Il papa si confessa.

L’impressionante lettera che Benedetto XVI ha scritto sei giorni fa ai vescovi di tutto il mondo è molto più che un’occasionale risposta alla “valanga di proteste” contro la sua decisione di revocare la scomunica ai lefebvriani.
È una lettera che ricorda quelle di Paolo e dei Padri apostolici.
Non a caso il papa vi ha citato la lettera ai Galati (nell’illustrazione, il suo inizio in un papiro egiziano dell’anno 200).
Erano testi rivolti a comunità cristiane concrete, di cui prendevano di petto le debolezze e le lacerazioni.
Ma anche andavano dritti ai fondamenti della fede, dicevano ciò per cui la Chiesa sta o cade.
Benedetto XVI ha fatto lo stesso.
Nella sua lettera non ha taciuto nulla delle contestazioni che l’hanno colpito.
Ma ha anche scritto ciò che per lui vale più di ogni cosa, in queste poche righe fulminanti: “Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo.
Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti”.
La lettera del 10 marzo 2009 è quindi un testo capitale per capire il pontificato di Joseph Ratzinger.
Segna la strada che egli sta percorrendo deciso, senza deflettere in nulla sotto i colpi della contestazione.
Proprio nei giorni in cui Benedetto XVI stava scrivendo la sua lettera, c’è stato un cardinale che ha provato, di sua iniziativa, a decifrare il senso profondo di questo pontificato, a individuarne le “priorità” e a spiegarle a una platea di ascoltatori, in una conferenza pubblica.
“La prima e maggiore priorità è Dio stesso”, ha esordito, quasi con le stesse parole di Benedetto XVI nella sua lettera.
La stupefacente sintonia tra l’analisi del cardinale e la confessione che il papa ha fatto di sé, nella lettera, induce a leggere per esteso il testo della conferenza.
Il cardinale è Camillo Ruini, che fino a un anno fa è stato il vicario di Benedetto XVI nel reggere la diocesi di Roma.
Ha tenuto la conferenza il 1 marzo 2009 a Vicenza, nella scuola di cultura cattolica “Mariano Rumor”.
Le priorità del pontificato di Benedetto XVI di Camillo Ruini Nell’omelia di inizio del pontificato, Benedetto XVI affermava di non avere un proprio programma, se non quello che ci viene dal Signore Gesù Cristo.
Era questo un chiaro richiamo a ciò che è essenziale nel cristianesimo.
Il nuovo pontificato si poneva inoltre nella continuità sostanziale con quello di Giovanni Paolo II, di cui Joseph Ratzinger era stato, per i contenuti decisivi, il primo collaboratore.
In questo quadro non è difficile individuare alcune priorità del pontificato di Benedetto XVI.
La prima e maggiore priorità è Dio stesso, quel Dio che troppo facilmente viene messo al margine della nostra vita, protesa al “fare”, soprattutto mediante la “tecno-scienza”, e al godere-consumare.
Quel Dio, anzi, che è espressamente negato da una “metafisica” evoluzionistica che riduce tutto alla natura, cioè alla materia-energia, al caso (le mutazioni casuali) e alla necessità (la selezione naturale), o più frequentemente è dichiarato non conoscibile in base al principio che “latet omne verum”, ogni verità è nascosta, in conseguenza della restrizione degli orizzonti della nostra ragione a ciò che è sperimentabile e calcolabile, secondo la linea oggi prevalente.
Quel Dio, infine, di cui è stata proclamata la “morte”, con l’affermarsi del nichilismo e con la conseguente caduta di tutte le certezze.
Il primo impegno del pontificato è dunque riaprire la strada a Dio: non però facendosi dettare l’agenda da coloro che in Dio non credono e contano soltanto su se stessi.
Al contrario, l’iniziativa appartiene a Dio e questa iniziativa ha un nome, Gesù Cristo: Dio si rivela in qualche modo a noi nella natura e nella coscienza, ma in maniera diretta e personale si è rivelato ad Abramo, a Mosè, ai profeti dell’Antico Testamento, e in maniera inaudita si è rivelato nel Figlio, nell’incarnazione, croce e risurrezione di Cristo.
Vi sono dunque due vie, quella della nostra ricerca di Dio e quella di Dio che viene alla ricerca di noi, ma soltanto quest’ultima ci permette di conoscere il volto di Dio, il suo mistero intimo, il suo atteggiamento verso di noi.
Giungiamo così alla seconda priorità del pontificato: la preghiera.
Non soltanto quella personale ma anche e soprattutto quella “nel” e “del” popolo di Dio e corpo di Cristo, ossia la preghiera liturgica della Chiesa.
Nella prefazione al primo volume delle sue “Opera omnia”, uscito da poco in lingua tedesca, Benedetto XVI scrive: “La liturgia della Chiesa è stata per me, fin dalla mia infanzia, l’attività centrale della mia vita ed è diventata anche il centro del mio lavoro teologico”.
Possiamo aggiungere che oggi è il centro del suo pontificato.
Arriviamo così a un punto controverso, specialmente dopo il motu proprio che consente l’uso della liturgia preconciliare e ancor più dopo la remissione della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
Già in precedenza però Joseph Ratzinger aveva chiarito questo punto molto bene.
Egli è stato uno dei grandi sostenitori del movimento liturgico che ha preparato il Concilio e uno dei protagonisti del Vaticano II, e tale è sempre rimasto.
Fin dall’attuazione della riforma liturgica nei primi anni del dopo-Concilio, egli aveva contestato però la proibizione dell’uso del messale di San Pio V, vedendovi una causa di sofferenza non necessaria per tante persone amanti di quella liturgia, oltre che una rottura rispetto alla prassi precedente della Chiesa che, in occasione delle riforme della liturgia succedutesi nella storia, non aveva proibito l’uso delle liturgie fino allora in uso.
Da pontefice ha pertanto ritenuto di dover rimediare a questo inconveniente consentendo più facilmente l’uso del rito romano nella sua forma preconciliare.
Lo spingeva a questo anche il suo dovere fondamentale di promotore dell’unità della Chiesa.
Si muoveva inoltre nella linea già iniziata da Giovanni Paolo II.
In questo spirito la remissione della scomunica è stata concessa per facilitare il ritorno dei lefebvriani, ma non certamente per rinunciare alla condizione decisiva di questo ritorno, che è la piena accettazione del Concilio Vaticano II, compresa la validità della messa celebrata secondo il messale di Paolo VI.
In positivo Benedetto XVI ha precisato l’interpretazione del Vaticano II nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005, prendendo le distanze da una “ermeneutica della rottura”, che ha due forme: una prevalente, in base alla quale il Concilio costituirebbe una novità radicale e sarebbe importante “lo spirito del Concilio” ben più della lettera dei suoi testi; l’altra, contrapposta, per la quale conterebbe soltanto la tradizione precedente al Concilio, rispetto a cui il Concilio avrebbe rappresentato una rottura densa di conseguenze funeste, come sostengono appunto i lefebvriani.
Benedetto XVI propone invece l'”ermeneutica della riforma”, ossia della novità nella continuità, sostenuta già da Paolo VI e Giovanni Paolo II: il Concilio costituisce cioè una grande novità ma nella continuità dell’unica tradizione cattolica.
Soltanto questo tipo di ermeneutica è teologicamente sostenibile e pastoralmente fruttuoso.
Abbiamo messo a fuoco così un’ulteriore priorità del pontificato: promuovere l’attuazione del Concilio, sulla base di questa ermeneutica.
Nella medesima prospettiva, possiamo parlare di una “priorità cristologica” o “cristocentrica” del pontificato.
Essa si esprime in particolare nel libro “Gesù di Nazaret”, impegno non consueto per un papa, al quale Benedetto XVI dedica “tutti i momenti liberi”.
Gesù Cristo infatti è la via a Dio Padre, è la sostanza del cristianesimo, è il nostro unico Salvatore.
Perciò è terribilmente pericoloso il distacco tra il Gesù della storia e il Cristo della fede, distacco che è frutto di un’assolutizzazione unilaterale del metodo storico-critico e più precisamente di un impiego di questo metodo sulla base del presupposto che Dio non agisca nella storia.
Un tale presupposto, già da solo, rappresenta infatti la negazione dei Vangeli e del cristianesimo.
Anche in questo caso si tratta di allargare gli spazi della razionalità, dando credito a una ragione aperta, e non chiusa, alla presenza di Dio nella storia.
Questo libro ci mette in contatto con Gesù e così ci introduce nella sostanza, nella profondità e novità del cristianesimo: leggerlo è un impegno che costa un po’ di fatica ma che ripaga abbondantemente.
*** A questo punto possiamo ritornare alla prima priorità, Dio, per prendere in considerazione l’impegno anche razionale e culturale di Benedetto XVI al fine di allargare a Dio la ragione contemporanea e di fare spazio a Dio nei comportamenti e nella vita personale e sociale, pubblica e privata: sono particolarmente importanti qui il discorso di Ratisbona, quello più recente di Parigi e anche quello di Verona del 2006.
Quanto alla ragione contemporanea, Benedetto XVI sviluppa una “critica dall’interno” della razionalità scientifico-tecnologica, che oggi esercita una leadership culturale.
La critica non riguarda questa razionalità in se stessa, che ha anzi grande valore e grandi meriti, dato che ci fa conoscere la natura e noi stessi come mai era stato possibile prima e ci permette di migliorare enormemente le condizioni pratiche della nostra vita.
Riguarda invece la sua assolutizzazione, come se questa razionalità costituisse l’unica conoscenza valida della realtà.
Tale assolutizzazione non proviene dalla scienza come tale, né dai grandi uomini di scienza, che ben conoscono i limiti della scienza stessa, bensì da una “vulgata” oggi molto diffusa e influente, che però non è la scienza ma una sua interpretazione filosofica, piuttosto vecchia e superficiale.
La scienza infatti deve i suoi successi alla sua rigorosa limitazione metodologica a ciò che è sperimentabile e calcolabile.
Se però questa limitazione viene universalizzata, applicandola non solo alla ricerca scientifica ma alla ragione e alla conoscenza umana come tali, essa diventa insostenibile e disumana, dato che ci impedirebbe di interrogarci razionalmente sulle domande decisive della nostra vita, che riguardano il senso e lo scopo per cui esistiamo, l’orientamento da dare alla nostra esistenza, e ci costringerebbe ad affidare la risposta a queste domande soltanto ai nostri sentimenti o a scelte arbitrarie, distaccate dalla ragione.
È questo, forse il problema più profondo e anche il dramma della nostra attuale civiltà.
Joseph Ratzinger-Benedetto XVI fa un passo in più, mostrando che la riflessione sulla struttura stessa della conoscenza scientifica apre la strada verso Dio.
Una caratteristica fondamentale di tale conoscenza è infatti la sinergia tra matematica ed esperienza, tra le ipotesi formulate matematicamente e la loro verifica sperimentale: si ottengono così i risultati giganteschi e sempre crescenti che la scienza mette a nostra disposizione.
La matematica è però un frutto puro e “astratto” della nostra razionalità, che si spinge al di là di tutto ciò che noi possiamo immaginare e rappresentare sensibilmente: così avviene in particolare nella fisica quantistica – dove una medesima formulazione matematica corrisponde all’immagine di un’onda e al tempo stesso di un corpuscolo – e nella teoria della relatività, che implica l’immagine della “curvatura” dello spazio.
La corrispondenza tra matematica e strutture reali dell’universo, senza la quale le nostre previsioni scientifiche non si avvererebbero e le tecnologie non funzionerebbero, implica dunque che l’universo stesso sia strutturato in maniera razionale, così che esista una corrispondenza profonda tra la ragione che è in noi e la ragione “oggettivata” nella natura, ossia intrinseca alla natura stessa.
Dobbiamo chiederci però come questa corrispondenza sia possibile: emerge così l’ipotesi di un’Intelligenza creatrice, che sia l’origine comune della natura e della nostra razionalità.
L’analisi, non scientifica ma filosofica, delle condizioni che rendono possibile la scienza ci riporta dunque verso il “Logos”, il Verbo di cui parla san Giovanni all’inizio del suo Vangelo.
Benedetto XVI non è però un razionalista, conosce bene gli ostacoli che oscurano la nostra ragione, la “strana penombra” in cui viviamo.
Perciò, anche a livello filosofico, non propone il ragionamento che abbiamo visto come una dimostrazione apodittica, ma come “l’ipotesi migliore”, che richiede da parte nostra “di rinunciare a una posizione di dominio e di rischiare quella dell’ascolto umile”: il contrario dunque di quell’atteggiamento oggi diffuso che viene chiamato “scientismo”.
Allo stesso modo non può essere presentata come “scientifica” la riduzione dell’uomo a un prodotto della natura, in ultima analisi omogeneo agli altri, negando quella differenza qualitativa che caratterizza la nostra intelligenza e la nostra libertà.
Una simile riduzione costituisce in realtà il capovolgimento totale del punto di partenza della cultura moderna, che consisteva nella rivendicazione del soggetto umano, della sua ragione e della sua libertà.
Perciò, come Benedetto XVI ha detto a Verona, la fede cristiana proprio oggi si pone come il “grande sì” all’uomo, alla sua ragione e alla sua libertà, in un contesto socio-culturale nel quale la libertà individuale viene enfatizzata sul piano sociale facendone il criterio supremo di ogni scelta etica e giuridica, in particolare nell'”etica pubblica”, salvo però negare la libertà stessa come realtà a noi intrinseca, cioè come nostra capacità personale di scegliere e di decidere, al di là dei condizionamenti ed automatismi biologici, psicologici, ambientali, esistenziali.
Proprio il ristabilimento di un genuino concetto di libertà è un’altra priorità del pontificato, l’ultima di cui parlerò.
Essa riguarda la vita personale e sociale, le strutture pubbliche come i comportamenti personali.
Benedetto XVI contesta cioè quell’etica e quella concezione del ruolo dello Stato e della sua laicità che egli stesso ha definito “dittatura del relativismo”, per la quale non esisterebbe più qualcosa che sia bene o male in se stesso, oggettivamente, ma tutto dovrebbe subordinarsi alle nostre scelte personali, che diventano automaticamente “diritti di libertà”.
Vengono escluse così, almeno a livello pubblico, non solo le norme etiche del cristianesimo e di ogni altra tradizione religiosa, ma anche le indicazioni etiche che si fondano sulla natura dell’uomo, cioè sulla realtà profonda del nostro essere.
È questa una cesura radicale, un autentico taglio, rispetto alla storia dell’umanità: una cesura che isola l’Occidente secolarizzato dal resto del mondo.
In realtà la libertà personale è intrinsecamente relativa alle altre persone e alla realtà, è libertà non solo “da” ma “con” e “per”, è libertà condivisa che si realizza soltanto unitamente alla responsabilità.
In concreto, Benedetto XVI è talvolta accusato di insistere unilateralmente sui temi antropologici e bioetici, come la famiglia e la vita umana, ma in realtà egli insiste analogamente sui temi sociali ed ecologici (certamente senza indulgere ad “inquinamenti ideologici”).
Proprio ai temi sociali sarà dedicata la sua terza enciclica ormai imminente.
La radice comune di questa duplice insistenza è il “sì” di Dio all’uomo in Gesù Cristo, e in concreto è l’etica cristiana dell’amore del prossimo, a cominciare dai più deboli.
Concludo tornando all’inizio.
Parlando a Subiaco il giorno prima della morte di Giovanni Paolo II, il cardinale Ratzinger invitava tutti, anche quegli uomini di buona volontà che non riescono a credere, a vivere “veluti si Deus daretur”, come se Dio esistesse.
Ma al tempo stesso affermava la necessità di uomini che tengano lo sguardo fisso verso Dio e in base a questo sguardo si comportino nella vita.
Soltanto così infatti Dio potrà tornare nel mondo.
È questo il senso e lo scopo dell’attuale pontificato.
__________ __________ 16.3.2009 La lettera del 10 marzo 2009 di Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo: > “Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri” __________ Gli altri grandi testi del pontificato di Benedetto XVI citati dal cardinale Ruini: > Alla curia romana, 22 dicembre 2005 > A Ratisbona, 12 settembre 2006 > A Verona, 19 ottobre 2006 > A Parigi, 12 settembre 2008__________ Il commento del cardinale Ruini alla lettera di Benedetto XVI del 10 marzo 2009, pubblicato su “L’Osservatore Romano” del 14 marzo: > Il senso della Chiesa In esso tra l’altro Ruini scrive: “Di fronte all’inclinazione a ‘mordersi e divorarsi a vicenda’, purtroppo oggi presente tra noi come fu presente tra i Galati a cui scriveva san Paolo, tocchiamo un nervo scoperto del cattolicesimo degli ultimi secoli, un punto di fragilità e di sofferenza di cui dobbiamo diventare più e meglio consapevoli.
Mi riferisco all’indebolirsi, e a volte praticamente all’estinguersi, del senso di appartenenza ecclesiale, della gioia cioè e della gratitudine di far parte della Chiesa cattolica”.

