La fede è affermazione della lingua, accettazione del cuore, operare se¬condo i principi.
E le prove dell’im¬portanza delle opere sono innumere¬voli.
Certo, l’uomo ottiene il Paradiso dalla grazia dell’Altissimo e dalla sua generosità, senonché lo ottiene dopo esservisi preparato mediante l’obbedienza e la devozione, perché «la mi¬sericordia di Dio è vicina a quelli che fanno il bene».
E se qualcuno dicesse: «Il Paradiso si ottiene unicamente con la fede», risponderemmo: «Sì, ma quando si ottiene? E quanti duri osta¬coli bisogna superare per arrivarci? La prima di tali difficoltà viene appunto dalla fede: il credente scamperà alla perdita della fede o no? E quando ar¬riva in Paradiso, non vi giungerà forse spoglio e sprovvisto?».
Dice al-Hasan di Bàssora: «L’Altissimo dirà ai suoi servi, nel Giorno del Giudizio: “Servi miei, entrate in Paradiso, per mia mi¬sericordia, e spartitevelo secondo le vostre opere”».
O giovane, finché non operi, non tro¬verai premio.
Si racconta di un certo israelita che aveva adorato l’Altissimo per lo spazio di settant’anni; Dio volle farlo conoscere agli angeli, e mandò un angelo a portargli la notizia che, malgrado quella sua adorazione, non meritava di entrare in Paradiso.
A que¬sto annuncio il devoto esclamò: «Sia¬mo stati creati per l’adorazione e biso¬gna che Lo adoriamo!».
L’angelo tornò indietro e disse: «Mio Dio, tu sai bene che cosa ha risposto».
Dichiarò allora Iddio: «Se lui non cessa di ado¬rarci, noi, con la nostra generosità, non lo abbandoneremo.
Siate testi¬moni, o angeli, che gli ho perdonato».
E ha detto l’Inviato di Dio: «Fate i con¬ti con la vostra coscienza, prima che al¬tri vi chiami alla resa dei conti, e pesa¬te le vostre condizioni prima che altri ve le pesi».
E diceva Ali: «Chi crede di arrivare in Paradiso senza sforzo è un illuso, e chi crede di arrivarci soltanto con lo sforzo è un presuntuoso».
E di¬ceva al-Hasan di Bàssora: «Ricercare il Paradiso senza opere è un peccato», e diceva: «Contrassegno della verità: prescindere dalla ricompensa delle opere, ma non rinunciare alle opere».
Sappi che chi segue la strada di Dio ha bisogno di uno sheikh, educatore e guida, che con la sua disciplina espella da lui le cattive inclinazioni, ponendo al loro posto quelle buone.
L’educa¬zione è simile al lavoro del contadino, che sradica le spine e toglie le erbe estranee dal seminato, perché vegeti bene e raggiunga uno sviluppo perfet¬to.
E chi segue la strada di Dio non può fare a meno di uno slteikh che lo edu¬chi e lo guidi su quella strada, perché Dio mandò ai suoi servi un Inviato, per guidarli sulla sua via, e costui morendo lasciò i califfi al suo posto, perché gui¬dassero (i musulmani) a Dio.
O giovane, l’essenziale della scienza è che tu conosca che cosa sono l’obbe¬dienza e la devozione.
Sappi che obbe¬dienza e devozione consistono nel se¬guire il Legislatore, nei comandamen¬ti e nei divieti, con le parole e con le azioni.
Vale a dire: tutto quel che fai, e dici, e ometti, sia conforme alla legge.
Così, se tu digiuni il giorno della Festa o i tre giorni successivi, sei un ribelle.
O se tu eseguissi la preghiera indossan¬do un vestito rubato, peccheresti pur avendo l’apparenza della devozione.
O giovane, bisogna che le tue parole e i tuoi atti siano conformi alla legge, perché la scienza e le opere, senza la guida della legge, sono un errore.
Ed è necessario che tu non ti lasci inganna¬re dagli aspetti emotivi dell’ascetico-¬mistica.
La via mistica è quella del com¬battimento spirituale; è necessario troncare le passioni dell’anima carna¬le, uccidere le sue brame con la spada dell’ascesi, non con le frenesie e le fu¬tilità.
Sappi anche che alcune delle do¬mande che mi hai rivolto non comportano risposta, né scritta né a parole: chi raggiunge gli stati mistici sa che cosa sono, non è possibile conoscerli altri¬menti, perché sono dati di esperienza immediata, e queste esperienze tutte sono indescrivibili, come la dolcezza del dolce e l’amarezza dell’amaro, che puoi conoscere soltanto sperimentan¬dole…
Si racconta che ash-Shibli, dopo aver studiato con quaranta maestri, di¬ceva: – Ho letto quattromila hadìth, poi ne ho prescelto uno solo e l’ho messo in pratica, ad esclusione di tutti gli altri, perché meditandolo vi ho tro¬vato la mia liberazione e la mia salvez¬za.
La scienza degli antichi e dei mo¬derni c’è dentro tutta, e mi è stato suf¬ficiente.
Eccolo: «Un giorno l’Inviato di Dio disse ad uno dei suoi compagni: Opera per la tua vita mondana nella misura del tempo che dimorerai in questo mondo, opera per la tua vita fu¬tura nella misura della sua durata.
Opera per Dio nella misura del bisogno che hai di Lui, ed opera per il Fuo¬co nella misura in cui sarai capace di sopportarlo».
Famoso insegnante di scienze religiose a Naysàbu re o Baghdad prima di praticare una sorta di vita monastica in accordo con la tradizione sufica, il persiano Abu-Hamid Muhammad al-Ghazàli (1058 ca.- 1111), considerato il maggior teologo islamico, ha lasciato un gran numero di opere.
I passi che riportiamo di seguito sono tratti da: O giovane!, un breve scritto in cui al-Ghazali ha sin¬tetizzato le sue convinzioni religiose, morali e mi¬stiche per consegnarle a un suo discepolo che ne aveva fatto richiesta (trad.
da Le più belle pagine della letteratura araba, Milano 1957, pp.
235¬-38).
Homo religiosus nella storia/6
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923-938.
L’uomo religioso assume nel mondo un modo specifico di esistenza, che si esprime nelle numerose forme religiose, che la storia ci mostra.
Egli si riconosce dal suo stile di vita; «crede sempre all’esistenza di una realtà assoluta, il sacro, che trascende questo mondo ma che in esso si manifesta e che quindi lo santifica e lo rende reale» (Eliade, Le sacré et le profane, 171).
L’uomo religioso vive un’esperienza religiosa; si trova in una serie di situazioni esistenziali che lo mettono il rapporto con il Trascendente.
Attraverso le diverse situazioni che egli assume, riusciamo a penetrare nel suo universo spirituale.
Queste situazioni hanno lasciato delle tracce.
In definitiva, la storia delle religioni è la storia dell’homo religiosus colto nella realtà esistenziale delle sue credenze, delle sue esperienze e del suo comportamento.
Quest’uomo crede all’origine sacra della vita e al senso dell’esistenza umana come partecipazione a una Realtà che va al di là di questa esistenza.
Così, l’homo religiosus è l’uomo che «prende coscienza del sacro, perché questo si mostra, si manifesta come qualcosa di totalmente differente dal profano» (Le sacré…, 14).
Il sacro si manifesta come una potenza di un ordine completamente diverso da quello delle forze naturali.
Per designare questa manifestazione del sacro percepita dall’homo religiosus, Eliade usa un termine: ierofania.
Dal punto di vista della struttura, l’atto di manifestazione del sacro è sempre identico: un atto misterioso, la manifestazione di qualcosa «totalmente altra».
Questa manifestazione è l’elemento misterioso che costituisce la natura sui generis di ogni ierofania.
La storia delle religioni ci mostra che la struttura e la dialettica della ierofania sono sempre identiche.
Ciò è di importanza fondamentale: nella vita religiosa non ci sono rotture, l’esperienza religiosa ha la stessa specificità in tempi e luoghi diversi.
Essa è l’esperienza esistenziale dell’homo religiosus.
Anche se tutte le ierofanie hanno la stessa struttura e si presentano, quindi, come omogenee, esse sono, tuttavia, eterogenee dal punto di vista della forma: riti, miti, forme divine, oggetti, simboli, animali, piante, uomini.
Il sacro si manifesta, dunque, per l’homo religiosus a livelli diversi, il che spiega la grande varietà dell’esperienza religiosa, da una ierofania che ha luogo in una pietra fino alla teofania suprema, l’Incarnazione di Dio in Gesù Cristo.
L’homo religiosus è insieme.
testimone e messaggero.
Il fenomenologo vede il testimone, l’ermeneuta cerca di comprendere il messaggero e il suo messaggio.
Si può affermare che attraverso lo studio dell’homo religiosus la storia delle religioni identifica il trascendente nell’esperienza religiosa.
Nella vita dell’uomo religioso il linguaggio delle ierofanie è costituito dal simbolo, attraverso il quale il mondo parla e rivela le modalità del reale che non sono evidenti di per sé stesse.
I simboli religiosi che toccano le strutture della vita mettono in rilievo una dimensione che trascende la dimensione umana, e rendono possibile una comprensione diretta della Realtà ultima.
II pensiero simbolico precede il linguaggio e costituisce la sostanza della vita religiosa.
L’homo religiosus è un homo symbolicus.
L’esperienza del mito è anch’essa un’esperienza del sacro poiché mette l’uomo in contatto con il mondo soprannaturale.
Il mito si presenta come una storia vera, sacra ed esemplare, che fornisce all’uomo religioso dei modelli di condotta.
I miti cosmogonici, i miti d’origine, i miti di rinnovamento, i miti escatologici orientano l’attività dell’homo religiosus dandogli un messaggio normativo.
II mito, andando a sfociare nell’imitazione di un modello trascendente, sulla ripetizione di una storia esemplare, mantiene nell’uomo la coscienza del divino: grazie al mito il mondo diviene trasparente.
Nel mito è presente il riferimento a un archetipo che conferisce potenza ed efficacia all’azione umana.
L’archetipo si presenta come un modello primordiale che ha origine nel mondo soprannaturale.
L’uomo religioso realizza questo modello sulla terra.
Per far questo egli ha bisogno di un rituale che dia forza ed efficacia alla sua realizzazione, mettendola in perfetto accordo con l’archetipo.
L’effetto del rituale consiste nel conferire una dimensione di realtà all’azione dell’uomo religioso.
I riti di passaggio rappresentano il passaggio dalla condizione profana a un’esistenza nuova segnata dal sacro.
L’ iniziazione equivale a una mutazione ontologica del regime esistenziale.
È dunque per mezzo dei simboli, dei miti e dei riti che il sacro esercita la sua funzione di Mediazione nella vita dell’homo religioso, al quale dà la possibilità di entrare in contatto con la fonte stessa del sacro, cioè sacro in quanto Realtà trascendente.
homo religiosus è in definitiva un lettore e un messaggero del sacro.
Se l’uomo religioso appare nello specchio della storia delle religioni come homo insieme storico e transtorico, in quanto uomo nella totalità delle sue dimensioni, cosa significa quell’altro tipo umano che è l’uomo areligioso? Per Eliade è l’uomo che «rifiuta la trascendenza, accetta la relatività della “realtà” e arriva fino a dubitare del senso dell’esistenza» (Le sacré et le profane, 172).
Questo tipo d’uomo è andato fiorendo soprattutto nelle società moderne occidentali.
Costruisce se stesso desacralizzando il mondo.
«Il sacro è l’ostacolo per eccellenza alla sua libertà» (op.
cit., 172).
Egli discende dall’homo religiosus per via di un processo di desacralizzazione, ma conserva numerose tracce del comportamento dell’uomo religioso di cui è l’erede.
È portatore di una mitologia camuffata e di ritualismi deteriorati.
Il processo di desacralizzazione ha portato inoltre alla nascita delle ideologie, delle mistiche politiche, di certi movimenti laici che fanno gran caso al soggetto iniziatico e alla nostalgia delle origini. Julien Ries
«La Chiesa sta dalla parte delle persone reali»
«La Chiesa sta con le persone reali» Angelo Card.
Bagnasco Venerati e cari Confratelli, ci ritroviamo come Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale italiana a distanza di due mesi appena dal precedente incontro, mentre perdura la maggior parte delle grandi questioni già allora aperte.
Così questa prolusione, avvio del consueto discernimento comunitario che sappiamo fecondo in ordine al lavoro apostolico, ha quasi la fisionomia di uno sviluppo, o meglio di un aggiornamento, della riflessione allora effettuata.
1.
Di certo si è prolungato, oltre ogni buon senso, un pesante lavorio di critica − dall’Italia e soprattutto dall’estero − nei riguardi del nostro amatissimo Papa, a proposito dapprima della remissione della scomunica ai quattro Vescovi consacrati da Monsignor Lefebvre nel 1988, e al caso Williamson che imponderabilmente vi si è come sovrapposto.
Sul merito di queste due vicende, quello che di importante c’era da dire l’abbiamo sollecitamente detto appunto in occasione della precedente prolusione.
Nessuno tuttavia poteva aspettarsi che le polemiche sarebbero proseguite, e in maniera tanto pretestuosa, fino a configurare un vero e proprio disagio, cui ha inteso porre un punto fermo lo stesso Pontefice con l’ammirevole Lettera del 10 marzo 2009, indirizzata ai Vescovi della Chiesa Cattolica.
Di proposito non vogliamo tornare sulle accuse maldestre rivolte con troppa noncuranza al Santo Padre.
Merita molto di più invece concentrarci sulla citata Lettera che, come atto autenticamente nuovo, ha subito attirato un vasto consenso.
La grande impressione che essa ha suscitato è per buona parte dovuta alla forza interiore che emerge dall’intero testo e da ciascuna delle sue parole, anche le più amare.
La sua disamina, per certi versi conturbante, degli ultimi episodi − ma, per analogia, anche di certe discutibili e ricorrenti prassi ecclesiali − ha fatto emergere come per contrasto il candore di chi non ha nulla da nascondere circa le proprie reali intenzioni, le motivazioni concrete delle proprie scelte, la coerenza di una vita vissuta unicamente all’insegna del servizio più trasparente alla Chiesa di Cristo.
Per questo non stentiamo affatto a riconoscere nell’iniziativa papale l’azione di quello Spirito di Dio che svela i disegni dei cuori e sa trarre il massimo bene anche dalle situazioni più irte e penose.
Il che non significa naturalmente attenuare la severità di un giudizio che nella carità va pur dato circa atteggiamenti e parole che hanno portato a una situazione cui non si sarebbe dovuti arrivare, alimentando interpretazioni sistematicamente allarmistiche e comportamenti diffidenti nei riguardi della Gerarchia.
Con ferma e concreta convinzione facciamo nostro l’appello alla riconciliazione più genuina e disarmata cui la Lettera papale sollecita l’intera Chiesa.
E questo naturalmente esclude che si perpetuino letture volte a far dire al Papa ciò che egli con tutta evidenza non dice.
Che è un modo discutibilissimo, persino un po’ insolente, per costruirsi una posizione distinta dal corretto agire ecclesiale.
Molto meglio identificarsi in quella che è la migliore tradizione del nostro cattolicesimo: stare con il Papa, sempre e incondizionatamente.
Il che da una parte comporta il nostro sintonizzarci sulle ancor più evidenti priorità del suo ministero: «Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia» e «avere a cuore l’unità dei credenti», priorità che coinvolgono tutti, ciascuno per la propria responsabilità.
E, dall’altra, esige di pregare intensamente per lui e con lui, ossia con le sue stesse intenzioni: e questo aiuta a purificare il nostro sguardo sulla Chiesa, mistero di salvezza per il mondo.
2.
In queste ore peraltro il Santo Padre sta portando a termine un’importante visita apostolica nel Camerun e in Angola.
Nelle sue intenzioni essa aveva «per orizzonte» l’intero continente africano (cfr Benedetto XVI, Saluto all’arrivo a Luanda, 20 marzo 2009).
Si è trattato di un viaggio impegnativo e ad un tempo ricco di speranza.
Ciò che lì è avvenuto e il magistero che vi si è esplicato hanno avuto localmente una grande eco, come in noi hanno suscitato un profondo coinvolgimento e una viva commozione: per questo non mancheremo di ritornare sul significato di codesto pellegrinaggio, che fin dall’inizio è stato sovrastato nell’attenzione degli occidentali da una polemica – sui preservativi − che francamente non aveva ragione d’essere.
Non a caso, sui media africani non si è riscontrato alcun autonomo interesse, se non fosse stato per l’insistenza pregiudiziale delle agenzie internazionali, e per le dichiarazioni di alcuni esponenti politici europei o di organismi sovranazionali, cioè di quella classe che per ruolo e responsabilità non dovrebbe essere superficiale nelle analisi né precipitosa nei giudizi.
Si è avuta come la sensazione che si intendesse non lasciarsi disturbare dalle problematiche concrete che un simile viaggio avrebbe suscitato, specie in una fase di acutissima crisi economica che richiede ai rappresentanti delle istituzioni più influenti una mentalità aperta e una visione inclusiva.
Non ci sfugge tuttavia che nella circostanza non ci si è limitati ad un libero dissenso, ma si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici.
L’irrisione e la volgarità tuttavia non potranno far mai parte del linguaggio civile, e fatalmente ricadono su chi li pratica.
Infatti, la conferma più significativa circa la pertinenza delle parole del Papa sull’argomento è venuta da quanti – professionisti, politici e volontari – operano nel campo della salute e dell’istruzione.
C’è da promuovere un’opera di educazione ad ampio raggio, che va inquadrata nella mentalità degli africani e si concretizza in particolare nella promozione effettiva della donna; soprattutto bisogna alimentare le esperienze di cura e di assistenza, finanziando la distribuzione di medicinali accessibili a tutti.
Com’è noto la Chiesa, compresa quella italiana, è coinvolta con persone e mezzi in questa linea di sviluppo.
Ma chiediamo anche ai governi di mantenere i propri impegni, al di là della demagogia e di logiche di controllo neo-colonialista.
E mentre invitiamo i diversi interlocutori a non abbandonare mai il linguaggio di quel rispetto che è indice di civiltà, vorremmo anche dire – sommessamente ma con energia − che non accetteremo che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso.
Per tutti egli rappresenta un’autorità morale che questo viaggio ha semmai fatto ancor più apprezzare.
Per i cattolici è Pietro che, con le reti del pescatore e nel nome del Signore Gesù, continua a raggiungere i lidi del mondo.
Noi, che con trepidazione e preghiera l’abbiamo accompagnato in questo pellegrinaggio, ci apprestiamo ora a salutare con affetto il suo felice ritorno.
3.
La dinamica contestativa di cui dicevamo, per le forme subdole che talora assume ma anche per gli appoggi clamorosi di cui gode, è una delle tracce che ci portano a identificare la cifra più marcata del nostro tempo qual è il secolarismo.
È su questo che vorrei dire oggi una parola.
Sembra a me infatti che vari segnali ci rendano vieppiù avvertiti che il trapasso culturale dentro al quale ci troviamo vada assumendo il carattere di un vero e proprio spartiacque.
Chi, tempo addietro, paventava uno scontro di civiltà, facendolo magari derivare in parte da divaricanti matrici religiose, oggi si trova dinanzi agli occhi una situazione alquanto diversa, e non necessariamente più complessa da descrivere: si fronteggiano sostanzialmente due culture riferibili all’uso della ragione.
Al centro di entrambe c’è – come sempre – una specifica risposta alla domanda sull’uomo.
Da cui discendono due diverse, per molti aspetti antitetiche, visioni antropologiche.
Su un versante c’è la cultura che considera l’uomo come una realtà che si differenzia dal resto della natura in forza di qualcosa di irriducibile rispetto alla materia.
Qualcosa che è qualitativamente diverso e che costituisce la radice del suo valore e il fondamento della sua dignità.
In altri termini, l’uomo − prima di metter mano a se stesso – si accoglie come dono che ha un’identità e una consistenza iscritte nella struttura del suo essere.
Dono che non dipende da lui, che precede ogni sua autodeterminazione, e che ne fa quello che egli è: persona, appunto.
È a partire da questo dato ontologico, e tenendolo fermo quale fatto oggettivo, che il soggetto cresce e si compie nello sviluppo della vita.
In questa prospettiva, la natura umana, dentro lo scorrere della storia, è un perno fermo e insieme bussola per l’esercizio della libertà personale.
