Il credente non ha gli occhi bendati.
I suoi sono solo occhi più penetranti, profondi.
Il cumulo delle cose che vede, dei gesti, delle vicende sono un groviglio che va dipanato.
Alcune tracce si intravedono e si possono perseguire.
E lui le persegue con tenacia.
Portano ad una conclusione: il mondo che fermenta dentro di me, che si muove attorno a me, la ridda concitata degli avvenimenti che segnano la storia è indecifrabile.
Ma c’è; e offre straordinari richiami di umana dignità, di superba razionalità, di cui il caos o il caso non sono spiegazione.
La tradizione occidentale vi ha presagito e argomentato il riferimento a Dio, vi ha percepito un’eco persuasiva; vi ha scorto tracce profonde e visibili della sua presenza, che pure resta avvolta di mistero.
Ha legittimato la fede in lui e la vive nella trepidazione.
Sa che Dio non intende uscire allo scoperto perché gli si battano le mani, e tuttavia non cessa di bussare con tocco leggero al cuore di ciascuno; non scende a patti con nessuno, e tuttavia parla con voce persuasiva a chi sta in ascolto, veglia in attesa, attende con amore.
La fiducia ha una gamma vasta di gradualità.
La fiducia religiosa può pervenire al vertice; si porta dal fidarsi di, dal credere a …
al credere in…
rilevato già nell’analisi di Agostino.
Un rapido confronto fra la figura di Pietro e di Giuda può illuminare aspetti apparentemente sottili; in realtà profondi e decisivi.
Giuda è colui che crede a…
perde la fede, tradisce.
Come interpretarlo? coltivava un’utopia; contava sul ‘regno di Israele’ e vedeva in Gesù il banditore dal fascino singolare e appassionante.
Gesù che instaura il Regno, interpreta la sua utopia.
Giuda crede in se stesso; Gesù è l’occasione per dare realizzazione al proprio sogno.
Pietro è colui che crede in…
Anche Pietro tradisce, ma non perde la sua fede in Gesù Forse pure Pietro e gli altri hanno seguito Gesù perché rispondeva ad una loro segreta aspirazione, come banditore del Regno, di una causa che li appassionava.
Ma progressivamente sono passati dalla passione per la causa che egli impersonava all’amore per lui.
Perciò il caso di Pietro è diverso: tradisce – rinnega, ma crede in Gesù.
Sa che potrà ricuperarlo, accoglierlo , perdonarlo.
Ha capito chi era – “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!” (Matteo 16, 16) Nella passione e nel rinnegamento non ha perduta un’utopia: ha perduto Lui, il Maestro.
Però non ha cessato di amarlo, di sentire che la sua vita era centrata su di lui.
Non anela che a ritrovarlo; a sentirsi perdonato; a mostragli che un momento di debolezza non aveva scosso la fiducia; che la sua dichiarazione di amore era vera: darei la mia vita per Te…
Pietro a differenza di Giuda è passato da una fede data a Gesù per una speranza ambita, ad una fede in Gesù come colui di cui fidarsi, anzi a cui affidarsi, fino all’abbandono e alla dedizione incondizionata! Resta una fiducia esemplare; esposta alla provocazione e al tradimento, mai dimentica di un’incontro che ha cambiato la vita, l’ha affidata all’unico in grado di accoglierla e di celebrarla.
Allora le due figure si differenziano.
Pietro crede in Gesù oltre la proposta di Gesù.
L’esito della proposta lo sconcerta, la figura di Gesù lo appassiona: quella passione lo salva.
Giuda crede a Gesù ma resta attaccato alla propria ambizione, segue Gesù per realizzarla, lo abbandona quando si ritrova deluso, forse ‘tradito’.
Non ama Gesù, ama se stesso.
L’esito della straordinaria avventura nell’abbandono e nella passione segna il fallimento della sua utopia, rende ragione dei gesti che spiegano la sua rovina.
Qual è allora il salto, il rischio della fede? La prova di cui la fede si avvale risulta in definiva poca cosa: riguarda fatti e situazioni, segni talora evidenti, magari riconosciuti: anche i rappresentanti del Sinedrio ammettono: “un miracolo evidente, non possiamo negarlo…”( Atti 4) e tuttavia la constatazione non li porta alla fede in Gesù.
La fede si gioca sulla fiducia, che interpreta i fatti e la stessa proposta, li oltrepassa per attingere la persona e decidere l’adesione, l’amore, l’abbandono.