Date a Darwin quel che è di Darwin. Ma la creazione è di Dio

La rivista su cui è uscito il saggio: > La Civiltà Cattolica__________ Il sito web del convegno, in italiano e in inglese: > Biological Evolution: Facts and Theories__________ Benedetto XVI dedicò a “creazione ed evoluzione” il seminario a porte chiuse che tenne con i suoi ex allievi a Castel Gandolfo nel settembre del 2006.
In quell’occasione www.chiesa pubblicò il seguente servizio: > Creazione od evoluzione? La Chiesa di Roma risponde così (11.8.2006) Nel servizio sono riprodotti il discusso articolo che il cardinale Christoph Schönborn dedicò al tema sul “New York Times” del 7 luglio 2005, una nota del professor Fiorenzo Facchini (uno dei relatori al convegno dei giorni scorsi su Darwin) e un indice ragionato dei testi del magistero della Chiesa sull’evoluzione.
Dopo di allora, Benedetto XVI è tornato sul tema, in particolare nel discorso programmatico alla curia romana del 22 dicembre 2008, in un passo evidenziato in quest’altro servizio di www.chiesa: > Tutti i numeri della fede.
Quando Ratzinger veste i panni di Galileo
(9.1.2009) Inoltre, sono usciti in un libro gli atti del seminario di Castel Gandolfo del settembre 2006, con saggi di Christoph Schönborn, Peter Schuster, Robert Spaemann, Paul Erlich, Sigfried Wiedenhofer.
Il libro, intitolato “Creazione ed evoluzione”, è stato pubblicato in Italia dalle Edizioni Dehoniane di Bologna e in Germania da Sankt Ulrich Verlag, di Augsburg.
__________ 9.3.2009 Da Darwin in poi, poche teorie scientifiche sono state così aspramente discusse come l’evoluzione e hanno determinato un tale cambiamento di paradigma nella comune interpretazione dell’intera realtà, uomo compreso.
Sia nel campo scientifico, sia nella visione della Chiesa cattolica, creazione ed evoluzione di per sé non si escludono.
Nell’uno e nell’altro campo vi sono però tendenze ad erigere delle costruzioni teoriche che sono sì tra loro escludenti.
Nel presentare ufficialmente il convegno, in Vaticano, il gesuita Marc Leclerc, professore di filosofia della natura alla Gregoriana, ha così sintetizzato le due opposte derive ideologiche: “La novità del paradigma ha spinto parecchi seguaci di Darwin ad oltrepassare i confini della scienza per erigere qualche elemento della sua teoria, o della sintesi moderna realizzata nel corso del XX secolo, a ‘Philosophia universalis’, secondo la giusta espressione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, a chiave d’interpretazione universale di una realtà in perpetuo divenire.
“Ma lungo questa scia si sono diretti troppo spesso anche gli avversari del darwinismo, confondendo la teoria scientifica dell’evoluzione con l’ideologia onnicomprensiva che la snaturava, per rigettarlo del tutto in quanto totalmente incompatibile con una visione religiosa della realtà.
Tale situazione potrebbe spiegare il ritorno odierno di concezioni ‘creazioniste’ o di ciò che si presenta a volte come una teoria alternativa, il così detto ‘intelligent design’.
A questo livello siamo lontani dalle discussioni scientifiche”.
In effetti nessun relatore, al convegno, ha difeso l’una o l’altra di queste costruzioni ideologiche.
Tutte sono state discusse e valutate criticamente.
L’intento comune era di esercitare le singole discipline – scientifiche, filosofiche, teologiche – con le specificità e le ricchezze di ciascuna, a beneficio di tutte.
Dopo cinque giorni intensissimi, con trentacinque relazioni tenute da altrettanti specialisti, si può dire che l’obiettivo sia stato raggiunto.
La pace tra creazione ed evoluzione appare oggi più solida.
Una prova luminosa di come le due visioni del mondo possano convivere e integrarsi è nel saggio che segue, pubblicato alla vigilia del convegno da “La Civiltà Cattolica”, la rivista dei gesuiti di Roma stampata con il preventivo controllo della segreteria di stato vaticana.
L’autore insegna nella Pontificia Università Gregoriana, la stessa che ha ospitato il convegno su Darwin.
Nel suo saggio egli mostra come il racconto biblico della creazione non solo non è incompatibile con la razionalità moderna, ma ha segnato “una emancipazione del sapere scientifico”, consegnando il creato alla responsabilità dell’uomo.
Del saggio, uscito sul numero 3807 della “Civiltà Cattolica” con la data del 7 febbraio 2009, è qui riprodotto un estratto: “L’origine delle specie”.
Genesi 1 e la vocazione scientifica dell’uomo di Jean-Pierre Sonnet Quando si parla delle origini, per i cristiani del nostro tempo la sfida è vivere una doppia cittadinanza: una fedeltà intelligente all’insegnamento di Genesi 1 e un’apertura attenta alle proposte della ricerca scientifica.
[…] Oggi tuttavia essi devono affinare tale duplice lealtà, in un tempo in cui alcuni si divertono a porre l’una contro l’altra le nozioni di creazione e di evoluzione, sotto forma di ideologie – creazionismo ed evoluzionismo – reciprocamente esclusive.
Per i sostenitori dell’evoluzionismo, rifarsi al poema iniziale della Genesi significa regredire in una forma di oscurantismo incompatibile con la razionalità dell’età moderna.
In questo saggio cercheremo di dimostrare che il riferimento ai primi capitoli della Genesi non implica affatto una resa dell’intelligenza.
[…] Una razionalità luminosa attraversa questi testi, capaci di parlare a ogni uomo ragionevole, e in particolare all’uomo di scienza contemporaneo.
[…] *** Genesi 1 potrebbe avere come sottotitolo “Process and Reality”: l’atto creatore vi è distribuito in momenti successivi, nella sequenza di una settimana.
[…] Lungi dall’essere un’esplosione di potenza cieca, la creazione – secondo il poema narrativo di Genesi 1 – è un’azione che si svolge progressivamente, in una sequenza ordinata, in cui si enuncia un disegno.
La progressione – come ha mostrato Paul Beauchamp nel saggio “Création et séparation” – è anzitutto quella di separazioni successive, espresse dapprima mediante la radice verbale “badal”: “E Dio separò la luce dalle tenebre” (1,4; cfr.
anche 1,6.7.14.18).
A partire dal terzo giorno, una volta costituiti i macroelementi del cosmo, non compare più il verbo della separazione (tranne in 1,14.18, a proposito delle “grandi luci”), sostituito da un’altra espressione: “secondo la propria specie”.
Tale formula, ripetuta dieci volte, si riferisce prima alle specie vegetali (1,11-12) e poi a quelle animali (1,21.24-25).
Fin dall’origine, Dio salva dall’informe e dall’indeterminato, costituendo progressivamente un mondo differenziato.
Nella loro sequenza, i giorni della creazione amplificano la successione già legata alla parola.
Fin dal primo giorno gli atti divini, per quanto immediati, si manifestano in modo discorsivo.
[…] La successione è senza dubbio una legge del linguaggio e, in particolare, del discorso narrativo, che può dire le cose soltanto l’una dopo l’altra.
In un riflesso di “realismo” teologico, il racconto di Genesi 1 si preoccupa di far risalire tale successione alla stessa libertà divina.
[…] Seguendo passo dopo passo le iniziative divine, il narratore si preoccupa di accentuare ciò che il disegno divino ha di costruito e di finalizzato.
L’atto creatore, nella sua sequenza, non è un processo aleatorio o una stravagante dispersione di energia.
Il gesto divino – afferma il narratore – si dispiega tra “principio” (1,1) e “compimento” (vedi il verbo “portare a compimento” in 2,1), e in una serie (“primo giorno”, “secondo giorno” ecc.) che appare progressivamente nella sua compiutezza, quella dei sei giorni più uno.
Infine, al termine del racconto scopriamo che Dio porta a compimento proprio ciò che aveva iniziato a creare all’origine, “il cielo e la terra” (2,1; cfr.
1,1).
In altri termini, il processo si inserisce nell’intelligenza di un disegno, che presiede a ciascuno dei suoi momenti.
Il dominio divino in Genesi 1 ha paradossalmente la sua più bella dimostrazione nelle pause che ritmano la sequenza creatrice.
Infatti Dio unisce alle sue iniziative creatrici un cenno di pausa e di meraviglia: “Dio vide che la luce era cosa buona” (1,4).
[…] In ognuna di queste pause Dio rivela che non è affatto schiavo della propria potenza; questa invece è, fino in fondo, l’espressione della sua libertà, come si scopre il settimo giorno, quando Dio “cessa da ogni suo lavoro” (“wayysbot”, dalla radice “sabat”) e consacra un giorno intero a questa sosta (2,2).
Anziché occupare il settimo giorno della serie a “esaurire” la propria potenza creatrice e a riempire il tutto del mondo, il Dio biblico è colui che pone un limite al gesto creatore, “dominando il suo dominio”, per parlare come Salomone: “Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza” (Sapienza 12,18).
In questa sosta Dio fissa il suo rifiuto di riempire tutto e, correlativamente, la sua volontà di aprire uno spazio di autonomia all’universo, in particolare all’umanità.
[…] Infine questo processo, con la sua disposizione, rivela la finalizzazione che lo sottende: gli elementi progressivamente costituiti disegnano una curva, che va dal “buono” del v.
4 al “molto buono” del v.
31.
L’asse della parola è quello che meglio rivela tale curva dello spazio creato.
Se fin dalla creazione della luce Dio parla, e se parla di tutti gli elementi che crea – “Sia la luce…
Si raccolgano le acque… Ci siano luci nel firmamento…” –, egli parla in seconda persona soltanto ai viventi, a partire dal quinto giorno: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari…” (v.
22).
Fino ad allora le creature non erano interpellate, ma erano al massimo destinatarie di ordini in terza persona.
Da questo momento Dio parla a creature viventi, capaci di capirlo.
Ma è nel sesto giorno, con la creazione dell’uomo, che la persona grammaticale mancante – la prima persona – fa la sua apparizione sulla bocca di Dio.
Prima al plurale: “Facciamo l’uomo ” (v.
26), poi al singolare: “Io vi dò ogni pianta come vostro cibo ” (v.
29).
Ed è con l’apparizione della coppia umana che la parola divina si dà un interlocutore esplicito: “Dio disse loro” (v.
28).
Dio si rivolge – e in prima persona – all’essere che sarà lui pure essere di linguaggio, “l’essere a immagine”, destinato al dominio dolce della parola.
La sequenza era dunque, in ogni sua parte, ordinata al proprio fine.
E la forma narrativa, in particolare nel suo modo di rappresentare le variazioni nella parola divina, è stata il veicolo efficace di tale finalizzazione.
*** Genesi 1 potrebbe avere anche come sottotitolo “L’origine delle specie”, tanto il disegno divino è legato alla diversità delle specie.
Certamente, qui non si tratta del processo di evoluzione delle specie.
Se Genesi 1 evoca un processo, questo si deve cercare nella sequenza dei giorni, nel corso dei quali Dio fa sorgere le specie vegetali, le specie animali dell’acqua e dell’aria e quelle della terraferma.
I diversi biotipi sono rispettati (acqua, firmamento, terra), però l’intervento divino non è rivolto a “classi” di animali, ma va dritto alle specie particolari: i vegetali e gli animali appaiono tutti “secondo la propria specie” (vv.
11-12, 21.24-25).
E queste specie appaiono “tali quali”, cioè nello stato in cui le incontra dal v.
28 lo sguardo dell’uomo.
La flora e la fauna consacrate da Dio nella loro bontà sono quelle che accompagnano la famiglia umana nel suo destino.
[…] Se le specie sono portate ognuna all’esistenza con un intervento immediato di Dio, sono pure create nella loro autonomia.
Le specie vegetali sorgono provviste del loro principio di riproduzione: “La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie” (1,11).
Quanto ai rappresentanti delle specie animali, questi si sentono dire: “Siate fecondi e moltiplicatevi” (1,22).
Se l’eteronomia è presente in ogni istante del poema narrativo di Genesi 1 – poiché le creature hanno il loro segreto in questo Altro che le fa sorgere –, l’autonomia delle specie nella durata vi è pure manifesta: Dio crea i viventi affidandoli alla loro autonomia riproduttiva, a ciò che li renderà “uguali” di età in età.
C’è un altro testo del Pentateuco, il capitolo 11 del Levitico, in cui diventa pienamente evidente l’argomento del “discorso sulle specie” di Genesi 1.
[…] Il trattato sugli animali mondi e immondi che si legge in Levitico 11 costituisce infatti una messa in atto sofisticata dei dati e delle distinzioni introdotti in Genesi 1.
Una nuova luce è stata portata su Levitico 11 con i lavori di Mary Douglas, antropologa inglese, che ha pubblicato nel 1966 “Purity and Danger”.
Già nel 1962 Claude Lévi-Strauss nel suo “La Pensée sauvage” aveva […] dimostrato attraverso l’analisi di vari miti e della loro struttura che il pensiero primitivo detto “selvaggio” era invece guidato da una logica rigorosa, classificatrice.
In “Purity and Danger” Douglas dimostra che Levitico 11 illustra perfettamente tale logica.
[…] Di tutte le creature animali, inclusi i mostri marini, Dio ha dichiarato la bontà, consacrando la loro divisione per specie (Genesi 1,21- 25).
Perché allora Levitico 11 introduce distinzioni supplementari tra animali mondi e immondi? Le differenze introdotte in Levitico 11 valgono unicamente per il popolo che è stato “distinto”: sono di ordine pratico e si riferiscono al regime alimentare degli israeliti e alla loro pratica sacrificale; riguardano un popolo chiamato a entrare nella santità di Dio – e dunque nella sua “differenza” – entrando in un mondo più ricco di differenze.
Un passaggio del Levitico riassume tale vocazione singolare: “Io, vostro Dio, vi ho separati dagli altri popoli.
Farete dunque separazione tra animali mondi e immondi, fra uccelli immondi e mondi, e non vi renderete abominevoli mangiando animali, uccelli o esseri che strisciano sulla terra e che io vi ho fatto separare come immondi.
Sarete santi per me, perché io, vostro Dio, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei” (20,24-26).
[…] Unita alle altre distinzioni introdotte dal Levitico, la distinzione degli animali mondi e immondi è tra quelle che pongono i figli di Israele dal lato di […] un rispetto più attento, negli altri e in se stessi, del primo dono di Dio che è questa vita.
Ancora una volta, la visione biblica non sostiene affatto una religiosità irrazionale, ma si rivela legata a una saggia articolazione del mondo, rispettosa delle distinzioni interne al reale e della finalità da esse indicate.
*** Genesi 1 potrebbe infine avere il sottotitolo dato da Karl Popper alla sua ultima opera: “Questioni intorno alla conoscenza della natura”.
Adamo prolunga l’opera creatrice della separazione delle specie.
Così facendo, esercita, a immagine di Dio, il “dominio dolce” del mondo che gli è affidato (1,28).
Un testo del libro dei Re afferma inoltre che egli esercita in questo una funzione reale e, per così dire, “scientifica”.
L’elogio della sapienza di Salomone termina con questi versetti: “La sapienza di Salomone superò quella di tutti gli orientali e tutta la sapienza dell’Egitto.
[…] Pronunziò tremila proverbi; i suoi canti furono millecinque.
Parlò di piante, dal cedro del Libano all’issopo che sbuca dal muro; parlò di quadrupedi, di uccelli, di rettili e di pesci” (1 Re 5,10-13).
Nello stato-giardino che sono Giuda e Israele (cfr.
1 Re 5,5), Salomone, ripieno della saggezza che ha ricevuto, prolunga il gesto di Adamo che “impose nomi a tutto il bestiame, a tutti gli uccelli del cielo e a tutte le bestie selvatiche” (Genesi 2,20) e avvia anche il governo del mondo con il linguaggio.
Dopo Herder e Heidegger, non sono mancate le interpretazioni che hanno visto nei nomi dati da Adamo agli animali la nascita della vocazione poetica dell’uomo, quella di “abitare poeticamente questa terra” (Hölderlin).
A dire il vero, il sottofondo culturale della doppia scena (in Genesi 2 e in 1 Re 5) invita a vedere Adamo e Salomone rappresentati sia come poeti sia come uomini di scienza.
La saggezza enciclopedica di Salomone nel citato ritratto di 1 Re 5,12-13 è vicina infatti al sapere classificatore e alla “scienza delle liste” degli abitanti della Mesopotamia, da cui derivano pure gli inventari del libro dei Proverbi e dei codici di leggi bibliche.
Di tale “scienza delle liste” elaborata fra il Tigri e l’Eufrate, René Labat scrive: “Anche se non era rivolta all’universalità, essa si trova in pratica estesa a tutti gli ordini della conoscenza: scienze della natura nelle liste di minerali, di piante e di animali; scienza delle tecniche nelle liste di utensili, di vesti, di costruzioni, di cibi e bevande; scienza dell’universo nelle liste degli dei, di stelle, di paesi o contrade, di fiumi e di montagne; infine scienze dell’uomo nelle liste dei particolari fisici, delle parti del corpo, dei mestieri e delle classi sociali”.
Tale classificazione dei fenomeni del reale si organizza in particolare a partire dai loro nomi.
Nella Bibbia c’è un’eco dell’attività creatrice di Dio che crea le cose dando loro un nome.
“La cerchia delle conoscenze di Salomone, zoologica e botanica, è un altro giardino di Adamo”, scrive Paul Beauchamp.
Adamo e Salomone attestano entrambi – uno alle origini e l’altro nella “modernità” della storia – la vocazione dell’uomo ad abitare “scientificamente” la terra che Dio ha loro affidato.
Labat nella sua nomenclatura menziona l’elaborazione delle “liste degli dei”.
Ma questo è un compito che non spetta più all’uomo biblico, il cui Dio unico si rivela irriducibile ai fenomeni del mondo.
Bisogna infatti rilevare come il monoteismo biblico ha trasformato il rapporto del “sapere” dell’uomo con il mondo che lo circonda: nel mondo biblico la “scienza delle liste” ha un nuovo senso.
I politeismi dell’antico Vicino Oriente, egiziani, mesopotamici e cananei […] erano strettamente legati ad ambienti cosmici: il cielo, la pioggia, le costellazioni, l’aria, il vento, le acque dolci.
Questo non è più pensabile nel contesto biblico: se Dio penetra con il suo sguardo e la sua cura il mondo che ha creato, fin nei punti più inaccessibili (cfr.
Giobbe 38-39), è però “separato” nella sua assoluta trascendenza (cfr.
Isaia 40,25; 46,5; 66,1-2).
Le società religiose dell’antico Vicino Oriente si caratterizzano inoltre per un fondo oscuro in cui regnano dèmoni e forze malefiche.
Il pensiero biblico ha notevolmente riorientato questo dato.
[…] Liberata dalle immanenze divine e demoniache, la terra dell’uomo biblico gli è interamente consegnata: “I cieli sono i cieli di Dio, ma egli ha dato la terra ai figli dell’uomo” (Salmo 115,16).
Essa gli è affidata in tutta la sua estensione, cielo, mare e terra, come canta il Salmo 8, con il dovere di ricerca che ne segue: “È gloria dei re investigare le cose” (Proverbi 25,2).
Tale compito reale dell’uomo biblico riceve la forma più “moderna”, quasi secolarizzata, nella ricerca di Salomone, come è presentata nel libro del Qoelet: “Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo” (1,13).
Certamente tale impresa è distante dalle scienze moderne: per diventare operative, queste dovranno varcare altre soglie di razionalità, a cominciare da quella della concettualità greca.
È vero tuttavia che il pensiero biblico della consegna del creato al sapere e al potere dell’uomo costituisce una delle condizioni dell’emancipazione del sapere scientifico.
*** Genesi 1 è dunque, a modo suo, un manifesto dell’intelligibilità del mondo.
[…] Questo capitolo e quelli che seguono nella Genesi non affermano affatto una forma di concorrenza tra la scienza divina e quella dell’uomo.
L’accesso dell’uomo al sapere del linguaggio non è una prerogativa sottratta alla divinità, come un fuoco prometeico, nonostante le false promesse del serpente in Genesi 3,1-5.
La vocazione “scientifica” dell’uomo è invece enunciata nei momenti di presenza di Dio all’uomo, sia che si tratti di un discorso rivolto da Dio ad Adamo in Genesi 1, o della vicinanza di Dio all’uomo nel giardino in Genesi 2, o dell’esperienza mistica in 1 Re 3, dove Salomone chiede a Dio la saggezza, che in particolare prenderà la forma del suo governo del mondo attraverso la parola.
Questo sapere non è al riparo da deviazioni, ma procede anzitutto dall’”essere a immagine”, come il compito reale affidato da Dio a Adamo.
Il Salmo 8 pone le cose nella giusta prospettiva, quando celebra la signoria di Dio celebrando quella dell’uomo: “Tu l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato; gli hai dato potere sulle opere delle tue mani, tutto hai posto sotto i suoi piedi”.
__________ A duecento anni dalla nascita di Charles Darwin e a centocinquanta dalla sua opera più famosa, il pontificio consiglio della cultura presieduto dall’arcivescovo Gianfranco Ravasi ha patrocinato un sontuoso convegno internazionale dal titolo: “L’evoluzione biologica: i fatti e le teorie.
Una valutazione critica 150 anni dopo ‘L’origine delle specie'”.
Il convegno si è tenuto dal 3 al 7 marzo a Roma, alla Pontificia Università Gregoriana.
Ed è stato promosso da questa università assieme all’americana University of Notre Dame.
Vi hanno preso la parola i maggiori specialisti mondiali nelle diverse discipline, dalla biologia alla paleontologia, dall’antropologia alla filosofia alla teologia.
Molto varie anche le posizioni messe a confronto.
C’erano studiosi cattolici, protestanti, ebrei, agnostici, atei.