Nel gioco stesso dell’uomo, la libertà trova così i riferimenti oggettivi per le scelte e i comportamenti coerenti alla sua autentica umanità.
Nell’altro versante, invece, si esplica una cultura per la quale il soggetto umano è un mero prodotto dell’evoluzione del cosmo, ivi inclusa la sua autocoscienza.
In quanto risultato di un processo evolutivo mai concluso, l’uomo sarebbe solamente un segmento di storia, sganciato cioè da qualunque fondamento ontologico permanente e comune a tutti gli uomini, privo quindi di riferimenti etici certi e universali.
Essendo semplicemente uno sghiribizzo culturale fluttuante nella storia, l’individuo si trova sostanzialmente prigioniero di sé ma anche solo con se stesso.
E se è ovvio che non sia questa la sede per richiamare, neppure nelle sue coordinate generali, la questione dell’evoluzionismo, di cui s’è infatti parlato recentemente in sedi autorevoli (cfr la Conferenza internazionale svoltasi alla Pontificia Università Gregoriana su «Evoluzione biologica: fatti e teorie», Roma 3-7 marzo 2009), dobbiamo tuttavia segnalare come si annidi, proprio nella posizione che prima evocavamo, un’interpretazione esasperata e unilaterale del paradigma evoluzionistico.
Nel contempo, collegata alle due citate visioni antropologiche, e alla dialettica che le contrassegna, c’è una diversa concezione della libertà.
Da una parte si ritiene – in base ad una riflessione millenaria e all’esperienza universale – che la libertà umana sia uno dei valori più grandi (per i cristiani essa è addirittura dono di Dio creatore), non però un valore assoluto né solitario.
La libertà infatti deve fare i conti con altri valori − come la vita, la pace, la giustizia, la solidarietà… − che in qualche modo vengono prima e le danno come sostanza, anzi la rendono vera in quanto sono per il bene dell’uomo, e lo realizzano secondo quella linea di appartenenza che si identifica nella natura umana e con i vettori che dall’interno le danno sviluppo pieno.
Il tipo di società che ne deriva è chiaramente aperto e solidale: in essa il farsi carico degli altri – specialmente dei più deboli, dei meno dotati ed efficienti – è congenito e vitale.
Dall’altra parte, invece, si afferma una libertà individuale non solo come valore, ma come valore assolutamente primo, sciolto da qualsiasi altro vincolo che lo possa misurare, con il pretesto che la libertà non può negare se stessa, andando con ciò − se occorre − anche contro la persona.
In questa prospettiva, la libertà sembra priva di relazione, è legge a se stessa, al di fuori di ogni contesto relazionale.
L’individuo, paradossalmente, finisce schiacciato dalla propria libertà, e ritenendo di essere pieno e assoluto padrone di se stesso arriva a disporre di sé a prescindere da ciò che egli è fin dal principio del suo esistere.
E concepisce ogni suo desiderio, magari confuso in qualche caso anche con l’istinto, quale diritto che la società dovrebbe riconoscere come elemento costitutivo di se stessa.
In questa direzione, si scivola inevitabilmente verso un nichilismo di senso e di valori che induce alla disgregazione dell’uomo e ad una società individualista fino all’ingiustizia ed alla violenza.
Anzi, verso un nichilismo gaio e trionfante, in quanto illuso di aver liberato la libertà, mentre semplicemente la inganna rispetto ad una necessaria e impegnativa educazione della stessa.
La divina Provvidenza ci dona quest’ora da amare con fede e intelligenza: e quest’ora vogliamo servire con tutto noi stessi.
La comunità cristiana deve però lasciar da parte improvvisazione e autoreferenzialità, ingenuità ed empirismo – lo dico anche alle nostre associazioni, e ai nostri movimenti e gruppi – per investirci tutti della responsabilità credente, dell’«esserci» con simpatia e competenza, e con larga capacità di dialogo e di sensata interlocuzione rispetto alle più diverse situazioni di vita.
Tra l’altro, ci sono alcuni nostri strumenti culturali e mediatici che proprio a questo mirano: a servircene saremmo semplicemente utili a noi stessi.
4.
E siamo al caso che più ha colpito il nostro Paese nell’ultimo periodo, quello di Eluana Englaro, la ragazza lecchese che per 17 anni è vissuta in stato vegetativo persistente e che è stata fatta morire a Udine il 9 febbraio scorso.
Benché non fosse attaccata ad alcuna macchina – dato che l’opinione pubblica ha scoperto solo con grande fatica – e benché sia da tempo invalso nei vari ambiti della nostra vita sociale quel saggio «principio di precauzione» per il quale nulla di irripristinabile va compiuto se i dati scientifici non consentono una valutazione obiettiva del rischio, s’è voluto decretare che a certe condizioni poteva morire.
Un procedimento che, in un solo atto, avrebbe voluto ribaltare tutta una cultura giuridica minuziosamente costruita sul favor vitae, contraddicendo un’intera civiltà basata sul rispetto incondizionato della vita umana, e smentendo un lungo processo storico che ci aveva portato ad affermare l’indisponibilità di qualunque esistenza, non solo a fronte di soprusi o violenze, ma anche di condanne penali quale la pena di morte.
Tutto, per certe intenzioni, messo a repentaglio, attraverso una operazione tesa ad affermare un «diritto» di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi e a dare la morte in talune situazioni da definire.
Come se la vita potesse, in alcuni frangenti − i più critici −, cessare di essere un «bene relazionale».
E come se la vita a ciascuno di noi così cara, e così salvaguardata ed educata a caro prezzo anche dalla collettività, di colpo divenisse un bene «inerme», anzi un non-bene.
E non fosse vero piuttosto che, proprio quando è più fragile, l’esistenza di ciascuno di noi diventa allora più moralmente preziosa, nel senso che è più direttamente protesa a cementare il bene comune suscitando in ciascuno e nella società ulteriori energie di altruismo e di dedizione.
L’ammanto di pietà attraverso cui, con grande sforzo, si cerca di far passare questo ulteriore improbabile «diritto», non può non indurre la persona equipaggiata di intelligenza a porsi una serie di interrogativi consequenziali, il primo dei quali è: non stiamo attribuendo al «sistema» un diritto all’eliminazione dei soggetti inabili, quasi che costoro possano configurarsi come cittadini di serie B? E questo «diritto», che per ora si affaccia appena, una volta immesso nel corpus giuridico e nel costume pubblico, non è forse destinato a diventare col tempo più incalzante e spietato? E tale meccanismo non riguarderà anzitutto coloro che sono più deboli, bisognosi di assistenza e di premura da parte della collettività, perché segnati dalla vecchiaia o dalla malattia o dalla fragilità mentale? E se la “qualità della vita” è fatta dipendere principalmente dalle relazioni consapevoli, quanti altri sono i soggetti che di tali relazioni non hanno coscienza, pur non vivendo in stato di coma vegetativo persistente? Che cosa ci autorizza ad escludere che, al di là delle nostre più ravvicinate determinazioni, potremmo un giorno restarne in un modo o nell’altro coinvolti? E un’autorizzazione legalizzata di questo segno, cosa potrà produrre in termini di cultura, e dunque di gestione delle cure, nelle più diverse strutture sanitarie come nell’intero sistema socio-assistenziale, fino alle compatibilità ultime di budget? Qualunque deriva eutanasica, per quanto tecnicamente circoscritta o concettualmente edulcorata, è in realtà per gli uomini d’oggi, se ci si pensa bene, «una falsa soluzione» (cfr.
Benedetto XVI, Discorso all’Angelus, 1° febbraio 2009).
Falsa soluzione rispetto agli stessi disagi personali gravi, che richiedono non la soppressione della vita ma la vicinanza e l’accompagnamento delle persone.
La prima cura, per qualsiasi forma di malattia, è non far sentire solo il malato, solo con il suo male, e abbandonato a se stesso.
Garantirgli una presenza competente, amorevole e quotidiana, è per la società una responsabilità più ardua e impegnativa rispetto ad altre “scorciatoie” apparentemente pietose.
Ma è qui, non nei proclami astratti e ripetuti, che una società getta come la maschera e rivela il suo vero volto, manifestando il proprio livello di umanità o, al contrario, di inciviltà.
Nelle moderne democrazie, la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere «biopolitico» sia della scienza sia dello Stato, il che trova sostanza nel fermo «sì» alla tutela dei diritti umani di tutti, di chi economicamente è in grado di difendersi come di chi non può farlo, e in un altrettanto netto «no» alla pena di morte, al commercio degli organi, alle mutilazioni sessuali, alle alterazioni fecondative, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, pur se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti.
5.
Ha peraltro qualche componente grottesca il fatto che si sia tentato di far passare la tribolata vicenda − con profili in realtà civilmente tanto rilevanti e potenzialmente tanto intrusivi rispetto al vissuto di ciascuno − come mera conseguenza di un altolà della Chiesa, ossia come un’iniziativa di polemica ideologica, quando di ideologia qui non c’era nulla, ma solo concretezza palpitante di vita e pertinenza all’umano dell’uomo.
Allorché un cuore batte in autonomia, il corpo è caldo, i polmoni respirano, gli occhi si aprono alla luce del giorno e poi si chiudono, come si può parlare di morte? E cosa c’entrano i guelfi e i ghibellini? Qui c’entra anzitutto il vero, c’entra il reale-concreto, non perché sia alienante il riferimento al progetto di Dio sulle proprie creature, anzi, ma perché nessuno può darsi impunemente degli alibi allorché si tratta di constatare che si va verso l’alterazione del principio di eguaglianza tra tutti i cittadini.
Per questo motivo ci ha causato una grande tristezza la storia dolorosa eppure umanissima di Eluana, con l’obnubilamento in cui si è caduti circa i limiti che sono intrinseci all’esistenza terrena, quasi che essa potesse esistere solo nei termini in cui la desideriamo noi, priva di imperfezioni e asperità, di imprevisti o evenienze, che comunque fanno parte del suo impasto.
Non essere all’altezza dello standard vigente non può equivalere a una squalifica.
Il rifiuto anche solo dell’idea di malattia, di vecchiaia, di sofferenza fisica e morale è qualcosa che merita una riflessione rigorosa su se stessi, e ha a che fare con un’autocoscienza bonificata dal risentimento verso un destino percepito amaro o ingiusto.
So bene che qui si entra nel sacrario dei pensieri e dei sentimenti che ogni persona custodisce gelosamente dentro di sé.
Ma in una cultura in cui giustamente si vuol far valere il criterio della ragione e della ragionevolezza, questo non può avvenire solo fino ad un certo punto.
Bisogna piuttosto vigilare sui meccanismi nascosti dell’auto-indulgenza, ed essere moralmente forti, ossia interiormente attrezzati, nell’accettare la vita per quello che è, e partendo da questo dato operare per migliorarne le condizioni.
Con tutti gli avanzamenti, i progressi, le innovazioni che essa offre, ma anche con le sue sospensioni, le sue incompletezze, le sue incongruità, le sue aporie.
Alla fine è sulla nostra maturità che siamo sfidati, e sull’effettiva disponibilità a solidarizzare con il più debole: non a parole o a tratti, ma con la vita vissuta, che non per questo cesserà di rivelare panorami di bellezza indicibile.
Quando il dolore bussa, e non può essere neutralizzato del tutto, quando chiede ascolto, quando ci domanda di essere introdotto come un nuovo parametro di ordinarietà e dedizione, non bisogna fuggire.
E serve a poco imprecare, fino a isterilirsi.
Domanda: come pensiamo di cavarcela con i nostri giovani rispetto a quella innegabile componente della vita che, in un modo o nell’altro, si presenta ed è rappresentata dal dolore, dalla sofferenza, dalla fatica magari ingrata, dalla possibilità di far fronte all’insuccesso e all’ineluttabile? Non stiamo qui, per caso e involontariamente, ponendo le basi verso un’infelicità strutturale delle nuove generazioni, con i presupposti di una loro fatale inadeguatezza e i criteri non dichiarati, eppure meschini, di un nuovo tipo di selezione alla vita? 6.
Un fatto tuttavia ci ha confortato, e cioè che più si palesava l’azione mossa nei confronti della vita di Eluana, più la gente è sembrata farsi cauta, quasi pensosa, come intuisse in maniera un po’ più nitida l’effettiva posta in gioco.
Al momento della morte – evento che avremmo voluto scongiurare – si è percepito un sentimento di diffuso dolore, come di una sorella comune che non si era riusciti a salvare.
Ebbene, è opportuno ora che questa tensione non evapori dentro il turbinio mediatico.
Oltre a pregare per la sua anima, per i suoi parenti e i suoi amici, oltre a pregare per quanti si trovano nelle sue condizioni, dobbiamo immaginare una reazione morale e culturale capace di trasformare lo sgomento in un riscatto: se è possibile, in una crescita di consapevolezza e di iniziativa.
Su un versante molto importante spetta alla politica agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti, un inequivoco dispositivo di legge che – in seguito al pronunciamento della Cassazione − preservi il Paese da altre analoghe avventure, ponendo attenzione a coordinarlo con l’altro sospirato provvedimento relativo alla cure palliative, e mettendo mano insieme alle Regioni ad un sistema efficace di hospice, che le famiglie attendono non per sgravarsi di un peso ma per essere aiutate a portarlo.
Sull’altro versante tocca alla società civile mobilitarsi per acquisire in prima persona una coscienza più matura della posta in gioco in termini antropologici e culturali, così da evitare nel futuro ingorghi concettuali e tentazioni di delega.
In questo ambito, c’è in campo l’iniziativa appena annunciata dai tre organismi di collegamento laicale − Scienza & Vita, il Forum delle Associazioni familiari e RetinOpera – che, nel tessuto vivo delle parrocchie, delle aggregazioni laicali, come degli ambienti e dei mezzi di comunicazione, merita di essere da noi incoraggiata e sostenuta.
Come Vescovi non possiamo non avere a cuore il superamento di qualunque rassegnazione culturale, mentre occorre portare conforto e far sentire una concreta vicinanza a tutte quelle famiglie che fanno fronte con sacrifici e dignità alle prove della vita.
Ma c’è un grazie speciale che noi Vescovi vogliamo oggi dire, ed è alla Suore Misericordine della clinica Beato Talamone di Lecco e alla loro splendida, ineffabile testimonianza.
Sappiamo che a loro non piace stare in alcun modo sulla ribalta, che rifuggono da quella notorietà che fare il bene talora procura, che sono disposte a subire anche l’ingiustizia piuttosto che protestare dinanzi a ingiurie e falsità.
Ma questo non significa che la comunità cristiana non sappia riconoscere in loro delle autentiche campionesse della carità secondo l’inno di san Paolo: «[…] La carità è paziente, è benigna […], non è invidiosa […], non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità.
Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta […]».
(1Cor 13,1-13).
Quell’invocazione mansueta e quasi dolente che loro hanno rivolto − «Se c’è chi considera Eluana morta, lasciatela a noi che la sentiamo viva» − è stata per l’opinione pubblica un’autentica scossa, è stata finalmente uno scandalo buono.
In quel «sentire viva» c’era certo l’abilità professionale ma c’era, ad informare l’abilità, l’allenamento del cuore che rende capaci di riconoscere la vita e, nei limiti del possibile, farla palpitare anche nell’immobilità e nell’incoscienza.
«Lasciateci – concludevano le stesse Suore – la libertà di amare e di donarci a chi è debole».
Certo che gli uomini d’oggi ve la lasciano, Sorelle care, questa libertà benedetta, antica e nuova, mite e benefica, che al di là di ogni clamore è garanzia vera per i non garantiti di questa società.
Anzi, proprio questa vostra libertà additiamo alle giovani e ai ragazzi come il destino di una vocazione felice.
Vi ringraziamo, come ha già fatto il vostro Arcivescovo Cardinale Tettamanzi, per ogni giorno del vostro dono, e per il vostro donarvi, come ad Eluana, ad ogni altra creatura che vi è affidata.
Insieme a Voi, ringraziamo quanti Religiose e Religiosi sono sulla vostra stessa filiera di servizio, quanti si chinano ogni giorno con naturalezza e affidamento sui fratelli più piccoli e indifesi, e consumano i loro giorni e se stessi per gli altri.
La loro testimonianza commuove la Chiesa e misteriosamente la edifica nel cuore del mondo.
Ma edifica anche l’umanità intera nella sua autentica e intrinseca vocazione a non abbandonare nessuno, ma a farsi prossimo e solidale con tutti e con ciascuno nell’ora della maggiore debolezza.
7.
Mi pare giusto richiamare a questo punto il Convegno – «Chiesa nel Sud, Chiese del Sud: nel futuro da credenti responsabili» – che si è tenuto a Napoli il 12 e 13 febbraio scorso, e al quale ho avuto la gioia di partecipare almeno per la Concelebrazione eucaristica che si è svolta nella cattedrale partenopea, su invito amabile del confratello Cardinale Crescenzio Sepe.
Il loro riunirsi a vent’anni dallo storico incontro che produsse, tra l’altro, il documento Cei – «Chiesa italiana e Mezzogiorno» – è stata l’occasione per identificare le novità ma anche la persistenza di talune condizioni economiche e sociali del nostro Meridione.
Dalla ricognizione dei drammi e delle risorse di questa parte stupenda e martoriata del nostro Paese, è venuta una rinforzata consapevolezza su una serie di sfide che vanno affrontate con le armi del Vangelo, e forti della compagnia di Gesù Cristo.
In particolare su alcune denunce: un senso di abbandono da parte della collettività nazionale, un tasso di disoccupazione sproporzionato rispetto al resto del Paese, la presa tentacolare della malavita, che peraltro non si autolimita al Meridione essendo ormai presente su varie piazze del Nord come del Centro.
Tutti dobbiamo interrogarci con profonda onestà intellettuale, superando qualunque tentazione divisoria.
Dal canto loro, le Chiese del Sud, diverse ma unite, si sono dette pronte a mettere in rete energie e competenze, con l’obiettivo comune di far lievitare la vitalità ecclesiale.
Devo dire che noi tutti Vescovi d’Italia avvertiamo l’impeto che ci proviene da queste comunità radicate per storia e tradizioni, e che più di quanto forse non avvenga altrove sanno mantenere il profilo di una identità rigogliosa e popolare che è un patrimonio prezioso dell’intera Chiesa italiana.
Non mancheranno le occasioni per riprendere adeguatamente le fila dei discorsi avviati a Napoli, per tesserli in una circolarità di verifiche e di scambio, avendo a cuore il bene reciproco e la forza intrinseca della comunione che è la vera testimonianza da offrire a tutto il Paese.
Guardando più al largo, troviamo sempre qui gli elementi per uscire dalle «sabbie mobili» di una condizione di mediocrità spirituale, e per lasciarci ogni volta «prendere per mano» − che è come un’irruzione che ci cambia il cuore − lungo un cammino di conversione che è meta perenne dei discepoli di Cristo (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 25 gennaio 2009).
È ciò che ci siamo proposti per il tempo forte della Quaresima che è in atto nelle nostre Chiese e che amiamo considerare alla luce dei fondamentali della vita cristiana.
Il tema del digiuno su cui il Santo Padre ha inteso soffermarsi nel Messaggio di quest’anno ci pare particolarmente adatto per ricomprendere il senso di un impegno che è attuale nella misura in cui riesce ad incidere sul serio sulla nostra vita, inducendoci a prendere le distanze dalle voracità che la zavorrano, e liberarla in considerazione anche dei bisogni dei fratelli.
8.
Questo ci porta a dire una parola ancora sulla gravissima crisi economica che sta attanagliando il mondo intero, con esiti rovinosi in tutta una serie di Paesi, non esclusi alcuni europei.
L’impressione è che purtroppo non si sia ancora toccato il fondo, o quanto meno che non ci sia nessuno in grado di dire con certezza a che punto si è della perigliosa attraversata.
Ci sostiene ancora una volta la parola lucida del Santo Padre che se da una parte scorge il bisogno di «competenza» per parlare con credibilità e fuori da facili moralismi, dall’altra avverte necessaria «una grande consapevolezza etica» informata da una coscienza illuminata dal Vangelo (cfr Discorso all’Incontro con il Clero di Roma, 26 febbraio 2009).
Come già si disse nella precedente prolusione, si rivela sempre più urgente e necessario affermare in modo chiaro e forte e riscoprire a livello concreto l’anima etica della finanza e dell’economia.