La fede non si gioca sull’efficienza, si gioca sull’adesione: solo quando questa diventa piena e totalizzante realizza le condizioni che la possono spiegare; dà la misura della gratuità insita nella risposta.
II credere raccoglie dunque in un singolare evento l’iniziativa gratuita di Dio, la risposta gratuita dell’uomo.
Interpreta la verità e la vocazione dell’uomo: è invocazione.
Da: TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009, pp.
53-55.
Un rapido confronto fra la figura di Pietro e di Giuda può illuminare aspetti apparentemente sottili; in realtà profondi e decisivi.
Giuda è colui che crede a…
perde la fede, tradisce.
Come interpretarlo? coltivava un’utopia; contava sul ‘regno di Israele’ e vedeva in Gesù il banditore dal fascino singolare e appassionante.
Gesù che instaura il Regno, interpreta la sua utopia.
Giuda crede in se stesso; Gesù è l’occasione per dare realizzazione al proprio sogno.
Pietro è colui che crede in…
Anche Pietro tradisce, ma non perde la sua fede in Gesù Forse pure Pietro e gli altri hanno seguito Gesù perché rispondeva ad una loro segreta aspirazione, come banditore del Regno, di una causa che li appassionava.
Ma progressivamente sono passati dalla passione per la causa che egli impersonava all’amore per lui.
Perciò il caso di Pietro è diverso: tradisce – rinnega, ma crede in Gesù.
Sa che potrà ricuperarlo, accoglierlo , perdonarlo.
Ha capito chi era – “Tu sei il Cristo, il figlio del Dio vivente!” (Matteo 16, 16) Nella passione e nel rinnegamento non ha perduta un’utopia: ha perduto Lui, il Maestro.
Però non ha cessato di amarlo, di sentire che la sua vita era centrata su di lui.
Non anela che a ritrovarlo; a sentirsi perdonato; a mostragli che un momento di debolezza non aveva scosso la fiducia; che la sua dichiarazione di amore era vera: darei la mia vita per Te…
Pietro a differenza di Giuda è passato da una fede data a Gesù per una speranza ambita, ad una fede in Gesù come colui di cui fidarsi, anzi a cui affidarsi, fino all’abbandono e alla dedizione incondizionata! Resta una fiducia esemplare; esposta alla provocazione e al tradimento, mai dimentica di un’incontro che ha cambiato la vita, l’ha affidata all’unico in grado di accoglierla e di celebrarla.
Allora le due figure si differenziano.
Pietro crede in Gesù oltre la proposta di Gesù.
L’esito della proposta lo sconcerta, la figura di Gesù lo appassiona: quella passione lo salva.
Giuda crede a Gesù ma resta attaccato alla propria ambizione, segue Gesù per realizzarla, lo abbandona quando si ritrova deluso, forse ‘tradito’.
Non ama Gesù, ama se stesso.
L’esito della straordinaria avventura nell’abbandono e nella passione segna il fallimento della sua utopia, rende ragione dei gesti che spiegano la sua rovina.
Qual è allora il salto, il rischio della fede? La prova di cui la fede si avvale risulta in definiva poca cosa: riguarda fatti e situazioni, segni talora evidenti, magari riconosciuti: anche i rappresentanti del Sinedrio ammettono: “un miracolo evidente, non possiamo negarlo…”( Atti 4) e tuttavia la constatazione non li porta alla fede in Gesù.
La fede si gioca sulla fiducia, che interpreta i fatti e la stessa proposta, li oltrepassa per attingere la persona e decidere l’adesione, l’amore, l’abbandono.
La fede non si gioca sull’efficienza, si gioca sull’adesione: solo quando questa diventa piena e totalizzante realizza le condizioni che la possono spiegare; dà la misura della gratuità insita nella risposta.
II credere raccoglie dunque in un singolare evento l’iniziativa gratuita di Dio, la risposta gratuita dell’uomo.
Interpreta la verità e la vocazione dell’uomo: è invocazione.
Da: TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009, pp.
53-55.
La Pasqua è occasione propizia per rivisitare anche l’atteggiamento di alcuni protagonisti.
Offrono l’occasione di riflettere su una fondamentale esperienza di fede che ha accompagnato la vicenda unica di Gesù.
Credere è fidarsi…
Alla cieca? Da un certo punto di vista, sì, alla cieca! Questo significa fidarsi.