Classe terza – Marzo

Marta e Maria (Lc 10,38-42) 38Mentre erano in cammino, entrò in un villaggio e una donna, di nome Marta, lo ospitò.
39Ella aveva una sorella, di nome Maria, la quale, seduta ai piedi del Signore, ascoltava la sua parola.
40Marta invece era distolta per i molti servizi.
Allora si fece avanti e disse: «Signore, non t’importa nulla che mia sorella mi abbia lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti».
41Ma il Signore le rispose: «Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, 42ma di una cosa sola c’è bisogno.
Maria ha scelto la parte migliore, che non le sarà tolta».
«Oggi noi assistiamo nel nostro mondo occidentale a questo darsi da fare, a questo correre, a questa superficialità, a questa premura di cui siamo tutti un po’ vittime.
Non c’è tempo per scrivere una lettera, per leggere un libro, per fare una visita.
Non c’è tempo.
Il brano di Marta e Maria cade a proposito: intendiamo bene che il Signore non rimprovera a Marta il servizio; Gesù stesso ha detto “Sono venuto per servire”.
Egli rimprovera a Marta l’agitazione, l’affanno e la preoccupazione: nella nostra vita, che è tesa, piena di cose da fare, come si situa l’ascolto del Maestro che abbiamo scelto di seguire? La preghiera è dialogo autentico, non monologo con noi stessi; è uscire da noi stessi per ascoltare prima di tutto Lui» (P.
Francesco Peyron) (Nella seconda parte: le varie forme di preghiera possibili oggi; i giovani e la preghiera – testimonianze –; l’effetto trasformante della preghiera; le attività per valutare il raggiungimento degli Obiettivi Formativi).  Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Parabola della “vedova importuna” (Lc 18,2-8) 2«In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno.
3In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”.
4Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, 5dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi».
6E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto.
7E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? 8Io vi dico che farà loro giustizia prontamente.
Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
4) Regole essenziali Gesù insegna a chiedere con perseveranza, certi della risposta (vedi “parabola dell’amico importuno”, Lc 11,5-13; Lc 18,1-8), con fede assoluta nella bontà del Padre (Mt 7,11); occorre essere umili e autentici, presentarsi a Lui senza barriere, senza maschere né giustificazioni, riconoscendo limiti ed errori per lasciarsi “guarire” (vedi “il fariseo e il pubblicano”, Lc 18,9-14).
Occorre chiedere il dono del Suo Spirito per essere illuminati, per ricevere forza e saggezza; occorre comprendere come il fine della preghiera sia fare la volontà del Padre, non indurre Lui a fare la nostra (Mt 6,10; Lc 22,42).
Non si può raggiungere Dio-Amore senza sforzarsi contemporaneamente di amare i fratelli, di promuovere la riconciliazione e di perdonare (Mt 5,23-24; 6,12).
La “scuola di preghiera” di Gesù culmina nel “Padre Nostro”, come abbiamo visto nel secondo anno (Mt 6,9-13; Lc 11,2-4).
È «il programma di una relazione in cui immettersi» (E.
Bianchi) ed è anche una promessa di impegno, essenziale nella preghiera.
Ci si impegna a costruire e diffondere il Suo Regno, il mondo nuovo basato sull’amore, con energia e creatività; a testimoniare la grandezza del Signore facendolo conoscere e insegnando ad amarlo; ci si impegna ad accogliere la Sua volontà anche quando “capire” e “accettare” sembrano due verbi impossibili; a lottare contro le tentazioni di egoismo, a lavorare su di sé per riuscire a perdonare…
Nella gerarchia dei valori di un Cristiano convinto, il rapporto con Dio occupa il primo posto, è modello di ogni altro rapporto e diviene il motore e l’obiettivo finale di tutte le esperienze.
Se credente, sono certo che i rapporti che coltivo, gli sforzi che faccio per contribuire a “fare giustizia” mi condurranno a conoscere Lui che è Amore e Verità e a incontrarlo nel profondo del cuore, sempre meglio.
1) Tutti gli uomini pregano? Afferma C.M.
Martini, già Arcivescovo di Milano: «Anche chi si dice lontano dalla pratica religiosa ha non di rado moti interiori e aspirazioni che si possono definire preghiera.
Vi sono esempi di preghiera di non credenti, per quanto paradossale possa sembrare la cosa».
Poche, commoventi parole, da un muro di Roma, sono arrivate a un giornale: «In questa città ho paura, nessuno mi conosce, solo Dio».
Molti psicanalisti confermano: anche colui che è certo di non credere in Dio, talvolta, prega; per un po’, segretamente, spera di essersi sbagliato, di vedere smentite tutte le sue convinzioni razionali di ateo e di incontrare la Fonte della vita e del suo significato, una potente Forza amorosa e “riordinatrice”.
È innegabile: nel cuore della persona umana esiste un’“area di solitudine”, incolmabile dagli effetti umani, abitata dalle paure più grandi e dalle domande senza risposta…
Chi prega tenacemente apre le porte interiori a una Presenza che riempia la solitudine, a una Parola di Verità che gli venga rivolta personalmente.
IN DIRETTA DAI VANGELI Parabola dell’“amico importuno” (Lc 11,5-13)  5Poi disse loro: «Se uno di voi ha un amico e a mezzanotte va da lui a dirgli: “Amico, prestami tre pani, 6perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da offrirgli”, 7e se quello dall’interno gli risponde: “Non m’importunare, la porta è già chiusa, io e i miei bambini siamo a letto, non posso alzarmi per darti i pani”, 8vi dico che, anche se non si alzerà a darglieli perché è suo amico, almeno per la sua invadenza si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono.
9Ebbene, io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto.
10Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto.
11Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce? 12O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13Se voi dunque, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono!».
3) La preghiera di Gesù «Nessuno viene al Padre se non attraverso di me»…
(Gv 14,6) Gesù è la Parola definitiva del Padre; attraverso di Lui, mentre agisce e mentre insegna, si manifesta il Volto amoroso di Dio: è come il pastore che cerca ansiosamente la pecorella smarrita, come il padre del figlio spendaccione e ingrato della parabola, che ritorna da lui senza sperare nel perdono, e che pure lo riceve…
Sempre per amore, il Padre è giusto, può essere severo…
mai indifferente.
Il Cristiano raggiunge il Padre attraverso il Figlio; il rapporto con Lui è prioritario, Egli è il Maestro da cui farsi istruire in tutto, il Dio-Uomo vicinissimo a noi per Sua scelta, anche con le esperienze vissute tramite la Sua umanità; attraverso di Lui riceviamo lo Spirito Santo, Forza di Dio che agisce in noi anche perché impariamo a pregare nel modo giusto…
Il Figlio è della stessa natura divina del Padre, eppure Gesù-uomo Gli è totalmente sottomesso («Non come voglio io, ma come vuoi Tu…», dice nel Getsemani, prima dell’arresto); Gli si rivolge con il termine aramaico “Abbà” (“papà”, “babbo”), usato dai bambini, è cosciente di un legame di totale intimità con Lui che Lo ha generato “da sempre”.
Gesù pregava nei momenti delle feste religiose ebraiche comunitarie, in sinagoga e al Tempio…
spesso si ritirava in luoghi solitari per dialogare con il Padre (Mt 14,23, Mc 1,35; 6,46…).
Egli pregò con particolare intensità in momenti cruciali della Sua esperienza terrena: in occasione del Battesimo, prima di chiamare gli Apostoli, prima di far risorgere l’amico Lazzaro, durante l’ultima drammatica notte prima dell’arresto e al momento della morte…
Tuttavia, ogni istante della Sua giornata era vissuta alla presenza di Dio: il dialogo era in realtà costante, ininterrotto.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta alla classe i primi testi-guida, che propongono la visione biblica della preghiera approfondendo temi già avviati nel secondo anno.
In tutte le religioni è fondamentale la preghiera, la ricerca umana di comunicazione con Dio in molte forme; la preghiera autentica conduce al dialogo e poi al rapporto profondo, un rapporto che può “plasmare” la persona, trasformarla e permetterle di vedere ogni cosa in un’ottica particolare…
dal punto di vista di Dio stesso.
Parabola “il fariseo e il pubblicano” (Lc 18,9-14) 9Disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano.
12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Unità di Lavoro-Riflessione sull’esperienza, con approfondimenti biblici e teologici Prima parte OSA di riferimento Conoscenze – La fede, alleanza tra Dio e l’uomo, vocazione e progetto di vita.
– Gesù, via, verità e vita per l’umanità.
Abilità – Riconoscere le dimensioni fondamentali dell’esperienza di fede.
– Individuare l’originalità della speranza cristiana.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e saper descrivere aspetti vari della preghiera cristiana.
– Conoscere e saper descrivere l’azione trasformante della preghiera secondo i credenti.
– Conoscere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni passi biblici riguardanti la preghiera.
– Elaborare e saper esprimere opinioni personali motivate inerenti l’importanza della preghiera nell’esperienza umana.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Consolidare o almeno avviare percorsi di introspezione, in vista di una sempre più approfondita conoscenza di sé e dello sviluppo di opinioni personali.
– Prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza.
– Possedere essenziali conoscenze bibliche e dottrinali inerenti il Cristianesimo.
2) Preghiera biblica: Antico Testamento Nella Bibbia il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe” (Es 3,6.15) si rivela nella storia, prende l’iniziativa di una relazione e rivolge all’uomo una Parola, tramite profeti ed eventi, che richiede ascolto; manifesta la Sua Volontà in essa e chiama per amore a un rapporto profondo, l’Alleanza.
L’uomo “può” rispondere: è «libertà dialogante con Dio» (E.
Bianchi), con il suo volergli rispondere diviene persona umana nella pienezza di tutto il suo essere.
La preghiera biblica è ascolto della Parola e risposta nella fede, tramite lode e supplica.
Nei Salmi le due dimensioni sono evidenti come benedizione e ringraziamenti e anche come invocazioni, richieste e intercessioni (suppliche per altri).
Nell’Antico Testamento le grandi figure profetiche trovano nella preghiera la forza di obbedire a Dio senza temere gli uomini o gli ostacoli: pensiamo ad Abramo, Mosè, Geremia…
La risposta alla Parola, nella preghiera, può e deve essere personale come comunitaria, espressione della fede e della speranza che unisce il “Popolo di Dio” – ieri il popolo ebraico, oggi la Chiesa –, dell’unione di anime che insieme lodano o chiedono.

Classe seconda – Marzo

1) Per Bartolomeo Una ragazza energica e generosa Lia Varesio nasce a Torino nel 1945 da una famiglia in cui la fede è il valore fondamentale.
Un suo ricordo d’infanzia sempre vivo è quello della macchina da cucire con cui la mamma confezionava semplici sacchetti di stoffa, da riempire con il riso acquistato dal papà in grandi quantità; li avrebbero portati alle famiglie poverissime che abitavano nelle soffitte del centro storico…
Lia cresce di età, ma rimane piccola e minuta: a 9 anni, una malattia le ha bloccato la crescita e le ha causato una malformazione ossea e difficoltà di respirazione.
I problemi di salute, tuttavia, non hanno mai ostacolato la sua voglia di vivere, il suo ottimismo, la sua energia, il suo desiderio di comunicare con gli altri e di offrire solidarietà.
Già da ragazza, in Parrocchia, si era data un gran da fare seguendo persone malate e anziani soli, collaborando con una missione di Capoverde; in FIAT, era impiegata nell’assistenza sociale e si occupava delle persone indigenti che scrivevano alla Fondazione Agnelli.
Una mattina, proprio andando al lavoro, Lia fa un incontro particolare, che le rivoluzionerà la vita.
Ha 33 anni.
«Mentre camminavo per strada mi sono imbattuta in una donna scalza, scarmigliata, con mani e piedi laccati di rosso, che urlava.
Sono rimasta sconvolta, non tanto perché lei urlava ma perché la gente scappava via terrorizzata.
Mi sono chiesta “Scappi anche tu?” e mi sono data la risposta.
Mi sono avvicinata e le ho chiesto “Perché gridi così?”.
La risposta è stata “Grido al mondo la mia disperazione ma nessuno si ferma”.
La salutai: “Sono Lia”; mi disse che si chiamava Ester, era uscita dal manicomio e nessuno si era preso cura di lei; erano tre giorni che non mangiava.
Vicino c’era un bar che conoscevo perché ci andavo ogni tanto, invece di andare al lavoro ho telefonato in FIAT e mi sono presa un giorno di ferie.
Quando ci siamo sedute al tavolo del bar la donna ha cominciato a mangiare cornetti e cappuccini; intanto mi ha raccontato la sua storia.
Era stata in manicomio, adesso era per strada, andava a mangiare al Cottolengo e dormiva alla stazione.
Io l’accompagnai al Cottolengo e poi a Porta Nuova dove mi fece incontrare gli altri, i suoi amici, gli abitanti della stazione”.
Da quel giorno nasce ancora più forte in Lia il desiderio di conoscere queste persone, di parlare con loro, di aiutare.
Ne parla al fratello e a un gruppo di amici e con loro prende l’abitudine di andare a trovare questa gente, portando bevande calde, cibo, coperte, all’inizio solo a Porta Nuova, poi anche nelle altre stazioni, infine le “ronde” in giro per la città.
Una sera d’inverno del 1980 manca all’appello uno dei soliti, Bartolomeo, lo cercano nei posti consueti, non lo trovano.
Decidono di andare a vedere nel centro storico, fra i ruderi di una vecchia casa.
Non lo trovano neanche lì, stanno per andarsene quando Lia inciampa in un mucchio di stracci; quando si rialza si accorge che da quel mucchio di stracci spuntano un piede e una gamba.
È Bartolomeo, morto di freddo e di stenti nel cuore della città.
Si fortifica quella sera la necessità di continuare il cammino intrapreso e viene così fondata dopo breve tempo l’associazione “Bartolomeo & C”.
In quegli anni sindaco della città è Diego Novelli.
Lia lo convince ad accompagnarla nei suoi giri notturni; lui, conquistato da tanta determinazione, la chiama a lavorare in comune, all’ufficio dei senza fissa dimora.
Dal 1986 al 1990 lavora anche nelle carceri di Corso Vittorio e delle Vallette come assistente volontaria penitenziaria.
In quegli anni frequenta la Scuola di Cultura religiosa diocesana; è anche componente della Commissione diocesana per la sanità e l’assistenza.
«Sono laica ma credente, il mio impegno è un atto di fede in Dio in favore degli uomini».
Nel 1994 va in pensione e inizia a dedicarsi a tempo pieno alle attività della Bartolomeo & C.
Negli anni viene aperto un dormitorio, la sede si allarga, il numero degli utenti cresce.
Nelle vie della grande città, Lia cerca i vicoli e gli angoli della disperazione e incontra tossicodipendenti e alcolizzati totalmente abbandonati, malati psichici, ex carcerati…
Li conosce, li ascolta, si dà da fare per procurare una doccia, abiti, qualche soldo…
Per molti, grazie a lei, è l’inizio di una vita nuova, con una casa, un lavoro.
2) Lia scrive…
Ma niente paura per chi crede, c’è un bel dono che il Signore fa a chi ha ancora voglia di vivere la fede.
Fede semplice ma concreta che ha nutrito i nostri antenati, fede fatta di poche cose essenziali, ma che dà speranza quando ti senti in crisi, ti dà forza quando ti senti spento.
Non lasciamola morire, Amici, è il perno della nostra vita, è la sorgente delle nostre aspirazioni, è il movimento della nostra anima e delle nostre azioni.
È tutto per chi crede, perché è un dono che il Signore fa …fede non è sapere che l’altro esiste, è vivere dentro di lui, calarsi nella pelle dell’amico che passa, che ti interpella come un pugno nello stomaco, non ti lascia tregua, ti ricorda che esisti… E ti fa chiedere: perché vivi? Per chi vivi, dove stai andando?» (da Giornalino Bartolomeo & C, anno 2005) L’associazione «Ne abbiamo sistemati 250», ricorda Lia con fierezza.
All’inizio dell’avventura dell’Associazione, trova subito l’appoggio e la collaborazione dei suoi famigliari.
Fra i primi ad accorrere alla stazione per passare le notti insieme ai barboni ci fu anche il fratello di Lia.
Molta più sorpresa creò questa “conversione” fra i vicini di casa, che da quel giorno cominciarono a vedere bussare alla porta dei Varesio personaggi come Zeus, 39 anni, perito elettrotecnico, afflitto da delirio mistico (ha tappezzato tutta la città di scritte «Zeus ti vede» e si arrabbia un sacco perché non riesce a fare miracoli); come Angelo, che distrutto da un trattamento sbagliato, ha vissuto i suoi anni come un animale in perenne fuga.
La Bartolomeo & C ha cominciato la sua attività di “ronde notturne” alla ricerca dei disperati nel 1979.
Nel 1984 si è costituita in associazione.
Nel frattempo il Comune ha offerto a Lia Varesio la possibilità di occuparsi a tempo pieno dei “senza fissa dimora” come assistente sociale.
Dopo qualche esitazione ha accettato.
«Ma non ho smesso», ci tiene a precisare, «di rompere le scatole ai responsabili perché si rendano conto dei loro doveri».
Adesso le “ronde notturne” si sono un po’ ridotte di numero e di… pericolosità.
«I primi anni eravamo proprio degli incoscienti», ricorda Lia.
«Per fortuna, però, fra minacce, coltelli e sparatorie ci è sempre andata bene».
Ora i volontari del gruppo si limitano quasi esclusivamente ad andare a trovare le persone “sistemate” in alloggi, offrendo loro tutto il supporto necessario dal punto di vista psicologico e pratico (assistenza per documenti o certificati, piccoli lavori, ma anche feste, cene, gite).
Poi c’è l’ufficio aperto tutti i pomeriggi e tutte le sere (fino alle 23) alla stazione di Porta Nuova.
È qui, nel crocevia della disperazione, che la Bartolomeo & C.
è nata ed è qui che continua ad essere presente.
Nel 1990 quella soglia di speranza è stata varcata per 5193 volte; 229 persone sono entrate per la prima volta al centro.
Oltre la sede di Porta Nuova da qualche tempo la Bartolomeo & C.
ne ha anche un’altra, in via Fiocchetto 13, proprio dietro Porta Palazzo.
Un altro crocevia di disperazione per un’altra casa della speranza.
Qui si ritrovano gli alcolisti in trattamento, i volontari per i corsi di formazione, tutti coloro che hanno bisogno dell’ambulatorio per le cure mediche o della cappella per un momento di preghiera.
La Bartolomeo & C.
si finanzia attraverso l’autotassazione dei soci, qualche contributo pubblico e le offerte donate dalla generosità della gente.
«Le sovvenzioni che ci sono più care, anche se sono le più misere», dice Lia Varesio, «sono quelle degli ex-barboni, la gente che noi abbiamo aiutato e che adesso ha una casa, un lavoro, una vita sociale.
Ci vengono a trovare e per quanto possibile ci danno il loro contributo perché altri possano tornare a vivere, come è successo a loro».
«Non mi spavento, sai? Sono abituata a lottare, se avessi avuto paura mi sarei fermata molto tempo fa».
Lia continua, anno dopo anno: ogni inverno vede ancora “amici” che muoiono di freddo, nel centro caotico e indifferente della città.
Negli ultimi anni, nonostante i problemi di salute e i frequenti ricoveri, la sua attenzione resta sempre rivolta agli altri.
Dei momenti passati in ospedale ricorda: «Soprattutto la sera, quando tutto era in silenzio, le mie emozioni erano tutte rivolte all’ascolto dei malati che telefonavano ai loro cari, a qualche persona amica: quanto bisogno di contatti umani! Si raccontavano, ed è proprio questo che a volte manca.
Non siamo più capaci di raccontarci, abbiamo troppa fretta e non riusciamo a sentire i gemiti di chi soffre.
Passiamo accanto alla gente e non ci accorgiamo di loro, dei loro bisogni.
Devo dire che ho trovato tanta solidarietà attorno a me, ma ho scoperto anche tanta solitudine e disperazione.
A volte è sufficiente una parola, un gesto, un sorriso e le persone possono guarire psicologicamente e uscire dal loro autismo.
Ed è proprio questo che mi stimola ad andare avanti e continuare a lavorare per uomini e donne della città che non hanno ancora trovato spazio, cure, dignità, attenzione, giustizia e solidarietà».
L’11 marzo 2008, circondata dall’affetto del fratello e degli amici, Lia muore, all’Ospedale Mauriziano, mentre risuonano nelle orecchie di tutti le parole che tante volte aveva pronunciato: «Non dobbiamo fare da spettatori ma chiederci che cosa stiamo facendo concretamente per gli altri.
Se il nostro fratello non ce la fa da solo a portare la croce, noi abbiamo il dovere di aiutarlo.
È ora di smetterla di essere spettatori.
Occorre diventare protagonisti attraverso il nostro impegno concreto e quotidiano».
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta l’esperienza di Lia Varesio e degli amici dell’associazione “Bartolomeo & C”.
Al termine della lettura, gli allievi potranno: – sottolineare in rosso le “azioni importanti” di Lia, dall’infanzia alla morte; – sottolineare in blu le affermazioni e i comportamenti che ne rivelano il carattere e le qualità umane; – sottolineare in verde le affermazioni e i comportamenti che ne rivelano la fede.
Seconda fase dell’attività L’insegnante propone il ripasso di alcuni concetti generali studiati con gli allievi.
– La Chiesa è la comunità dei battezzati credenti in Cristo risorto; vive e testimonia il Vangelo.
– La Chiesa si esprime tramite:  • l’evangelizzazione, che comprende iniziative di annuncio, diffusione di conoscenze e testimonianze di vita che presentino il messaggio evangelico a chi non lo conosce o lo conosce in modo superficiale;  • la catechesi, percorso educativo dei Cristiani che vogliono approfondire le verità di fede;  • le azioni liturgiche, con tutti i momenti di preghiera comunitaria, le celebrazioni eucaristiche e i Sacramenti con cui le comunità cercano l’unione con il Padre attraverso il Figlio e per opera dello Spirito Santo;  • la promozione umana, che è azione della Chiesa in favore dell’intera umanità, amore che si traduce, imitando Cristo, in una lotta contro le ingiustizie e contro tutte le violazioni della dignità della persona.
L’affamato, l’emarginato devono trovare nella Chiesa la loro difesa; la Chiesa ha denunciato le ingiustizie planetarie, dallo sfruttamento del Terzo Mondo alla corsa agli armamenti, attraverso le parole e le encicliche dei Papi e tutti i documenti del magistero; attraverso il sostegno dei cristiani a iniziative in favore dell’integrazione di ogni uomo nella società; attraverso l’azione di Cristiani presenti in politica, in favore di leggi in difesa della famiglia e della vita…  • I ministeri, compiti diversi e specifici, sono quelli del Papa, successore di Pietro e guida della Chiesa universale; dei Vescovi, successori degli Apostoli, responsabili delle comunità cristiane locali (diocesi) e con il potere di consacrare altri vescovi, sacerdoti e diaconi; dei sacerdoti, che hanno il compito di predicare il Vangelo, celebrare la Messa e i Sacramenti; dei diaconi, che collaborano con i sacerdoti nella liturgia, nelle opere di carità e nella catechesi tramite un impegno costante; dei religiosi, frati e suore che vivono in povertà, castità e obbedienza alla Chiesa mettendo in pratica un Vangelo profetico ed estremo; dei laici, battezzati che fanno parte del “popolo di Dio” (da “laòs”, popolo) e sono chiamati a vivere il Vangelo nell’esistenza quotidiana, attraverso la famiglia, il lavoro…
L’insegnante propone gli allievi un approfondimento sul ministero dei laici, seguito da dibattito, analizzando l’esperienza di Lia Varesio; sarà opportuno tenere sott’occhio le sottolineature in vari colori.
– «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27).
Il “Comandamento Nuovo” di Gesù è l’anima dell’azione del Cristiano nel mondo: in quali modi Lia ne mette in pratica i tre aspetti? – Lia agisce “all’interno” della Chiesa e “nel mondo fuori”, migliorandolo.
Distingui e completa la descrizione del suo modo di essere Cristiana “laica”.
All’interno della Chiesa…
– Lia coinvolge amici e familiari che condividono l’ideale evangelico nella sua attività a favore degli ultimi, diffonde uno “stile di vita”, il più coerente possibile con il Vangelo.
Nel mondo…
– Lia agisce nell’immediato facendo il “poco” che può (esempio di Ester), senza delegare la soluzione dei problemi alle istituzioni; tuttavia, richiama le istituzioni alle loro responsabilità.
Continua tu! – In quali campi e modi i laici, secondo te, possono contribuire alla promozione umana? E all’evangelizzazione e alla catechesi? In particolare, che cosa possono fare i giovani? E le famiglie in quanto tali? – La fede può fornire una forza e delle motivazioni particolari in un percorso di solidarietà? Se sì, quali? La sintesi delle osservazioni, preparata con l’aiuto dell’insegnante, potrà essere riportata sui quaderni.
A casa.
Racconta per scritto una vicenda di laicato cristiano “ben riuscito”, pensando a qualcuno che conosci (anche a un’associazione, a un gruppo particolare…) o facendo una ricerca tra gli articoli di giornale.
Potrai presentare alla classe i risultati; i testi potranno essere esposti su cartelloni.
Unità di Lavoro di approfondimento sull’apostolato dei laici nella Chiesa cattolica, tramite l’analisi di un’esperienza, in seguito allo studio sulla missione e l’identità della Chiesa stessa.
OSA di riferimento Conoscenze – La missione della Chiesa nel mondo e la testimonianza della carità.
Abilità – Documentare come le parole e le opere di Gesù abbiano ispirato scelte di vita fraterna, di carità.
– Individuare caratteristiche e responsabilità di ministeri e stati di vita.
Obiettivi Formativi ipotizzabili – Nell’ambito della descrizione dei compiti della Chiesa (evangelizzazione, catechesi e promozione umana), conoscere e saper spiegare in particolare il concetto di “promozione umana”, anche tramite esempi concreti.
– Conoscere e saper descrivere i diversi ministeri nell’ambito ecclesiale; in particolare, saper descrivere il ruolo del laico.
– Saper analizzare l’esperienza presentata cogliendo i valori umani e religiosi della protagonista (sentimenti, convinzioni, obiettivi).
– Saper esprimere opinioni personali riguardanti l’urgenza dell’accoglienza e della solidarietà nella società attuale.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale: – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza come ipotesi di interpretazione della realtà sociale e individuale.
– Sul piano della crescita umano-relazionale, sviluppare capacità di dialogo, ascolto, conoscenza e rispetto dell’altro, condivisione e accoglienza.
– Possedere essenziali conoscenze inerenti il Cristianesimo (in particolare, l’identità e la storia della Chiesa cattolica).