Ma l’attuale congiuntura diverrà l’occasione, si chiede il Santo Padre, per capire che «esiste realmente il peccato originale?».
Diversamente non comprenderemo come, nonostante i grandi discorsi e le acute analisi, la ragione è come «oscurata da false promesse» e la «volontà curvata» sul proprio tornaconto: infatti si incappa in una «idolatria che sta contro il vero Dio» falsificandone l’immagine con quella di mammona.
Bisogna risalire alla «radice dell’avarizia», a quell’egoismo che «sta nel volere il mondo per me», quando occorre invece trovare «la strada della ragione, e della ragione vera» (ib).
Il compito che Benedetto XVI intravvede per la Chiesa è quello «di essere vigilante», così da «cercare essa stessa con le migliori forze che ha […] di farsi sentire, anche ai diversi livelli nazionali e internazionali, per aiutare e correggere», ostacolando «la dominazione dell’egoismo, che si presenta sotto pretesti di scienza e di economia».
Il Papa ci invita ad «essere realisti.
[…] La giustizia si realizza solo se ci sono i giusti».
Questo è il punto, avverte, in cui la macroeconomia coincide con la microeconomia: ma «i giusti non ci sono se non c’è il lavoro umile, quotidiano, di convertire i cuori.
[…] Perciò il lavoro dei parroci è così fondamentale, e non solo per la parrocchia, ma per l’umanità.
Perché se non ci sono i giusti, la giustizia rimane astratta.
E le strutture buone non si realizzano se si oppone l’egoismo fosse pure delle persone competenti» (ib).
Nello stesso discorso al clero di Roma, il Santo Padre aveva posto una domanda interessante: «Chi conosce gli uomini di oggi meglio del parroco?».
E aggiungeva: «Dal parroco gli uomini normalmente vanno senza maschera […].
Nessun’altra professione, mi sembra, dà questa possibilità di conoscere l’uomo com’è nella sua umanità» (ib).
Questa affermazione ci suona tra l’altro particolarmente efficace dinanzi all’iniziativa dell’«Anno sacerdotale», appena indetto dal Papa in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, e che prenderà avvio il prossimo 19 giugno (Benedetto XVI, Discorso alla Plenaria della Congregazione per il Clero, 16.3.2009).
I sacerdoti, insieme ai religiosi e alle religiose, ma anche a moltissimi laici che partecipano direttamente alla pastorale, sono il volto quotidiano e immediato di una Chiesa tutt’altro che «rigida e fredda»; sono il volto amico di una Chiesa che cammina con la gente.
Il fatto ha una serie di applicazioni importanti e aiuta a individuare la collocazione della Chiesa anche nell’ambito di questa drammatica crisi: stare dalla parte delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti, senza tuttavia tralasciare il quadro generale, ma essendo capace dentro a questo quadro di esprimere una preferenza ragionata, sulla quale sollecitare anche i pubblici poteri, in particolare quando sono a rischio i posti di lavoro (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 1 marzo 2009).
E molti sono già persi! È vero che oggi sembra di cogliere una maggiore consapevolezza circa le dimensioni reali di quel che ci attende e la necessità di fare della crisi l’occasione per riassorbire gli squilibri maggiori, ma proprio per questo va intensificata un’azione di supporto concreto e subito efficace verso i soggetti più deboli, e le famiglie che si trovano più scoperte.
A livello pastorale, è noto il fiorire in tantissime diocesi di iniziative di solidarietà concreta, cui si unisce l’importante impegno ai vari livelli della Caritas, come degli Istituti di vita consacrata.
Già è stata annunciata, in seguito all’ultimo Consiglio Permanente, l’istituzione di un fondo di garanzia per le famiglie in difficoltà, che nascerà da una colletta comune da farsi nei modi che decideremo.
La nostra gente sappia che i Vescovi le sono decisamente vicini e che la nostra Chiesa non ha altra ambizione che curvarsi sui più bisognosi, e interpretare in prima persona e senza risparmio nella situazione data la parabola del buon Samaritano (cfr Lc 10,30-37).
Vi ringrazio, venerati Confratelli, per l’attenzione che avete voluto prestare alle mie parole introduttive, ad un tempo, al dibattito che ora segue sugli stessi temi e quindi agli argomenti che sono all’ordine del giorno.
Ci aiuti il pensiero delle nostre Chiese, e la solidarietà che esse puntualmente esprimono a noi pastori.
Ci aiuti soprattutto lo Spirito a cercare e a fare la volontà del Signore Gesù.
Lo chiediamo per intercessione di Maria, che venereremo mercoledì nel mistero gaudioso dell’Annunciazione, e per intercessione di san Giuseppe e dei Santi nostri protettori.
Angelo Card.
Bagnasco Presidente Con il Papa, sempre e incondizionatamente.
“Stare con il Papa, sempre e incondizionatamente”: riferendosi a quella “che è la migliore tradizione del nostro cattolicesimo”, il card.
Angelo Bagnasco, presidente della Cei, ha scelto tale pensiero di solidarietà con Benedetto XVI per sintetizzare l’argomento posto in apertura della prolusione al Consiglio episcopale permanente che ha preso il via questo pomeriggio a Roma.
Dopo aver richiamato la “remissione della scomunica ai quattro vescovi consacrati da monsignor Lefebvre nel 1988”, e il “caso Williamson che imponderabilmente vi si è come sovrapposto”, Bagnasco ha precisato che lo stesso Pontefice ha messo “un punto fermo con l’ammirevole Lettera del 10 marzo 2009, indirizzata ai vescovi della Chiesa cattolica”.
“La sua disanima, per certi versi conturbante, degli ultimi episodi…
ha fatto emergere come per contrasto – ha aggiunto Bagnasco – il candore di chi non ha nulla da nascondere circa le proprie reali intenzioni, le motivazioni concrete delle proprie scelte, la coerenza di una vita vissuta unicamente all’insegna del servizio più trasparente alla Chiesa di Cristo”.
Pensieri analoghi sono stati poi espressi sul viaggio in Africa di Benedetto XVI e sui temi affrontati, per i quali – ha notato – “si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici”.
Illusione di un nichilismo gaio e trionfante.
Soffermandosi sulle difficoltà vissute da vari Paesi africani, Bagnasco ha richiamato le polemiche sorte sulle dichiarazioni del Papa circa i sistemi di controllo delle nascite e ha espresso l’esigenza di continuare gli aiuti specie in campo sanitario “finanziando la distribuzione di medicinali accessibili a tutti”.
Si è occupato poi del tema del “secolarismo”, parlando del confronto in atto nella nostra società “tra due diverse, per molti aspetti antitetiche visioni antropologiche”.
Nel confronto tra la concezione trascendente e quella immanente della natura umana, Bagnasco ha evidenziato che emerge “una diversa concezione di libertà…
per i cristiani essa è addirittura dono di Dio creatore”.
Sull’altro versante, invece, “l’individuo finisce schiacciato dalla propria libertà, e ritenendo di essere pieno e assoluto padrone di se stesso, arriva a disporre di sé a prescindere da ciò che egli è fin dal principio del suo esistere”.
Il rischio insito in questa visione è di “scivolare inevitabilmente verso un nichilismo di senso e di valori che induce alla disgregazione dell’uomo e ad una società individualista fino all’ingiustizia ed alla violenza.
Anzi – ha aggiunto – verso un nichilismo gaio e trionfante, in quanto illuso di aver liberato la libertà”.
Il caso Englaro è l’eliminazione dei soggetti deboli.
Nella parte centrale della sua prolusione, il card.
Bagnasco ha poi parlato ampiamente di Eluana Englaro, “la ragazza lecchese che per 17 anni è vissuta in stato vegetativo persistente e che è stata fatta morire a Udine il 9 febbraio scorso”.
Ha così descritto il suo caso come “un’operazione tesa ad affermare un «diritto» di libertà inedito quanto raccapricciante, il diritto a morire, cioè a darsi e a dare la morte in talune situazioni da definire”.
Ha poi posto la domanda che deriva dal caso-Englaro: “Non stiamo attribuendo al «sistema» un diritto all’eliminazione dei soggetti inabili, quasi che costoro possano configurarsi come cittadini di serie B? E questo «diritto», che per ora si affaccia appena, una volta immesso nel corpus giuridico e nel costume pubblico, non è forse destinato a diventare col tempo più incalzante e spietato? E tale meccanismo non riguarderà anzitutto coloro che sono più deboli, bisognosi di assistenza e di premura da parte della collettività, perché segnati dalla vecchiaia o dalla malattia o dalla fragilità mentale?”.
Il presidente della Cei ha invece affermato che “nelle moderne democrazie la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere biopolitico sia della scienza sia dello Stato” difendendo “i diritti umani di tutti”.
Deriva eutanasica e compatibilità di budget.
Ancora rifacendosi al caso-Englaro e al rischio che divenga uno standard di comportamento, Bagnasco ha aggiunto: “Un’autorizzazione legalizzata di questo segno, cosa potrà produrre in termini di cultura, e dunque di gestione delle cure, nelle più diverse strutture sanitarie come nell’intero sistema socio-assistenziale, fino alle compatibilità ultime di budget?”.
Ha quindi parlato di “deriva eutanasica, (che) per quanto tecnicamente circoscritta o concettualmente edulcorata, è in realtà per gli uomini d’oggi, se ci si pensa bene, «una falsa soluzione», come ha affermato il Papa il 1 febbraio scorso”.
Di Eluana il card.
Bagnasco ha poi parlato in termini affettuosi e partecipi, rimarcando che “più si palesava l’azione mossa nei suoi confronti…
più la gente è sembrata farsi cauta, quasi pensosa, come intuisse in maniera un po’ più nitida l’effettiva posta in gioco”.
“Al momento della morte – ha poi detto – si è percepito un sentimento di diffuso dolore, come di una sorella comune che non si era riusciti a salvare”.
Insieme al ringraziamento alle Suore Misericordine della clinica lecchese che ha accolto Eluana per tanti anni, Bagnasco ha richiamato l’iniziativa di Scienza & Vita, Forum delle associazioni familiari e Retinopera, col manifesto “Liberi per Vivere.
Amare la Vita, fino alla fine”, assicurando il sostegno ideale dei vescovi italiani.
Crisi del sud e crisi economico-finanziaria.
Avviandosi verso la conclusione della prolusione, il presidente della Cei si è poi occupato del convegno “Chiesa nel Sud, Chiese del Sud: nel futuro da credenti responsabili”, svolto nel febbraio scorso.
Parlando di “questa parte stupenda e martoriata del nostro Paese – ha detto – è venuta una rinforzata consapevolezza su una serie di sfide che vanno affrontate con le armi del Vangelo”.
Ha così citato i temi della disoccupazione “sproporzionata rispetto al resto del Paese”, della malavita “che peraltro non si autolimita al Meridione, di un “senso di abbandono da parte della collettività nazionale”.
Passando poi al tema della crisi economica e finanziaria in corso, ha affermato che “l’impressione è che purtroppo non si sia ancora toccato il fondo, o quanto meno che non ci sia nessuno in grado di dire con certezza a che punto si è della perigliosa traversata”.
Ha quindi esortato, citando recenti interventi del Papa, “a riscoprire l’anima etica della finanza e dell’economia”, rinunciando “all’idolatria che sta contro il vero Dio” e invitando alla giustizia in campo economico e finanziario, che “si realizza solo se ci sono i giusti”.
Il volto amico della Chiesa.
L’ultimo argomento affrontato dal card.
Bagnasco nella prolusione è stato quello dell’“Anno Sacerdotale”, indetto dal Papa in occasione del 150° anniversario della morte del Santo Curato d’Ars, che prenderà avvio il 19 giugno.
“I sacerdoti, insieme ai religiosi e alle religiose, ma anche a moltissimi laici che partecipano direttamente alla pastorale – ha detto a questo proposito – sono il volto quotidiano e immediato di una Chiesa tutt’altro che «rigida e fredda»; sono il volto amico di una Chiesa che cammina con la gente.
Il fatto ha una serie di applicazioni importanti e aiuta a individuare la collocazione della Chiesa anche nell’ambito di questa drammatica crisi: stare dalla parte delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti, senza tuttavia tralasciare il quadro generale, ma essendo capace dentro a questo quadro di esprimere una preferenza ragionata, sulla quale sollecitare anche i pubblici poteri, in particolare quando sono a rischio i posti di lavoro (cfr Benedetto XVI, Saluto all’Angelus, 1 marzo 2009).
E molti sono già persi!”, ha concluso.
Riferendosi a questa sensibilità e vicinanza ai problemi della gente, ha qui richiamato le tante iniziative di solidarietà avviate nelle diocesi italiane.
Avvenire, 23 Marzo 2009 La Chiesa sta «dalla parte delle persone reali, delle famiglie, dei lavoratori, degli indigenti».
Lo ha detto il cardinale Angelo Bagnasco, concludendo la sua prolusione al Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana (Cei), rivendicando una peculiarità della Chiesa, «volto amico che cammina con la gente».
Il presidente della Cei ha insistito su questo aspetto, quasi a contrapporre la realtà della vita quotidiana del popolo italiano con la visione distorta che ne danno i media, come dimostrano i casi – che il cardinal Bagnasco ha analizzato – degli attacchi al Papa, del caso Englaro e della deriva eutanasica, e della crisi economica.
Ma ecco in sintesi i principali passaggi della prolusione.
Il profluvio di critiche contro il Papa «si è prolungato oltre ogni buon senso» e «non accetteremo che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso».
Lo ha affermato il presidente della Cei, cardinale Angelo Bagnasco, nel suo discorso di apertura del Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana, invitando i vescovi a stringersi attorno al pontefice.
LE POLEMICHE – Una accorata difesa del Pontefice dalle critiche, spostatesi negli ultimi giorni dal fronte dei lefebvriani a quello dei preservativi, ha occupato tutta la prima parte del discorso del cardinale.
«Di certo si è prolungato, oltre ogni buon senso – ha detto – un pesante lavorio di critica, dall’Italia e soprattutto dall’estero, nei riguardi del nostro amatissimo Papa», sulla revoca della scomunica ai quattro vescovi lefebvriani e sul caso Williamson «che imponderabilmente vi si è come sovrapposto».
«Nessuno tuttavia – aggiunge il porporato – poteva aspettarsi che le polemiche sarebbero proseguite, e in maniera tanto pretestuosa, fino a configurare un vero e proprio disagio» sfociato poi nella lettera del Papa ai vescovi.
IL VIAGGIO IN AFRICA – Peggio ancora è andata con il «pellegrinaggio in Africa», un «viaggio impegnativo ed a un tempo ricco di speranza sovrastato nell’attenzione degli occidentali da una polemica, sui preservativi, che francamente non aveva ragion d’essere».
E in questa occasione «non ci si è limitati ad un libero dissenso – ha affermato con forza Bagnasco – ma si è arrivati ad un ostracismo che esula dagli stessi canoni laici».
Il presidente dei vescovi italiani parla di «irrisione» e «volgarità» giunta non solo dai media, ma anche da «alcuni esponenti politici europei» e «organismi sovranazionali».
«E mentre invitiamo i diversi interlocutori a non abbandonare mai il linguaggio di quel rispetto che è indice di civiltà, vorremmo dire, sommessamente ma con energia – ha concluso – che non accetteremo che il Papa, sui media o altrove, venga irriso o offeso».
ELUANA – Poi il cardinale ha parlato del caso di Eluana Englaro che ha rappresentato «un’operazione tesa ad affermare un diritto di libertà inedito quanto raccapricciante: il diritto a morire, darsi e dare la morte in talune situazioni da definire».
Quindi la richiesta: «Spetta alla politica agire nell’approntare e varare, senza lungaggini o strumentali tentennamenti, un inequivoco dispositivo di legge che – in seguito al pronunciamento della Cassazione – preservi il Paese da altre analoghe avventure, ponendo attenzione a coordinarlo con l’altro sospirato provvedimento relativo alla cure palliative, e mettendo mano insieme alle Regioni ad un sistema efficace di hospice, che le famiglie attendono non per sgravarsi di un peso ma per essere aiutate a portarlo».
DERIVA EUTANASICA – «Qualunque deriva eutanasica, per quanto circoscritta o edulcorata, è una falsa soluzione.
Nelle moderne democrazie, la vita va difesa perché è indispensabile limitare il potere «biopolitico» sia della scienza sia dello Stato.
Come vescovi», afferma il cardinale, «non possiamo non avere a cuore il superamento di qualunque rassegnazione culturale, che trova sostanza nel fermo sì alla tutela dei diritti umani di tutti e in un altrettanto netto no alla pena di morte, al commercio degli organi, alle mutilazioni sessuali, alle alterazioni fecondative, a qualsiasi manipolazione non terapeutica del corpo umano, pur se liberamente volute da persone adulte, informate e consenzienti».
Poi ha proseguito l’arcivescovo di Genova: «Ci ha causato una grande tristezza la storia dolorosa eppure umanissima di Eluana, quasi che essa potesse esistere solo nei termini in cui la desideriamo noi, priva di imperfezioni o asperità».
SCONTRO TRA CHI CREDE E CHI NO – Secondo Bagnasco, quindi, il vero scontro di civiltà è quello fra credenti e non credenti.
Non quindi un conflitto fra culture religiose diverse, ma tra chi fa discendere l’uomo da Dio, e da chi lo colloca nel mezzo di un’evoluzione ancora in corso «nell’esasperato paradigma evoluzionista» Corriere, 24 marzo ’09 NOTIZIE CORRELATE · La Ue al Papa: «Preservativi essenziali nella lotta all’Aids» · Lefebvriani, il Papa ai vescovi: «Colpito dalle ostilità» · Il Papa: dignità per la vita umana, anche quando è debole e sofferente
La mobilità degli Insegnanti di Religione
Pubblichiamo in approfondimento il testo dell’O.M.
sulla mobilità per i docenti di religione per a.s.
2009/10, pubblicata oggi.
Ordinanza Ministeriale n.36 Prot.
n.3812 Roma, 23 marzo 2009 MOBILITA’ DEL PERSONALE DOCENTE DI RELIGIONE CATTOLICA ANNO SCOLASTICO 2009/2010 IL MINISTRO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA Vista la legge 25-3-1985, n.
121, Visto il DPR 16-12-1985, n.
751, Visto il DPR 23-6-1990, n.
202, Vista la legge 23-10-1992, n.
421, Visto il DL 27-8-1993, n.
321, convertito dalla legge 27-10-1993, n.
423, Vista la legge 14-1-1994, n.
20, Visto il DLgs 16-4-1994, n.
297, e successive modificazioni e integrazioni, Vista la legge 23-12-1996, n.
662, Vista la legge 31-12-1996, n.
675 e successive modificazioni e integrazioni, Vista la legge 15-3-1997, n.
59, Vista la legge 15-5-1997, n.
127, e successive modificazioni, Visto il Dpr 18-6-1998, n.
233, Visto il Dpr 8-3-1999, n.
275, Vista la legge 3-5-1999, n.
124, Visto il Dpr 28-12-2000, n.
445, Visto DLgs 30-3-2001, n.
165, e successive modificazioni e integrazioni, Visto il DL 3-7-2001, n.
255, convertito, con modificazioni, dalla legge 20-8-2001, n.
333, Visto il DLgs 30-6-2003, n.
196, Vista la legge 18-7-2003, n.
186, Visto il Dpr 21-12-2007, n.
260, Visto il DM 24-3-2005, n.
42, Visto il DM 13-4-2006, n.
37, Visto il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Comparto Scuola per il quadriennio giuridico 2006-09 e per il biennio economico 2006-07 sottoscritto il 29-11-2007, Visto il Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro relativo al personale del Comparto Scuola per il biennio economico 2008-2009 sottoscritto il 23-1-2009, Visto il Contratto Collettivo Nazionale Integrativo concernente la mobilità del personale docente, educativo ed a.t.a.
per l’anno scolastico 2009-10, sottoscritto il 12-2-2009, Vista l’Ordinanza Ministeriale 13-2-2009, n.
18, sulla mobilità del personale della scuola, Vista l’Ordinanza Ministeriale 21-2-2008, n.