È il dono incomparabile dell’amicizia.
So che mi posso fidare, ed è naturale che mi fidi.
Ma la fiducia non è infondata; ha percorso una lunga strada, spesso accidentata; è approdata ad una considerazione conclusiva: mi posso fidare, mi fido! Dunque alla cieca relativamente, sulla base di una lunga e assodata esperienza…
La secolarità nell’orizzonte della creazione
TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Elledici 2009.
Presentazione L’attenzione alla secolarità ha avuto un momento felice nel recente passato; ora sembra attenuarsi.
Le considerazioni che proponiamo vogliono offrire uno stimolo a ridare risonanza ad una situazione secolare che è la nostra.
Nella prima parte si propongono in un seguito di riflessioni appena organizzate, quasi un itinerario.
Tuttavia non un itinerario già fatto, ma tracce perché ciascuno se lo inventi.
Raccolgono momenti anche occasionali di riflessione, offerti dalle situazioni del vivere quotidiano.
La vita è carica di richiami che la sfiorano appena: perché non fissarli di tanto in tanto, sostarvi con attenzione e lasciarli parlare?…
Possono costituire una breve sospensione all’urgenza delle cose da fare.
C’è qualcosa di più urgente e magari appassionante dell’esplorazione di quello che siamo e più ancora di quello che vogliamo essere? Rappresentano uno spazio e un tempo sottratti al fare, dedicati all’essere per accorgerci che siamo imbarcati, per identificare il porto, per verificare se Qualcuno ci attende all’approdo, per preparare l’incontro.
La seconda parte, più teoretica, sulla creazione è offerta a conferma indispensabile per dare credibilità ad uno stile sereno di abitare il mondo, che Dio ha escogitato ed ha offerto alla nostra fatica, ma anche alla nostra contemplazione.
Collana: Spiritualità secolare – Pasqua 2009 La secolarità nell’orizzonte della creazione (Una pausa di contemplazione nel ritmo della quotidianità) Presentazione Introduzione Parte Prima: Suggestioni dall’esperienza quotidiana 1.
Passaggio all’interiorità 2.
Inquietudine 3.
Il volto 4.
Invocazione 5.
La Secolarità 6.
L’orizzonte della responsabilità.
7.
Quale approdo? Parte seconda: Suggestioni dalla ricerca teologico-biblica 8.
In principio Dio creò 9.
Bibliografia di riferimento Indice
Accompagnamento
1.
Il concetto esprime la natura relazionale dell’essere umano, e più in particolare la qualità del vincolo che lega tra loro le persone, l’una responsabile e capace di prendersi cura dell’altra, ma pure bisognosa del suo aiuto e della sua presenza.
Al tempo stesso questo concetto rimanda all’idea classica della vita come viaggio e della relazione umana come com-pagnia tra pellegrini che condividono tra loro le fatiche e il «pane del viaggio».
Infine, la prassi dell’a.
ritrova i suoi parametri interpretativi nelle teorie psicopedagogiche che privilegiano l’approccio non direttivo nella relazione di aiuto.
2.
Il termine è usato nella pedagogia moderna per sottolineare esigenze e caratteristiche della relazione educativa, oltre quanto una tradizione antica (la pedagogia cristiana) e una più recente (la moderna scienza psicologica) già hanno detto sull’argomento.
La teoria dell’a., inoltre, amplia e specifica il senso sia della direzione spirituale che della terapia psicologica: a) da un lato l’a.
indica le varie forme di aiuto attraverso le quali la persona è aiutata a crescere non solo sul piano spirituale o clinico-mentale, ma anche su quello più globalmente e integralmente umano; con un intervento non esclusivamente sul singolo, ma anche sul gruppo e attraverso il gruppo; non legato a un’unica modalità operativa, ma a diverse possibilità di cammini di crescita; rivolti a qualsiasi persona, non solo a chi si trova in una particolare situazione di necessità spirituale o di disordine di personalità; b) d’altro lato elemento centrale-peculiare dell’a.
non è tanto la «direzione» da imprimere alla vita dell’altro, o l’«analisi» del suo inconscio, quanto la «compagnia», o quella vicinanza intelligente e significativa che porta a un certo coinvolgimento da parte della guida, alla condivisione di ciò che è vitale ed essenziale («il pane del cammino»), alla confessione della fede e della propria esperienza di Dio, nel caso del credente.
3.