Classe prima – Marzo

Seconda fase dell’attività a) La classe si divide in gruppetti di quattro o cinque persone, con portavoce.
In ciascun gruppo, tutti saranno dotati di un testo dei Vangeli.
Alcuni gruppi leggeranno, in Luca e Matteo, i “Vangeli dell’infanzia”; gli altri, dai racconti della Passione e Resurrezione alla conclusione, nell’ambito di uno dei quattro Vangeli.
I gruppi riassumeranno per scritto gli “interventi angelici” ritrovati nei testi, annotando poi: – la missione dell’Angelo o degli Angeli; – il modo di interagire con gli esseri umani e il tipo di rapporto instaurato con loro; – eventuali rapporti instaurati tra gli Angeli e Gesù.
I testi elaborati verranno presentati dai portavoce, confrontando le risposte dei gruppi in relazione agli stessi passi esaminati.
L’insegnante aiuterà poi la classe a sintetizzare per scritto, in breve, le giuste osservazioni.
b) L’insegnante propone agli allievi un questionario scritto; seguirà un confronto conclusivo delle risposte, in dibattito.
– Rispondi in breve: chi sono gli Angeli, secondo l’Antico e il Nuovo Testamento? Qual è il loro ruolo nella “Storia della Salvezza”? – Quale importanza può avere la loro esistenza, nell’ambito della storia umana e della storia di ogni singola persona, secondo i credenti? – Ci sono valori, vissuti o insegnati dagli Angeli, che qualsiasi essere umano, anche non credente, potrebbe condividere?  Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida 2) Nella Bibbia: Antico Testamento Nella Torah e nei Profeti l’angelo è soprattutto una “figura teologica” che indica una manifestazione di Dio, una personificazione della Sua Parola che salva e giudica.
Nel roveto ardente, Mosè vede “l’angelo del Signore”, ma subito dopo la narrazione continua così: «Il Signore vide che Mosè si era avvicinato e lo chiamò dal roveto» (Es 3,2-4).
L’identificazione Angelo-Dio si ritrova in molti altri passi biblici, per esempio in quello del sacrificio di Isacco (Gn 22,11-17).
In questo ruolo, l’angelo può assumere l’aspetto umano per rendersi visibile: Dio è “Altro” dall’uomo, ma anche a lui vicino, simile.
Nel capitolo 18 della Genesi, ripreso nella celebre icona del pittore A.
Rublev, quasi simboleggiando la Trinità tre Angeli si presentano davanti alla tenda di Abramo come viandanti, per annunciargli la nascita di Isacco; come un uomo misterioso un angelo lotta di notte con il patriarca Giacobbe, convinto tuttavia di “aver visto Dio faccia a faccia”.
L’Angelo è Parola che benedice, ma anche Parola che giudica: pensiamo all’essere che toglie la vita ai primogeniti degli Egiziani nell’Esodo…
Nella visione della “scala di Giacobbe” (Gn 28,12), gli Angeli che salgono e scendono indicano una Parola che rivela il collegamento tra cielo e terra, finito e infinito, Dio e uomo.
In moltissimi altri testi, gli Angeli si presentano non come simboli ma come entità reali, con identità proprie, soprattutto a partire dai testi successivi all’esilio babilonese degli Ebrei (dal VI secolo a.C.
in poi).
Diviene indiscutibile la presenza di un “angelo custode” a tutela del giusto.
L’idea di un angelo che non lascia solo il povero ritorna nei Salmi: «L’angelo del Signore si accampa attorno a quelli che lo temono e li salva…
Il Signore darà ordine ai suoi Angeli di custodirti in tutti i tuoi passi; sulle loro mani ti porteranno perché non inciampi nella pietra il tuo piede» (Sal 34, 91,11-12).
Nei Libro di Giobbe appare anche l’angelo che intercede per l’uomo presso il Signore.
Oltre a vegliare sugli individui, nella Bibbia miriadi di Angeli presiedono al destino delle nazioni (Dn 10,13-21); in una sorta di gerarchia angelica, spiccano Angeli con nomi che rivelano la loro missione, come Michele (“Chi è come Dio?”), protettore di Israele, grande combattente contro il male; Gabriele (“Dio è mia forza”), interprete incaricato di rendere comprensibili all’uomo i misteri della Rivelazione e Raffaele (“Dio guarisce”), incaricato delle guarigioni.
I “Cori angelici” esprimono la melodia e l’armonia perfetta dell’Amore di Dio; le loro gerarchie corrispondono a compiti d’immensa importanza.
Nella Gerarchia suprema, che loda e contempla Dio, i Serafini rappresentano il perfetto Amore, i Cherubini la conoscenza e la sapienza, i Troni la giustizia…
Nella seconda Gerarchia gli Angeli portano al mondo giusto ordine e bellezza e contrastano il male; nella Gerarchia inferiore, gli Angeli hanno incarichi di grande importanza presso gli uomini, sono ambasciatori della volontà di Dio.
Afferma S.
Agostino: «Dio li investe della Sua sapienza e della Sua gloria, e il loro sguardo sull’umanità è tenerezza infinita, innocenza di bambino…»  1) Chi sono? Il palcoscenico è avvolto nel buio.
Si accende un cono di luce che va a inquadrare un angelo, avvolto in una veste bianca.
È il prologo di un dramma di Santucci, uno dei più noti scrittori contemporanei, dal titolo L’angelo di Caino.
«Battezzati – esclama l’angelo rivolgendosi agli spettatori – porgetemi orecchio.
Nel dramma che ascolterete io sono l’angelo.
Chi sono gli angeli? C’è qualcuno tra voi che lo ricorda?».
Sulla platea scende un fitto silenzio.
L’angelo guarda negli occhi i suoi spettatori.
La pausa è densa di interrogativi.
«Ho udito i vostri pensieri.
No, non tutte queste cose soltanto».
Stende la mano e punta l’indice sulla platea immersa nel buio.
«Tu hai pensato a tua madre.
E tu al tuo piccino morto.
E voi altri a una musica, ad una immagine appesa in capo al letto.
Ma è giusto che voi sappiate.
Forse non potrete sopportare la nostra presenza, se ci pensate come siamo davvero, vicini a voi, in ogni istante!…
Ci pensiate o no, noi siamo con voi, o battezzati, nel modo preciso e perentorio che Dio ha voluto, sempre, sempre.
Senza distrazioni, senza vacanze».
                                                                           (C.
Fiore, I temi male detti, p.
29, Elledici) Afferma ancora lo scrittore Santucci: «Tanto rozzi siamo diventati che agli angeli più nessuno pensa.
Non vedendoli sul metrò o negli snack-bar o ai caselli dell’autostrada con gomito sporgente dal finestrino, li abbiamo aboliti.
Ne facciamo qualche accenno ai bambini.
Neppure più diremmo alla donna del cuore: sei il mio angelo.
Rideremmo entrambi…
Eppure gli angeli ci strappano come nessun’altra cosa dal puzzo di benzina, dal gracchiare del telegiornale…» In tutte le culture antiche compaiono esseri superiori agli uomini ma inferiori a Dio, “esseri-tramite”: li ritroviamo nelle primitive religioni animiste, in quelle dell’area mesopotamica, nei miti greco-romani; oggi nell’Induismo, nel Buddhismo, nell’Islam…
Soprattutto, sono chiaramente presenti nella Bibbia, nell’Antico e nel Nuovo Testamento; per i credenti, la “prova” dell’esistenza degli angeli risiede nella Parola di Dio.
Il termine greco “anghelos”, “messaggero”, traduce l’ebraico “mal ’akh”; esso ricorre nella Bibbia 215 volte.
Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, «gli angeli sono creature spirituali che incessantemente glorificano Dio e servono i Suoi disegni salvifici nei confronti delle altre creature»; sono creature libere di scegliere, interamente spirituali, incaricate di sostenere gli uomini, di illuminarli, di aiutarli a compiere la volontà di Dio.
Secondo il teologo G.
Gozzelino, «hanno un misterioso potere sul cosmo e sulla storia.
Contribuiscono con Gesù, con la Chiesa e i Cristiani alla lotta contro le forze del male.
Annunciano agli uomini gli interventi divini e li aiutano a comprenderne il senso.
In breve: sono adoratori di fronte a Dio, governatori del cosmo e della storia di fronte al mondo, annunciatori e guide di fronte agli uomini».
3) Nel Nuovo Testamento L’angelo “interprete” del Nuovo Testamento aiuta e spiega l’azione di Dio (vedi Apocalisse), soprattutto il significato dell’Incarnazione di Cristo.
Le gerarchie angeliche hanno grandi poteri, ma è chiaro come siano semplicemente incaricate di un ministero: Gesù è l’unico Mediatore di una Nuova Alleanza tra Dio e uomo; l’angelo “spiega” e invita all’adesione della fede.
Nei Vangeli, gli Angeli compaiono soprattutto in quelli “dell’infanzia” (Mt 1-2 e Lc 1-2) e nei racconti di resurrezione (Mc 15 e paralleli).
Gabriele annuncia a Zaccaria la nascita di Giovanni Battista (Lc 1,11-20) e a Maria la nascita di Gesù (Lc 1,26-28); un angelo guida Giuseppe alla scoperta della sua missione nei confronti di Gesù, cori angelici annunciano la Natività…
Angeli annunciano la resurrezione, presentati anche come “un giovane” (Mc 16,5), due uomini (Lc 24,4)…
Si ritrovano inoltre nei momenti in cui Gesù prega (Mt 4,11; Mc 1,13), specialmente nel Getsemani (Lc 22,43).
Gli Angeli proteggono gli uomini (Mt 18,10) e faranno da corona quando il Cristo tornerà per il giudizio finale e la vittoria definitiva sul male e sulla morte, alla fine dei tempi (Mt 16,27, Lc 12,8)…
Nel Nuovo Testamento Michele, l’Angelo del popolo ebraico, sembra divenire protettore della Chiesa universale (Ap 12,7).
La certezza della presenza dell’angelo custode (Mt 12,15) è ratificata dal Salvatore (Mt 18,10); gli Angeli sono anche accompagnatori delle anime nell’altra vita (Lc 16,22).
Essi, come noi, sono stati voluti dal Creatore di “tutte le cose visibili e invisibili”.
Il diavolo, dal greco “diabolos”, “colui che divide”, in ebraico “satan”, “avversario”, indica uno degli Angeli – potentissimo – che hanno usato male la loro libertà contrapponendosi a Dio in un sogno folle di potere; Satana sceglie il male, tenta di contrastare il Disegno di Dio soprattutto agendo come tentatore nei confronti dell’uomo.
Il Nuovo Testamento mette in risalto la vittoria di Cristo su ogni forma di male e sul diavolo.
Ci sono dunque esseri, secondo la Bibbia, che riempiono l’universo con la pienezza della Verità e dell’Amore; esseri capaci di lodare Dio e di servirlo con incessante fermezza (essi sono ciò che noi non siamo…
ma che possiamo diventare), potenti perché uniti a Lui e per amore Suo capaci di amare immensamente noi esseri umani, aiutandoci a elevarci; proteggendoci dai pericoli e da noi stessi, suscitando in noi il desiderio del bene; divenendo portatori della Parola, nella Scrittura e nei cuori.
Gli Angeli ci insegnano la dedizione assoluta a una missione di bene, l’amore-donazione gratuito e illimitato.
Unità di Lavoro biblica, per l’approfondimento e l’attualizzazione OSA di riferimento  Conoscenze   – Ricerca umana e Rivelazione di Dio nella storia.
– Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio.   Abilità  – Individuare il messaggio centrale di alcuni testi biblici, utilizzando informazioni storico-letterarie e seguendo metodi diversi di lettura.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere le caratteristiche degli angeli e il loro ruolo nella “Storia della Salvezza”.
– Comprendere e saper spiegare il significato essenziale di alcuni brani biblici inerenti gli angeli.
– Elaborare ed esprimere opinioni personali in merito ai valori espressi dal messaggio biblico sugli angeli.   Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale  – Possedere essenziali conoscenze bibliche, storiche e dottrinali inerenti il Cristianesimo e riconoscere il contributo del pensiero cristiano al progresso culturale, artistico e sociale dell’intera umanità.
– Sapersi esprimere in modo personale oralmente e per scritto nell’ambito del linguaggio specifico, tramite testi di riflessione ed esperimenti di analisi e sintesi.
Prima fase dell’attività L’insegnante presenta agli allievi i testi-guida motivando il percorso.
Nella tradizione cristiana, gli angeli occupano un ruolo discreto, ma di primo piano; creature più evolute nella vicinanza a Dio, possono rappresentare il meglio di ciò che è “invisibile”, ma che può essere reale e che può spalancare nuovi, meravigliosi orizzonti all’esperienza umana.
Essi trasmettono valori degni di attenzione per chiunque voglia provare a migliorare il mondo.

“Se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi gli uni gli altri”