27, sulla mobilità del personale docente di religione cattolica per l’anno scolastico 2008-09, Considerato che gli insegnanti di religione cattolica, ancorché assunti nei ruoli dello Stato, sono vincolati da specifiche norme di natura concordataria e sono assegnati, ed ivi incardinati, a circoscrizioni territoriali diocesane che non coincidono con le circoscrizioni amministrative che regolano la titolarità del restante personale della scuola, Ritenuto di non poter trattare in maniera meccanizzata la mobilità degli insegnanti di religione cat-tolica, ma di dover ricorrere, anche per quest’anno, ad una gestione manuale di detto perso-nale, Sentite le Organizzazioni Sindacali del Comparto Scuola che hanno sottoscritto il Contratto Collet-tivo Nazionale Integrativo sulla mobilità del personale della scuola per l’anno scolastico 2009-10, ORDINA Articolo 1 – Campo di applicazione dell’ordinanza e principi generali 1.
La presente Ordinanza disciplina la mobilità per l’anno scolastico 2009-10 degli insegnan-ti di religione cattolica assunti nei ruoli di cui alla legge 186/03.
Le disposizioni contenute nella presente Ordinanza determinano le modalità di applicazione delle disposizioni dell’art.
37bis del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, concernente la mobilità del per-sonale della scuola.
2.
Nel rispetto della normativa concordataria vigente, in tutte le operazioni di mobilità che li riguardano gli insegnanti di religione cattolica devono essere in possesso del riconoscimento di ido-neità rilasciato dall’ordinario della diocesi di destinazione e deve essere raggiunta una intesa sulla utilizzazione tra il medesimo ordinario diocesano e il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico re-gionale o un suo delegato relativamente alla sede o alle sedi di servizio.
Nell’individuare un posto di insegnamento le autorità scolastica ed ecclesiastica citate possono eccezionalmente configurare cat-tedre o posti misti, articolati contemporaneamente su scuola dell’infanzia e scuola primaria o su scuola secondaria di primo e secondo grado.
3.
Gli insegnanti di religione cattolica hanno titolarità in un organico regionale articolato per diocesi e sono utilizzati nelle singole sedi scolastiche sulla base di un’intesa raggiunta, al momento della prima assunzione, tra il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale e l’ordinario dioce-sano competente.
Detta assegnazione di sede si intende confermata automaticamente di anno in an-no qualora permangano le condizioni e i requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge.
4.
Possono partecipare alle operazioni di mobilità territoriale a domanda per transitare nel contingente di diocesi diversa da quella di appartenenza, ubicata nella stessa regione di titolarità, gli insegnanti di religione cattolica che con l’anno scolastico 2008-09 abbiano almeno due anni di an-zianità giuridica di servizio in ruolo.
5.
Possono partecipare alle operazioni di mobilità territoriale a domanda per acquisire la tito-larità in altra regione, con conseguente assegnazione al contingente di altra diocesi, gli insegnanti di religione cattolica che con l’anno scolastico 2008-09 abbiano almeno tre anni di anzianità giuridica di servizio in ruolo.
6.
La mobilità professionale degli insegnanti di religione cattolica, ai sensi dell’art.
4, c.
1, della legge 186/03, è limitata al passaggio dal settore formativo corrispondente al ruolo per l’inse-gnamento della religione cattolica nella scuola dell’infanzia e primaria al settore formativo corri-spondente al ruolo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria di primo e secondo grado, o viceversa.
Possono partecipare a detta mobilità professionale gli insegnanti che, avendo superato il periodo di prova, siano in possesso dell’idoneità concorsuale anche per il settore formativo richiesto e dell’idoneità ecclesiastica rilasciata, per l’ordine e grado di scuola richiesto, dall’ordinario diocesano competente.
7.
Gli insegnanti di religione cattolica assunti nel ruolo della scuola dell’infanzia e primaria ma assegnati alla scuola dell’infanzia in quanto in possesso dei soli titoli di qualificazione per l’inse-gnamento nella scuola dell’infanzia possono partecipare alle operazioni di mobilità territoriale uni-camente per essere utilizzati in scuole dell’infanzia.
Ove abbiano conseguito nel frattempo una qua-lificazione che li abiliti ad insegnare anche nella scuola primaria, e siano in possesso della specifica idoneità all’insegnamento della religione cattolica anche nella scuola primaria, possono partecipare alle operazioni di mobilità, sempre d’intesa con l’autorità ecclesiastica competente, su una sede di scuola primaria o su un posto misto di scuola primaria e dell’infanzia.
8.
Le tabelle allegate al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo concernente la mobilità del personale della scuola, sottoscritto il 12-2-2009, sono valide, con le precisazioni di cui al suc-cessivo articolo 4, anche per la mobilità degli insegnanti di religione cattolica.
9.
La presente Ordinanza è diramata a mezzo della rete Intranet e Internet ed affissa agli albi degli Uffici scolastici regionali, degli Uffici scolastici provinciali e delle Istituzioni scolastiche.
Articolo 2 – Termini per le operazioni di mobilità 1.
Le domande di mobilità devono essere presentate da tutto il personale di cui al precedente articolo dal 30 marzo al 28 aprile 2009.
Le domande sono elaborate manualmente dagli uffici indi-cati negli articoli successivi.
2.
Il termine per la pubblicazione di tutti i movimenti di detto personale, come definiti dal-l’articolo 37bis del CCNI sottoscritto il 12 febbraio 2009, è fissato al 30 giugno 2009.
3.
Il termine ultimo per la presentazione della richiesta di revoca delle domande è fissato al 15 giugno 2009.
Articolo 3 – Presentazione delle domande 1.
Gli insegnanti di religione cattolica di cui all’art.
1 devono indirizzare le domande di tra-sferimento e di passaggio, redatte in conformità agli appositi modelli riportati negli allegati alla pre-sente Ordinanza e corredate dalla relativa documentazione, all’Ufficio scolastico regionale della Regione di titolarità e presentarle al dirigente dell’Istituzione scolastica presso la quale prestano ser-vizio.
2.
Nel caso di diocesi che insistono sul territorio di più Regioni, gli insegnanti di religione cattolica, a prescindere dall’ubicazione della sede diocesana, devono indirizzare le domande di tra-sferimento e di passaggio, sempre redatte in conformità ai modelli allegati e corredate della relativa documentazione, all’Ufficio scolastico regionale della Regione in cui si trova l’Istituzione scolastica presso la quale prestano servizio e presentarla al dirigente scolastico della medesima Istituzione scolastica.
3.
Le domande dei docenti appartenenti ai ruoli della Val d’Aosta, intese ad ottenere il trasfe-rimento o il passaggio nelle scuole del rimanente territorio nazionale, devono essere inviate all’Uffi-cio scolastico regionale per il Piemonte.
4.
Le domande devono contenere le seguenti indicazioni: generalità dell’interessato , regione di titolarità, diocesi e scuola presso la quale l’insegnante presta servizio per utilizzazione nel corren-te anno scolastico.
5.
I docenti devono redigere le domande, sia di trasferimento che di passaggio, in conformità ai seguenti allegati e secondo le istruzioni riferite agli allegati medesimi: – scuole dell’infanzia e primarie Allegato TR1 (trasferimenti) e Allegato PR1 (passaggi) – scuole secondarie di I e II grado Allegato TR2 (trasferimenti) e Allegato PR2 (passaggi) 6.
I docenti che intendono chiedere contemporaneamente il trasferimento ed il passaggio de-vono presentare distintamente una domanda per il trasferimento e una domanda per il passaggio, precisando nella domanda di passaggio a quale delle due intendano dare la precedenza.
In mancanza di indicazioni chiare viene data precedenza al trasferimento.
7.
In caso di richiesta contemporanea di trasferimento e di passaggio è consentito documen-tare una sola delle domande, essendo sufficiente per l’altra il riferimento alla documentazione alle-gata alla prima.
8.
Le domande devono essere corredate dalla documentazione attestante il possesso dei titoli per l’attribuzione dei punteggi previsti dalle tabelle di valutazione allegate al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, con le specificazioni previste dal successivo articolo 4.
Le domande di trasferimento devono contenere il certificato di riconoscimento dell’idoneità ec-clesiastica rilasciato dall’ordinario della diocesi di destinazione.
Le domande di passaggio devono contenere l’indicazione relativa al possesso della specifica idoneità concorsuale, oltre all’idoneità ecclesiastica rilasciata, per l’ordine e grado di scuola richiesto, dall’ordinario diocesano competente.
Non saranno prese in considerazione le domande prive della dichiarazione di idoneità dell’ordinario diocesano competente.
9.
I titoli di servizio valutabili ai sensi della relativa tabella devono essere attestati dall’inte-ressato sotto la propria responsabilità con dichiarazione personale in carta semplice e riportati nel-l’apposita casella del modulo domanda.
10.
I titoli valutabili per esigenze di famiglia devono essere documentati secondo quanto in-dicato nell’articolo 9 del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, con-cernente la mobilità del personale della scuola.
11.
Le dichiarazioni mendaci, le falsità negli atti e l’uso di atti falsi sono puniti a norma delle disposizioni vigenti.
Articolo 4 – Documentazione delle domande 1.
Le domande sono prese in esame solo se redatte utilizzando l’apposito modulo allegato al-la presente Ordinanza, disponibile nella rete Intranet ed Internet.
Il mancato utilizzo dell’apposito modulo comporta l’annullamento delle domande.
2.
Le domande vanno corredate dalla certificazione di idoneità rilasciata dall’Ordinario Dio-cesano di destinazione, nonché dalle dichiarazioni, in carta semplice, dei servizi prestati, redatte in conformità al modello D allegato alla presente Ordinanza, ovvero dal certificato di servizio.
3.
La valutazione delle esigenze di famiglia e dei titoli deve avvenire ai sensi della tabella al-legata al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009 e va effettuata esclusi-vamente in base alla documentazione, in carta semplice, da produrre da parte degli interessati uni-tamente alla domanda, nei termini previsti .
4.
In relazione alle Tabelle A) e B) per la valutazione dei titoli ai fini dei trasferimenti a do-manda e d’ufficio e ai fini della mobilità professionale si noti che nei confronti degli insegnanti di religione cattolica non trovano di fatto applicazione i punteggi previsti alle lettere B3) e C1).
Per-tanto non andranno compilate le caselle corrispondenti nel modulo domanda.
In relazione ai titoli generali (punto III), non trova inoltre applicazione il punteggio previsto alla lettera A) e quindi non sono da compilare le corrispondenti caselle dei moduli domanda.
Va invece riconosciuto il punteg-gio relativo alla lettera B), superamento di un pubblico concorso ordinario, data la natura particolare del concorso riservato cui tutti gli insegnanti di religione cattolica hanno partecipato.
Tra i titoli previsti nel medesimo punto alla lettera C) deve essere compreso anche ogni diploma di specializ-zazione di durata almeno biennale riconducibile ad una delle discipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987, conseguito dopo la laurea o la licenza presso facoltà teologiche o istituzioni accademi-che di diritto pontificio comprese negli elenchi forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana.
Tra i titoli previsti alla successiva lettera D) deve essere compreso anche ogni diploma di scienze religio-se, magistero in scienze religiose ed ogni titolo di baccalaureato o equivalente, conseguito in una delle discipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987 presso facoltà teologiche o istituzioni acca-demiche di diritto pontificio comprese negli elenchi forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana, in aggiunta al titolo che ha consentito l’accesso al ruolo.
Tra i titoli previsti alla lettera E) deve essere compreso anche ogni corso di perfezionamento di durata non inferiore ad un anno ed ogni master di primo o secondo livello attivati da facoltà teologiche o istituzioni accademiche di diritto pontificio comprese negli elenchi forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana in materie riconducibili alle di-scipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987.
Tra i titoli previsti alla lettera F) deve essere com-preso anche ogni titolo di licenza o equivalente conseguito in una delle discipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987 presso facoltà teologiche o istituzioni accademiche di diritto pontificio com-prese negli elenchi forniti dalla Conferenza Episcopale Italiana, in aggiunta al titolo che ha consen-tito l’accesso al ruolo.
Tra i titoli previsti alla lettera G) deve essere compreso anche il consegui-mento del dottorato in una delle discipline di cui all’allegato A del DM 15-7-1987 presso facoltà te-ologiche o istituzioni accademiche di diritto pontificio comprese negli elenchi forniti dalla Confe-renza Episcopale Italiana, in aggiunta al titolo che ha consentito l’accesso al ruolo.
Non trova infine applicazione il punteggio previsto alla lettera I).
Pertanto non vanno compilate le corrispondenti ca-selle dei moduli domanda.
5.
Il servizio prestato, per almeno 180 giorni o alle condizioni previste dalla nota 4 dell’allegato D del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, in insegna-mento diverso da quello di religione cattolica è da valutare con lo stesso punteggio previsto per il servizio non di ruolo.
Non è riconoscibile il servizio prestato nell’insegnamento della religione cat-tolica, successivamente al 1 settembre 1990, senza il possesso del prescritto titolo di qualificazione.
Nel caso di titolo conseguito in costanza di servizio, il servizio medesimo è riconoscibile a partire dalla data di conseguimento.
6.
A tutti gli insegnanti di religione cattolica è consentito far valere come titolo di accesso al ruolo quello più conveniente tra quelli eventualmente posseduti e, di conseguenza, far valere gli al-tri come titoli aggiuntivi, a prescindere da quelli effettivamente utilizzati e valutati in occasione del concorso per l’accesso al ruolo.
Come previsto al punto 4.6.2.
del DPR 751/1985, sono in ogni caso da ritenere dotati della qualificazione necessaria per il loro insegnamento «gli insegnanti di religio-ne cattolica delle scuole secondarie e quelli incaricati di sostituire nell’insegnamento della religione cattolica l’insegnante di classe nelle scuole elementari, che con l’anno scolastico 1985-86 abbiano cinque anni di servizio».
Pertanto, i servizi prestati dai soggetti in possesso dei requisiti sopra citati sono da valutare ai fini della mobilità, ivi incluso il quinquennio utilizzato come titolo di qualifica-zione.
7.
Ai fini della validità di tale documentazione si richiamano le disposizioni contenute nelle predette tabelle di valutazione, che valgono per gli insegnanti di entrambi i ruoli.
8.
Relativamente alla lettera C) del punto II – esigenze di famiglia – della tabella di valuta-zione (Allegato D), lo stato di figlio maggiorenne che, a causa di infermità o difetto fisico o menta-le, si trovi nell’assoluta o permanente impossibilità di dedicarsi ad un proficuo lavoro, deve essere documentato con certificazione o copia autenticata della stessa rilasciata dalla A.S.L.
o dalle preesi-stenti commissioni sanitarie provinciali.
Relativamente alla lettera D) del punto II – esigenze di fa-miglia – della medesima tabella, il ricovero permanente del figlio, del coniuge o del genitore deve essere documentato con certificato rilasciato dall’istituto di cura.
Il bisogno, da parte dei medesimi, di cure continuative tali da comportare di necessità la residenza nella sede dell’istituto di cura, deve essere, invece, documentato con certificato rilasciato da ente pubblico ospedaliero o dall’azienda sanitaria locale o dall’ufficiale sanitario o da un medico militare.
L’interessato deve, altresì, comprovare con dichiarazione personale, redatta a norma delle di-sposizioni contenute nel DPR 28 dicembre 2000, n.
445, così come modificato e integrato dall’art.
15 della legge 16 gennaio 2003, n.
3, che il figlio, il coniuge, il genitore può essere assistito soltanto in un comune sito nel territorio della diocesi richiesta per trasferimento, in quanto nel territorio della diocesi di attuale titolarità non esiste un istituto di cura presso il quale il medesimo può essere assi-stito.
Per i figli tossicodipendenti l’attuazione di un programma terapeutico e socio-riabilitativo deve essere documentata con certificazione rilasciata dalla struttura pubblica o privata in cui avviene la riabilitazione stessa (artt.
114, 118 e 122 del DPR 9-10-1990, n.
309).
L’interessato deve comprovare, sempre con dichiarazione personale, che il figlio tossicodi-pendente può essere assistito soltanto nel comune sito nel territorio della diocesi richiesta per trasfe-rimento in quanto nella diocesi di attuale titolarità non esiste una struttura pubblica o privata presso la quale il medesimo può essere sottoposto a programma terapeutico e socio-riabilitativo, ovvero perché in tale comune – residenza abituale – il figlio tossicodipendente viene sottoposto a pro-gramma terapeutico con l’assistenza di un medico di fiducia come previsto dall’art.
122, c.
3, del ci-tato DPR n.
309/90.
In mancanza di detta dichiarazione, la documentazione esibita non viene presa in considerazione.
9 .
Nel caso dei trasferimenti per i quali si intendano far valere le precedenze di cui all’art.
7 del CCNI sulla mobilità sottoscritto il 12-2-2009, il comune di residenza dei familiari deve apparte-nere al territorio della diocesi per la quale si chiede il trasferimento.
L’effettiva assegnazione dell’in-segnante di religione cattolica ad una scuola situata nel comune di residenza dei familiari è tuttavia regolata dall’intesa che l’Ufficio scolastico regionale raggiunge con l’ordinario diocesano per l’uti-lizzazione dell’insegnante.
10.
A norma delle disposizioni contenute nel DPR 28 dicembre 2000, n.
445, così come mo-dificato e integrato dall’art.
15 della legge 16 gennaio 2003, n.
3, l’interessato può attestare con di-chiarazioni personali l’esistenza di figli minorenni (precisando in tal caso la data di nascita), lo stato di celibe, nubile, coniugato, vedovo o divorziato, il rapporto di parentela con le persone con cui chiede di ricongiungersi, la residenza delle medesime , l’inclusione nella graduatoria di merito in pubblico concorso per esami , i diplomi di specializzazione, i diplomi universitari, i corsi di perfe-zionamento, i diplomi di laurea, il dottorato di ricerca.
Ai fini dell’attribuzione del punteggio previ-sto dalla lettera E) del punto III – titoli generali – della tabella, nella relativa certificazione deve es-sere indicata la durata, almeno annuale, del corso con il superamento della prova finale.
Per gli in-segnanti della scuola secondaria, nel caso in cui il titolo di accesso al ruolo sia costituito da un di-ploma di laurea valido nell’ordinamento italiano, unitamente a un diploma rilasciato da un istituto di scienze religiose riconosciuto dalla Conferenza Episcopale Italiana, i titoli devono essere valutati congiuntamente e uno dei due non può essere valutato separatamente come titolo aggiuntivo.
11.
Il personale che chiede il passaggio deve dichiarare di possedere l’idoneità concorsuale relativa al ruolo richiesto e deve allegare il riconoscimento di idoneità ecclesiastica relativa all’inse-gnamento della religione cattolica nell’ordine e grado richiesto, rilasciato dall’ordinario diocesano competente per territorio.
12.
In attuazione dell’art.
7, c.
1, punto VIII) del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, concernente la mobilità del personale della scuola, il personale che a se-guito della riduzione del numero delle aspettative sindacali retribuite intenda avvalersi della prece-denza nei trasferimenti interregionali a domanda deve dichiarare di aver svolto attività sindacale e di aver avuto il domicilio negli ultimi tre anni nel territorio della diocesi richiesta; tale diritto può essere esercitato solo nell’anno successivo al venire meno del distacco sindacale.
13.
I responsabili dell’Ufficio scolastico regionale potranno procedere, ove ne ravvisino l’opportunità, ad una verifica d’ufficio della veridicità delle dichiarazioni personali rilasciate .
14.
Le dichiarazioni mendaci, la falsità negli atti e l’uso di atti falsi, nei casi previsti dal DPR 28 dicembre 2000, n.
445, così come modificato e integrato dall’art.
15 della legge 16 gennaio 2003, n.
3, sono puniti a norma delle disposizioni vigenti in materia.
Articolo 5 – Rettifiche, revoche e rinunce 1.
Successivamente alla scadenza dei termini per la presentazione delle domande di trasfe-rimento e di passaggio non è più consentito integrare o modificare (anche per quanto riguarda l’or-dine) le preferenze già espresse, né la documentazione allegata.
2.
È consentita la revoca delle domande di movimento presentate.
La richiesta di revoca de-ve essere inviata tramite la scuola di servizio o presentata all’Ufficio scolastico regionale della Re-gione di titolarità dell’interessato ed è presa in considerazione soltanto se pervenuta entro il 15 giu-gno 2009.
3.