Si tratta allora d’accompagnare l’altro verso un duplice obiettivo: verso la conoscenza dell’io, anzitutto, della sua realtà interiore, passata e presente, attuale e ideale, positiva e negativa, conscia e inconscia, verso la radice di desideri e motivazioni.
Ma è necessario pure accompagnarlo verso la realizzazione dell’io, in un processo d’apertura nei confronti dell’altro e dell’Altro, del presente e del futuro, nella tensione salutare verso il massimo delle proprie potenzialità e nell’assunzione piena della propria libertà e responsabilità.
L’a.
è dunque un aiuto necessario per la crescita e la maturazione di chiunque; ma vi sono particolari momenti della vita in cui tale servizio è indispensabile: nel periodo dell’adolescenza e della giovinezza e in genere nella formazione iniziale, prima di discernimenti importanti, in situazioni specifiche della vita (momenti di crisi, di sofferenza, di cambiamenti imprevisti, di richieste nuove…), e come strumento di formazione permanente.
Particolarmente importante è stato da sempre considerato l’a.
nella pastorale giovanile e vocazionale, oltreché nella formazione iniziale e permanente delle vocazioni di speciale consacrazione.
A.
Cencini L’accompagnamento (dal lat.
medievale, ove com-panio è «colui che ha il pane in comune» [Devoto-Oli, 1988, 679]), in generale, è un aiuto temporaneo e sistematico che un adulto nell’esperienza e maturità dell’esistenza dà a un minore, condividendo con lui un tratto di strada e di vita perché questi possa meglio conoscersi e decidere di sé e del suo futuro in libertà e responsabilità.
Bibliografia Cencini A., Direzione spirituale e accompagnamento vocazionale, Milano, Ancora, 1996; Baldissera D.
P., Acompanhamento personalizado.
Guia para formadores, S.
Paulo, Paulinas, 2002; Facoltà Teologica dell’Emilia Romagna, A.
spirituale, affettività e sessualità, Bologna, EDB, 2004; Meloni E., Accompagnare la formazione.
Il sé, gli altri, l’Altro, Ibid., 2005; Goya B., L’aiuto fraterno.
La pratica della direzione spirituale, Ibid., 2006.
Secondo biennio – Aprile
VIII unità di apprendimento: ”La festa di Pasqua” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * I segni e i simboli del cristianesimo, anche nell’arte.
* Individuare significative espressioni d’arte cristiana, per rilevare come la fede è stata interpretata dagli artisti nel corso dei secoli.
OBIETTIVI FORMATIVI • Conoscere i luoghi dove si è svolta la Passione di Gesù • Comprendere che nel mondo sono presenti diverse espressioni culturali legate alla Pasqua Suggerimenti operativi • Iniziare con un brain storming sui luoghi dove Gesù è vissuto.
Partire da domande che sembrano banali “Dove è nato?”, “Dove è vissuto?” perché spesso i bambini stessi danno per scontato di conoscere queste informazioni, ma spesso non è così o c’è un po’ di confusione.
Fissare alcune notizie sul quaderno, in modo schematico.
• Assegnare a ogni bambino il compito di chiedere ai genitori un aiuto per ricercare, attraverso internet, informazioni e fotografie della Palestina di ieri e di oggi (Israele e i territori palestinesi).
• Organizzare il materiale ricercato in un cartellone da appendere in classe; mettere in evidenza soprattutto i luoghi della Passione, morte e risurrezione di Gesù.
Individuando quale episodio evangelico si è svolto in un determinato luogo.
• Preparare una scheda riassuntiva con alcune tradizioni pasquali diffuse nel mondo, a partire da quelle conosciute dai bambini, in particolare se in classe sono presenti alunni di altri paesi o confessioni cristiane.
Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
all’immagine, geografia, storia, ed.
alla convivenza, informatica.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
13: ogni bambino ha il diritto di imparare e di esprimersi per mezzo della scrittura e dell’arte.
Art.
14: ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione.
Primo biennio – Aprile
VIII unità di apprendimento: ”Pasqua ebraica e cristiana” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * La festa della Pasqua. * Rilevare la continuità e la novità della Pasqua cristiana rispetto alla Pasqua ebraica.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire la Pasqua di Gesù come il centro della fede cristiana • Conoscere le tradizioni della Pasqua ebraica • Individuare somiglianze e differenze fra la Pasqua ebraica e quella cristiana Suggerimenti operativi • Ripercorrere le vicende della storia di Mosè e sottolineare la “nascita” della Pasqua ebraica.