BENEDETTO XVI E LA LETTERA AI VESCOVI Sfidato dalla storia di Ernesto Galli Della Loggia Per il suo carattere eccezionale e per le parole che contiene la lettera di Benedetto XVI ai vescovi cattolici dice molto di più delle personali ambasce di un Papa il quale, a proposito del caso Williamson, si è visto attaccato e insidiato anche dai suoi, e che vede, in generale, come anche nella Chiesa — nella stessa Curia, ha fatto capire il direttore dell’Osservatore romano — «ci si morde e ci si divora».
La lettera e il suo contenuto tradiscono sentimenti di sconcerto e di disappunto che lasciano intravedere qualcosa di ben più importante, in realtà: e cioè una complessiva difficoltà di direzione che oggi grava sugli stessi vertici della Chiesa.
Da molti sintomi sembra, in effetti, che stiano venendo al pettine alcune contraddizioni accumulatesi nell’ultimo mezzo secolo intorno al ruolo del papato via via che questo ha conosciuto una profonda trasformazione storica.
Tale trasformazione ha avuto due aspetti principali con i quali la figura del Pontefice ha dovuto fare i conti: l’avvento della televisione e il Concilio.
L’avvento della televisione ha voluto dire la virtuale trasformazione del Papa da capo della Chiesa di Roma in una figura della scena mondiale quotidianamente alle prese con l’opinione pubblica planetaria, per lo più non cattolica e neppure cristiana.
Alle prese cioè con i media, che di tale opinione sono i servi-padroni.
Giovanni XXIII, eletto alla fine degli Anni 50, cioè in coincidenza con la piena diffusione planetaria della Tv, è stato il primo Pontefice che ha potuto godere dell’indubbia opportunità offerta da questo cambiamento: diventare di fatto un leader etico-carismatico universale, in certo senso meta-religioso (il papa «buono», quasi che i predecessori fossero «cattivi»: ma in certo senso così essi venivano fatti indirettamente apparire dalla potenza dei media, e di fatto così divenivano).
Ma naturalmente questa intrinsichezza con l’opinione pubblica mondiale e con i media rappresenta per il Pontefice un vincolo non da poco.
Specialmente perché è un vincolo che non ha sostanzialmente alcuna natura religiosa (neppure spirituale, forse), e però esso influenza non poco la popolarità del Papa nello stesso mondo cattolico, alle cui divergenze interne i media mondiali, tra l’altro, non mancano mai di offrirsi puntualmente come sponda interessata, quasi sempre, tra l’altro, definendo e enfatizzando quelle divergenze nel modo ideologicamente più banale.
Il Papa rischia così di divenire prigioniero da un lato dell’obbligo del carisma, dell’obbligo di «venire bene» in tv, di avere una congrua propensione scenica, di essere «simpatico », dall’altro dell’obbligo del politicamente corretto da cui il conformismo mediatico fa dipendere di solito il proprio consenso.
Insomma una specie di Dalai Lama con i paramenti pontificali.
La seconda trasformazione gravida di tensioni l’ha arrecata, al ruolo istituzionale del papato, il Vaticano II.
In pratica, infatti, il Concilio ha voluto dire la nascita dei partiti all’interno della Chiesa.
Intendiamoci, nella Curia ci sono sempre stati dei «partiti»: ma nella Curia, appunto, ai vertici dell’organizzazione e con tutta la felpata cautela del caso, non tra i fedeli, non nell’universo cattolico in generale.
Con il Vaticano II, e intorno ad esso, intorno ai suoi dettami e al suo «spirito », invece, questo universo cattolico si è diviso in due grandi tronconi: i cauti e i radicali.
I quali da quarant’anni si combattono apertamente e incessantemente, ognuno avendo i propri capi e rappresentanti più o meno autentici e più o meno interessati dentro la Curia.
I cui «partiti» in questo modo, però, potendo contare su un effettivo retroterra diciamo così di «seguaci», sono diventati ben più battaglieri, e quindi ben più riottosi e insidiosi, che nel passato.
Fino al punto, a quel che si capisce, di opporsi apertamente o di boicottare dietro le quinte la stessa autorità del Papa quando questi appartiene per caso al partito avverso.
E’ a questo punto che si configura in pieno la contraddittoria situazione che la storia ha creato.
Il Pontefice in realtà ha oggi una sola arma per superare l’ostilità del partito cattolico che gli si oppone, per affermare nel suo stesso regno la propria indiscutibile autorità di sovrano assoluto: l’arma dell’appeal carismatico-mediatico, del consenso metareligioso della platea mondiale, del gesto e della parola che bucano lo schermo della Cnn, che arrivano sulla prima pagina del New York Times.
Ma per farlo egli rischia di perdere un tratto essenziale del retaggio che si accompagna storicamente al suo ruolo: l’indipendenza spirituale.
Quell’indipendenza che non garantisce certo dagli errori, anche dai più riprovevoli, per carità, ma che almeno serve a tenere sempre aperta la possibilità di dare voce a qualcosa di diverso dai comandi del secolo.
Una cosa sembra certa: nella ricerca di una difficile via che possa conservare la libertà della Monarchia assoluta tra i partiti da un lato e l’opinione pubblica mediatico-mondiale dall’altro, tra queste due tipiche creature della modernità, Benedetto XVI appare dolorosamente, irrevocabilmente solo.
Corrriere della Sera 14 marzo 2009 Cari confratelli nel ministero episcopale! La remissione della scomunica ai quattro vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata.
Molti vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi.
Anche se molti vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo.
Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio [Vaticano II]: si scatenava cosi una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento.
Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede.
Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.
Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica.
Il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa.
Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò cosi nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico.
Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo, e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente.
Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema.
Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie.
Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco.
Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.
Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione.
La scomunica colpisce persone, non istituzioni.
Un’ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perchè mette in questione l’unità del collegio episcopale con il papa.
Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità.
A vent’anni dalle ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto.
La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro vescovi ancora una volta al ritorno.
Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del papa e della sua potestà di pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio.
Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione.
La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave.
Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale.
Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali.
Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa.
Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione.
Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.
Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la pontificia commissione “Ecclesia Dei” – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col papa – con la congregazione per la dottrina della fede.
Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei papi.
Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei cardinali al mercoledì e la plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei prefetti di varie congregazioni romane e dei rappresentanti dell’episcopato mondiale nelle decisioni da prendere.
Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962: ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità.
Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa.
Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.
Spero, cari confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009.
Ora però rimane la questione: era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti.
Penso di aver evidenziato le priorità del mio pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio.
Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva.
La prima priorità per il successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: “Tu…
conferma i tuoi fratelli” (Luca 22, 32).
Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima lettera: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pietro 3, 15).
Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio.
Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr.
Giovanni 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso c risorto.
Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.
Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del successore di Pietro in questo tempo.
Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti.
La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio.
Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema.
A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce.
È questo il dialogo interreligioso.
Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia: è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’enciclica “Deus caritas est”.
Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie.
Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine a un grande chiasso, trasformandosi proprio cosi nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto.
Ma ora domando: era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che “ha qualche cosa contro di te” (cfr.
Matteo 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, cosi da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti, cosi che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme.
Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti.
Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni.
Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui, e con Lui il Dio vivente.
Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi? Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate: superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc.
Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori.
Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo, almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio.
E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.
Cari confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel seminario romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Galati 5, 13-15.
Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri.
Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso.
Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!”.
Sono stato sempre incline a considerare questa [ultima] frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo.
Sotto certi aspetti può essere anche cosi.
Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata.
È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia.
Di fatto: Maria ci insegna la fiducia.
Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci.
Egli ci guiderà, anche in tempi turbolenti.
Vorrei cosi ringraziare di cuore tutti quei numerosi vescovi che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera.
Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il successore di san Pietro.
Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace.
È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale benedizione apostolica mi confermo Vostro nel Signore BENEDICTUS PP.
XVI Dal Vaticano, 10 Marzo 2009 DOPO LA LETTERA SUI LEFEBVRIANI «La Chiesa risponde al suo Papa» “Il Papa non è solo, tutti i suoi più vicini collaboratori sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui”.
È quanto ha affermato il segretario di Stato vaticano, cardinal Tarcisio Bertone.
Riferendosi a quanto scritto oggi sui principali giornali italiani circa la solitudine del Papa, il porporato ha parlato di “comunione” e “amore” della Chiesa nei suoi confronti, e ha aggiunto: “Benedetto XVI in questi momenti ha sentito anche la comunione di molti vescovi, nonostante qualche voce stonata”.
“Tutti i suoi più vicini collaboratori sono lealmente fedeli al pontefice e profondamente uniti a lui – ha detto Bertone prima di cominciare il suo discorso a conclusione di un seminario di tre giorni sulle comunicazioni sociali per i vescovi responsabili – a partire dai capi di dicastero e dal segretario di Stato, anche per la familiarità dei rapporti”.
Il segretario di Stato ha poi affermato che il Papa ha sentito “anche la comunione di tanti vescovi del mondo, nonostante qualche voce stonata, forse dovuta proprio a mancanza di fiducia nel Papa e nelle decisioni che compie, profondamente consapevole della sua missione che compie davanti a Dio, di essere pastore della Chiesa universale, pastore di tutti”.
Solidarietà da vescovi Germania, Svizzera e Francia.
Piena solidarietà a Benedetto XVI è arrivata oggi dagli episcopati tedesco, francese e svizzero; “il Papa non è solo”, affermano – in interviste alla Radio Vaticana – i rappresentanti dei presuli dei tre paesi, da cui si sono levate nelle scorse settimane forti riserve sulla revoca della scomunica ai lefebvriani.
””Non mi è mai capitato di leggere uno scritto di un Papa così personale e così aperto.
E questo mi piace molto”, ha detto il presidente dei vescovi tedeschi, Mons, Robert Zollitsch, che stamani ha incontrato Benedetto XVI.
È “un segno – ha sottolineato – della comunicazione, un segno del fatto che il Papa stesso desidera entrare in colloquio con i vescovi e spiegare a tutto il collegio episcopale quali sono state le ragioni che lo hanno spinto e come lui ha percepito tutta la situazione”.
Sulla stessa lunghezza d’onda il cardinale di Parigi, Andrè Vingt-Trois, e il vescovo di Lugano, mons.
Pier Giacomo Grampa.
Il “grazie” da Austria, Belgio e Inghilterra.
È arrivato anche il “grazie” dei vescovi belgi e inglesi al Papa per la lettera scritta riguardo alla remissione della scomunica ai vescovi lefebvriani.
Lettera riproposta oggi sui siti ufficiali delle Conferenze episcopali europee nelle diverse lingue.
In una breve nota scritta, i vescovi del Belgio parlano di unalettera “al tempo stesso umile e forte”.
Ed aggiungono: “Il suo contenuto mostra chiaramente che la remissione delle scomuniche dei 4 vescovi tradizionalisti vuole essere un gesto di riconciliazione e non una rimessa in discussione del Concilio Vaticano II”.
In una dichiarazione, la Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles parla di “un atto collegiale” e di una lettera “profondamente umile”.
I vescovi inglesi sottolineano il “forte” impegno del Papa “per il dialogo interreligioso, soprattutto con gli ebrei, e per il dialogo ecumenico con gli altri cristiani.
Egli rivela la sua passione per la riconciliazione e invitando tutti nella Chiesa a dare una migliore testimonianza, il Papa sottolinea che la priorità fondamentale della Chiesa è quello di condurre gli uomini e le donne a Dio”.
“Essenziale a questo compito – aggiungono i vescovi – è la necessità di unità e l’ufficio petrino è il centro e il promotore dell’unità della Chiesa e, come tale, una voce profetica”.
Gratitudine viene espressa al Papa anche dall’episcopato austriaco, riunito in questi giorni nell’assemblea di primavera.
In una nota, i vescovi dell’Austria sottolineano l’attenzione pastorale di Benedetto XVI, che ha voluto spiegare con ampiezza le ragioni che lo hanno portato a revocare la scomunica ai presuli lefebvriani.
Le altre reazioni.
Il card.
Antonio Canizares, prefetto della Congregazione per il Culto divino, ha espresso “amarezza” per la “sofferenza” arrecata a papa Benedetto XVI dalle polemiche sul caso della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
“Abbiamo ricevuto, letto e approfondito la lettera che ha inviato a tutto l’episcopato cattolico circa la remissione della scomunica”, ha detto Canizares, salutando il papa in occasione dell’udienza che questi ha concesso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per il Culto.
“Condividiamo l’amarezza della sofferenza recata a vostra Santità – ha proseguito – e mi faccio portavoce dell’unanime adesione di tutti i membri della Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, a quanto espresso con chiarezza e fermezza dalla Santità vostra.
Il cardinale ha concluso esprimendo “la più sincera e profonda vicinanza e amorevole solidarietà soprattutto in questo particolare momento”.
La Lettera di Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo sulla revoca delle scomuniche ai lefebvriani, “non nasconde certo le difficoltà del momento e le loro cause immediate, anzi le sottolinea, ma per andare più in profondità, alle radici spirituali, culturali ed ecclesiali di quegli ostacoli che rendono faticoso il cammino della Chiesa e che richiedono a ciascuno di noi conversione e rinnovamento”.
Lo afferma il card.
Camillo Ruini che firma l’editoriale dell’Osservatore Romano.
La Lettera, scrive il cardinale, rappresenta “un’autentica novità” che “si manifesta anzitutto nel carattere fortemente personale di questa lettera, che pure è rivolta a tutti i vescovi della Chiesa cattolica e di fatto, essendo stata resa pubblica, anche a tutti i fedeli: una comunicazione personale che supera i limiti dell’ufficialità e si offre al lettore in maniera trasparente, consentendogli di entrare, per così dire, nell’animo del Papa e di prender parte dal di dentro alla sua sollecitudine pastorale, alle motivazioni fondamentali che guidano le sue scelte e anche all’atteggiamento interiore con cui egli vive il suo ministero”.
La lettera ai vescovi cattolici resa nota ieri.
«Una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede.
Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa».
Con queste parole Benedetto XVI spiega il senso della «lettera ai vescovi della Chiesa cattolica riguardo alla remissione della scomunica dei quattro vescovi consacrati dall’arcivescovo Lefebvre».
I quattro vescovi – Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso del Gallareta – erano stati consacrati il 30 giugno 1988 senza mandato pontificio ed erano quindi incorsi nella scomunica latae sententiae, cioè automatica, dichiarata formalmente dalla Congregazione per i vescovi il 1° luglio 1988.
La remissione della scomunica è giunta con un Decreto della medesima Congregazione, firmato il 21 gennaio 2009 dal cardinale prefetto Giovanni Battista Re.
Questo atto, scrive il Papa nella lettera resa nota oggi, «per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata».
«Una disavventura per me imprevedibile – scrive Benedetto XVI – è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica».
All’improvviso, spiega, «il gesto discreto di misericordia verso quattro vescovi è apparso come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei».
A tal riguardo il Pontefice precisa che “la condivisione” e la promozione fin dall’inizio dei «passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio» erano state «un obiettivo del mio personale lavoro teologico».
Il fatto che si siano sovrapposti «due processi contrapposti», prosegue il Papa, «è cosa che posso soltanto deplorare profondamente».
Ed aggiunge: «Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante Internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema.
Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie».
Benedetto XVI si dice «rattristato» dal fatto che «anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco».
Proprio per questo ringrazia «tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia», che «continua ad esistere» come «nel tempo» di Giovanni Paolo II.
La risposta dei lefebvriani.
“Ringraziamo profondamente il Santo Padre di aver riportato il dibattito al livello al quale deve svolgersi, quello della fede”: lo scrive, in un comunicato, il Superiore generale della lefebvriana Fraternità Sacerdotale San Pio X, mons.
Bernard Fellay, in seguito alla diffusione della lettera di papa Benedetto XVI ai vescovi cattolici per spiegare il senso della revoca della scomunica dei quattro vescovi lefebvriani.
“Condividiamo pienamente – scrive Fellay – la sua preoccupazione prioritaria della predicazione ‘nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimentò”.
“La Chiesa – osserva ancora Fellay – attraversa una grande crisi, che non potrà essere risolta se non con il ritorno integrale alla purezza della fede”.
Il superiore dei lefebvriani spiega che la sua comunità è “ben lontana dal voler arrestare la Tradizione al 1962” – come detto dal pontefice nella sua lettera – ma vuole “considerare il Concilio Vaticano II e l’insegnamento post-conciliare alla luce di questa Tradizione, senza rottura e all’interno di uno sviluppo perfettamente omogeneo.
La Fraternità – conclude Fellay – assicura al pontefice la sua “volontà di affrontare i colloqui dottrinali riconosciuti come ‘necessarì” dal decreto di revoca della scomunica, “con il desiderio di servire la Verità rivelata, il che è la prima carità da manifestare verso tutti gli uomini, cristiani e non”.
Avvenire 12 Marzo 2009