L’aspirante, qualora abbia presentato più domande di movimento, sia di trasferimento che di passaggio, deve dichiarare esplicitamente se intende revocare tutte le domande o solo una.
In tale ultimo caso deve chiaramente indicare la domanda per la quale chiede la revoca.
In mancanza di ta-le precisazione la revoca si intende riferita a tutte le domande di movimento.
4.
Non è ammessa la rinuncia, a domanda, del trasferimento concesso, salvo che tale rinun-cia non venga richiesta per gravi sopravvenuti motivi, debitamente comprovati, e a condizione, al-tresì, che il posto di provenienza sia rimasto vacante e che la rinuncia non incida negativamente sul-le operazioni relative alla gestione dell’organico di fatto.
Il posto reso disponibile dal rinunciatario non influisce sui trasferimenti già effettuati e non comporta, quindi, il rifacimento degli stessi.
5.
Il procedimento di accettazione o diniego della richiesta di rinuncia o di revoca deve, a norma dell’art.
2 della legge 241/90, essere concluso con un provvedimento espresso.
Articolo 6 – Organi competenti a disporre i trasferimenti ed i passaggi.
Pubblicazione del movimento e adempimenti successivi 1.
I trasferimenti ed i passaggi degli insegnanti di religione cattolica sono disposti dal Diret-tore Generale dell’Ufficio scolastico regionale o da un suo delegato per ciascuna delle diocesi di competenza entro le date stabilite dal precedente articolo 2.
L’elenco graduato di coloro che hanno ottenuto il trasferimento o il passaggio viene affisso all’albo dell’Ufficio scolastico regionale, con l’indicazione, a fianco di ogni nominativo, della diocesi di destinazione, del punteggio complessivo e delle eventuali precedenze, nel rispetto delle norme di cui alla legge 675/96 e al DLgs 196/03.
2.
Agli insegnanti che hanno ottenuto il trasferimento o il passaggio viene data comunica-zione del provvedimento presso la scuola di servizio.
3.
Contemporaneamente alla pubblicazione degli elenchi e alla comunicazione del provve-dimento alle Istituzioni scolastiche, gli Uffici scolastici regionali provvedono alle relative comuni-cazioni: alla Istituzione scolastica di provenienza, alla diocesi di provenienza, alla diocesi di desti-nazione, al locale dipartimento provinciale del Tesoro.
4.
L’elenco di coloro che hanno ottenuto il trasferimento o il passaggio viene trasmesso dal-l’Ufficio scolastico regionale all’ordinario diocesano competente.
Contestualmente a detta trasmis-sione il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale o un suo delegato stabilisce gli opportu-ni contatti con le diocesi di competenza per definire l’intesa relativa alla sede di utilizzazione degli insegnanti oggetto di detti movimenti.
5.
L’intesa sulla sede di utilizzazione di ciascun insegnante deve essere raggiunta entro il 31 luglio 2009 e di essa deve essere data comunicazione ai dirigenti scolastici delle scuole di prove-nienza e di destinazione degli insegnanti interessati.
Il dirigente scolastico della scuola di destina-zione deve comunicare l’avvenuta assunzione di servizio con l’inizio del nuovo anno scolastico al-l’Ufficio scolastico regionale, alla diocesi e al competente dipartimento provinciale del Tesoro.
Articolo 7 – Fascicolo personale 1.
I dati personali dei soggetti interessati alla mobilità devono essere utilizzati solo per fini di carattere istituzionale e per l’espletamento delle procedure legate alla stessa mobilità; i dati in questione possono essere comunicati o diffusi ai soggetti pubblici alle condizioni di cui ai commi 2 e 3 dell’art.
19 del DLgs 30 giugno 2003, n.
196, “Codice in materia di protezione dei dati persona-li”.
Per quanto attiene al trattamento dei dati sensibili personali si fa riferimento ai principi generali richiamati dal citato DLgs 30-6-2003, n.
196, che ha sostituito il DLgs 11-5-1999, n.
135, recante disposizioni integrative della legge 31-12-1996, n.
675, in materia di trattamento dei dati sensibili da parte di soggetti pubblici.
2.
I fascicoli personali di coloro che risultano trasferiti sono trasmessi, a cura dell’Istituzione scolastica di provenienza all’Istituzione scolastica di destinazione con l’inizio del nuovo anno scola-stico.
Articolo 8 – Domanda di trasferimento e di passaggio 1.
Gli insegnanti di religione cattolica possono chiedere l’utilizzazione in altra sede della stessa diocesi in occasione dei movimenti di assegnazione provvisoria e utilizzazione regolati da apposito Contratto Collettivo Nazionale Integrativo.
In quella stessa occasione gli insegnanti in ser-vizio in diocesi che insistono sul territorio di più regioni possono presentare domanda di utilizza-zione in una sede scolastica appartenente alla stessa diocesi ma ad una regione diversa.
In questo caso i Direttori Generali degli Uffici scolastici regionali coinvolti stabiliscono i necessari accordi per le opportune compensazioni di organico.
2.
Le sedi assegnate per utilizzazione agli insegnanti di religione cattolica si intendono con-fermate automaticamente di anno in anno qualora permangano le condizioni e i requisiti prescritti dalle vigenti disposizioni di legge, cioè finché permanga la disponibilità oraria nell’Istituzione sco-lastica e finché non sia revocata l’idoneità rilasciata dall’ordinario diocesano competente.
In caso di utilizzazione con completamento orario esterno la conferma automatica riguarda la sede in cui l’in-segnante ha il maggior numero di ore ovvero quella che figura per prima nel decreto di utilizzazio-ne; ferma restando tale sede, in caso di variazione oraria in una delle sedi deve essere comunque raggiunta una specifica intesa con l’ordinario diocesano competente.
3.
Gli insegnanti di religione cattolica, con una stessa domanda, possono chiedere il trasfe-rimento in altre diocesi della medesima regione o in altre diocesi di diversa regione, o congiunta-mente per le une e per le altre.
4.
In materia di mobilità professionale gli insegnanti di religione cattolica, ai sensi dell’arti-colo 4, c.
1, della legge 186/03, possono chiedere solo il passaggio al ruolo del medesimo insegna-mento di religione cattolica in diverso settore formativo, qualora siano in possesso dell’idoneità concorsuale relativa all’altro settore formativo e dell’idoneità ecclesiastica rilasciata dall’ordinario diocesano competente per l’ordine e grado scolastico richiesto.
Gli insegnanti di religione cattolica, pertanto, non possono chiedere il passaggio ad altro tipo di insegnamento anche se in possesso dei titoli di qualificazione previsti per tale servizio.
5.
Gli insegnanti che intendono chiedere contemporaneamente trasferimento e passaggio de-vono precisare, nell’apposita sezione del modulo domanda di passaggio, a quale movimento (trasfe-rimento o passaggio) intendono dare precedenza.
In mancanza di indicazioni chiare viene data pre-cedenza al trasferimento.
6.
È consentito il passaggio alle scuole con lingua d’insegnamento slovena (o viceversa) a condizione che l’aspirante sia in possesso dei titoli di accesso specificamente richiesti e che sul mo-vimento si raggiunga l’intesa con l’ordinario diocesano competente.
Articolo 9 – Indicazione delle preferenze 1.
Le preferenze devono essere indicate nell’apposita sezione del modulo-domanda e sono relative agli ambiti territoriali della regione e della diocesi.
2.
Gli insegnanti di religione cattolica possono chiedere il trasferimento o il passaggio in al-tra diocesi della stessa o di diversa regione a condizione di essere in possesso di idoneità riconosciu-ta dall’ordinario della diocesi richiesta.
A tale scopo, l’attestato di riconoscimento di idoneità deve essere allegato alla domanda, con la specificazione dell’ordine e grado di scuola per il quale l’inse-gnante è riconosciuto idoneo.
In mancanza di tale ultima specificazione l’insegnante è considerato idoneo per tutti gli ordini e gradi scolastici, fermo restando che la sua destinazione su una sede spe-cifica deve essere oggetto di intesa tra il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale e l’or-dinario diocesano competente per territorio.
3.
Con una stessa domanda è possibile chiedere il trasferimento in più di una diocesi.
Per ciascuna delle diocesi richieste deve essere allegato l’attestato di riconoscimento dell’idoneità rila-sciato dall’ordinario della diocesi richiesta.
4.
Nell’assegnazione di nuova titolarità si segue l’ordine delle operazioni fissato dall’art.
37bis, c.
4, del vigente CCNI sulla mobilità.
5.
È possibile esprimere preferenze fino a un massimo di cinque diocesi situate oltre che nel-la regione di appartenenza anche in un’altra regione per entrambi i ruoli di provenienza degli aspi-ranti.
6.
Qualora una diocesi insista sul territorio di più regioni, l’insegnante deve precisare nella porzione del territorio diocesano corrispondente a quale regione intende chiedere il trasferimento.
Ciascuna porzione è trattata come se fosse una distinta diocesi.
7.
Qualsiasi richiesta formulata in difformità alle disposizioni contenute nel presente articolo è da ritenere nulla e non produttiva di effetti.
Articolo 10 – Adempimenti dei dirigenti scolastici e degli uffici amministrativi 1.
Il dirigente scolastico, dopo l’accertamento della esatta corrispondenza fra la documenta-zione allegata alla domanda e quella elencata, procede all’acquisizione della domanda.
Effettuate ta-li operazioni, il dirigente scolastico deve inviare all’Ufficio scolastico regionale competente le do-mande originali di trasferimento e di passaggio corredate della documentazione entro l’8 maggio 2009.
2.
L’Ufficio scolastico regionale, a mano a mano che riceve le domande, procede alla valuta-zione delle stesse ed all’assegnazione dei punti sulla base delle apposite tabelle allegate al Contratto sulla mobilità, nonché al riconoscimento di eventuali diritti di precedenza, comunicando entro il 4 giugno 2009 alla scuola di servizio dell’insegnante, per l’immediata notifica, il punteggio assegnato e gli eventuali diritti riconosciuti.
L’insegnante ha facoltà di far pervenire all’Ufficio scolastico re-gionale, entro 5 giorni dalla ricezione, motivato reclamo, secondo le indicazioni contenute nell’art.
12 del Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009, concernente la mobilità del personale della scuola.
In tale sede ed entro il termine suddetto il docente può anche richiedere, in modo esplicito, le opportune rettifiche a preferenze già espresse nel modulo domanda in modo errato, indicando l’esatta preferenza da apporre nella domanda.
L’Ufficio competente, esaminati i reclami, apporta le eventuali rettifiche.
3.
Per gli insegnanti di religione cattolica non si dà luogo alla compilazione e pubblicazione di graduatorie d’istituto, ma si procede ugualmente all’attribuzione di un punteggio sulla base delle tabelle allegate al Contratto Collettivo Nazionale Integrativo sottoscritto il 12-2-2009.
Detta docu-mentazione è inviata dalle scuole all’Ufficio scolastico regionale entro l’8 maggio 2009.
4.
L’Ufficio scolastico regionale, una volta ricevuta la documentazione di cui al comma 3, predispone, entro il 22 giugno 2009, per ciascun ruolo, una graduatoria unica regionale degli inse-gnanti di religione cattolica, suddivisa per diocesi, al solo scopo di individuare il personale even-tualmente in esubero.
Articolo 11 – Disposizioni generali sui passaggi di ruolo 1.
Gli insegnanti di religione cattolica possono chiedere unicamente il passaggio di ruolo per transitare dal ruolo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola dell’infanzia e primaria al ruolo per l’insegnamento della religione cattolica nella scuola secondaria di primo e secondo gra-do, o viceversa.
2.
La domanda di passaggio di ruolo è subordinata al possesso della specifica idoneità rico-nosciuta dall’ordinario diocesano competente per l’ordine e grado di scuola richiesto.
Tale certifica-zione deve essere allegata alla domanda.
Ove il certificato di idoneità ecclesiastica non specifichi l’ordine e grado di scuola per il quale l’insegnante è riconosciuto idoneo, l’insegnante medesimo è considerato idoneo per tutti gli ordini e gradi scolastici.
3.
Il passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria (o viceversa) ed il passaggio dalla scuola secondaria di primo grado alla scuola secondaria di secondo grado (o viceversa) non si configurano come passaggi di ruolo in quanto si tratta di movimenti effettuati all’interno del mede-simo ruolo di appartenenza e vanno quindi trattati in sede di utilizzazione, secondo le procedure stabilite nella relativa ordinanza.
4.
Con una stessa domanda è possibile chiedere il passaggio in più di una diocesi.
Per cia-scuna delle diocesi richieste deve essere allegato l’attestato di riconoscimento dell’idoneità rilasciato dall’ordinario della diocesi richiesta.
5.
Nell’assegnazione di nuova titolarità si segue l’ordine delle operazioni fissato dall’art.
37bis, c.
4, del vigente CCNI sulla mobilità.
6.
È possibile esprimere preferenze fino a un massimo di cinque diocesi situate oltre che nel-la regione di appartenenza anche in un’altra regione per entrambi i ruoli di provenienza degli aspi-ranti.
Articolo 12 – Modalità di presentazione delle domande di passaggio di ruolo 1.
Le domande, redatte in conformità agli appositi moduli, devono contenere tutte le indica-zioni ivi richieste e devono essere presentate nei termini stabiliti dall’art.
2 e secondo le disposizioni previste dal precedente articolo 11.
2.
Le domande prodotte fuori termine o in difformità a quanto stabilito nel precedente com-ma non vengono prese in considerazione.
3.
Per eventuali rettifiche, revoche o rinunce si applicano le precedenti disposizioni relative alle domande di trasferimento.
Allegati Allegato TR1 – Domanda di trasferimento per insegnanti di religione cattolica delle scuole dell’in-fanzia e primaria Allegato PR1 – Domanda di passaggio di ruolo per le scuole dell’infanzia e primaria Allegato TR2 – Domanda di trasferimento per insegnanti di religione cattolica delle scuole secon-darie di primo e secondo grado Allegato PR2 – Domanda di passaggio di ruolo per le scuole secondarie di primo e secondo grado.
Allegato C – Elenco ufficiale delle diocesi italiane.
Allegato D – Modello di dichiarazione dell’anzianità di servizio.
IL MINISTRO F.to Gelmini
Una nuova teologia della fraternità per superare conflitti etnici ed egoismi
L’incontro di Benedetto XVI con i membri del Consiglio speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, svoltosi giovedì pomeriggio 19 marzo nella nunziatura di Yaoundé, ha come segnato l’inizio della ii seconda assemblea sinodale speciale, che si terrà in Vaticano dal 4 al 25 ottobre.
Dopo il saluto dell’arcivescovo Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi, il Papa ha pronunciato il seguente discorso.
Signori Cardinali, cari Fratelli nell’Episcopato! È con profonda gioia che saluto tutti voi, in questa terra d’Africa.
Per essa, nel 1994, una Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi è stata convocata dal mio venerato Predecessore, il Servo di Dio Giovanni Paolo ii, in segno di sollecitudine pastorale per questo continente ricco sia di promesse, sia di pressanti necessità umane, culturali e spirituali.
L’ho chiamato questa mattina “il continente della speranza”.
Ricordo con gratitudine la firma dell’Esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Africa, che ebbe luogo proprio qui 14 anni or sono, nella Festa dell’Esaltazione della Croce, il 14 settembre 1995.
La mia riconoscenza va a Mons.
Nikola Eterovic, Segretario Generale del Sinodo dei Vescovi, per le parole che mi ha indirizzato a nome vostro, introducendo questo incontro in terra africana con voi, e sono molto riconoscente per ciò che mi avete detto; questo mi da un’idea più realistica della situazione su cui dobbiamo parlare e pregare soprattutto in questo Sinodo, cari membri del Consiglio Speciale per l’Africa.
Tutta la Chiesa guarda con attenzione a questo incontro in vista della Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, che, a Dio piacendo, sarà celebrata nel prossimo ottobre.
Il tema è: “La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace.
“Voi siete il sale della terra …
Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13.14)”.
Ringrazio vivamente i Cardinali, gli Arcivescovi e i Vescovi membri del Consiglio Speciale per l’Africa, per la loro esperta collaborazione alla redazione dei Lineamenta e dell’Instrumentum laboris.
Vi sono riconoscente, cari Confratelli nell’Episcopato, per avere anche presentato nei vostri contributi aspetti importanti della situazione ecclesiale e sociale attuale dei vostri Paesi d’origine e della regione.
Avete così sottolineato il grande dinamismo della Chiesa in Africa, ma al tempo stesso avete evocato le sfide, i grandi problemi dell’Africa che il Sinodo dovrà esaminare, affinché nella Chiesa in Africa la crescita non sia soltanto quantitativa ma anche qualitativa.
Cari Fratelli, in apertura della mia riflessione, mi sembra importante sottolineare che il vostro continente è stato santificato dallo stesso Signore nostro Gesù Cristo.
All’alba della sua vita terrena, alcune tristi circostanze gli hanno fatto calcare il suolo africano.
Dio ha scelto il vostro continente perché diventasse dimora del suo Figlio.
Mediante Gesù, Dio è venuto incontro ad ogni uomo, certamente, ma in modo particolare, incontro all’uomo africano.
L’Africa ha offerto al Figlio di Dio una terra che lo ha nutrito e una protezione efficace.
Mediante Gesù, duemila anni fa, Dio stesso ha portato il sale e la luce all’Africa.
Da allora, il seme della sua presenza è sepolto nelle profondità del cuore di questo amato continente ed esso germoglia a poco a poco al di là e attraverso le vicissitudini della sua storia umana.
In conseguenza della venuta di Cristo che l’ha santificata con la sua presenza fisica, l’Africa ha ricevuto una chiamata particolare a conoscere Cristo.
Che gli Africani ne siano fieri! Meditando e approfondendo spiritualmente e teologicamente questa prima tappa della kénosi, l’Africano potrà trovare le forze sufficienti per affrontare il suo quotidiano talvolta molto duro, e potrà allora scoprire immensi spazi di fede e di speranza che l’aiuteranno a crescere in Dio.
Alcuni momenti significativi della storia cristiana di questo Continente possono ricordarci il legame profondo che esiste tra l’Africa e il cristianesimo a partire dalle sue origini.
Secondo la venerabile tradizione patristica, l’evangelista san Marco, che ha “trasmesso per iscritto ciò che era stato predicato da Pietro” (Ireneo, Adversus haereses iii, i, 1), venne ad Alessandria a rianimare la semente sparsa dal Signore.
Questo Evangelista ha reso testimonianza in Africa della morte in croce del Figlio di Dio – ultimo momento della kénosi – e della sua elevazione sovrana, perché “ogni lingua proclami: Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre” (Fil 2, 11).
La Buona Novella della venuta del Regno di Dio si è diffusa rapidamente nel nord del vostro Continente, dove ha avuto illustri martiri e santi e ha generato insigni teologi.
Dopo essere stato messo alla prova da vicissitudini storiche, il cristianesimo, durante quasi un millennio, non è rimasto che nella parte nord-orientale del Continente.
Con l’arrivo degli Europei che cercavano la via delle Indie, nei secoli xv e XVI, le popolazioni sub-sahariane hanno incontrato Cristo.
Furono le popolazioni costiere a ricevere per prime il battesimo.
Nei secoli xix e xx, l’Africa sub-sahariana ha visto arrivare missionari, uomini e donne, provenienti da tutto l’Occidente, dall’America Latina e anche dall’Asia.
Desidero rendere omaggio alla generosità della loro risposta incondizionata alla chiamata del Signore e al loro ardente zelo apostolico.
Qui vorrei andare oltre e parlare dei catechisti africani, compagni inseparabili dei missionari nell’evangelizzazione.
Dio aveva preparato il cuore di un certo numero di laici africani, uomini e donne, persone giovani e più avanti negli anni, a ricevere i suoi doni e portare la luce della sua Parola ai loro fratelli e sorelle.
Laici con i laici, hanno saputo trovare nella lingua dei loro padri le parole di Dio che hanno toccato il cuore dei loro fratelli e sorelle.
Hanno saputo condividere il sapore del sale della Parola e far risplendere la luce dei Sacramenti che annunciavano.
Hanno accompagnato le famiglie nella loro crescita spirituale, hanno incoraggiato le vocazioni sacerdotali e religiose e sono stati il legame tra le loro comunità e i sacerdoti e i vescovi.
Con naturalezza, hanno operato un’efficace inculturazione che ha portato meravigliosi frutti (cfr Mc 4, 20).