Leggere da una Bibbia per ragazzi il racconto dell’episodio della liberazione dall’Egitto.
• Partire dalle conoscenze pregresse dei bambini sulla festa di Pasqua.
Riconoscere nell’evento della Pasqua di Gesù il centro della fede cristiana, partendo da una discussione collettiva o attuando un brain-storming.
Al termine dell’attività fissare alcune idee sul quaderno.
• Dividere la classe in gruppi e affidare a ognuno la ricerca di somiglianze e differenze fra i racconti biblici ascoltati nelle lezioni precedenti.
Individuare la continuità tra la Pasqua ebraica e quella cristiana; sottolineare il significato di “Pesàh” = passaggio.
Raccogliere le idee emerse dai vari gruppi e fissarle in uno schema sul quaderno.
Raccordi con altre discipline Italiano, storia, ed.
all’immagine, ed.
alla convivenza.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
7: Ogni bambino ha diritto ad avere un’identità.
Art.
14: Ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Classe prima – Aprile
VIII unità di apprendimento: ”La festa di Pasqua” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * Gesù di Nazaret, l’Emmanuele “Dio con noi”. * Cogliere i segni cristiani della Pasqua.
OBIETTIVI FORMATIVI • Individuare i segni di vita nuova presenti nell’ambiente • Scoprire i segni della festa di Pasqua Suggerimenti operativi • Riflettere sui segni presenti nella natura che ci fanno capire il cambio di stagione: siamo in primavera! Dare spazio a ogni bambino per esprimersi e raccontare le proprie esperienze.
• Scrivere, con l’ausilio del computer, la parola primavera (con carattere grassetto in modo da poter colorare l’interno delle lettere).
Individuare, insieme ai bambini, i colori che si adattano meglio alla primavera e dare la consegna di utilizzare le tinte appena scelte per colorare la scritta.
Alla fine incollare la scritta sul quaderno e decorare la pagina con altri disegni primaverili.
• Scoprire che si sta avvicinando una festa molto importante per i cristiani e lasciare spazio ai bimbi per far emergere le loro conoscenze pregresse.
Sottolineare la differenza tra i segni cristiani e quelli solo materiali; vedere i collegamenti (ad esempio: dall’uovo segno di vita ed eternità, all’uovo di cioccolato con sorpresa).
• Riprendere il vero significato della Pasqua cristiana: la risurrezione.
Scrivere sul quaderno: “Il giorno di Pasqua i cristiani dicono con gioia: Gesù è risorto”.
Fornire a ogni bambino un’immagine del risorto (si trovano sui quaderni operativi o su molti siti internet di immagini religiose).
Raccordi con altre discipline Informatica, ed.
all’immagine, scienze, italiano.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
6: ogni bambino ha diritto di vivere.
Art.
14: ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
V Domenica di Quaresima
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Geremia 31,31-34 Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.
Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.
Oracolo del Signore.
Questa sarà l’alleanza che concluderò con la casa d’Israele dopo quei giorni – oracolo del Signore –: porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo.
Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato.
Gesù Cristo, l’abbiamo constatato, è ormai pronto a consegnarsi al disegno del Padre, perché, come aveva in precedenza detto: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (4,34).
Tutto ciò sfocia nell’atto della stipula di una nuova alleanza, di cui ai suoi tempi il profeta Geremia aveva avvertito la necessità: «Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore –, nei quali con la casa d’Israele e con la casa di Giuda concluderò un’alleanza nuova.
Non sarà come l’alleanza che ho concluso con i loro padri, quando li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto, alleanza che essi hanno infranto, benché io fossi loro Signore.
Oracolo del Signore» (31,31-32).
Infatti Geremia aveva preso coscienza di quanto fosse difficile per il suo popolo vivere da popolo di Dio, nella fedeltà e nel rispetto della legge.
D’altra parte, egli stesso era stato rifiutato in qualità di messaggero di Dio da coloro che avrebbero dovuto ascoltarlo.
Di che cosa allora si sente la necessità? Dio pensa a dare all’alleanza, atto con cui Egli si è «legato» e fatto «soggiogare» alla fedeltà nei confronti dei discendenti d’Abramo, una forza tale da renderla «più intima dell’intimo dell’uomo».
