza nell’Etiopia Cristiana”.
Che la sposa del Cantico dei Cantici sia figura della Chiesa o mistico emblema della Vergine Maria – come hanno pensato e scritto gli antichi esegeti cristiani – o che, più realisticamente, sia la bellissima regina africana che va incontro all’amato re Salomone, protagonista della mostra è lei, Saba; la regina che è venuta dalle profondità dell’Africa, che ha incontrato la Legge, ha profetizzato l’Incarnazione, ha dato gloria e splendore alla nazione etiopica.

don Enzo di Nomadelfia

La formazione In realtà, il nome di battesimo di don Enzo era Luigi.
Ma don Zeno glielo cambiò in ricordo di un giovane seminarista ucciso dai nazifascisti.
Da allora per tutti è stato solo don Enzo.
Luigi Bertè – questo il suo cognome all’anagrafe – nasce il 3 aprile 1913 a Ponte dell’Olio, in diocesi e provincia di Piacenza.
A 3 anni e mezzo rimane orfano di madre.
Il padre – un operaio con idee socialiste – si sposa una seconda volta per dare una madre ai figli: don Enzo ricorderà la fatica nell’accettare la nuova figura materna, ma proprio questa esperienza lo renderà sensibile alla proposta di don Zeno.
La famiglia è povera e il padre non può permettersi di pagare neppure la retta minima del seminario di Piacenza.
I superiori del seminario riescono a farlo entrare nel Collegio Alberoni della città, a tutto provvede il lascito del fondatore dell’Istituto.
Per rendersi conto del prestigio dell’istituzione basti ricordare che allievi del Collegio e suoi compagni di studio sono i futuri cardinali Casaroli, Oddi, Samorè, Tonini.
Ordinato sacerdote il 13 marzo 1937, Luigi viene inviato come cappellano nella parrocchia di Morfasso (Piacenza), in una comunità con una forte tradizione e sensibilità cristiana, assecondata dallo zelo pastorale di un parroco energico, don Erminio Squeri.
L’incontro Il parroco – che invitava nella sua parrocchia vari sacerdoti per ritiri, tridui, ecc.
– nel maggio del 1942 invita anche don Zeno Saltini.
All’inizio il giovane Luigi, formato al Collegio Alberoni, è urtato dal modo di fare del prete carpigiano.
Pensa che sia stato un errore invitarlo.
Ma quando, più per dovere di coscienza, che per convinzione va ad ascoltare il primo discorso fatto ai giovani, ne rimane conquistato.
E cerca di parlare personalmente con don Zeno.
Il parroco, che ha intuito il desiderio del suo collaboratore, cerca di evitarlo, ma nell’ultimo giorno di permanenza, don Zeno e don Luigi parlarono per undici ore, dalle sei di sera alle cinque del mattino.
L’incontro lo sconvolge, tanto che don Luigi vorrebbe seguire don Zeno, il quale però lo invita a una maggiore riflessione.
Durante il viaggio di ritorno da Piacenza don Zeno gli scrive: “Carissimo, ho sempre presente la nostra notturna conversazione.
Se il Signore ti chiama, non dormirci sopra.
Se nell’eroico cammino qualche Piccolo Apostolo cade, diserta o tradisce, gli altri, nel nome di Gesù proseguono.
Ho sempre notato che il vacillare in questa chiamata tra le miserie più misere della vita moderna, è un cadere.
Tutti quelli che sono entrati nell’orbita del nostro apostolato, sono stati chiamati decisamente e hanno fatto strappi violenti.
Tra i Piccoli Apostoli di vocazione e gli altri, c’è in comune uno schianto…
Vittime i primi dell’Amore, vittime gli altri dell’abbandono; ma tutti vinti, atterrati, risorti.
Addio, oppure arrivederci nella nuova vita, condivisa tra lacrime, lotte, vittorie anche”.
Nella diocesi di Carpi Don Enzo ottiene – con grandi difficoltà – l’incardinazione nella diocesi di Carpi e arriva a San Giacomo Roncole il 21 luglio 1942.
È il primo sacerdote che abbraccia definitivamente la causa e l’opera di don Zeno.
Nel febbraio 1943 altri sacerdoti si uniscono a don Zeno e formano l’Unione dei Sacerdoti Piccoli Apostoli.