III Domenica di Quaresima (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 20,1-17 In quei giorni, Dio pronunciò tutte queste parole: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla ter-ra d’Egitto, dalla condizione servile: Non avrai altri dèi di fronte a me.
Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla ter-ra, né di quanto è nelle acque sotto la terra.
Non ti pro-strerai davanti a loro e non li servirai.
Perché io, il Si-gnore, tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta genera-zione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti.
Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia im-punito chi pronuncia il suo nome invano.
Ricòrdati del giorno del sabato per santificarlo.
Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te.
Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è ri-posato il settimo giorno.
Perciò il Signore ha benedetto il giorno del sabato e lo ha consacrato.
Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà.
Non ucciderai.
Non commetterai a-dulterio.
Non ruberai.
Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo.
Non desidererai la casa del tuo prossimo.
Non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo schiavo né la sua schiava, né il suo bue né il suo asi-no, né alcuna cosa che appartenga al tuo prossimo».
Il testo del Decalogo nel libro dell’Esodo è preceduto, al cap.
19, dalla grandiosa teofa-nia in cui il Signore rivela la sua presenza sul Sinai, la «montagna sacra» (19,23).
Soltanto Mosè, in rappresentanza del popolo raccoglie le «Dieci parole» che racchiudono la volontà del Signore e le riferirà agli Israeliti, che prometteranno di osservarle accettando l’alleanza (24.3).
All’inizio del cap.
20 il Decalogo è introdotto bruscamente, senza collegamento di-retto quanto precede.
Improvvisamente, Dio parla: risalta cosi l’assoluta libertà dell’inizia-tiva divina.
Il Decalogo Non deve stupire la difficoltà a individuare con sicurezza nel testo i dieci comandamen-ti come sono formulati nei catechismi.
Già nella seconda stesura (nel Deuteronomio) il De-calogo presenta qualche differenza: è poi citato con notevole libertà nei Profeti, nei Salmi, in altri scritti dell’Antico Testamento, nei Vangeli.
Basta questo a farci comprendere che la legge del Signore, benché scolpita sulle «tavole di pietra», non deriva da questo la sua so-lidità, e che non è il rispetto esteriore e formale della «lettera» che conta, ma l’accordo inte-riore del «cuore» alla parola di Dio.
Otto comandamenti su dieci hanno una forma negativa, e questa lista di divieti può ur-tare qualcuno.
Ma tutto cambia se riflettiamo che dire «cosa non bisogna fare» ci lascia molto più liberi.
Dio pone dei divieti certo; ma è vietato solo ciò che priva noi e gli altri della li-bertà; la violenza, l’assassinio, l’adulterio, il furto, la falsa testimonianza.
Per il resto, Dio non obbliga; cosa bisogna fare, è lasciato alla nostra libertà.
Dio non comanda nemmeno di essere adorato, non chiede sacrifici (cf.
Is 1,12-13; Ger 7 22): lo stesso comandamento del sabato, più che imporre una pratica religiosa, comanda di non fare qualcosa, di astenersi dal lavoro.
Note esegetiche vv.
2-3: In positivo, la prima parola del Decalogo — il 1° comandamento nella tradizio-ne dell’Ebraismo – non è precisamente un comandamento, e impegna Dio piuttosto che l’uomo.
Dio si presenta, offre le sue credenziali: non chiede di essere obbedito senza essere conosciuto.
Per questo può dire «non avrai altri dèi»: non basta confessare che Dio è uno, la Bibbia non predica un monoteismo filosofico, astratto, «numerico».
La Bibbia dice chi è Dio, raccontando quello che ha fatto per noi.
È il Dio che libera anzi il Dio che ha liberato te, oggi: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto».
Tutto il Decalo-go discende da questa affermazione iniziale, come un torrente dalla montagna.
vv.
4-6: La formulazione del divieto dell’idolatria è in stretto collegamento con il raccon-to della creazione in Gn 1.
Dio ha fatto cielo terra e mare e ciò che contengono; ha fatto l’uomo a sua immagine; ha dato all’uomo il compito di sottomettere la terra.
Nell’idolatria, l’ordine è stravolto: l’uomo adora le creature (astri, animali…) invece di dominarle, sosti-tuisce all’immagine creata da Dio immagini di idoli fatte con le sue mani.
Invece di adorare Colui che lo ha fatto, l’uomo adora la cosa che ha fatto.
Questo rovesciamento della verità – questa menzogna – è proibito, perché Dio è geloso: la gelosia dell’amore che ha scelto l’uomo e stabilito l’alleanza, amore sovrabbondante di grazia, mille volte più del castigo (v.
5b-6).
Tutti i peccati previsti nel Decalogo hanno radice nell’idolatria.
v.
7: Invano (lašawe) indica il vuoto, la falsità, anche la magia.
«Pronunciare invano il Nome» significa trattare Dio come un idolo: qualcosa di manipolabile, di cui l’uomo possa impadronirsi per strumentalizzarlo ai suoi fini.
La stessa parola è usata nell’8° comanda-mento: la falsa testimonianza contro il fratello, immagine di Dio, è grave come il falso culto a Dio.
Una pietà esteriormente corretta e ossequiente alle regole, cui non corrisponda la giustizia nei rapporti con gli altri, riduce a menzogna il Nome del Signore.
v.
8-11 : Il comandamento del sabato è la chiave di volta del Decalogo.
Come il quarto, è formulato in positivo («ricordati»); come gli altri, è anche negativo («non farai alcun lavo-ro…»); come il primo, è motivato con la creazione (nel Deuteronomio invece, con il ricordo della schiavitù in Egitto).
Non si interrompe il lavoro, banalmente, perché è bene riposarsi; ma piuttosto per imitare, quale immagine di Dio, il riposo del settimo giorno della crea-zione.
Si tratta quindi della più alta realizzazione dell’essere uomo: il sabato è un coman-damento che riguarda Dio (la «prima tavola»), ma è anche quello che con maggiore insi-stenza parla della comunità umana («né tu, né tuo figlio….»), e l’unico in cui esplicitamente sia citato lo straniero.
Il sabato è la legge più specifica che caratterizza l’identità ebraica, e insieme la più universale, perché l’ebreo è chiamato a condividere la santità del sabato con tutta la creazione, senza distinzioni di sesso, di condizione sociale (lo schiavo), di apparte-nenza etnica o religiosa (lo straniero) e perfino umana (il bestiame).
Anche qui c’è l’accen-no all’idolatria: il potere di «fare», di costruire opere (idoli) con le proprie mani, rischia di precipitare l’uomo in un delirio di onnipotenza, se non interviene la pausa del sabato a ri-condurre tutto al Creatore.
v.
12: Il quarto comandamento, come la «prima parola», rivolge l’uomo verso l’origine.
Il «padre e la madre» sono l’anello di congiunzione fra l’uomo di oggi e ciò che lo ha pre-ceduto, fino all’origine prima; attraverso padre e madre, nella tradizione ebraica e non so-lo, si trasmette la memoria dell’azione di Dio in favore del popolo, a partire dall’Esodo, e in favore dell’umanità, a partire dalla creazione.
Perciò questo comandamento è l’unico che parli di un «premio», una conseguenza positiva per l’uomo: la vita, dono di Dio dalla creazione in poi, cui l’uomo e la donna partecipano nel generare il figlio.
Adamo generò un figlio a sua immagine (Gn 5,3): il potere di generare, purificato dalla pretesa di onnipo-tenza possessiva e iscritto nell’onore (kavôd: la gloria, riservata a Dio) reso all’origine, si oppone al fare del lavoro, che deve essere interrotto nel giorno di sabato per non diventare costruzione di idoli.
vv.
13-16: Da qui, i comandamenti della «seconda tavola» che riguardano i rapporti umani.
Non uccidere, esteso a ogni forma di violenza; non commettere adulterio, perché l’amore sponsale è figura del rapporto unico fra Dio e il popolo.
Non dire falsa testimo-nianza, in parallelo con il v.
7.
v.
17: Il nono e il decimo comandamento sono nella tradizione ebraica uno solo: il Deca-logo si conclude penetrando nel segreto del cuore, dove si nasconde il desiderio.
Non è il desiderio in sé che è peccato, ma il desiderio contro giustizia: volere tutto, senza riconosce-re alcun ostacolo, nemmeno nella sfera di ciò che attiene all’altro.
Al fondo, è ancora la pre-tesa di sostituirsi a Dio, in una volontà di potenza accaparratrice che non lascia spazio al-l’amore, che non lascia vivere, che trascina inesorabilmente alla distruzione.
Seconda lettura: 1Corinzi 1,22-25 Fratelli, mentre i Giudei chiedono segni e i Greci cerca-no sapienza, noi invece annunciamo Cristo crocifisso: scan-dalo per i Giudei e stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.
Infatti ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini.
La prima lettera ai Corinzi si apre con la polemica fra l’Apostolo e gli avversari che hanno introdotto divisioni e contrasti all’interno della comunità.
Paolo difende con passio-ne sia l’unità del Vangelo di Cristo, sia la corrispondenza della sua predicazione con que-sto Vangelo.
A propria difesa, Paolo non invoca la «sapienza del discorso», ma la fedeltà alla croce di Cristo, che non deve essere «resa vana» (v.
17).
L’argomentare di Paolo proce-de con l’audace contrapposizione fra la «sapienza degli uomini» e la «stoltezza» della parola della croce (vv.
18-21).
A questa antitesi fra la parola di Dio e la parola del mondo si colle-ga il proclama di «Cristo crocifisso: scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani» (v.
23).
Note esegetiche v.
22: «Giudei» e «Greci» (o «Gentili»: v.
23) rappresentavano al tempo di Paolo le due parti dell’umanità, contrapposte non tanto dal punto di vista religioso, quanto per il modo di porsi di fronte alla realtà.
I Giudei, per credere, chiedono «segni» (semeia; miracoli, pro-digi), prove storiche su cui poggiare la loro fede; i Greci cercano «sapienza» (sofia), per esse-re razionalmente convinti.
v.
23: Un’avversativa, «noi invece…», sottolinea l’assoluta novità della predicazione di Paolo: «Cristo crocifisso», e introduce il secondo binomio: scandalo/stoltezza.
Alla «prova» chiesta dai Giudei si contrappone la «pietra d’inciampo» (skàndalon), alla razionalità dei Greci la «stoltezza della croce» (morì an).
v.
24: Il contrasto fra le due coppie di termini opposti è risolto nel cuore dell’annuncio, accolto dai «chiamati», sia Giudei che Greci: per loro la debolezza della croce mostra la po-tenza di Dio, e la stoltezza ne rivela la sapienza.
La comprensione della fede consente di leggere la realtà con occhi nuovi e di riconoscere l’azione di Dio nella dedizione incondi-zionata di Colui che «amò i suoi fino alla fine» (Gv 13,1).
Il Crocifisso è «il luogo dell’agire divino potentemente e sapientemente salvifico e tale appare agli occhi dei credenti» (G.
BARBAGLIO, La Prima Lettera ai Corinzi, EDB 1996, p.
143).
v.
25: All’opposizione stoltezza/sapienza viene accostata qui quella debolezza/forza.
Non si tratta di anteporre la sapienza di Dio a quella umana dichiarandone la superiorità, ma di una alternativa assoluta fra due contrari.
Non si tratta nemmeno di paragonare semplicemente due punti di vista opposti, che provocano visioni fra loro incompatibili.
La morte sulla croce rimane follia e il Cristo consegnato ai carnefici mostra la sua debolezza, liberamente scelta; ma sono la debolezza e la follia di chi soccombe alla violenza piuttosto che farsene complice, di chi vince l’odio con la sovrabbondanza dell’amore, di chi viene a guarire dall’interno il cuore malato dell’uomo.
In questo, la debolezza si mostra più forte della forza, e la stoltezza più sapiente della sapienza.
Vangelo: Giovanni 2,13-25 Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusa-lemme.
Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete.
Allora fece una fru-sta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!».
I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà».
Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?».
Rispose loro Gesù: «Distrug-gete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere».
Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorge-re?».
Ma egli parlava del tempio del suo corpo.
Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù.
Mentre era a Gerusa-lemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i se-gni che egli compiva, credettero nel suo nome.
Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo.
Egli infatti co-nosceva quello che c’è nell’uomo.
Esegesi La «purificazione del tempio», che i Sinottici collocano poco prima della Passione, è narrata da Giovanni all’inizio del ministero pubblico.
L’evangelista vuole così sottolineare subito sia la grande novità del messaggio di Gesù, sia la continuità ideale con la predica-zione dei profeti d’Israele.
L’episodio si inserisce chiaramente in un contesto pasquale, nel-la prima delle tre Pasque di Gesù a Gerusalemme ricordate da Giovanni.
Si distinguono due brevi scene, ciascuna seguita da un versetto di commento; a conclu-sione, un sommario storico aggiunge una riflessione sulla fede autentica.
vv.
13-16: La prima scena è la cacciata dei mercanti dal Tempio.
La notazione temporale e geografica è precisa: la Pasqua «dei Giudei», così differenziata dalla Pasqua cristiana, segnala una situazione di distacco tra la comunità cristiana e la si-nagoga, già definitiva al tempo della stesura del Vangelo.
Gesù è tuttavia un ebreo osser-vante, e da Cafarnao — posta sul lago sotto il livello del mare — «sale» a Gerusalemme, a 800 m.
di altezza.
I pellegrini che provenivano da ogni parte, non solo dalla Giudea, dovevano procurarsi in loco gli animali da offrire in sacrificio e pagare la tassa di mezzo siclo al Tempio.
Spesso però essi disponevano solo di denaro romano o di altri paesi, monete non ammesse al Tempio perché coniate con effigi pagane.
Era quindi necessaria, per lo svolgimento delle pratiche religiose, la presenza nelle vicinanze del Tempio di cambiavalute e mercanti di bestiame.
La parola qui usata (hieròn) indica il recinto sacro, esterno al Tempio vero e pro-prio e comprendente il cosiddetto «cortile dei pagani», dove era consentito l’ingresso an-che ai non israeliti.
Sembra quindi eccessiva la severità di Gesù, oltre che inconsueta ri-spetto al comportamento mite che la tradizione gli attribuisce.
Tuttavia nulla è casuale o fuori luogo nel Vangelo di Giovanni.
Il gesto di Gesù è chia-ramente simbolico, che non vuol dire romanzato o fantasioso, ma al contrario, l’atto spet-tacolare rinvia a significati profondi e ricchi di conseguenze per la vita della comunità.
Ge-sù si inserisce nella tradizione profetica e ne riprende linguaggio e atteggiamenti; il suo scopo non è scardinare il culto israelitico, ma riportarlo alla purezza originaria, impedire che l’osservanza esteriore di pratiche abituali scada nella superstizione e nel formalismo.
Le sue parole sono una citazione quasi letterale di passi dell’Antico Testamento (cf.
Zac 14,21; Sal 69,10; Ger 7,11).
Alcuni commentatori notano una sottile intenzione sociale, nella linea del profeta Amos: mentre rovescia i banchi dei cambiavalute e caccia il bestiame grosso, Gesù si mostra più paziente verso i venditori di colombe, animali offerti in sacrifi-cio dai poveri.
Notare il possessivo: «la casa del Padre mio», indizio di un rapporto unico di figliolanza tra Gesù e il Padre.
v.
17: Il versetto è il commento posteriore dell’evangelista, il ricordo interpretante che a posteriori, alla luce della Pasqua e sulla falsariga della rilettura dell’Antico Testamento, spiega il senso dell’evento.
Sono commenti tipici di Giovanni (cf.
v.
22): anche nei Sinottici è sottolineata la comprensione post-pasquale dei gesti e delle parole di Gesù, che solo alla luce della risurrezione rivelano il loro pieno significato; qui c’è in più la riflessione coscien-te, la consapevolezza che la distanza temporale dall’evento ha peso per l’ermeneutica e consente una comprensione progressiva della rivelazione.
Nella citazione del Sal 69,10 il verbo è cambiato dal presente «divora» al futuro «di-vorerà», per esplicitarne il valore di annuncio profetico della Passione.
vv.
18-21: I giudei rispondono, non tanto alle parole quanto ai gesti di Gesù.
Presen-tati da Giovanni come gli avversari di Gesù, essi tuttavia hanno ben capito che il suo com-portamento ricalca quello dei profeti, perciò gli chiedono un «segno» che ne attesti l’autori-tà.
Gesù, come spesso avviene in Giovanni, risponde in forma enigmatica.
Non rifiuta di dare il segno, ma invece di ricorrere a un prodigio come si aspettavano i giudei, propone loro una sfida che può essere letta su due livelli di senso, e che lascia quindi gli avversari davanti alla scelta tra la fede e l’incredulità.
L’imperativo «distruggete» sta per un condi-zionale, come in molti oracoli profetici; Gesù gioca sul doppio senso tra il Tempio di pietre e il Tempio del suo corpo, e lascia intendere sia il nuovo Tempio dell’era messianica, sia la sua risurrezione.
La parola usata nel v.
19 non è la stessa dei vv.
14-15; naòs è la costruzio-ne al centro del Tempio, con il Santo dei Santi, il luogo in cui abita Dio.
I giudei si fermano al primo livello, quello immediato: manca loro la fede necessaria a operare il salto di senso, per giungere al secondo livello, la spiegazione dell’evangelista nel v.
21.
v.
22: Anche i discepoli però non capiscono tutto subito: Giovanni sottolinea che solo dopo hanno capito il compimento della Scrittura.
vv.
23-25: II sommario storico distingue i diversi livelli della fede.
Molti credettero ve-dendo i segni: è già un primo passo rispetto all’incredulità dei giudei, ma non è ancora la fede autentica.
Per questo Gesù non si fida pienamente: sa che non tutti reggeranno alla prova della Passione e della morte e che non tutti sapranno leggere le Scritture.
La sua ve-nuta è anche per il giudizio, nel senso inteso qui: per svelare ciò che sta nel cuore degli uomini e porli davanti alla scelta fondamentale e sincera.
Meditazione Attraverso le dieci parole dell’alleanza, pronunciate da Dio sul Sinai (Es 20,1-17), al popo-lo di Israele era stato donato un cammino di libertà per raggiungere una pienezza di vita nell’umile servizio all’unico Signore.
La Legge diventava così un luogo privilegiato di in-contro e di comunione con Dio.
Ma per Israele in cammino verso la terra della promessa vi era un altro luogo della presenza di Dio in mezzo al suo popolo: la tenda, segno di un Dio che scende incontro all’uomo, cammina con lui, lo accompagna, lo guida.
La pretesa di Davide di costruire una dimora stabile per il Signore, aveva trovato resistenze in Dio stes-so che, per mezzo del profeta Natan, aveva risposto al re: «Il Signore ti annuncia che farà a te una casa» (2Sam 7,11).
Dio non abita in un luogo fatto con pietre ma in una casa di carne viva, di cui egli stesso è garante della sua perennità.
Nonostante questo, Dio accettò un tempio costruito dalle mani d’uomo, luogo di unità e di identità per Israele, ma allargando nello stesso tempo i suoi confini: secondo l’annuncio dei profeti, esso doveva diventare re-altà simbolica dell’incontro tra Dio e ogni uomo, «casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,7, citato in Lc 19,49, Mc 1,17 e Mt 21,13).
La promessa fatta a Davide trova il suo com-pimento in Gesù: in lui, il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr.
Gv 1,14).
In questa prospettiva deve essere compreso il gesto di Gesù al tempio di Gerusa-lemme: esso è un segno che rivela tutta la novità che si compie nella persona di Gesù, so-prattutto in relazione a uno degli aspetti costitutivi dell’esperienza religiosa di Israele, ap-punto il tempio.
In Gesù, tempio non costruito da mani d’uomo, ognuno può incontrare il vero volto di Dio e può invocarlo come Padre.
E possiamo aggiungere che, per il quarto vangelo, l’amore di Dio che ha preso ‘carne’ in Gesù si rivelerà in tutta la sua trasparenza nel momento in cui il Figlio dell’uomo sarà innalzato; lì, volgendo lo sguardo a colui che hanno trafitto (cfr.
Gv 19,37, paradossalmente a quel tempio distrutto a cui fa allusione Gesù in Gv 2,19), ogni uomo potrà incontrare il volto di compassione di Dio, quel roveto ardente che brucia senza consumarsi.
L’annuncio di Cristo crocifisso – ci ricorda Paolo – diventa «per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci…
potenza di Dio e sapienza di Dio» (1Cor 1,24).
Soffermandoci ora sul testo di Giovanni che riporta la cacciata dei venditori dal tempio (collocato dai sinottici al termine del ministero pubblico di Gesù, dopo l’ingresso in Geru-salemme), possiamo evidenziare alcuni aspetti presenti in questo singolare gesto di Gesù e nelle parole che lo commentano.
E l’attenzione deve essere posta non tanto sull’effetto del-l’azione di Gesù quanto piuttosto sul significato che esso racchiude e che apre alla com-prensione della persona stessa di Gesù.
Certamente, cacciando quei venditori che trasfor-mano la casa di Dio in un mercato (cfr.
2,16), Gesù compie un gesto tipicamente profetico che rimanda a un culto autentico, libero da ogni ipocrisia, un culto che parte dal cuore e si armonizza con la vita: il luogo dove l’uomo incontra Dio non può esser luogo di ingiusti-zia, di abuso, di idolatria.
Tuttavia lo sguardo del profeta va oltre, è puntato al futuro.
Leggendo il gesto di Gesù alla luce di Mal 3,1-4 e di Zc 14,21, non si afferma solo la santità della casa di Dio, ma anche l’autorità di Gesù su quel luogo: è la casa del Padre mio, il luogo di una relazione famigliare e intima.
Gesù è il Figlio che non può permettere che venga violata l’intimità profonda di questo luogo; in Gesù si manifesta lo zelo di cui parla il Sal 69,10 (testo che serve ai discepoli da interpretazione del gesto), lo zelo proprio di un figlio che si sente personalmente coinvolto a difendere il ‘luogo’ del Padre da coloro che ne at-tentato l’integrità, stravolgendone il senso.
Ma il significato di questo gesto subisce un ulteriore approfondimento alla luce delle pa-role che Gesù pronuncia in risposta alla richiesta di un segno da parte dei Giudei (la cui re-azione lascia già intravedere il dramma della passione).
L’icona del tempio assume una nuova luce ed essa emerge dal confronto tra Gesù stesso e il tempio (viene qui usato il termine naos che indica il santuario, la parte più sacra dell’edificio, il luogo simbolico in cui risiede la presenza di Dio).
Possiamo notare che in questo confronto il segno del tempio, come spazio della presenza di Dio e incontro con Lui, rimane; ma vengono sostituite le modalità e il luogo stesso.
Il richiamo alla distruzione e alla ricostruzione di questo tempio orientano a un futuro di novità, a un tempio ‘nuovo’.
Sulle labbra di Gesù questa realtà to-talmente rinnovata diventa una allusione al suo mistero di morte e risurrezione; il tempio distrutto e ricostruito è il corpo stesso di Gesù (cfr.
2,21).
È Gesù vivente il nuovo tempio, il luogo in cui si comunica con il Padre; in Gesù risuscitato dai morti, Dio è definitivamen-te presente agli uomini e gli uomini definitivamente presenti a Dio.
Come nota Léon-Dufour: «il corpo di Gesù, la sua carne, è la dimora della gloria di Dio…
In questo santua-rio, dove il Padre fa abitare il suo nome, si raduneranno tutti gli adoratori e saranno con-sumati nell’unità: tutti parteciperanno alla santità del Tempio, “perché noi verremo a loro e faremo in loro la nostra dimora”».
In questa scena notiamo infine la presenza attiva dei discepoli (presenza che manca nei sinottici), soprattutto attraverso il ricordo, dopo l’evento pasquale, delle parole e dei gesti di Gesù per comprenderne più a fondo il mistero.
In questa ‘memoria ecclesiale’ ci viene rivelata l’icona stupenda della Chiesa come luogo, tempio, in cui si rende presente e si in-contra il Padre rivelato a noi in Cristo.
Non vi è tempio, non vi è chiesa senza la presenza dei credenti.
Il racconto si apre così sul tempo della Chiesa che fa memoria del Cristo cro-cefisso e risorto nella eucaristia, luogo autentico dell’incontro tra Dio e l’uomo, in Gesù.
In questo spazio di comunione, ogni credente viene plasmato a diventare lui stesso tempio di Dio, luogo in cui dimorano, mediante lo Spirito, il Padre e il Figlio.
Come dice sant’Ago-stino: «Vuoi pregare nel tempio? Prega dentro di te; ma cerca prima di essere tempio di Dio, affinché egli possa esaudire chi prega nel suo tempio».
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
Breve apologo insegnato dal Vedanta Una vecchia leggenda indù racconta che vi fu un tempo in cui tutti gli uomini erano dèi.
Ma essi abusarono talmente della loro divinità che Brahma, il signore degli dèi, decise di togliere loro il potere divino e di nasconderlo in un posto dove sarebbe stato loro im-possibile ritrovarlo.
Il grande problema fu dunque di trovargli un nascondiglio.
Quando gli dèi minori furono convocati in Consiglio per risolvere il problema, gli pro-posero così: «Seppelliamo la divinità dell’uomo nella terra!» Ma Brahma rispose: «No, non sarà sufficiente, perché l’uomo la scaverà e la troverà…».
Allora gli dèi replicarono: «In questo caso, gettiamo la divinità nel più profondo degli oceani!» Ma Brahma rispose di nuovo: «No! Perché presto o tardi l’uomo esplorerà le pro-fondità di tutti gli oceani, ed è certo che un giorno la troverà e la riporterà in superficie…!».
E gli dèi minori conclusero: «Non sappiamo più dove nasconderla, perché non sembra esistere, sulla terra o nel mare, un posto in cui un giorno l’uomo non possa arrivare…».
Allora Brahma disse: «Ecco quello che faremmo della divinità dell’uomo: la nasconde-remo nel più profondo di se stesso, perché è il solo posto in cui non penserà mai di cerca-re…».
Da allora, l’uomo ha fatto il giro della terra, ha esplorato, scalato, si è immerso e scava-to…
alla ricerca di qualcosa che si trova in lui…
Il segreto del nostro cuore Siamo così tornati al mistero del nostro cuore, che è il centro della nostra vita e identità umana.
È nel cuore che le nostre idee, intuizioni, emozioni e decisioni più profonde hanno la loro sorgente.
Ma è anche nel cuore che spesso ci alieniamo di più da noi stessi.
Sappia-mo poco o nulla del nostro cuore.
Giriamo alla larga, come se ne avessimo paura.
Ciò che è più intimo ci spaventa di più.
Proprio dove siamo più veramente noi stessi, siamo spesso estranei a noi stessi.
È questo il lato doloroso del nostro ‘essere uomini’.
Non riusciamo a conoscere i nostri centri nascosti, e ci capita perfino di vivere e morire senza sapere chi siamo in realtà.
Se ci chiediamo perché pensiamo, sentiamo e agiamo in una data maniera, spesso non sappiamo rispondere, e dimostriamo così che siamo forestieri perfino in casa nostra.
Il mistero della vita spirituale è che Gesù vuole incontrarci nel segreto del nostro cuore, per farci conoscere il suo amore, liberarci dalle nostre paure e farci conoscere la nostra per-sonalità più profonda.
Nel segreto del nostro cuore, perciò, possiamo imparare non solo a conoscere Gesù ma anche, attraverso Gesù, a conoscere noi stessi.
Se ci rifletti su un istan-te, vedrai un’interazione tra l’amore di Dio che ti si rivela e una crescita costante nella co-noscenza che hai di te stesso.
Ogni volta che lasci penetrare l’amore di Dio più profonda-mente nel tuo cuore, perdi un po’ della tua ansietà, e ogni volta impari a conoscerti meglio e brami di essere più conosciuto dal tuo Dio che ti ama.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane sulla vita spirituale, Brescia, Queriniana, 72008, 75).
Il nuovo tempio per l’incontro con Dio Gesù «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17,21), dice il Signore.
Volgiti a Dio con tutto il tuo cuore, lasciando questo misero mondo, e l’anima tua troverà pace.
Impara a disprezzare ciò che sta fuori di te, dandoti a ciò che è interiore, e vedrai venire in te il regno di Dio.
Es-so è, appunto, «pace e letizia nello Spirito Santo» (Rm 14,17); e non e concesso ai malvagi.
Se gli avrai preparato, dentro di te, una degna dimora, Cristo verrà a te e ti offrirà il suo conforto.
Infatti ogni lode e ogni onore, che gli si possa fare, viene dall’intimo (Sal 44,14); e qui sta il suo compiacimento.
Per chi ha spirito di interiorità è frequente la visita di Cristo; e, con essa, un dolce di-scorrere, una gradita consolazione, una grande pace e una familiarità straordinariamente bella.
Via, anima fedele, prepara il tuo cuore a questo sposo, cosicché si degni di venire presso di te e di prendere dimora in te.
Egli dice infatti: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e verremo a lui e abiteremo presso di lui» (Gv 14,23).
Accogli, dunque Cristo e non far entrare in te nessun’altra cosa.
Se avrai Cristo, sarai ricco, sarai pienamente appagato.
Sarà lui a provvedere vedere e ad agire fedelmente per te.
Cristo «resta in eterno» (Gv 12,4) e sta fedelmente accanto a noi, sino alla fine.
(Imitazione di Cristo).
40 giorni nel deserto Un uomo d’affari stressato e logorato dai troppi impegni si presentò ad un maestro di vita spirituale a chiedere un consiglio.
Gli disse il maestro: “Quando un pesce finisce al secco comincia a morire.
Anche tu cominci a morire quando ti lasci prendere dalle cose del mondo.
Il pesce può salvarsi se torna subito nell’acqua.
Tu devi tornare nella solitudine”.
L’uomo d’affari si spaventò: “Devo lasciare tutti i miei affari e rifugiarmi in un conven-to?” “No no, conserva i tuoi affari e rifugiati nel tuo cuore”.
Angeli smemorati Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato.
Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie.
Le stelle nel firmamento brillavano dando si-gnificato all’infinito.
Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli i-stintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente.
Po-veri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stel-le ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera! “Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.
“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.
“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.
Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose: “No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso.
Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro.
Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono.
Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e pas-sano seguendo falsi dei.
Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.
Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima tro-va l’Amore.
Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi era-no … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.
E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un signi-ficato scritto nel loro cuore.
Se solo si guardassero “dentro”! Il luogo della lotta: il cuore La vita spirituale procede da un centro intimo, un organo centrale, una radice dell’esse-re umano che la Bibbia chiama “cuore”.
Nell’antropologia biblica il cuore è la sede della vi-ta psicologica e morale, dunque della vita interiore.
Luogo dell’intelligenza e della memoria, della volontà e del desiderio, dell’amore e del coraggio, come di molti altri sentimenti, il cuore è l’organo che meglio rappresenta la vita nella sua totalità: esso designa ciò che per noi è la “persona”, soprattutto la “coscienza” per-sonale.
Luogo intimo nell’uomo ma scrutato e discreto da Dio, esso è il luogo del sorgere della fede, dell’accoglienza della Parola di Dio e dei doni divini: lo Spirito santo (Galati 4,6), l’amore di Dio (Romani 5,5), la pace di Cristo la pace di Cristo (Colossesi 3,15).
Il Cri-sto stesso abita per la fede nel cuore dell’uomo (Efesini 3,17) e dal cuore sale a Dio la rispo-sta umana in forma di amore, preghiera, invocazione (Galati 4,6; Efesini 5,19; Colossesi 3,16; Marco 12,30).
Luogo dell’incontro fra Dio e uomo, il cuore è anche, secondo la Bibbia, la sede di cupidigie e di passioni: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono le in-tenzioni cattive» (Marco 7,21-23): così il cuore diviene il luogo della lotta spirituale, del combattimento interiore dove si scontrano le tendenze di peccato e l’azione della grazia di Dio.
Il cuore può indurirsi nel rifiuto di ascoltare e accogliere la Parola di Dio (Matteo 13,15; Atti 28,27), può chiudersi alla compassione (Marco 3,5), può essere incapace di com-prendere e di discernere (Marco 6,52; 8,17-21), può essere doppio, cioè insincero, menzo-gnero (Atti 8,21; Giacomo 1,8; 4,8), nutrire odio e rancore (Levitico 19,17), gelosia e invidia (Giacomo 3,14).
Prima di essere consumato esteriormente, nei gesti e nelle azioni, il pecca-to viene consumato nel cuore (cfr.
Matteo 5,28).
Si tratta allora, di far spazio allo Spirito santo perché Dio possa unificare (Salmo 86,11; Geremia 32,39), purificare (Salmo 51,12), circoncidere (Deuteronomio 10,16; 30,6), rinnovare (Ezechiele 36,26-27), ricreare (Salmo 51,12) il cuore dell’uomo.
Ecco dunque il cuore come luogo della lotta invisibile, luogo do-ve può avvenire la decisione del ritorno a Dio e l’accoglienza della grazia che rende possi-bile tale ritorno, e dove avviene anche la scelta a favore della vita e la rottura con il pecca-to.
(Luciano MANICARDI, La lotta spirituale, in CENTRO REGIONALE VOCAZIONI (PIEMONTE-VALLE D’AOSTA), Corso di avvio all’accompagnamento spirituale.
Atti, a cura di Gian Paolo Cassano, Casale Monferrato, Portalupi, 2007, 142-143).
Un cuore chiuso Ti aspettavo, Signore, ma non sei venuto.
L’attesa è stata lunga, e solo tardi ho capito che non eri entrato perché il cuore non ti aspettava.
Avevi bussato alla porta: «Alzati, amica mia, mia bella e vieni! Perché l’inverno è passato, è cessata la pioggia, i fiori sono apparsi nei campi, la stagione del canto è tornata e si sente cantare la tortora.
Aprimi!».
Ma il cuore era chiuso, appiattito su orizzonti terreni.
Ma quando sei finalmente entrato, vincendo la mia sordità, ho capito, Signore, che il cuore si popola di idoli quando tu scompari, e che tu abiti, soltanto, dove ti si lascia entrare.
Se preghi per te soltanto, preghi per il tuo interesse.
S.
Ambrogio (Vittorio PERI, Pregare è dire sì, Elledici-Velar, 2005).