Sono stati i catechisti a permettere che “la luce risplendesse davanti agli uomini” (Mt 5, 16), perché vedendo il bene che facevano, intere popolazioni hanno potuto rendere gloria al nostro Padre che è nei cieli.
Sono Africani che hanno evangelizzato Africani.
Evocando il loro glorioso ricordo, saluto e incoraggio i loro degni successori che lavorano oggi con la stessa abnegazione, lo stesso coraggio apostolico e la stessa fede dei loro predecessori.
Che Dio li benedica generosamente! Durante questo periodo, la terra africana è stata anche benedetta da numerosi santi.
Mi limito a nominare i gloriosi Martiri dell’Uganda, i grandi missionari Anna Maria Javouhey e Daniele Comboni, come pure Suor Anuarite Nengapeta e il catechista Isidoro Bakanja, senza dimenticare l’umile Giuseppina Bakhita.
Ci troviamo attualmente in un momento storico che coincide, dal punto di vista civile, con l’indipendenza ritrovata e, dal punto di vista ecclesiale, con l’evento del Concilio Vaticano ii.
La Chiesa in Africa ha preparato e accompagnato durante questo periodo la costruzione delle nuove identità nazionali e, parallelamente, ha cercato di tradurre l’identità di Cristo secondo vie proprie.
Mentre la Gerarchia si era a poco a poco africanizzata, a partire dall’ordinazione da parte del Papa Pio xii di Vescovi del vostro continente, la riflessione teologica cominciò a svilupparsi.
Sarebbe bene che i vostri teologi continuassero oggi ad esplorare la profondità del mistero trinitario e il suo significato per la vita quotidiana africana.
Questo secolo permetterà forse, con la grazia di Dio, la rinascita, nel vostro continente, ma certamente sotto una forma diversa e nuova, della prestigiosa Scuola di Alessandria.
Perché non sperare che essa possa fornire agli Africani di oggi e alla Chiesa universale grandi teologi e maestri spirituali che potrebbero contribuire alla santificazione degli abitanti di questo continente e della Chiesa intera? La Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi ha permesso di indicare le direzioni da prendere e ha messo in evidenza, tra l’altro, la necessità di approfondire e di incarnare il mistero di una Chiesa-Famiglia.
Vorrei ora suggerire qualche riflessione sul tema specifico della Seconda Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, relativo alla riconciliazione, alla giustizia e alla pace.
Secondo il Concilio Ecumenico Vaticano ii, “la Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Lumen gentium, 1).
Per adempiere bene la propria missione, la Chiesa dev’essere una comunità di persone riconciliate con Dio e tra di loro.
In questo modo, essa può annunciare la Buona Novella della riconciliazione alla società attuale, che conosce purtroppo in molti luoghi conflitti, violenze, guerre e odio.
Il vostro continente non ne è stato risparmiato ed è stato ed è ancora triste teatro di gravi tragedie, che fanno appello ad una vera riconciliazione tra i popoli, le etnie, gli uomini.
Per noi cristiani, questa riconciliazione si radica nell’amore misericordioso di Dio Padre e si realizza mediante la persona di Gesù Cristo che, nello Spirito Santo, ha offerto a tutti la grazia della riconciliazione.
Le conseguenze si manifesteranno allora con la giustizia e la pace, indispensabili per costruire un mondo migliore.
In realtà, nel contesto sociopolitico ed economico attuale del continente africano, che cosa c’è di più drammatico della lotta spesso cruenta tra gruppi etnici o popoli fratelli? E se il Sinodo del 1994 ha insistito sulla Chiesa-Famiglia di Dio, quale può essere l’apporto di quello di quest’anno, alla costruzione dell’Africa, assetata di riconciliazione e alla ricerca della giustizia e della pace? I conflitti locali o regionali, i massacri e i genocidi che si sviluppano nel Continente devono interpellarci in modo tutto particolare: se è vero che in Gesù Cristo noi apparteniamo alla stessa famiglia e condividiamo la stessa vita, poiché nelle nostre vene circola lo stesso Sangue di Cristo, che fa di noi figli di Dio, membri della Famiglia di Dio, non dovrebbero dunque più esserci odio, ingiustizie, guerre tra fratelli.
Constatando lo sviluppo della violenza e l’emergere dell’egoismo in Africa, il Cardinale Bernardin Gantin, di venerata memoria, faceva appello, fin dal 1988, a una Teologia della Fraternità, come risposta al richiamo pressante dei poveri e dei più piccoli (cfr.
L’Osservatore Romano, ed.
francese, 12 aprile 1988, pp.
4-5).
Gli tornava forse alla memoria ciò che scriveva l’africano Lattanzio all’alba del iv secolo: “Il primo dovere della giustizia è riconoscere l’uomo come un fratello.
Infatti, se lo stesso Dio ci ha fatti e ci ha generati tutti nella stessa condizione, in vista della giustizia e della vita eterna, noi siamo sicuramente uniti da legami di fraternità: chi non li riconosce è ingiusto” (Epitomé des Institutions Divines, 54, 4-5: SC 335, p.
210).
La Chiesa-Famiglia di Dio che è in Africa, già dalla Prima Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi ha realizzato un’opzione preferenziale per i poveri.
Essa manifesta così che la situazione di disumanizzazione e di oppressione che affligge i popoli africani non è irreversibile; al contrario, essa pone ciascuno di fronte ad una sfida, quella della conversione, della santità e dell’integrità.
Il Figlio, mediante il quale Dio ci parla, è Lui stesso Parola fatta carne.
Ciò è stato l’oggetto delle riflessioni della recente xii Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi.
Diventata carne, questa Parola è all’origine di ciò che noi siamo e facciamo; è il fondamento di ogni vita.
È dunque a partire da questa Parola che bisogna valorizzare le tradizioni africane, correggere e perfezionare la loro concezione della vita, dell’uomo e della famiglia.
Gesù Cristo, Parola di vita, è sorgente e compimento di tutte le nostre vite, perché il Signore Gesù è l’unico mediatore e redentore.
È urgente che le comunità cristiane diventino sempre più luoghi di ascolto profondo della Parola di Dio e di lettura meditativa della Sacra Scrittura.
È attraverso questa lettura meditativa e comunitaria nella Chiesa che il cristiano incontra Cristo risorto che gli parla e gli ridona speranza nella pienezza di vita che Egli offre al mondo.
Quanto all’Eucaristia, essa rende il Signore realmente presente nella storia.
Mediante la realtà del suo Corpo e del suo Sangue, il Cristo tutto intero si rende sostanzialmente presente nelle nostre vite.
È con noi tutti i giorni fino alla fine dei tempi (cfr.
Mt 28, 20) e ci rimanda alle nostre realtà quotidiane affinché possiamo riempirle della sua presenza.
Nell’Eucaristia, è messo chiaramente in evidenza che la vita è una relazione di comunione con Dio, con i nostri fratelli e le nostre sorelle, e con l’intera creazione.
L’Eucaristia è sorgente di unità riconciliata nella pace.
La Parola e il Pane di vita offrono luce e nutrimento, come antidoto e viatico nella fedeltà al Maestro e Pastore delle nostre anime, perché la Chiesa in Africa realizzi il servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace, secondo il programma di vita dato dal Signore stesso: “Voi siete il sale della terra…
Voi siete la luce del mondo” (Mt 5, 13.14).
Per esserlo veramente, i fedeli devono convertirsi e seguire Gesù Cristo, diventare suoi discepoli, per essere testimoni del suo potere salvifico.
Durante la sua vita terrena, Gesù era “potente in opere e parole” (Lc 24, 19).
Con la sua risurrezione ha sottomesso ogni autorità e potere (cfr Col 2, 15), ogni potenza del male per rendere liberi quanti sono stati battezzati nel suo nome.
“Cristo ci ha liberati per la libertà!” (Gal 5, 1).
La vocazione cristiana consiste nel lasciarsi liberare da Gesù Cristo.
Egli ha vinto il peccato e la morte e offre a tutti la pienezza della sua vita.
Nel Signore Gesù non c’è più né giudeo né pagano, né uomo né donna (cfr Gal 3, 28).
Nella sua carne Egli ha riconciliato tutti i popoli.
Con la forza dello Spirito Santo rivolgo a tutti questo appello: “Lasciatevi riconciliare!” (2 Cor 5, 20).
Nessuna differenza etnica o culturale, di razza, di sesso o di religione deve divenire tra voi motivo di contesa.
Voi siete tutti figli dell’unico Dio, nostro Padre, che è nei cieli.
Con questa convinzione sarà finalmente possibile costruire un’Africa più giusta e pacifica, all’altezza delle legittime attese di tutti i suoi figli.
Infine, vi invito a incoraggiare la preparazione dell’evento sinodale recitando anche con i fedeli la preghiera che conclude l’Instrumentum laboris che ho consegnato stamani, e ciò per la buona riuscita dell’Assemblea Sinodale.
Preghiamo ora insieme, cari Fratelli: “Santa Maria, Madre di Dio, Protettrice dell’Africa, tu hai dato al mondo la luce vera, Gesù Cristo.
Con la tua obbedienza al Padre e con la grazia dello Spirito Santo ci hai donato la sorgente della nostra riconciliazione e della nostra giustizia, Gesù Cristo, nostra pace e nostra gioia.
Madre di tenerezza e di sapienza, mostraci Gesù, Figlio tuo e Figlio di Dio, sostieni il nostro cammino di conversione, affinché Gesù faccia brillare su di noi la sua Gloria in ogni ambito della nostra vita personale, familiare e sociale.
Madre piena di Misericordia e di Giustizia, per la tua docilità allo Spirito Consolatore, ottienici la grazia di essere testimoni del Signore Risorto, perché diventiamo sempre più il sale della terra e la luce del mondo.
Madre del Perpetuo Soccorso, alla tua materna intercessione affidiamo la preparazione e i frutti del Secondo Sinodo per l’Africa.
Regina della Pace, prega per noi! Nostra Signora dell’Africa, prega per noi!”.
(©L’Osservatore Romano – 20-21 marzo 2009)
«Una religione sana rifiuta la violenza»
Cari amici, lieto dell’occasione che mi è data di incontrare rappresentanti della comunità musulmana in Camerun, esprimo il mio cordiale ringraziamento al Signor Amadou Bello per le gentili parole rivoltemi in vostro nome.
Il nostro incontro è un segno eloquente del desiderio che condividiamo con tutti gli uomini di buona volontà – in Camerun, nell’intera Africa e in tutto il mondo – di cercare occasioni per scambiare idee su come la religione rechi un contributo essenziale alla nostra comprensione della cultura e del mondo ed alla coesistenza pacifica di tutti i membri della famiglia umana.
Iniziative in Camerun come l’Association Camerounaise pour le Dialogue Interreligieux mostrano come tale dialogo accresca la comprensione vicendevole e sostenga la formazione di un ordine politico stabile e giusto.
Il Camerun è la Patria di migliaia di cristiani e di musulmani, che spesso vivono, lavorano e praticano la loro fede nello stesso ambiente.
I seguaci tanto dell’una quanto dell’altra religione credono in un Dio unico e misericordioso, che nell’ultimo giorno giudicherà l’umanità (cfr.
Lumen gentium, 16).
Insieme essi offrono testimonianza dei valori fondamentali della famiglia, della responsabilità sociale, dell’obbedienza alla legge di Dio e dell’amore verso i malati e i sofferenti.
Plasmando la loro vita secondo queste virtù e insegnandole ai giovani, cristiani e musulmani non solo mostrano come favoriscono il pieno sviluppo della persona umana, ma anche come stringono legami di solidarietà con i loro vicini e promuovono il bene comune.
Amici, io credo che oggi un compito particolarmente urgente della religione è di rendere manifesto il vasto potenziale della ragione umana, che è essa stessa un dono di Dio ed è elevata mediante la rivelazione e la fede.
Credere in Dio, lungi dal pregiudicare la nostra capacità di comprendere noi stessi e il mondo, la dilata.
Lungi dal metterci contro il mondo, ci impegna per esso.
Siamo chiamati ad aiutare gli altri nello scoprire le tracce discrete e la presenza misteriosa di Dio nel mondo, che Egli ha creato in modo meraviglioso e sostiene con il suo ineffabile amore che abbraccia tutto.
Anche se la sua gloria infinita non può mai essere direttamente afferrata in questa vita dalla nostra mente finita, possiamo tuttavia raccoglierne barlumi nella bellezza che ci circonda.
Se gli uomini e le donne consentono all’ordine magnifico del mondo e allo splendore della dignità umana di illuminare la loro mente, essi possono scoprire che ciò che è “ragionevole” va ben oltre ciò che la matematica può calcolare, la logica può dedurre e gli esperimenti scientifici possono dimostrare; il “ragionevole” include anche la bontà e l’intrinseca attrattiva di un vivere onesto e secondo l’etica, manifestato a noi mediante lo stesso linguaggio della creazione.
Questa visione ci induce a cercare tutto ciò che è retto e giusto, ad uscire dall’ambito ristretto del nostro interesse egoistico e ad agire per il bene degli altri.
In questo modo una religione genuina allarga l’orizzonte della comprensione umana e sta alla base di ogni autentica cultura umana.
Essa rifiuta tutte le forme di violenza e di totalitarismo: non solo per principi di fede, ma anche in base alla retta ragione.
In realtà, religione e ragione si sostengono a vicenda, dal momento che la religione è purificata e strutturata dalla ragione e il pieno potenziale della ragione viene liberato mediante la rivelazione e la fede.
Per questo vi incoraggio, cari amici musulmani, a penetrare la società con i valori che emergono da questa prospettiva ed accrescono la cultura umana, così come insieme lavoriamo per edificare una civiltà dell’amore.
Che l’entusiastica cooperazione tra musulmani, cattolici ed altri cristiani in Camerun sia per le altre nazioni africane un faro luminoso sul potenziale enorme di un impegno interreligioso per la pace, la giustizia e il bene comune! Con questi sentimenti esprimo ancora una volta la mia gratitudine per questa promettente opportunità di incontrarvi durante la mia visita in Camerun.
Ringrazio Dio onnipotente per le benedizioni che Egli ha concesso a voi e ai vostri concittadini e prego affinché i legami che uniscono cristiani e musulmani nella loro profonda venerazione dell’unico Dio continuino a rafforzarsi così che essi diventino un riflesso più chiaro della saggezza dell’Onnipotente che illumina i cuori dell’intera umanità.
(©L’Osservatore Romano – 20-21 marzo 2009) Una religione genuina «rifiuta tutte le forme di violenza e di totalitarismo, non solo per principi di fede, ma anche in base alla retta ragione».
Lo ha detto PapaBenedetto XVI alla nunziatura di Yaoundé, in Camerun, dove ha incontrato i rappresentanti dei musulmani del Paese africano.
Il colloquio si è svolto a porte chiuse.
All’indomani delle polemiche scaturite dalle parole dello stesso pontefice, che aveva giudicato inutile l’uso dei preservativi nella lotta all’Aids, Ratzinger affronta dunque il tema dell’ecumenismo.
CONVIVENZA POSSIBILE In Camerun l’Islam rappresenta circa il 22% di una popolazione di 17 milioni di persone e intrattiene buoni rapporti con le altre componenti religiose, a partire dai cattolici (il 27%).
Benedetto XVI ha lodato questo esempio di convivenza sottolineando che in questa nazione cristiani e musulmani «offrono testimonianza dei valori fondamentali della famiglia, della responsabilità sociale, dell’obbedienza alla legge di Dio, e dell’amore verso i malati e i sofferenti».
FEDE E RAGIONE Il Papa ha ripreso però anche il discorso sulla ragionevolezza delle religioni, un tema che aveva affrontato nel suo controverso discorso a Ratisbona.
«Oggi – ha detto ai musulmani – un compito particolarmente urgente della religione è di rendere manifesto il vasto potenziale della ragione umana, che è essa stessa un dono di Dio ed è elevata mediante la rivelazione e la fede».
Benedetto XVI ha rimarcato che «in realtà religione e ragione si sostengono a vicenda, dal momento che la religione è purificata e strutturata dalla ragione e il pieno potenziale della ragione viene liberato mediante la rivelazione e la fede».
«In questo modo – ha concluso – una religione genuina allarga l’orizzonte della comprensione umana e sta alla base di ogni autentica cultura umana.
Essa rifiuta tutte le forme di violenza e di totalitarismo».
Corriere, 19 marzo ’09
Il disegno complessivo del Governo e del Ministro Gelmini
Credo che l’editoriale di questo numero di OP sia quasi scontato e che si debba concentrare sui cosiddetti «decreti Gelmini».
Sarebbe, però, riduttivo limitarsi solo a queste misure che, tra l’altro, non sono una riforma ma solo una razionalizzazione dell’esistente, promossa peraltro anche dall’intero governo di cui il ministro Gelmini fa parte; pertanto, farò riferimento a tutto il disegno complessivo del Governo e del Ministro, stando anche a quello che emerge dalle sue dichiarazioni programmatiche del 10 giugno del 2008.
Trattandosi di un editoriale mi concentrerò sulle problema-tiche essenziali, rimanendo nei limiti dello spazio a esso concesso nella nostra rivista.
Nel suo intervento programmatico, il Ministro correttamente richiamava tutti a superare vi-sioni ideologiche contrapposte, a lasciare lo scontro politico fuori della scuola, ad adottare soluzioni condivise.
Al contrario ci si dovrebbe far guidare dal pragmatismo e puntare sulla buona ammini-strazione e sul buon governo.
L’invito a una politica della scuola «bipartisan» e al buon senso è senz’alto giusto perché è in gioco il futuro della nostra gioventù, la risorsa più importante del Paese; sfortunatamente il Ministro sembra averlo dimenticato appena qualche mese dopo, proprio in occa-sione dell’approvazione delle misure estive sulla scuola, anche se non si può ignorare che l’opposizione non è stata da meno e ha preferito il muro contro muro.
Un clima più “bipartisan” si è creato nell’iter di approvazione delle misure sull’università, anche se è intervenuto dopo un periodo di grandi manifestazioni di piazza e di violenta contestazione: in questo caso diversi emendamenti dell’opposizione sono stati accolti, sebbene il suo voto finale sia stato negativo perché il provvedi-mento è stato giudicato manchevole e minimale, mentre la Conferenza dei Rettori, Crui, ne ha ap-prezzato gli elementi di positività.
Sul merito del testo ricordo le disposizioni volte a colpire la fi-nanza allegra di università che spendono troppo e male, ma anche a premiare le università virtuose, quelle mirate a colpire i «baroni» che non producono lavori scientifici e quelle finalizzate ad aiutare gli studenti veramente meritevoli con borse di studio e alloggi più numerosi..
A parere della Gelmini – e non lo si può contestare – il sistema educativo di istruzione e di formazione si presenta mediocre nei risultati, un sistema in cui sembra tramontata la cultura del me-rito e che ha assunto sotto molto aspetti le caratteristiche di ammortizzatore sociale.
Due logiche perverse hanno alimentato questa situazione: per favorire gli studenti si è ritenuto opportuno abbas-sare il livello della qualità dei processi di apprendimento-insegnamento e si è creduto che una mag-giore sicurezza potesse consentire di pagare poco i docenti e potesse compensare lo scadimento del loro ruolo e dello loro status senza tenere presente che uno Stato che retribuisce malamente i suoi insegnanti, non può esigere molto da loro in termini di qualità dell’educazione offerta.
Come il Ministro ha affermato nelle dichiarazioni programmatiche, queste derive pericolose vanno ribaltate, puntando alla rivalutazione delle funzioni degli insegnanti, a iniziare dal completo riconoscimento della loro condizione professionale.
Questo tra l’altro richiede l’identificazione di nuove risorse attraverso uno sforzo di riqualificazione della spesa pubblica che, non bisogna dimen-ticarlo, si pone in un contesto di gravi difficoltà economiche e finanziarie.
Inevitabilmente il Ministro ha collegato i suoi interventi al piano triennale di contenimento delle spese promosso dal suo governo.
Non si può neppure ignorare che il rapporto insegnan-ti/alunni che si riscontra in Italia è uno dei più bassi in Europa, cioè è evidente l’eccedenza di do-centi rispetto al corpo studentesco: pertanto, dal punto di vista del Ministro la riduzione degli inse-gnanti deve essere considerata come un allineamento del rapporto docenti/studenti alle medie euro-pee in modo da salvare risorse da impiegare al servizio di una più elevata qualità educativa; al con-trario, dagli oppositori tale intervento è visto come una grave riduzione del corpo insegnante con pericolo per l’efficacia dell’azione della scuola.