Si tratta di una legge di cui non ci si può accontentare di vedere scritta in codici cartacei o su tavole di pietra o altro materiale, quasi a essere rassicurati sulla sua perennità, bensì di una legge posta nel cuore stesso dell’uomo: «Porrò la mia legge dentro di loro, la scriverò sul loro cuore.
Allora io sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,33).
Il profeta di Anatot non conosce certamente lo Spirito Santo come noi dopo la rivelazione di Gesù Cristo, benché in quanto profeta ne abbia fatto un’esperienza eccezionale.
Eppure è lo Spirito che sarà chiamato «nuova legge» e lo stesso profeta veterotestamentario ne sente come il forte desiderio di attingere a questa maggiore luce.
In fondo, anch’egli, come i Greci del Vangelo, domanda più chiarezza e si rallegra nella speranza che un giorno il cuore di ogni uomo, finalmente risanato dal limite del peccato e purificato da tutte le angosce, possa riconoscere in Dio il salvatore e il liberatore senza problemi: «Non dovranno più istruirsi l’un l’altro, dicendo: «Conoscete il Signore», perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande – oracolo del Signore –, poiché io perdonerò la loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (31,34).
Seconda lettura: Ebrei 5,7-9 Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Il brano evangelico ci presenterà un Gesù perfettamente disposto all’obbedienza di fronte alla volontà salvifica del Padre suo e Padre nostro.
Su questo medesimo tenore si situa anche la breve pericope tratta dalla Lettera agli Ebrei.
L’autore della Lettera, infatti, non trascura di segnalare quella che è una delle componenti di ogni uomo; l’angoscia di doversi consegnare alla morte, perché da essa «nullo homo vivente può scappare», come dice Francesco d’Assisi.
Di tale angoscia fu partecipe anche Gesù e «nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7).
Questo senso di solidarietà è totale, perché ci viene prospettato in primo luogo un Gesù che prega e supplica il Padre durante la sua vita terrena, nella quale ha incontrato chissà quante volte il pallore della morte, lo squallore della miseria, la disperazione della malattia incurabile.
Inoltre, al suo supplicare egli aggiunse «grida e lacrime», in sequenza incessante, per rimarcare il grado dell’offerta della propria vita, in qualità di “sommo sacerdote” che s’immola a vantaggio dell’umanità.
E il Padre, che ha il potere di donare la vita e di riprenderla, esaudì il Figlio, in quanto gli era gradito tutto ciò che da Lui era compiuto.
Dunque, per questa sua relazione spirituale, Cristo è stato esaudito, come poi precisano i vv.
8 e 9: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono».
L’offerta di Cristo, in realtà costituisce un sacrificio efficace che il Padre ha gradito, poiché la sua volontà è stata rispettata: la stessa disponibilità dimostrata da Cristo gli ha consentito di intervenire trasformandone la vita (Gesù «reso perfetto») in opera di completa mediazione della salvezza divina per quanti, sul modello del Maestro, si faranno “obbedienti”.
Vangelo: Giovanni 12,20-33 In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci.
Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù».
Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù.
Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome».
Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!».
La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono.
Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato».
Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi.
Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori.
E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me».
Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Esegesi Prima di entrare nel vivo del brano, proviamo a tracciare, seguendo il racconto dell’evangelista Giovanni, le coordinate entro le quali s’inquadra il brano di questa domenica.
Nel primo versetto del capitolo 12 leggiamo: «Sei giorni prima della Pasqua, Gesù andò a Betania, dove si trovava Lazzaro, che egli aveva risuscitato dai morti».
Gesù, infatti, a quel che dice il quarto Vangelo, si recava spesso a Gerusalemme per pregare e insegnare nel Tempio, avendo «punto d’appoggio» la casa di Lazzaro, nel villaggio di Betania, distante un paio di chilometri dalla capitale.
Durante la cena che fu consumata a casa di Lazzaro, Maria, una delle sue sorelle, compì un gesto «profetico»: l’unzione dei piedi del Maestro.
La narrazione prosegue con la descrizione di un altro atto «profetico», che coinvolse parte della folla venuta per il pellegrinaggio pasquale: «Il giorno seguente, la gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva a Gerusalemme, prese dei rami di palme e uscì incontro a lui gridando: Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore, il re d’Israele!» (12,12-13).
In questo contesto avviene l’incontro tra Gesù e i Greci, i quali chiedono a Filippo di essere presentati al Maestro.