Parte la sperimentazione di Cittadinanza e Costituzione

Portano la data del 4 marzo 2009 le Linee di indirizzo per la sperimentazione dell’insegnamento di “Cittadinanza e Costituzione” (vedi il pdf allegato), emanate dal ministro Gelmini in attuazione dell’art.
1 della legge 169/08 che prevedeva l’introduzione di questo nuovo insegnamento.
Per certi aspetti si potrebbe dire che la montagna ha partorito il topolino, dato che la massiccia campagna mediatica promossa su questa integrazione dei curricoli scolastici (l’unica novità su cui si sia registrato un consenso trasversale tra tutte le forze politiche, nell’opinione pubblica e all’interno del mondo della scuola) lasciava intendere una proposta forte per la nuova disciplina; invece le linee di indirizzo deludono un po’ le attese, ma sono coerenti con il dettato della legge 169/08.
In essa infatti si prevedeva di attivare, fin dal corrente anno scolastico 2008-09, «azioni di sensibilizzazione e di formazione del personale finalizzate all’acquisizione … delle conoscenze e delle competenze relative a “Cittadinanza e Costituzione”».
Accanto ad esse doveva essere inoltre avviata una specifica sperimentazione nazionale.
Sugli organi di informazione invece si era parlato molto di questo nuovo insegnamento soprattutto quale appariva nel primo disegno di legge del 1-8-2008, che prevedeva una nuova «disciplina … oggetto di specifica valutazione».
La proposta era stata poi acquisita nella forma più debole della sperimentazione e sensibilizzazione dal decreto Gelmini, senza però perdere l’iniziale vis educativa, e la prospettiva che si andava delineando era quella di un vera e propria nuova materia scolastica.
L’appuntamento sembra solo rinviato e per ora ci si deve accontentare della fase interlocutoria di sensibilizzazione e sperimentazione che, avviata peraltro a soli tre mesi dalla fine dell’anno scolastico che doveva vederne il decollo, rischia di rimanere solo una pia dichiarazione d’intenti.
Del resto, è nel regolamento del primo ciclo (ormai in dirittura d’arrivo) che troviamo precise indicazioni in materia; e il regolamento andrà in vigore solo col prossimo anno scolastico.
Le Linee di indirizzo propongono quindi un’ampia ricostruzione storica e ideale delle vicende e delle motivazioni che hanno condotto a elaborare l’attuale progetto, chiedendo alle scuole di concorrere a meglio definirne la fisionomia, «in vista di un più maturo assetto ordinamentale della materia».
Dei limiti della vecchia educazione civica sembra superato solo il ridotto carico orario, dato che dalle due ore mensili previste dal Dpr 585/58 si passa a un’ora settimanale; ma per il resto, finché non si avrà una distinta valutazione, sembra difficile immaginare un’incidenza reale per una disciplina non ancora autonoma ma agganciata in forma subordinata all’area storico-geografica o storico-sociale.
È interessante notare lo spazio dedicato dalle Linee di indirizzo alla rafforzata valutazione del comportamento, per sottolineare come entrambe le novità della legge 169/08 intendano rispondere all’esigenza di restituire alla scuola quel compito più globalmente educativo che ultimamente sembrava aver perduto.
Proprio questa attenzione educativa può giustificare l’interesse dello stesso Irc per innovazioni che vanno ad incidere sull’area valoriale dei curricoli scolastici, finora lasciata piuttosto sguarnita e appannaggio quasi esclusivo dell’Idr.
È altresì noto che in Spagna la recente introduzione di un’analoga “Educazione alla cittadinanza” ha suscitato le vivaci proteste della Chiesa cattolica per il sospetto che si voglia fare concorrenza all’Irc attraverso l’insegnamento di una sorta di religione civile nutrita di laicismo ed espressione di uno stato etico.
Un rischio del genere ci sembra da escludere in Italia, non tanto per la diversa provenienza politica della proposta, quanto per la natura dell’insegnamento, che non si ferma alla sola cittadinanza (che presa da sola potrebbe essere equivocamente interpretata come conoscenza e condivisione forzata del sistema etico-giuridico nazionale) ma si arricchisce del fondamentale riferimento alla Costituzione.
Un paragrafo delle Linee di indirizzo è significativamente intitolato “Educare alla cittadinanza secondo Costituzione, in contesti multiculturali”, lasciando intendere che la natura della cittadinanza non possa essere separata dal riferimento fondante alla Costituzione, i cui principi generali sono senz’altro condivisibili e condivisi al di là degli schieramenti ideologici e costituiscono il correttivo di usi strumentali di un concetto unilaterale di cittadinanza (che peraltro va oggi coniugato in prospettiva multiculturale).
La Costituzione è infatti definita «non solo il documento fondativo della democrazia nel nostro Paese, ma anche un “mappa valoriale” utile alla costruzione della propria identità personale, locale, nazionale e umana».
Per ogni ordine e grado di scuola, dall’infanzia alla secondaria di II grado, sono individuati obiettivi di apprendimento e situazioni di compito per la certificazione delle competenze personali.
Queste ultime sono articolate ad ogni livello in quattro distinte aree, che già danno un’idea chiara dei punti di riferimento e dei possibili sviluppi: dignità umana, identità e appartenenza, alterità e relazione, partecipazione.
Spetterà ora alle scuole convalidare o emendare questa proposta per trasformarla in una vera e propria nuova disciplina d’insegnamento.