Tuttavia l’entità della razionalizzazione della rete scolastica e del ridimensionamento del numero dei docenti, l’aver previsto il reinvestimento nell’istruzione solo di un 30% dei risparmi e non di tutto il risparmio e il non aver chiarito le finalità in positivo dei tagli hanno scatenato le contestazioni dei sindacati e della piazza.
Un’altra delle misure che ha trovato molta opposizione riguarda il ritorno alla figura del ma-estro unico nelle primarie, anche se sarà affiancato dai docenti di inglese e di religione.
Gli opposi-tori hanno fatto notare che nel contesto della crescita enorme del sapere una figura unica di docente sembra un vero impoverimento; inoltre, essendo le elementari italiane l’unico ordine e grado di scuole riconosciuto valido anche a livello internazionale, pare del tutto illogico abbandonare il si-stema di una pluralità di docenti, che sembra aver dato buoni risultati negli ultimi diciotto anni.
Per il Ministro, al contrario, il suo provvedimento favorirebbe l’unitarietà dell’insegnamento e le rela-zioni tra scuola e famiglia in quanto sia l’alunno sia la famiglia sentirebbero il bisogno di una figura unica di riferimento con cui instaurare un rapporto continuo e diretto.
A essere completi va pure precisato che l’attivazione di classi affidate a un unico docente e funzionanti per un orario di 24 ore settimanali non è la sola opzione organizzativa possibile, ma rimangono percorribili anche quella delle 27 ore con esclusione però delle attività opzionali facoltative, e quella delle 30 ore comprensi-va dell’orario opzionale facoltativo.
Probabilmente la questione «maestro unico o pluralità di mae-stri» poteva essere risolta facendo perno sull’autonomia delle scuole e stabilendo solo degli stan-dard minimi e massimi.
Le intenzioni del Ministro sono condivisibili quando si tratta di rafforzare la gestione delle scuole, di attribuire loro poteri, competenze e risorse adeguate e fare dell’autonomia il perno del si-stema di valutazione.
A sua volta, questa rinvia a una valutazione che attesti in maniera trasparente i modi in cui vengono utilizzate le risorse economiche di tutti e gli obiettivi che sono raggiunti.
La valutazione richiede la responsabilizzazione dell’istituto e dei vari attori: altrimenti i risultati non possono essere attribuiti in bene o in male a persone e a gruppi.
Come si sa, i «decreti Gelmini» hanno ripristinato la valutazione del comportamento com-plessivo tenuto durante l’anno scolastico da parte dello studente.
Tale disposizione potrebbe contri-buire a superare la logica della separazione tra l’aspetto conoscitivo e la complessiva maturazione della personalità.
Ma occorrerà pensare e trattare la cosa nella intrinseca connessione degli aspetti, magari nella linea di una teoria dell’apprendimento che coniuga in maniera valida ed efficace cono-scenza e azione, comportamenti e atteggiamenti, individualità e socialità, personalizzazione e colla-borazione; e in un quadro di scuola-comunità democratica dell’apprendimento, qual è prefigurata nello Statuto degli studenti.
Il medesimo provvedimento ha reintrodotto i voti numerici espressi in decimi.
In questo caso molto dipenderà dall’equilibrio che verrà raggiunto tra questo strumento di valutazione e il giudizio analitico sul livello globale di maturazione dell’alunno.
I dati mettono in evidenza che la mobilità sociale in Italia è limitata e che la scuola tende a svolgere una funzione riproduttiva delle diseguaglianze piuttosto che di lotta alle disparità sociali.
Una prima strategia per affrontare questo nodo problematico consiste nell’assicurare a tutti gli stu-denti i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali in tema di istruzione e di formazione.
Nella società della conoscenza questo non può che consistere nella elevazione della preparazione di base a livello di diritto-dovere di istruzione e di formazione e di obbligo di istruzio-ne; al tempo stesso è necessario evitare lo spezzettamento dei saperi.
Un’altra strategia fa capo alla personalizzazione del processo di insegnamento-apprendimento.
Quanto al nodo del secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e di formazione, la fi-nalità pienamente condivisibile del Ministro è di elevare tutta l’offerta alla «serie A».
Il dibattito tanto accesso sulla scelta precoce a 14 anni tra secondaria di 2° grado da una parte e istruzione e formazione professionale dall’altra dovrebbe evitare le contrapposizioni ideologiche e misurarsi in maniera convergente con la sfida di elaborare percorsi capaci di aiutare tutti gli studenti a trovare la strada più adeguata.
La soluzione del Ministro è di dare a ogni allievo la sua scuola in modo che ogni persona trovi nella sua scuola le ragioni per frequentarla con profitto perché l’indifferenziazione dei percorsi è la strada più sicura verso gli abbandoni e le ripetenze.
Tale orientamento del Ministro ha trovato da subito un’attuazione importante.
Uno dei suoi primi interventi è consistito nella conferma della presenza di un canale di istruzione e formazione professionale nel nuovo obbligo di istruzione elevato di due anni (fino cioè a 16).
Il problema è che a oggi non ci sono nella Legge Finanziaria le cifre necessarie per realizzare questa misura del tutto positiva.
Riguardo alla libertà di scelta educativa, il Ministro parte correttamente dalla legge n.
60/00 e richiama la novità fondamentale di una normativa che ha sancito il principio di un sistema nazio-nale di istruzione del quale sono parte integrante scuola statale e non statale e in cui le paritarie svolgono un servizio pubblico.
Da questi principi scaturiscono però solo degli impegni piuttosto vaghi e, anche se all’ultimo momento è stata evitata (ma mentre scrivo, non del tutto) l’illogicità della legge finanziaria per il 2009 che prevedeva tagli per 133,4 milioni di euro, pari al 25% in me-no rispetto al 2008 (534 milioni rispetto agli oltre 6 miliardi che le paritarie fanno risparmiare allo Stato con le loro scuole), tuttavia non si sono volute aumentare le risorse ferme ai livelli del 2000; inoltre, per i comportamenti negativi non solo del centro-destra, ma anche del centro-sinistra, si è trasformato un obbligo di finanziamento strutturale come quello previsto dalla 60/00 in una benevo-la concessione del governo di turno.
Guglielmo Malizia
IV Domenica di Quaresima (Anno B).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Cronache 36,14-16.19-23 In quei giorni, tutti i capi di Giuda, i sacerdoti e il popolo moltiplicarono le loro in-fedeltà, imitando in tutto gli abomini degli altri popoli, e contaminarono il tempio, che il Signore si era consacrato a Gerusalemme.
Il Signore, Dio dei loro padri, mandò premurosamente e incessantemente i suoi messaggeri ad ammonirli, perché aveva compassione del suo popolo e della sua dimora.
Ma essi si beffarono dei messaggeri di Dio, disprezzarono le sue parole e schernirono i suoi profeti al punto che l’ira del Signore contro il suo popolo raggiunse il culmine, senza più rimedio.
Quindi [i suoi nemici] incendiarono il tempio del Signore, demolirono le mura di Gerusalemme e die-dero alle fiamme tutti i suoi palazzi e distrussero tutti i suoi oggetti preziosi.
Il re [dei Caldèi] deportò a Babilonia gli scampati alla spada, che divennero schiavi suoi e dei suoi figli fino all’avvento del regno persiano, attuandosi così la parola del Signore per bocca di Geremìa: «Finché la terra non abbia scontato i suoi sabati, es-sa riposerà per tutto il tempo della desolazione fino al compiersi di settanta anni».
Nell’anno primo di Ciro, re di Persia, perché si adempisse la parola del Signore pro-nunciata per bocca di Geremìa, il Signore suscitò lo spirito di Ciro, re di Persia, che fece proclamare per tutto il suo regno, anche per iscritto: «Così dice Ciro, re di Per-sia: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha concesso tutti i regni della terra.
Egli mi ha incari-cato di costruirgli un tempio a Gerusalemme, che è in Giuda.
Chiunque di voi appar-tiene al suo popolo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!”».
È Il brano che conclude la storia d’Israele scritta dal Cronista.
È una specie di grido di trionfo per la restaurazione della casa del Signore, il suo tempio.
Egli ricorda innanzi tutto la situazione degli ultimi anni di vita della città di Gerusalemme prima del 587 a.C.
al tempo del re Sedecia (vv.
14-16).
È un tempo di vera apostasia dalla religione dei padri, dal culto del vero Dio.
Si disprezza la parola di Dio annunciata dai profeti; il luogo santo, dove si adora l’unico Dio, viene profanato.
Nonostante la premura di Dio e il suo costante amore per il popolo, questi non volle convertirsi.
La situazione si fece talmente tragica che il Signore dovette intervenire.
Egli li abbandonò in mano ai babilonesi che incendiarono la città massacrarono la popo-lazione e il resto lo deportarono in esilio, lontano dalla patria.
Ma anche nelle tenebre più fitte, appare la misericordia del Signore che dona ancora una parola per mezzo del profeta Geremia, il quale annuncia il termine dell’esilio (vv.
19-21).
Nella terza parte del brano si riporta l’editto di Ciro, re di Persia, che proclamava nel 538 a.C.
la liberazione degli ebrei e l’ordine di ricostruire il tempio.
La storia del popolo, eletto da Dio, continua, perché la misericordia di Dio rimane stabile nonostante l’enormità del peccato del popolo e dei suoi capi.
Un segno di questa risurrezione del popolo è il nuovo tempio ricostruito, in cui saranno riportati i vasi sacri custoditi in Babilonia (cf.
v.
18), rendendo possibile nuovamente il culto a Dio (vv.
22-23).
Seconda lettura: Efesini 2,4-10 Fratelli, Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete salvati.
Con lui ci ha anche risuscitato e ci ha fatto sedere nei cieli, in Cristo Gesù, per mo-strare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù.
Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarse-ne.
Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo.
Paolo pone la bontà di Dio all’origine della sua azione salvifica: «Dio, ricco di misericor-dia, per il grande amore con il quale ci ha amato» (v.
4).
Il luogo dove si può sperimentare ora questa misericordia è la Chiesa.
La salvezza è descritta come un passaggio dalla morte alla vita.
Questa ci viene donata «per grazia», gratuitamente, per pura bontà di Dio (vv.
5-6).
Noi siamo solidali con Cristo.
Mediante il battesimo, partecipiamo già alla sua vittoria sulla morte e abbiamo una vita nuova, ma la forza della sua risurrezione si estenderà an-che ai nostri corpi (v.
6).
Quest’opera salvifica in Gesù Cristo ha come scopo la maggior gloria di Dio.
Nell’eternità sarà manifesto ciò che già ora è realizzato (v.
7).
Dando uno sguardo al passato, Paolo annuncia il suo vangelo: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede» (v.
8).
L’uomo con le sue forze non riesce ad uscire dalle sabbie mo-bili del peccato.
Solo la mano di Dio può risollevarlo.
L’agire di Dio è del tutto gratuito (v.
9).
Le opere non sono il principio, ma il fine dell’esistenza cristiana: «Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (v.
10).
Anche le nostre «opere buone», che faremo, procedono dalla grazia e sono state «pre-parate» da Dio per facilitarne l’adempimento.
Dio ha voluto la nuova condizione perché l’uomo potesse realizzarle.
Vangelo: Giovanni 3,14-21 In quel tempo, Gesù disse a Nicodèmo: «Come Mosè innalzò il serpente nel de-serto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui.
Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già sta-to condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giu-dizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie.
Chiunque infatti fa il male, odia la lu-ce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate.
Invece chi fa la ve-rità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».
Esegesi Con questo brano inizia la rivelazione del piano salvifico del Padre: Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna (vv.
14-15).
Si notino due verbi: «bisogna» e «sia innalzato».
Il primo verbo «bisogna» esprime la volontà salvifica di Dio di donarci la vita in Cristo: la croce non è un incidente di percorso.
Il secondo verbo «sia innalzato» indica appendere ad una croce, ma anche innalzare su un trono, la pienezza della regalità.
L’episodio del serpente di bronzo innalzato da Mosè nel deserto (Nm 21,8-9) è presentato da Giovanni come segno tipico dell’innalzamento del Figlio dell’uomo e della vita eterna donata a chi guarda, vale a dire a chi crede in lui.
Segue una meditazione pasquale dell’evangelista sulla parola di Gesù, avendo anche sullo sfondo la figura di Isacco.
Contemplando Gesù innalzato sulla croce, si scopre l’amo-re sorprendente di Dio: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (v.
16).
È un amore che si con-cretizza nel dare e nel mandare (v.
17).
Dio ama il mondo come si trova ora, lontano da lui e in pericolo di perire.
Quello che può privare gli uomini della vita, il loro grande peccato, è il rifiuto di crede-re in Gesù.
Di fronte alla sua missione si opera la discriminazione tra gli uomini, che cre-dono e si salvano, o non credono e si condannano.
Ma il kerygma di Giovanni ha proprio lo scopo di portare alla fede chi non crede.
Il giudizio è in rapporto alla rivelazione personale di Cristo.
È lui la luce: «E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie» (v.
19).
Le tenebre sono la situazione di rifiuto di Dio e la chiusura dell’uomo schiavo del suo egoismo.
Gli uomini scelgono.
Chi si pone dalla parte della luce, sperimenta un giudizio di salvezza.
Chi invece si colloca dalla parte delle tenebre, speri-menta un giudizio di condanna: un’esistenza destinata alla perdizione, perché le sue opere sono malvagio.
La luce è una forza giudicante e a nessuno piace sentirsi rinfacciare le pro-prie opere cattive.
Ma c’è anche «chi fa la verità» (v.
21).
Questi è colui che rinnega la sua situazione di peccato, accoglie la parola di Gesù e crede in lui.
Queste sono le opere che l’uomo può compiere solo con l’aiuto di Dio (v.
21).
Meditazione Nel cammino di purificazione e di conversione che caratterizza il tempo quaresimale, la Chiesa, attraverso la liturgia, ci guida con sapiente pedagogia, non solo orientandoci verso la Pasqua di Cristo, ma anche facendoci prendere coscienza di come la logica della morte e della vita in Cristo debba entrare concretamente nella nostra esistenza quotidiana.
Tuttavia, pur non togliendo nulla alle esigenze e alla serietà della sequela, siamo sempre richiamati dalla parola di Dio a guardare oltre le fatiche e le sofferenze di un cammino che è comunque segnato da una morte, da un esodo dal luogo della schiavitù, del peccato.
Il nostro sguardo è sempre proiettato oltre, verso il luogo della vita, il luogo della luce pa-squale, il luogo di una gioiosa comunione con quel Dio che ci è stato rivelato in Gesù.
E così le tre letture di questa quarta domenica concentrano la nostra attenzione su due realtà che formano il tessuto profondo e la dinamica non solo della storia della salvezza di un popolo, Israele, ma della storia sacra di ogni credente: l’esperienza del peccato e la fedeltà di Dio alla sua alleanza.
In 2Cr 36,14-23 scopriamo come la distruzione del tempio di Ge-rusalemme e la deportazione del popolo a Babilonia non sono l’ultima parola di Dio sulla infedeltà e sulla idolatria di Israele.
Attraverso la rilettura di questi eventi drammatici, il Cronista orienta lo sguardo verso un avvenire ricco di promesse; un re pagano sarà uno strumento nelle mani di Dio per ricostruire il tempio e il popolo potrà ritornare nella terra data ai loro padri.
È la fine dell’esilio babilonese: «chiunque di voi appartiene al suo popo-lo, il Signore, suo Dio, sia con lui e salga!» (2Cr 36,23).
Attraverso questo sguardo di spe-ranza, che ha come fondamento la fedeltà di Dio e la sua misericordia, siamo orientati a contemplare il compimento: il dono di Dio a ogni uomo nel Figlio «perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
L’uomo non può dimenticare che questo amore senza misura (Dio ha tanto amato il mondo…) è puro dono.
Paolo, a più ri-prese, insiste in Ef 2,4-10: «per grazia siete stati salvati».
Ma l’essere salvati per grazia da un Dio ricco di misericordia è molto di più di un semplice condono di peccati: la salvezza rag-giunge la sua pienezza nel nostro inserimento in Cristo mediante il battesimo, nella nostra partecipazione al mistero pasquale, che va dalla passione alla ascensione di Cristo.
Nella liturgia della Parola di questa domenica, il testo che maggiormente focalizza questa dinamica tra peccato dell’uomo e fedeltà di Dio è la pericope giovannea.
Sono alcu-ni versetti del lungo dialogo tra Gesù e Nicodemo.
È il primo dei vari incontri narrati da Giovanni, colloqui sapientemente condotti attraverso i quali viene tracciato un itinerario di progressiva scoperta del volto di Gesù e di una fede matura nella sua parola.
Per quanto riguarda la nostra pericope, si possono sottolineare tre momenti di rivelazione del volto di Cristo a cui corrisponde sempre una richiesta, una scelta da parte dell’uomo, un salto di fede.
Anzitutto è richiesto un movimento dello sguardo verso l’alto e la qualità di questo sguardo è la contemplazione: «come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna» (3,14-15).
L’esperienza di Israele nel deserto diventa paradigma interpretativo del mistero pa-squale di Gesù.
Come nel segno innalzato da Mosè nel deserto si manifestava il Dio salva-tore che interviene per guarire il suo popolo dalla ferita dell’incredulità, così nel Figlio del-l’uomo innalzato, il trafitto verso il quale si volgeranno tutte le nazioni (Gv 19,37), si rivela il dono di Dio per la salvezza del mondo.
Gesù ricorderà: «quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
Per Giovanni, l’Innalzato e il Trafitto che dona sangue e acqua, che guarisce con le sue ferite, esprime il mistero di Gesù nella sua massima trasparenza.
È uno spettacolo drammatico, sconvolgente, davanti al quale l’uomo preferirebbe abbassare gli occhi, distoglierli, perché in questa visione si scopre tutto il male di cui l’uomo è capace, tutta la violenza e l’odio che possono abitare nel cuore dell’uomo.
Eppure sembra quasi necessario (bisogna) guardare senza paura questo spettacolo, lo spettacolo della Croce.
Per-ché? Perché in esso è racchiuso il segreto nella vita, della nostra vita, il segreto della sal-vezza.
E in questo spettacolo che si rivela tutta l’umanità del Figlio di Dio (chiamato qui Figlio dell’uomo), la sua totale obbedienza al Padre (bisogna), il suo amore giunto al limite estremo (cfr.
3,16 ss.).
Questa visione apre alla seconda rivelazione, espressa in Gv 3,16: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio Unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna».
La prova radicale di questo amore di Dio che guarisce le ferite morta-li dell’uomo è il dono (che passa attraverso la morte, l’essere innalzato) del Figlio (colui che è espressione trasparente dell’amore di Dio, espressione esclusiva, l’Unigenito); e il dono non è per il giudizio, ma per la salvezza.
Così l’evento della Croce (3,14) ci fa penetrare più a fondo nel mistero di Dio stesso in quanto amore (ha tanto amato).
Dunque il segreto dello spettacolo della Croce, del trafitto innalzato, che altrimenti sarebbe incomprensibile e assur-do, sta in questa parola di Gesù, in questa seconda rivelazione.
In fondo a tutto, e non solo all’evento dell’Innalzato e Trafitto, ma anche al cuore della storia, c’è questa verità che il-lumina e che apre un orizzonte senza fine: la misericordia illimitata (tanto) di Dio per il mondo, per l’uomo, per ogni creatura che aspetta la redenzione e la liberazione dal pecca-to.
E infine, ed è la terza tappa in questa progressiva scoperta del volto di Gesù, Giovanni esprime questo dono del Figlio per il mondo con una realtà simbolica che caratterizza il suo linguaggio a partire dal prologo (cfr.
Gv 1,4-5) e che, d’altra parte, rivela anche il dramma della incredulità e del rifiuto da parte dell’uomo: «la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce perché le loro opere erano malvagio» (3,19).
Gesù è la luce che illumina e che evidenzia le tenebre; provoca una radicale chiarez-za sulla situazione dell’uomo, spesso falsa e mascherata dietro ad ambiguità e schemi (te-nebre).