Il Vangelo, però, si nota subito, purtroppo non ci dice se il dialogo tra Gesù e coloro che hanno chiesto di vederlo si sia verificato, tuttavia ci riferisce le parole pronunciate da Lui appena Andrea e Filippo lo informano della richiesta espressa da questi Greci: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato.
In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.
Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.
Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore.
Se uno serve me, il Padre lo onorerà.
Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome» (12,23-28a).
Dal tenore di queste parole emerge un Gesù perfettamente cosciente non solo della morte imminente (i suoi avversari hanno tramato di ucciderlo dopo Pasqua, ma Gesù li «costringerà» ad anticipare), bensì anche del fatto che la morte non costituisce affatto una sconfitta.
Anzi, Gesù adopera termini che fanno presagire, da parte sua, l’ansia di portare a compimento quella missione, affidatagli dal Padre, di cui più volte ha parlato: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui» (3,16-17).
Che il Padre desideri salvare l’umanità attraverso suo Figlio Gesù è la «buona notizia» da annunciare, ossia la glorificazione da rendere manifesta mediante il mistero pasquale che Gesù è, in un certo qual senso, ansioso di adempiere, come dimostra l’espressione: «Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora!».
Perciò Egli, che è il Rivelatore, allude appena a una parabola, quella del chicco di grano caduto in terra: esso produce molto frutto qualora muoia.
Detto altrimenti, soltanto l’obbedienza alla volontà salvifica del Padre si rivela feconda di «risultati» positivi, che operano la trasformazione dal chicco singolo a una spiga carica di chicchi, risorgendo da quella stessa terra in cui è morto il chicco originario.
Ad accompagnare questa parabola c’è un detto che ne ricorda di analoghi presso i Sinottici.
Il senso non è difficile: di fronte a Gesù, che muore per poi risorgere, ciascun credente viene sollecitato a valutare la vita attuale in rapporto a quella eterna.
E perdere la vita significa mettersi al servizio di Gesù, per essere là dove Lui si trova, sulla croce come nella gloria, per godere della riconoscenza del Padre.
Alla fine delle parole di Gesù si sente una «voce dal cielo».
Non ci soffermiamo molto su questo, ricordando casi analoghi nella Bibbia (ad esempio in Es 19, At 2, Ap 5, i racconti del battesimo di Gesù e la trasfigurazione), in cui la voce divina, in relazione a teofanie, risulta indescrivibile e irriferibile per gli esseri umani.
Ma tale voce è proprio rivolta alla folla e non a Gesù.
È questo il motivo per cui Egli si preoccupa subito di «interpretarla»: Gesù sa già perché è venuto nel mondo, mentre chi lo circonda non si rende conto del valore e della sostanza della sua missione.
In realtà, il compimento del mistero pasquale si caratterizza per il giudizio che esprime sul principe di questo mondo, ossia su Satana e su tutto il complesso della sua negatività.
Dal desiderio espresso dai Greci di incontrarlo, dunque, emerge la prontezza di Gesù nel dichiararsi disponibile, nonostante la sofferenza che ne seguirà, a morire, perché quel desiderio è segno di un’umanità che ha sete della salvezza e della conoscenza della verità.
Meditazione «Vogliamo vedere Gesù!» (Gv 12,21).
La domanda rivolta a Filippo da alcuni greci simpatizzanti dell’ebraismo, venuti a Gerusalemme per la Pasqua, può realmente esprimere il desiderio profondo con cui i testi della Scrittura (e in particolare i brani del quarto evangelo) hanno ritmato il nostro percorso quaresimale.
Siamo stati guidati a una progressiva scoperta del volto di Gesù e man mano il nostro cammino di fede è stato purificato e reso autentico attraverso la comprensione profonda del segno per eccellenza: la Croce.
Il vedere esprime un’attesa che trova compimento in un incontro faccia a faccia da cui scaturisce, attraverso un dialogo, una conoscenza progressiva dell’altro.
Ma per l’evangelista Giovanni, vedere è anche il verbo che indica il cammino della fede: un andare oltre le apparenze per raggiungere il mistero che esse nascondono; vedere Gesù vuol dire conoscerlo e credere in lui.
Allora diventa significativo porre questa domanda proprio alla fine del cammino quaresimale.
Si sente in questa richiesta tutto il desiderio contenuto nell’annuncio della nuova alleanza del profeta Geremia: «tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande…
poiché io perdonerò le loro iniquità e non ricorderò più il loro peccato» (Ger 31,34).