Dopo l’8 settembre 1943, don Zeno parte con alcuni giovani per attraversare il fronte e su don Enzo ricadono le responsabilità dell’Opera Piccoli Apostoli, diffusa in varie parrocchie del modenese.
In quei mesi don Enzo, oltre a produrre personalmente alcune carte d’identità false per gli ebrei, tiene i collegamenti con i sacerdoti dell’Opera che creano una rete di solidarietà per la resistenza e per i perseguitati.
Tra i sacerdoti basterebbe ricordare don Arrigo Beccari, don Ennio Tardini, don Ivo Silingardi i quali, per essere riusciti a far arrivare in Svizzera un centinaio di ebrei, furono arrestati.
Don Enzo fa centinaia di chilometri in bicicletta per tenere unita l’Opera, per visitare i confratelli imprigionati a Bologna, per evitare i lavori forzati in Germania ai giovani rimasti.
Alla fine dovrà lui stesso nascondersi perché ricercato.
La fame, i sacrifici e i pericoli vissuti in quegli anni gli procurano uno stato di prostrazione fisica che durerà a lungo.
Fino al 1950 don Enzo rimane parroco di San Giacomo Roncole, anche per mantenere aperti i contatti con i creditori, mentre don Zeno e i Piccoli Apostoli si trasferiscono nell’ex campo di concentramento di Fossoli, dove nasce Nomadelfia.
Nel 1950 don Zeno lo invia a Zambla Alta, in provincia di Bergamo, in una casa di Nomadelfia utilizzata come sanatorio per i giovani arrivati in precarie condizioni fisiche a causa della malnutrizione.
Vi rimane fino al 5 febbraio 1953, un anno dopo il decreto del Sant’Uffizio che impose a don Zeno di lasciare Nomadelfia.
Anche don Enzo – come tutti gli altri sacerdoti – dovrà allontanarsi da Nomadelfia e nei mesi successivi si dedicherà ad aiutare don Zeno nella sistemazione di alcune situazioni difficili che si erano venute a creare dopo lo scioglimento.
A Grosseto Nel novembre del 1953 don Zeno ottiene la laicizzazione pro gratia, richiesta allo scopo di poter continuare a seguire Nomadelfia.
Anche don Enzo e altri sacerdoti vorrebbero percorrere questa strada per condividere le sorti dei figli che hanno accolto insieme a don Zeno, ma non è possibile.
Si prospetta allora il tentativo di realizzare una nuova forma diocesana di convivenza e collaborazione fraterna fra sacerdoti, d’accordo con il vescovo di Grosseto, Paolo Galeazzi.
Idea che anticipava e superava le attuali “unità pastorali” perché prevedeva una comunione di beni tra sacerdoti, che erano vissuti in Nomadelfia, ma che tuttavia viene bloccata dall’intervento del Sant’Uffizio.
Il vescovo, viene deciso, può accogliere questi sacerdoti nella sua diocesi, dove c’è scarsità di clero, ma deve tenerli uno lontano dall’altro.
Alcuni sacerdoti ritornano nel modenese, altri rimangono.
A don Enzo viene assegnata una piccola parrocchia povera e abbandonata, Poggi del Sasso, in cui mancava tutto.
Per don Zeno è la parrocchia adatta a un sacerdote di Nomadelfia.
E don Enzo, lontano dalla sua Nomadelfia, vive con il popolo e riesce a far costruire la chiesa e la canonica.
Nel 1962, dopo la “seconda prima messa” di don Zeno, quando cioè gli viene permesso di riprendere il ministero sacerdotale, qualche sacerdote riesce a tornare a Nomadelfia, ma don Enzo dovrà attendere il 13 ottobre 1969, quando il nuovo vescovo, Primo Gasbarri, gli concede di lasciare la parrocchia.
A fianco del fondatore Dal 1969 al 1981 don Enzo è accanto a don Zeno, che lo porta spesso con sé a condividere i tentativi di lanciare progetti per il futuro di Nomadelfia.
Ma don Enzo dovrà anche sostituire don Zeno per lunghi periodi presso le famiglie che vivono a Subiaco e a La Verna.
Non ci sono impegni particolari, date da ricordare: don Enzo lavora nell’ombra, approfondisce.