Ma Gesù è la luce nel mondo (cfr.
anche Gv 8,12; 9, 5; 12,46) perché rivela in modo esclusivo e definitivo la realtà dell’uomo e di Dio; non c’è altro modo di vedere il volto di Dio e, alla sua luce, il volto dell’uomo.
Cosa è chiesto all’uomo? Credere (3,15.16), venire alla luce (3,20), fare la verità (3,21).
Solo attraverso questo credere noi possiamo raggiungere il segreto custodito nello spettacolo dell’Innalzato e Trafitto e comprendere il tanto amore di Dio per il mondo.
Veramente, pos-siamo allora dire, credere non è questione di adeguare l’agire di Dio alla nostra ragione ma guardare come Dio agisce nella nostra vita, nella storia, verso l’umanità.
Credere è conse-gnarsi, attraverso questo sguardo pieno di fiducia e di speranza, all’agire di Dio, a ciò che lui può fare per noi.
E proprio in Gesù ci è rivelato pienamente, senza ombra alcuna, ciò che Dio sente e vuole per noi.
Il miracolo sempre rinnovato Dio non morirà il giorno in cui non crederemo più in una divinità personale, ma sare-mo noi a morire il giorno in cui la nostra vita non sarà più pervasa dallo splendore del mi-racolo sempre rinnovato, le cui fonti sono oltre ogni ragione.
(D.
Hammarskjold) Un ragazzo miope Un tempo conoscevo un giovanotto che soffriva di una miopia grave sin dalla nascita e che, per questo motivo, riusciva a vedere solo gli oggetti a poche decine di centimetri da lui.
Quando gli insegnanti delle scuole che, via via, frequentava avvisavano i genitori, que-sti ragionavano che alla sua età loro non avevano avuto bisogno degli occhiali e che, quin-di, non ne avrebbe avuto bisogno nemmeno lui.
Così, il ragazzo era cresciuto nell’unico mondo che la sua vista ridotta gli permetteva di vedere, giungendo al punto di spiegarsi tale mondo nei termini che gli consentiva la miopia.
Ad esempio, perché gli insegnanti a scuola scrivono sulla lavagna? Non certo per gli allievi, dato che questi non riescono a leg-gere fino alla lavagna, bensì come appunti personali, come traccia da seguire durante le le-zioni.
E perché in città i cartelli con i nomi delle vie vengono affissi sulle case e sui lampio-ni così in alto che è impossibile leggerli? Perché lassù i guidatori degli autobus, dalla loro elevata posizione di guida, riescono a leggerli per i passeggeri che glielo chiedono.
Un giorno questo ragazzo, ormai diciottenne, si recò da un oculista.
Il medico lo fece sedere e gli fece provare diverse lenti correttive.
Trovate quelle più adatte, invitò il giova-ne a guardare fuori dalla finestra.
«Accidenti!», esclamò il ragazzo restando senza fiato: per la prima volta riusciva a vedere il cielo azzurro con degli sbuffi di nuvole bianche; ve-deva finalmente i volti sorridenti delle persone, i pannelli pubblicitari e i cartelli stradali.
Qualche tempo dopo, il giovane mi confidò: «Fu la seconda esperienza più bella della mia vita».
Naturalmente gli chiesi quale fosse la prima, e la sua risposta fu: «Il giorno in cui i-niziai a credere in Gesù.
Quando finalmente lo presi sul serio e vidi che Dio era veramente mio Padre, quando vidi che questo è veramente il bel mondo di Dio, quando vidi me stes-so come un figlio del cuore di Dio e quando sentii il calore del suo amore, quando vidi gli altri come miei fratelli e sorelle nella famiglia umana di nostro Padre.
Questa fu una gran-de svolta, l’esperienza più radicale e più bella di tutta la mia vita.
Fu come l’inizio di una vita nuova.
So che cosa intende san Paolo quando dice che la fede fa di noi una creatura nuova».
(J.
POWELL, Perché ho paura di essere pienamente me stesso, Milano, Gribaudi, 2002, 48-49).
Ciò che fa la differenza Mi chiedo unicamente se il Cristo buono ed evangelico ai cristiani basta.
E se gli basta c’è ancora bisogno di fede o non v’è più nulla da credere? Se vi è qualcosa da credere ri-tengo, però, non sia di molto diverso da quanto i cristiani hanno da sempre annunciato e quindi che il risorto vive, siede alla destra del Padre, tornerà nella gloria a giudicare i vivi e i morti e il suo regno non avrà mai fine.
Questo chi non crede, ma conosce il cristianesi-mo, lo sa molto bene poiché proprio in questo non crede ed è questo che fa la differenza.
Sul resto bene o male ci si accorda.
(Salvatore Natoli, Il cristianesimo di un non credente).
Credo Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero che non mi seduce con un miracolo e che non mi opprime con la sua autorità.
Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male, che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi lo segue.
Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette a posto le cose dall’alto, che non esercita la giustizia degli uomini.
Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio no risponde con un bacio silenzioso, credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e fa quello che voglio io, un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.
Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole indifeso perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.
Credo in un Dio che gioca a nascondino perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo, credo in un Dio che mi si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.
Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.
(Ester Battista).
Mi chiamate Redentore Mi chiamate Redentore e non vi fate redimere.
Mi chiamate Luce e non mi vedete.
Mi chiamate Via e non mi seguite.
Mi chiamate Vita e non mi desiderate.
Mi chiamate Maestro e non mi credete.
Mi chiamate Sapienza e non m’interrogate.
Mi chiamate Signore e non mi servite.
Mi chiamate Onnipotente e non vi fidate di me.
Se un giorno non vi riconosco non vi meravigliate.
(Iscrizione nel duomo di Lubecca).
II dubbio, la verità e Cristo Sono un figlio del secolo, un figlio della mancanza di fede e del dubbio quotidiano e lo sono fino al midollo.
Quanti crudeli tormenti mi è costato e mi costa tuttora quel desiderio della fede che nell’anima mi è tanto più forte quanto sono presenti in me motivazioni con-trarie! Tuttavia Dio talvolta mi manda momenti nei quali mi sento assolutamente in pace.
In tali momenti, io ho dato forma in me ad un simbolo di fede nel quale tutto è per me chiaro e santo.
Questo simbolo è molto semplice, eccolo: credere che non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più ragionevole, di più coraggioso e di più perfetto di Cristo e con fervido amore ripetermi che non solo non c’è, ma non può esserci.
Di più: se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità, mi dimostrasse che veramente la verità non è in Cristo, beh, io preferirei lo stesso restare con Cristo piuttosto che con la verità.
(F.
Dostoevskij).
Il lungo cammino verso casa «Una delle più grandi provocazioni della vita spirituale è ricevere il perdono di Dio.
C’è qualcosa in noi, esseri umani, che ci tiene tenacemente aggrappati ai nostri peccati e non ci permette di lasciare che Dio cancelli il nostro passato e ci offra un inizio completa-mente nuovo.
Qualche volta sembra persino che io voglia dimostrare a Dio che le mie te-nebre sono troppo grandi per essere dissolte.
Mentre Dio vuole restituirmi la piena dignità della condizione di figlio, continuo a insistere che mi sistemerò come garzone.
Ma voglio davvero essere restituito alla piena responsabilità di figlio? Voglio davvero essere total-mente perdonato in modo che sia possibile una vita del tutto nuova? Ho fiducia in me stesso e in una redenzione così radicale? Voglio rompere con la mia ribellione profonda-mente radicata contro Dio e arrendermi in modo così assoluto al suo amore da far emerge-re una persona nuova? Ricevere il perdono esige la volontà totale di lasciare che Dio sia Dio e compia ogni risanamento, reintegrazione e rinnovamento.
Fin quando voglio fare anche soltanto una parte di tutto questo da solo, mi accontento di soluzioni parziali, come quella di diventare un garzone.
Come garzone posso ancora mantenere le distanze, ribel-larmi, rifiutare, scioperare, scappare via o lamentarmi della paga.
Come figlio prediletto devo rivendicare la mia piena dignità e cominciare a prepararmi a diventare io stesso il padre».
(H.J.M.
NOUWEN, L’abbraccio benedicente, Brescia, Queriniana, 2004, 78-79).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ric-chezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indiffe-renza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello).
Federica
Il rettore Guido Trombetti parla di “rivoluzione nel panorama didattico italiano”.
Renato Mannheimer, presidente dell’Istituto per gli studi sulla pubblica opinione, preferisce definirla “liberazione della conoscenza”.
È “Federica”, il portale di web learning dell’università Federico II di Napoli.
Che dopo un anno di sperimentazione è stato presentato a Napoli dall’esperto di sondaggi e dai professori responsabili di “Federica”, Giuseppe Marrucci, presidente del Centro di ateneo per i servizi informativi, e Mauro Calise, responsabile scientifico dell’e-learning d’ateneo.
Un portale il cui accesso è libero e gratuito per tutti.
Lezioni on line, firmate dai docenti di tutte e tredici le facoltà della Federico II.
“La nostra mission di università pubblica – spiega il rettore Guido Trombetti – ci ha guidati nel rimuovere qualsiasi password e limitazione all’accesso al sapere.
Tutti possono accedere liberamente ai contenuti didattici e scientifici di Federica.unina.it per studiare, per approfondire le proprie conoscenze o temi di interesse professionale”.
Il progetto “Federica” (il femminile del nome dell’ateneo) conta, tra l’altro, oltre 100 corsi, con tanto di sintesi delle lezioni, materiali per l’approfondimento, link a fonti scientifiche selezionate dai docenti, immagini e video.
Tutto scaricabile su iPod: l’offerta di “Federica” è disponibile, infatti, anche in podcast, dunque fruibile attraverso i lettori multimediali di ultima generazione, “per portare con sé i materiali di studio – spiegano i responsabili – consultare e leggere le lezioni in qualunque momento e luogo”.
“Con la diffusione delle nuove tecnologie il tempo è più mio – ha commentato Mannheimer – Posso decidere io quando vedere, mostrare, ascoltare.
Posso “usufruire” del professore e delle lezioni dove voglio io.
L’ elemento fondamentale è quello della mia libertà.
I giovani, e tutti gli utenti della rete, possono decidere quando e dove usufruire delle lezioni e di fonti autorevoli ed affidabili.
È la liberazione della conoscenza scientifica”.
I numeri di “Federica” valgono, da soli, a raccontare l’intento di rivoluzionare il panorama didattico di casa nostra: 2.000 lezioni, 20.000 immagini, 3.000 links, 1.600 documenti, 300 video, 600 podcast.
Poi la Living Library, con 600 siti web selezionati tra le più accreditate fonti di conoscenza da un’équipe di esperti multidisciplinare e Federica 3D, ovvero la ricostruzione virtuale dell’ateneo con tutte le facoltà riunite in un’unica piazza.
“Federica” – aggiungono gli organizzatori dell’impresa – viene incontro alle diverse domande del pubblico studentesco: dai non frequentanti, che hanno così a disposizione gli elementi base di ogni lezione, a coloro che, dopo aver seguito il corso in aula, vogliono ripassarlo a casa o in treno; ai molti studenti che cercano di andare oltre la lezione approfondendone i temi grazie alle risorse web selezionate dai docenti.
“Federica” si rivolge anche alla vasta platea di coloro che, senza essere iscritti, vogliono cogliere l’ opportunità di seguire a distanza un corso universitario offerto da uno dei più prestigiosi atenei italiani”.
(13 marzo 2009)
Il segreto del tempio di Raffaello
In occasione del bicentenario della Pinacoteca di Brera il 19 marzo viene presentato il restauro dello Sposalizio della Vergine di Raffaello.
Sulla storia e le caratteristiche del dipinto pubblichiamo stralci di un testo scritto nel 1992 da uno degli autori del catalogo (edizioni Electa) che illustra l’intervento di recupero del capolavoro dell’urbinate.
Brera rappresenta con punte assai alte la cultura di quella Urbino che nel 1504 Raffaello lasciava preceduto da una lettera di Giovanna Feltria della Rovere a Pier Soderini, gonfaloniere di Firenze.
Urbino era stata il grande laboratorio di sperimentazione e ricerca che riuniva pittura e architettura.
Nella pala dello Sposalizio, non solo il tempio s’impone per la sua superba invenzione architettonica, ma irradia un’energia che costringe tutti i volumi – persone singole o gruppi – a disporsi in uno spazio razionale.
E ci rendiamo conto di come il colore squillante dell’edificio, quasi evocazione d’un fondo oro, che il restauro ha ora messo in piena luce, non abbia meno potenza della sapientissima costruzione prospettica.
Non ci si stancherà mai di confrontare il dipinto di Brera con il suo modello, ovvero con la pala del Perugino dello stesso tema, già a Perugia e trasferita, col déplacement napoleonico, a Caen.
Sembra anzi che una distanza di decenni separi le due opere, mentre, sappiamo, il Perugino non aveva ancora terminato la sua nel dicembre del 1503.
È allora impressionante la rivoluzione che compie Raffaello rispetto allo sfondo architettonico, già di per sé innovativo, immaginato dal Perugino.
Il fatto è che nel dipinto di Brera il tempio non è più fondale, ma volume collocato nello stesso spazio dei protagonisti.
Tanto che solo a un’attenta osservazione ci accorgiamo che le lastre che pavimentano la piazza non partono a raggiera dai gradini del tempio, ma corrono parallele in prospettiva.
Raffaello non è intervenuto soltanto sulla disposizione delle figure rispetto ad uno spazio architettonicamente definito; ha insistito sull’avvenimento, e ce ne ha fatti testimoni.
È emozionante osservare come, dall’esempio ancora non compiuto, il giovane maestro estragga figure che vi apparivano secondarie, portandole alla ribalta e traendone una forza plastica impensata.
Si veda la figura del pretendente deluso che spezza la verga, dal Perugino posta verso il fondo e distante dal centro della storia e inspiegabilmente accompagnata da un personaggio seminudo – reminiscenza, forse, di altre composizioni classicheggianti dello stesso Perugino.
Raffaello porta il pretendente in primo piano, gli dà il rilievo e il peso d’una scultura e fa sì che la sua ombra sia proiettata in diagonale sino a fondersi con le ombre di Giuseppe e del sacerdote.
Cogliamo qui la sicurezza con cui Raffaello punta dritto al nucleo narrativo della storia.
Poiché ora davvero nulla può distrarci dal raccoglimento di quella dextrarum junctio.
Raffaello lo portò dunque in primo piano e lo ritrasse speculare rispetto al modello.
Se era il modello…
Infatti è dimostrato come in quegli anni vi fosse uno scambio di cartoni tra il Perugino e Raffaello e dunque non è affatto improbabile che la figuretta dipinta dal Perugino non sia che la versione ridotta, la flebile eco, di una figura molto più elaborata e forte di Raffaello.
Konrad Oberhuber ha giustamente scritto di “limpidezza statuaria delle figure” nello Sposalizio di Brera.
E notiamo anche, nel volto del giovane, una concentrazione che ci rammenta una delle creazioni più famose dell’antichità, lo Spinario trasferito dal Laterano in Campidoglio.
L’aveva già visto, Raffaello? È la stessa domanda che ci si pone per il destriero posto lontano, oltre il tempio, sulla sinistra della pala di Brera – cui il restauro dà ora la giusta evidenza -, o per la comparsa della torre delle Milizie sullo sfondo della piccola tavola con san Giorgio che Raffaello dipinse poco dopo il 1504, in occasione della nomina di Guidubaldo di Montefeltro a cavaliere dell’Ordine della giarrettiera.
Gli argomenti addotti da John Shearman provano, al di là di ogni possibile dubbio, il passaggio di Raffaello a Roma intorno al 1502-1503, all’epoca della sua collaborazione con Pinturicchio per gli affreschi nella biblioteca Piccolomini a Siena.
Sicuramente Raffaello visitava Roma con ricordi precisi di quanto aveva appreso a Urbino, specie da Francesco di Giorgio.
Il tempio a pianta centrale dello Sposalizio è infatti in debito con le invenzioni di Francesco di Giorgio.
Ma a Roma incontrava un altro urbinate, un concittadino con una lunga esperienza lombarda, Bramante.
Le volute che ingentiliscono i contrafforti del tempio riprendono le ricerche di Bramante sul duomo di Pavia e forse sono in debito con altri incontri con architetti di tradizione bramantesca, che poterono avvenire nella stessa Città di Castello.
Ma è comunque sia inevitabile pensare a un incontro di grande significato nello studio di Bramante a Roma.
E forse il colloquio con Bramante avrà persuaso Raffaello a costruire un modellino tridimensionale del tempio.
Se è impensabile, il tempio, senza un previo studio in pianta, così certamente senza un modello tridimensionale Raffaello non avrebbe studiare il gioco delle volte nel portico, né quello delle luci sui ricci dei contrafforti.
Sulla sinistra la luce li colpisce con tale forza da farli apparire di metallo battuto, mentre man mano che si procede verso sinistra si smorza, attraversa una zona intermedia di oro caldo per finire dove i ricci si profilano scuri, plumbei, sul cielo vespertino.
Mettere per prima cosa un volume in pianta era un’operazione ben nota a Raffaello, poiché l’aveva raccomandata Piero della Francesca nel trattato sulla prospettiva conservato nella biblioteca ducale.
E come per Piero, così per lui un’architettura dipinta doveva essere chiara e logica, funzionale e pratica.
John Shearman si pose il problema delle funzioni assegnate da Raffaello alla terrazza dell’edificio posto sullo sfondo dell’Incoronazione di Enea Silvio a poeta laureato negli affreschi della biblioteca di Siena: to smelling flowers, to drying the washing, and to beating a wife.
Anche nello Sposalizio, le azioni sono consentanee all’architettura.
Mentre il Perugino lasciava un piccolo mendicante sui gradini del tempio in rassegnata sfiducia, il mendicante di Raffaello è attivo, ha sceso le scale e si è avvicinato a un gruppo di gentiluomini.
Intanto sotto il portico sostano in tutto tre persone: due in conversazione e una che sembra accertarsi della solidità di una colonna.
L’idea di un tempio a pianta centrale, intorno a cui aveva lavorato Francesco di Giorgio, era maturata alla corte di Urbino, dove Federico di Montefeltro voleva erigere per sé un mausoleo nel cortile di Pasquino.
Nei riflessi sulla corazza di Federico, nella pala oggi a Brera, si può osservare come Piero avesse previsto quale sarebbe stato il gioco delle luci all’interno del tempietto, se questo fosse stato edificato.
Raffaello, come scrisse bene Pierluigi De Vecchi, al momento del congedo da Urbino riandava alle proprie origini.
Ma senza superbia, come accertano proprio le riflettografie.
Poiché oggi che sappiamo che il committente dello Sposalizio fu Ser Filippo di Ludovico Albizzini, sappiamo anche che la cappella Albizzini in San Francesco era dedicata a san Giuseppe e al Santo Nome di Gesù.
E allora, non a caso le riflettografie eseguite per la Soprintendenza mettono in luce i ripensamenti di Raffaello proprio sul volto di san Giuseppe.
La collocazione della cappella Albizzini nella chiesa di San Francesco appare significativa anche per l’inversione, che compie Raffaello rispetto al Perugino, delle rispettive posizioni dei due gruppi degli uomini e delle donne.
Poiché la separazione dei due sessi ha una motivazione liturgica, come già si era osservato nella presentazione del 1983, dato che il dipinto del Perugino si trovava in una cappella addossata alla facciata nel duomo di Perugia, nella navata destra, mentre la pala di Raffaello era collocata in una cappella che si affacciava sull’unica navata di San Francesco a Città di Castello.
La cappella di Perugia ospitava la reliquia dell’anello del matrimonio di Maria.
Le fedeli che entravano nella cappella, da destra, per adorare l’importante reliquia, sembravano accodarsi al gruppo delle testimoni delle nozze.
Del tutto diversa era la situazione per la pala di Città di Castello.
Come era d’uso nelle chiese francescane, i due sessi erano distribuiti nell’unica navata, ponendo gli uomini più vicini al coro dei frati e le donne più vicine all’entrata.
Di conseguenza, chi osservava il dipinto di Raffaello, trovando gli uomini a destra, li considerava dalla parte del coro.
In tutti e due i casi i pittori erano stati ben consapevoli del rapporto che le due pale avrebbero istituito con lo spazio liturgico cui erano destinate.
(©L’Osservatore Romano – 19 marzo 2009)