Marzo

L’ideologia di una guerra santa così come si presenta in alcuni libri dell’Antico Testamento fa trasparire un’evoluzione che è parallela all’evoluzione religiosa della fede ebraica.
Una dottrina della guerra sembra risalire all’epoca della conquista e dell’insediamento in Palestina delle tribù di Israele, raccontate nei Libri di Giosuè e dei Giudici.
Gli ebrei andavano in guerra con il loro dio nazionale Yahweh.
I loro successi militari erano la prova della Sua superiorità rispetto alle altre divinità.
L’esaltazione religiosa della conquista popolare caratterizza questa fase che viene abbandonata con l’affermazione della monarchia e la conseguente creazione di un esercito del Regno.
Questa epoca premonarchica fu indicata come modello dal grande movimento di riforma religiosa di cui furono protagonisti i profeti, e le guerre di Israele furono interpretate come le guerre di Yahweh.
Così, le sconfitte che subiva il popolo ebraico furono messe in relazione al tradimento dell’Alleanza e all’adorazione di divinità straniere.
Il Libro del Deuteronomio contiene una vera codificazione della guerra, soprattutto nel capitolo 20 che è interamente dedicato a questo tema.
Vi si afferma che Yahweh «marcia al fianco di Israele»; è da ciò che il popolo eletto deriva la certezza della propria vittoria (Dt 20,2-4).
2 Quando sarete vicini alla battaglia, il sacerdote si farà avanti, parlerà al popolo 3 e gli dirà: Ascolta, Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai vostri nemici.
Il vostro cuore non venga meno.
Non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, 4 perché il Signore, vostro Dio, cammina con voi, per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi.
La presenza costante di Yahweh al fianco del popolo ebraico è l’aspetto essenziale della guerra santa: i guerrieri non devono mai temere il loro nemico perché Yahweh può intervenire in mille modi, anche miracolosi (Gs 10,11).
Fra le diverse prescrizioni legate alla guerra nell’Antico Testamento suscita stupore la pratica dell’herem che consisteva nel fare voto di distruggere interamente le cose e i beni di determinati nemici, in caso di vittoria (Nm 21,2; Gs 6,21).
Il Deuteronomio indica anche quali sono i popoli per i quali bisogna applicare l’herem (Dt 20,16-18).
20 Allora il popolo lanciò il grido di guerra e si suonarono le trombe.
Come il popolo udì il suono della tromba ed ebbe lanciato un grande grido di guerra, le mura della città crollarono; il popolo allora salì verso la città, ciascuno diritto davanti a sé, e occuparono la città.
21 Votarono poi allo sterminio, passando a fil di spada, ogni essere che era nella città, dall’uomo alla donna, dal giovane al vecchio, e perfino il bue, l’ariete e l’asino.
(Gs 6,20-21).
Alla fine, quando la disfatta dell’ultimo regno di Israele fu consumata, la prospettiva del castigo lasciò spazio alla speranza e all’attesa della grande guerra escatologica: furono i profeti a sviluppare, accanto a una concezione positiva della guerra santa, anche una negativa, in cui le sconfitte erano comprese come un castigo per il popolo ebraico.
Questa nuova interpretazione è legata alla precedente perché, in un caso come nell’altro, Yahweh è presente nella guerra e castiga coloro che si scostano dalla retta via.
L’aspetto tragico del conflitto è presente in tutti i profeti, ma soprattutto in Geremia ed Ezechiele che furono contemporanei alla caduta di Gerusalemme e del suo tempio.
Il culmine di quella tensione conduce, poco per volta, alla prospettiva escatologica.
L’interpretazione della guerra da parte dei profeti sfocia nell’idea del “giorno di Yahweh”, il “giorno del Signore”, quello in cui Dio manifesterà la sua onnipotenza punendo coloro che si sono allontanati da lui (Is 2,10-12).
10 Entra fra le rocce, nasconditi nella polvere, di fronte al terrore che desta il Signore, allo splendore della sua maestà, quando si alzerà a scuotere la terra.
11 L’uomo abbasserà gli occhi superbi, l’alterigia umana si piegherà; sarà esaltato il Signore, lui solo in quel giorno.
12 Poiché il Signore degli eserciti ha un giorno contro ogni superbo e altero, contro chiunque si innalza, per abbatterlo; 13 contro tutti i cedri del Libano alti ed elevati, contro tutte le querce del Basan, 14 contro tutti gli alti monti, contro tutti i colli elevati, 15 contro ogni torre eccelsa, contro ogni muro fortificato, 16 contro tutte le navi di Tarsis e contro tutte le imbarcazioni di lusso.
17 Sarà piegato l’orgoglio degli uomini, sarà abbassata l’alterigia umana; sarà esaltato il Signore, lui solo, in quel giorno.
18 Gli idoli spariranno del tutto.
(Is 2,10-18) Un ultimo sviluppo dell’interpretazione della guerra, che ritroviamo solamente in alcuni profeti, sarà la presa di posizione risolutamente pacifista che nega qualsiasi valore alle armi, intravedendo la sopravvivenza di Israele solo nel ritorno alla vera religione (Os 14,2; Is 31,1-3; 22,8-11; 30,15).
1 Guai a quanti scendono in Egitto per cercar aiuto, e pongono la speranza nei cavalli, confidano nei carri perché numerosi e sulla cavalleria perché molto potente, senza guardare al Santo di Israele e senza cercare il Signore.
2 Eppure anch’egli è capace di mandare sciagure e non rinnega le sue parole.
Egli si alzerà contro la razza dei malvagi e contro l’aiuto dei malfattori.
(Is 31,1-2) Si tratta di una concezione che ha certamente poco a che fare con il moderno pacifismo, e ancor meno con la non-violenza: qui si afferma sostanzialmente il primato delle qualità spirituali sulla forza materiale, e la piccolezza dei mezzi umani di fronte alla volontà divina.
Con Ezechiele ci si incammina nella direzione della speranza di un ritorno a tempi di pace e all’annuncio di una grande guerra legata alla fine dei tempi.
36 Quando vi avrò purificati da tutte le vostre iniquità, vi farò riabitare le vostre città e le vostre rovine saranno ricostruite.
34 Quella terra desolata, che agli occhi di ogni viandante appariva un deserto, sarà di nuovo coltivata 35 e si dirà: La terra, che era desolata, è diventata ora come il giardino dell’Eden, le città rovinate, desolate e sconvolte, ora sono fortificate e abitate.
36 Le nazioni che saranno rimaste attorno a voi sapranno che io, il Signore, ho ricostruito ciò che era distrutto e coltivato di nuovo la terra che era un deserto.
(Ez 36,33-37) Questa tendenza apocalittica proseguirà nei secoli successivi, e troverà il suo pieno sviluppo a partire dal II secolo a.C.
nei testi dell’apocalittica giudaica di cui il Libro di Daniele è un esempio.
Le visioni escatologiche che vi sono contenute sono direttamente legate ai turbamenti sociali e politici di quell’epoca; una delle idee centrali che esse veicolano è l’attesa del Messia: è in questo contesto che nascerà il cristianesimo.
Dopo la caduta del Tempio e la Diaspora il giudaismo ha molto poco considerato il problema della guerra.
La rilettura della Legge e la sua attualizzazione divenne l’occupazione fondamentale dei rabbini e della comunità ebraica e l’impossibilità politica, per duemila anni, di condurre una qualunque forma di guerra portò a una reinterpretazione totale del suo significato.
Con il genocidio perpetuato dai nazisti durante il secondo conflitto mondiale, un altro personaggio biblico è venuto a imporsi nella coscienza giudaica, quello di Giobbe, l’uomo giusto e innocente che diventa vittima delle peggiori calamità.
Così, confrontandosi con lo sterminio, il giudaismo trova, nella storia biblica, non tanto una risposta alle sue domande, quanto il modello che pone la medesima domanda.
Alcuni pensatori ebrei, come André Neher, hanno così espresso l’interrogativo supremo: «Così come Geremia ebbe il coraggio di identificare in Nabucodonosor un servitore di Dio, allo stesso modo la generazione di Auschwitz avrà lo stesso coraggio di riconoscere in Auschwitz un’aggressione divina?».
La non violenza praticata nel cristianesimo primitivo derivava naturalmente dall’esempio di Gesù e dal comandamento mosaico: «Non uccidere».
L’omicidio era quindi profondamente proibito e ogni omicida era escluso dalla comunità cristiana.
Un simile rifiuto di uccidere era naturalmente incompatibile con il mestiere del soldato e il problema della legittimità del servizio militare dal punto di vista cristiano risale a quest’epoca.
I primi tre secoli della storia della Chiesa si pongono nella prospettiva inaugurata da Cristo stesso: l’ostilità delle autorità alla predicazione cristiana si è perpetuata fino all’editto di Costantino (313) e fu segnata da un’opposizione continua dello stato romano verso la nuova religione, opposizione degenerata spesso in aperta persecuzione.
L’atteggiamento dell’apostolo Paolo fu duplice: da un lato invitava a sottomettersi all’autorità dello stato, nella misura in cui questo partecipava all’ordine del mondo voluto da Dio; dall’altro, lo stato era un fenomeno passeggero al quale non ci si poteva interamente piegare.
La posizione legalista di Paolo si trova espressa in un celebre passo della Lettera ai Romani.
1 Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite.
Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio.
2 Quindi chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio.
E quelli che si oppongono attireranno su di sé la condanna.
3 I governanti infatti non sono da temere quando si fa il bene, ma quando si fa il male.
Vuoi non aver paura dell’autorità? Fa’ il bene e ne avrai lode, 4 poiché essa è al servizio di Dio per il tuo bene.
Ma se fai il male, allora devi temere, perché non invano essa porta la spada; è infatti al servizio di Dio per la giusta condanna di chi fa il male.
(Rm 13,1-4) Il rispetto dell’autorità civile deve essere interpretato come un aspetto dell’atteggiamento generale dei cristiani, che è di rispetto per gli altri; non si tratta di sottomissione cieca al potere.
La legittimità del potere dello stato è solo in funzione della sua capacità di fare il bene.
Paolo, come Gesù, riconosce l’esistenza di un’autorità terrena che non deve essere rovesciata con la violenza e, malgrado le persecuzioni, fu la posizione seguita da tutti i vescovi fino alla conversione di Costantino.
Suvvia, egregi governatori: sarete ancora più egregi presso il popolo se gli immolerete i cristiani.
Orsù, coraggio, tormentateci, torturateci, condannateci, stritolateci: la vostra iniquità è la prova della nostra innocenza! Dio permette che noi soffriamo tutto questo…
Eppure a nulla giova la vostra squisita crudeltà, anzi è un’attrattiva per la nostra religione.
Più siamo mietuti da voi, più cresciamo: il sangue dei cristiani è un seme! (Tertulliano, Apologetico, 50) Anche se l’ostilità anticristiana era generale e periodicamente un editto imperiale scatenava tutte le atrocità contro di essi, si vedono ancora i vescovi e gli apologeti cristiani cantare le lodi dell’imperatore e proclamare la fedeltà dei cristiani alla pace romana.
L’adesione all’impero non poteva essere completa fintanto che questo continuava a celebrare i culti pagani; il giorno in cui l’imperatore si convertì, il cristianesimo da religione perseguitata divenne religione riconosciuta e protetta.
Il legalismo assunse allora un altro aspetto e si assistette all’unione del potere temporale e delle istituzioni religiose.
Fu così che la confusione tra Dio e Cesare, nettamente respinta da Gesù, si trovò personificata nell’imperatore Costantino.
L’alleanza tra Chiesa e stato trasformerà profondamente la prima: il legalismo temperato di Paolo diventerà bramosia di potere, l’eroismo dei martiri sarà sostituito con l’intolleranza e la persecuzione contro i pagani.
L’analisi dei conflitti internazionali mette in evidenza, tra gli altri elementi, anche l’importanza che riveste l’identità culturale dei popoli nella quale si integra l’identità religiosa.
La manifestazione violenta dei sentimenti religiosi diviene a volte uno strumento di lotta contro l’oppressione, la volontà di ritrovare la propria identità.
Lo scatenamento delle passioni comporta grandi pericoli ed è portatore delle peggiori follie omicide.
Ma la dimensione religiosa nella sua essenza, non ha niente a che vedere con questo scatenamento delle passioni, anzi è all’opposto, e non ha niente a che vedere con la guerra.
Religione significa, o dovrebbe significare, “pace”.
Questo è il suo unico oggetto, il messaggio centrale di tutte le religioni a cui bisogna continuamente ritornare.
Questa pace è il vero spazio del religioso, questo è il suo vero campo d’azione anche se è stato a lungo fuorviato (e lo è tuttora) sui campi di battaglia.
La caratteristica dell’ebraismo è lo studio della Torah, del cristianesimo è la fede in Cristo risorto, dell’islam la sottomissione ad Allah, dell’induismo è l’unione con Brahma, del buddismo il Risveglio alla propria natura universale.
In nessun caso si tratta mai di uccidersi.
In questa sede, e nel prossimo mese, cercheremo di evidenziare alcuni elementi centrali nella riflessione sul rapporto tra le religioni e la guerra che permettano di leggere, alla luce della storia e dei testi sacri delle principali religioni, gli eventi contemporanei.
La prima parte è dedicata all’ebraismo e al cristianesimo; il mese prossimo considereremo l’islam, l’induismo e il buddismo.
Il pacifismo della morale evangelica e la non-violenza dei martiri cristiani, pertanto, non sopravvissero a lungo al matrimonio tra Chiesa e stato.
La contraddizione evidente con tutte le violenze commesse nei secoli successivi nel nome di Cristo, non può che stupire chi osserva l’epopea del cristianesimo: conversioni forzate, inquisizione, crociate, guerre di religione costellano la storia dei cristiani la cui missione era proclamare la Buona Novella.
Certamente il cristianesimo non fu la sola religione che si servì della spada come strumento della fede, e la storia dei santi come san Francesco e san Vincenzo de’ Paoli, o il periodo di pace instaurato dalla Chiesa nell’alto Medioevo, stanno lì a ricordarci che il cristianesimo non era sinonimo di distruzione.
Tuttavia la violenza nella storia di questa religione stupisce più delle altre perché si oppone radicalmente all’insegnamento del suo fondatore.
Associata allo stato, la Chiesa fu presa, così, nell’ingranaggio infernale della giustificazione teologica delle azioni commesse dal potere temporale.
Essa stessa divenne la fonte di una nuova violenza, nella sua certezza di essere la sola detentrice di una verità valida per tutta l’umanità.
Ai conflitti tradizionali, si aggiunse la guerra alle divinità pagane e la caccia agli eretici.
Alcuni teologi giunsero fino a elaborare una teoria della “guerra giusta”: il principale promotore di questa fu sant’Agostino.
Egli, formatosi alla più elevata filosofia del suo tempo, dovette misurarsi con la difficoltà di conciliare la guerra con le Sacre Scritture.
Fortemente legato al precetto di “amare i propri nemici”, Agostino considerava l’atto di uccidere, anche solo per difesa, come un peccato; opponeva al regno di questo mondo un Regno spirituale (la Città di Dio), l’unico degno di vera attenzione da parte degli uomini.
Provava una profonda avversione per ogni guerra: Che tutti coloro che riflettono con dolore a questi mali così orribili e così crudeli, riconoscano che la guerra è una calamità; e se qualcuno li accetta o li pensa senza provare dolore morale, la sua sorte è più triste ancora, perché egli ha perduto ogni sentimento umano.
Eppure, al di là del suo pacifismo, Agostino fu costretto a constatare il pericolo reale e concreto rappresentato dalle invasioni barbariche che si apprestavano a distruggere la civiltà romana e le istituzioni della Chiesa (egli morì a Ippona assediata dai Vandali).
Doveva forse consigliare all’insieme dei cristiani di rifiutarsi di prendere le armi? Questa soluzione gli parve impossibile e intraprese quindi la strada della giustificazione della guerra, almeno sotto una certa forma.
Il primo punto della sua dottrina consiste nel distinguere le guerre giuste da quelle ingiuste.
Egli definisce «giuste le guerre che vendicano le ingiustizie quando quel popolo o quello stato a cui la guerra deve essere fatta non ha punito i misfatti dei suoi o non ha restituito ciò che è stato sottratto attraverso le ingiustizie».
Questa affermazione sottintende che, in ogni caso, le guerre difensive debbano essere giustificate.
Il secondo punto consiste nel ritenere la guerra come un mezzo per ottenere la pace; qualsiasi tipo di pace, è da lui così definita: «La pace è la tranquillità nella giustizia».
Questa posizione implica la moderazione nella conduzione della guerra: «Siate dunque pacificatori nella vostra guerra affinché la vostra vittoria conduca coloro che avete vinto a comprendere l’utilità della pace».
Bisogna quindi ricorrere alla guerra solo in caso di grande necessità, come estrema ratio.
La giustificazione della violenza conobbe, in seguito, un successo che Agostino non poteva immaginare.
Grazie a essa le conversioni forzate e gli abusi dell’Inquisizione poterono avvalersi dell’autorità del maestro di Ippona.
Per primo, egli aveva enunciato il famoso principio: Compelle intrare!, cioè “costringili ad entrare!”.
Senza saperlo, Agostino aveva dunque inaugurato per la Chiesa la lunga tradizione del ricorso al braccio secolare contro coloro che voleva punire.
La sua teoria della guerra giusta sarà il fondamento della teoria della guerra per tutto il Medioevo.
Successivamente, il diritto della guerra evolverà nella direzione del diritto generale, senza riferimento diretto alla dottrina cristiana.
Nel XVI secolo il domenicano spagnolo Francesco De Vittoria studierà il problema della guerra a partire dal diritto di ogni nazione, mentre un secolo più tardi, con Grozio, il problema della guerra sarà esaminato sotto l’angolatura del diritto internazionale.
Nel secolo scorso, in occasione delle due guerre mondiali, si è registrata la strenua opposizione dei due pontefici dell’epoca.
Benedetto XV definì la Prima Guerra «la più fosca tragedia della follia umana», mentre Pio XII nel tentativo di scongiurare la Seconda Guerra, così si pronunciava il 24 agosto 1939: «Nulla è perduto con la pace.
Tutto può esserlo con la guerra».
Benché Gesù abbia affermato «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non son venuto per abolire, ma per dare compimento» (Mt 5,17) la morale evangelica appare spesso ben lontana dalla morale dell’Antico Testamento.
È senza dubbio nel Discorso della Montagna che la morale evangelica raggiunge la più perfetta formulazione.
3 Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli.
4 Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.
5 Beati i miti, perché avranno in eredità la terra.
6 Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati.
7 Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia.
8 Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio.
9 Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.
10 Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli.
11 Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia.
12 Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.
(Mt 5,3-12) Gesù riprende antichi comandamenti dando loro un nuovo vigore, ricercando lo spirito dietro la lettera: «Avete inteso che fu detto agli antichi: Non uccidere; chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio.
Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio» (Mt 5,21-22).
Gesù non esita a modificare le codificazioni della Legge che appaiono incompatibili con il suo insegnamento: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi ti vuol chiamare in giudizio per toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello» (Mt 5,38-40).
Inoltre, insiste senza sosta sull’amore del prossimo, fino all’estremo dell’amore per i nemici: «Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori» (Mt 5,43-44).
Tutte queste parole di Gesù evocano un insegnamento che esalta l’umiltà, la bontà, la pace e che esclude per i suoi seguaci il ricorso alla violenza e alla guerra.
Eppure, altri versetti dei Vangeli mostrano Gesù sotto tutt’altro aspetto.
Anche volendo ignorare alcuni passi di chiara portata apocalittica, ne troviamo altri in aperta contraddizione con la visione delle Beatitudini, come il seguente: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada» (Mt 10,34).
Numerosi cristiani, lungo i secoli, non hanno esitato a servirsi di passaggi come questo dei Vangeli per trasgredire la morale del Discorso della Montagna.
Non bisogna però dimenticare che Gesù si esprime in un contesto sociale di forte agitazione, in cui la violenza politico-religiosa covava sotto la cenere, in cui le antiche profezie erano caricate di valenze distruttrici, e in cui le folle che lo seguivano vedevano in lui essenzialmente un liberatore nazionale.
Gesù, comunque, non esita a scontrarsi con i mercanti del Tempio, con gli scribi e i farisei, con i ricchi e gli ipocriti, con tutti coloro che rifiutano l’amore e la giustizia contenuti nella Legge che pretendono di osservare.
Si mostra anche intransigente con i suoi discepoli: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).
Tuttavia, riletti nella prospettiva dell’epoca, certi passaggi non sono in contraddizione con l’insegnamento fondamentale che Gesù propone e che esclude ogni violenza contro il prossimo.
La conferma di questa lettura sta nella sua accettazione delle sofferenze e della morte, senza cercare alcun ricorso alle armi, ma morendo con parole di perdono nei confronti dei suoi carnefici.
1.
Perché possiamo parlare di “guerra santa” nell’esperienza del popolo ebraico del periodo premonarchico? 2.
Quale differente atteggiamento nei confronti della guerra si riscontra nel Libro di Ezechiele rispetto alla concezione precedente? 3.
Quale Libro dell’Antico Testamento è stato maggiormente considerato nel pensiero ebraico successivamente ad Auschwitz e perché? 4.
Perché possiamo parlare, alla luce dei Vangeli, di “pacifismo cristiano”? 5.
Quando, e che cosa ha determinato nella Chiesa, lo smarrimento di questo ideale? 6.
Quali sono i punti fondamentali della teoria della “guerra giusta” secondo Agostino”?

8 MARZO 2009

E qualche battuta, tra il vero e il faso su di noi, ci farà sorridere di certo.
Eccole: 1.
Qual e’ la differenza fra le donne di 8, 18, 28, 38 e 48 anni? Quelle di 8 anni le si mettono a letto e si racconta loro delle storie; quelle di 18 anni si raccontano loro delle storie e si mettono a letto; quelle di 28 anni non hanno bisogno che si racconti loro delle storie per metterle a letto; quelle di 38 anni vi raccontano delle storie e vi portano a letto; a quelle di 48 bisogna che le raccontiate delle storie per evitare di andarci a letto.
2.
Potremo dire di avere raggiunto la parità tra i sessi quando donne mediocri occuperanno posizioni di responsabilità.
(Francois Giroud) 3.
Cosa vuol dire quando una donna e’ fuori della cucina? Che la catena e’ troppo lunga.
4.
Una donna affascinante e’ l’inferno dell’anima, il purgatorio del portafoglio, ed il paradiso degli occhi.
(Fontenelle) 5.
Una donna e’ come un buon libro: divertente, ispira, istruisce.
Talvolta ci sono troppe parole, ma se la rilegatura e le decorazioni sono belle e’ irresistibile.
Vorrei potermi permettere una biblioteca.
(Marcus Long) 6.
Le donne sarebbero più affascinanti se si potesse cadere fra le loro braccia senza cadere nelle loro mani.
(Ambrose Bierce) 7.
Era così piatta che di reggiseno non aveva la prima, ma la retromarcia.
(Giorgio Faletti) 8.
Quando la donna che t’ama ti loda, non t’insuperbire: loda se stessa.
9.
Se una donna desidera un diadema di diamanti, vi spiegherà che e’ per evitarvi di comperarle un cappello.
(Jerome K.
Jerome) 10 Dopo tanto discorrere resta dubbio se le donne preferiscano essere prese, comprese o sorprese.
(Gesualdo Bufalino) 11.
Le donne non hanno mai niente da dire.
Ma lo sanno dire così bene! (Oscar Wilde).
12.
Le donne sono straordinarie con la loro mania di far dormire gli altri nel modo in cui loro gli rifanno il letto.
(Samuel Beckett) La prima donna italiana a prendere la penna con intenti letterari fu Compiuta Donzella, una musica fiorentina del 1200, di cui ci restano tre sonetti.
Da Compiuta ad oggi, molte grandi donne italiane si sono avvicinate alla scrittura, ognuna per un motivo e con un intento differente.
I risultati sono stati i più disparati.
Nel percorso che presento, vi sono alcune tra le scrittrici italiane più significative, nella speranza che, attraverso le loro vite, spesso difficili, e le loro opere, sia possibile comprendere anche li diversi momenti che ha attraversato, nel tempo, la società italiana.
Senza strombazzature e botti pirotecnici.
Naturalmente, di ognuna indicherò solo il periodo storico, fermandomi agli Anni Settanta, altrimenti… 1347-80 S.
Caterina da Siena 1450 Antonia Pulci Alessandra Macinghi Strozzi Isotta Nogarola Cassandra Fedele Laura Cereta Gaspara Stampa 1450 – 1500 Lucrezia detta Imperia Vittoria Colonna Tullia d’Aragona Chiara Matraini Laura Battiferri Amannati Veronica Franco Isabella di Morra 1530 Olympia Morata 1550 Moderata Fonte Isabella Andreini Lucrezia Marinella 1600 – 1700 Maria Clemente Ruoti Faustina Maratti Zappi Luisa Bergagli fine 1700 Diodata Saluzzo Roero Gaetana Agnesi Eleonora Fonseca Pimentel Cristina Tivulzio Belgioioso 1850 – 1900 Matilde Serao Caterina Percoto Contessa Lara Vittoria Aganoor Pompilj Grazia Deledda Neera Maria Messina 1900 Amalia Guglielminetti Ada Negri Sibilla Aleramo Futurismo: Rosa Rosà Gianna Manzini Anna Banti Neorealismo: Fausta Cialente Alba de Cespedes Elsa Morante SECONDA GUERRA MONDIALE Natalia Ginzburg II° DOPOGUERRA Antonia Pozzi Amelia Rosselli Giulia Niccolai Margherita Guidacci Maria Luisa Spanzani ANNI ’70 Amanda Guiducci Gina Lagorio Dacia Maraini ……….
Invece le annotazioni che seguono sono preziose per coloro che intendono meglio approfondire i loro studi sul contributo femminile nei vari campi del sapere: Indirizzi: A Celebration of Women Writers: Un sito dedicato alle donne scrittrici, con elenchi suddivisi per epoca e per paese.
Interessante per ricerche specialistiche, dato che compaiono nomi di scrittrici provenienti anche dai paesi più piccoli.
African Women’s Bibliographic Database Un database – suddiviso per paese e per zona – specifico sulle donne africane: dalla situazione sociale alla letteratura, agli studi di genere.
American Women History Un database sulla storia delle donne americane: libri, riviste, tesi, con un indice per soggetto.
E-book by Women Writers – University of Virginia Sito dell’Università della Virginia che offre un elenco di donne scrittrici, soprattutto per il periodo 1800-1900.
I libri sono stati riportati in versione html, e possono quindi essere letti direttamente.
Early Modern Women Database Database delle biblioteche dell’Università del Maryland, suddiviso per temi, paesi, e tipi di documenti cercati.
Feminist Science Fiction, Fantasy and Utopia Sito che offre molto materiale sulla fantascienza e sul genere fantasy scritto da donne e da un punto di vista femminista: bibliografia suddivisa in ordine alfabetico, riviste, documentari e film.
Feminist Studies Collections: Women in History Sito della Stanford University (California) molto ricco di materiale sugli Women’s Studies: amplia soprattutto la parte dedicata alla storia delle donne, con link a siti specifici.
Medieval Feminist Index Questo sito offre la possibilità di consultare giornali, libri, articoli, saggi, riviste sulle donne, la sessualità e il genere nel Medio Evo.
Sito serio, collegato alle Università di Notre Dame, Yale, Princeton, Berkley e Toronto.
SOSIG Women and Education Questo sito, che fa parte dello UK Resource Discovery Network, offre una serie di link che si occupano del campo di Women’s and Gender Studies da vari punti di visti: ogni link viene ampliamente descritto e presentato.
WMST-L File Collection Sito contenente molto materiale suddiviso per tema: dai libri alla storia, dalla sessualità al linguaggio.
The World Wide Web Virtual Library Women’s History Reference Offre molti dati interessanti per quanto riguarda gli Women’s Studies: dallle riviste ai link alle università di tutto il mondo che si occupano di questo campo.
Women’s EuroMap Sito del Centro di Women’s Studies di Anversa, Belgio.
Vuole essere una “guida” ai siti di particolare interesse per gli Women’s Studies nella rete.
Si focalizza soprattutto sull’Europa.
Women’s Studies Database Database dell’Università del Maryland: bibliografie, saggi e informazioni utili per i posti di lavoro vacanti nell’area di Women’s Studies.
Women’s studies information sources Sito dell’Università di York (Inghilterra), con un database specifico, una lista di riviste che si occupano di Women’s e Gender Studies e la possibilità di consultare la biblioteca via internet.
Toglimi il pane, se vuoi, toglimi l’aria, ma non togliermi il tuo sorriso(Pablo Neruda) Non si può ancora affermare che la nostra società dia alle donne la possibilità di svolgere contemporaneamente i propri compiti di madri, di mogli e anche di altri lavori.
Questo e’ quello che occorre ancora ottenere e- sinceramente- impegnarsi per onorare la lotta intrapresa dalle donne più di cent’anni fa.
Mi imbarazza, ma ci sono troppe giovani donne che non sanno il perché di questa “memoria”- non festa- quindi un minimo di vicenda bisogna proporla.
E poi desidero offrire due o tre cose che sfuggono a tanti, ma che vale la pena di conoscere, visto che ci possiamo “abbracciare” come umanità in ricerca con Internet.
Nel 1908 Preceduta da una marcia di 15.000 donne nel 1908 per il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’ottenimento del diritto al voto, la prima festa della donna si è svolta il 28 febbraio 1909 negli Stati Uniti d’America.
La sua istituzione internazionale risale al 1910 nel corso della seconda Conferenza dell’Internazionale Socialista svoltasi a Copenaghen nella Folkets Hus (Casa del Popolo) chiamata poi “ungdomshuset”.
Qui più di 100 donne rappresentanti di 17 paesi scelsero di istituire una festa per onorare la lotta femminile per l’ottenimento dell’uguaglianza sociale.
Dal 1912 la festa vuole ricordare anche un grave incendio avvenuto nel 1911 a New York, nella Triangle Shirtwaist Company dove morirono 140 donne in prevalenza italiane ed ebree.
Nel febbraio del 1913 anche le donne russe parteciparono alla loro prima festa con l’intento di dichiarare la loro posizione contro la guerra, ma si ritrovarono a manifestare il 23 febbraio 1917 (l’8 marzo del calendario giuliano) per la morte di circa 2 milioni di soldati russi scomparsi in guerra.
Le proteste continuarono per vari giorni fintanto che lo Zar fu costretto ad abdicare ed il governo dovette concedere il diritto al voto anche alle donne.
Da quell’anno la festa viene celebrata in una data fissa, mentre precedentemente era onorata l’ultima domenica di febbraio.
In Italia, nel secondo dopoguerra, la giornata internazionale della donna fu ripresa e rilanciata dall’UDI (Unione Donne Italiane) associando nel contempo alla data dell’8 marzo l’ormai tradizionale fiore della mimosa.