Ma sta accanto a don Zeno.
Non può essere con don Zeno quando Giovanni Paolo II assiste a una “Serata” di Nomadelfia a Castel Gandolfo il 12 agosto 1980.
È malato come lo è tante volte.
Ma il 15 gennaio 1981, mentre don Zeno sta morendo, con alcuni figli di Nomadelfia incontra, in maniera imprevista e senza preavviso, Giovanni Paolo II e pregano insieme per il fondatore di Nomadelfia.
Il secondo successore di don Zeno Qualche mese dopo la morte di don Zeno, come è previsto, viene eletto il successore: un sacerdote che porti avanti tale difficile eredità.
Il primo successore è il più giovane don Ennio Tardini, un altro dei sacerdoti della prima ora.
Sembra che per don Enzo si aprano i tempi dello studio e della riflessione per trasmettere alle nuove generazioni la genuinità di quanto lo Spirito Santo ha donato alla Chiesa in don Zeno.
Ma don Ennio muore in un incidente stradale il 17 novembre 1984.
La pesante eredità ricade su don Enzo, che nel febbraio 1985 è eletto come secondo successore di don Zeno e per diversi anni è contemporaneamente anche parroco di Nomadelfia.
Cosa hanno rappresentato questi anni per Nomadelfia? La scomparsa di due personalità energiche e – si potrebbe dire – vulcaniche come don Zeno e don Ennio lasciano a Nomadelfia un sacerdote con toni più dimessi.
Ma è una personalità per niente secondaria: la sua tenacia, la sua perseveranza portano Nomadelfia a ottenere l’approvazione della Costituzione da parte della Santa Sede nel 2000, dopo aver avuto la gioia di accogliere Giovanni Paolo II, il 21 maggio 1989, nella piccola parrocchia di Nomadelfia.
E questa personalità e la sua sofferenza intanto fanno crescere il popolo, perché Nomadelfia diventa sempre più la condivisione fraterna di una vita, come ha scritto nel suo breve testamento: “Mi permetto di ricordare ai volontari che se non si sforzano ogni giorno di vivere l’Unum invocato da Gesù nell’ultima cena non esiste la nostra fraternità, e non esiste Nomadelfia, perché la nostra fraternità deve permeare i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre azioni: senza Unum si ricade nella vecchia civiltà”.
La fede di don Enzo, il suo legame con la Chiesa e con don Zeno, sono stati la roccia sicura per i nomadelfi in questi anni nel tentativo di realizzare la civiltà dell’amore.
E rappresentano anche il punto di partenza per l’avvenire.
(©L’Osservatore Romano – 5 marzo 2009) Sono stati celebrati nella mattina di mercoledì 4 dal vescovo di Grosseto, Franco Agostinelli, i funerali di don Enzo di Nomadelfia – secondo successore di don Zeno Saltini alla guida della comunità sorta nel dopoguerra per dare famiglia agli orfani e ai bimbi abbandonati – morto alle prime ore di lunedì 2.
Oltre un migliaio di persone hanno partecipato al rito nella chiesa della cittadella toscana ricordando con commozione, affetto e gratitudine la paternità spirituale esercitata per ventiquattro anni da don Enzo.
Nel corso delle esequie – concelebrate dal vescovo di Carpi, Elio Tinti, e di Jesi, Gerardo Rocconi – è stata data lettura del telegramma, a firma del cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, con il quale Benedetto XVI, inviando la benedizione apostolica, ricorda la figura dello “zelante sacerdote” scomparso, che negli anni ha seguito le “profetiche orme” di don Zeno.
Assicurando anche un “particolare ricordo nella preghiera”, Benedetto XVI ha incoraggiato i membri della comunità di Nomadelfia a “proseguire uniti” l’impegno della “vita fraterna” e della “testimonianza evangelica”.
Un messaggio è stato inviato inoltre dal cardinale Cláudio Hummes, prefetto della Congregazione per il Clero – dicastero da cui dipende la comunità di Nomadelfia – il quale anche ha ricordato “l’infaticabile zelo sacerdotale” di don Enzo, “servo buono e fedele”, che ha “contribuito alla realizzazione dell’autentica famiglia cristiana, nell’adesione all’ideale evangelico di don Zeno”.