Riconoscere il Dio dell’alleanza, quel Dio che perdona e dimentica il peccato, nel volto di Gesù: questa è la meta del cammino quaresimale.
Ma ancora una volta ritorna l’interrogativo: quale volto di Gesù? Potremmo rispondere con le parole della lettera agli Ebrei: il volto di colui che «pur essendo Figlio imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,8-9).
Alla contemplazione di questo volto ci apre proprio la risposta data da Gesù a quei greci e riportata in Gv 12,23-33.
In questo testo di Giovanni ritornano alcuni termini caratteristici utilizzati dal quarto vangelo per esprimere l’unico mistero di umiliazione e di gloria: l’ora (vv.
23.27-28), la glorificazione (vv.
23.28), l’essere innalzato (v.
31).
Essi orientano, in prospettiva chiaramente pasquale, il vedere Gesù e offrono un progressivo cammino di comprensione del mistero di Cristo.
E possiamo cogliere la rivelazione che Gesù fa di sé stesso e del suo destino in tre momenti.
Essi ci guidano alla comprensione di quella parola con cui Gesù inizia il suo discorso: «è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (12,23).
E il primo momento ci lascia disorientati.
La risposta di Gesù sembra a prima vista sconcertante; sembra ignorare la domanda.
Ma in realtà va al cuore di ciò che i greci chiedono a Gesù e, rivelando anche la strada per giungere a comprendere la sua realtà più profonda, indica l’unico cammino possibile per poterlo vedere: lo vedranno quando sarà innalzato.
E Gesù esprime questa via da percorrere anzitutto con una parabola in cui chiaramente è rivelato il paradosso di questo cammino: «se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,24).
Per vedere chi è Gesù, bisogna nascondersi come lui; scendere sotto terra e ripercorrere la parabola del chicco di grano, la parabola di una vita abbondante che passa attraverso la morte, attraverso il dono di sé (quel perdere per conservare in vista di una pienezza: cfr.
12,25).
Nella parabola del chicco la morte è la condizione perché si sprigioni tutta l’energia vitale che il seme contiene; la vita che è racchiusa nel piccolo chicco si manifesta così in una forma nuova.
E proprio l’abbondanza del frutto (produce molto frutto) diventa immagine della glorificazione, di una vita senza fine.
La seconda tappa di questa rivelazione del Volto è espressa da Giovanni attraverso la rilettura teologica di due esperienze di Gesù, narrate dai sinottici distintamente: il Getsèmani (12,27: «adesso l’anima mia è turbata…
Padre salvami da quest’ora?») e la Trasfigurazione (12,28: «venne allora una voce dal cielo: “L’ho glorificato e ancora lo glorificherò”»).
Queste due esperienze, all’apparenza paradossalmente opposte, sono la duplice rivelazione dell’unico volto di Cristo umiliato e glorioso, calato nell’esperienza delle tenebre dell’angoscia (l’umanità del Figlio dell’uomo) e inondato dalla luce divina (la gloria del Figlio di Dio).
Ma per Giovanni le due esperienze si sovrappongono: non c’è un prima e un dopo, ma l’Umiliato è il Glorioso.
Nel volto dell’uomo angosciato di fronte alla sua ora, traspare tutta la luce del Figlio prediletto perché obbediente, di colui che «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime a Dio…
e per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7).
In continuità con la voce del Padre che proclama la glorificazione del Figlio e in parallelo con la caduta del seme nella terra, si inserisce il terzo momento della rivelazione: «io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (12,32).
È la vittoria di Cristo che genera la salvezza «di tutti coloro che gli obbediscono» (Eb 5,9).
L’essere innalzato è il movimento dal basso verso l’alto: è appunto la Croce (12,33) che dà inizio a un movimento ascensionale che va oltre la Croce stessa e giunge fino al Padre (è il senso già presente in Gv 3,14).
In questo movimento verso l’alto, viene trascinata tutta l’umanità, tutti coloro che fissano lo sguardo sul trafitto.
Attirerò tutti a me: indica una comunione profonda di destino, un cammino verso il Padre che Gesù vuole fare con il discepolo, con ogni uomo, una condivisione di vita che passa oltre la morte.
È la riconciliazione, la salvezza piena, quella possibilità che l’uomo riacquista, in Cristo, di guardare verso Dio, non nella paura, ma nella libertà dei figli.
Quei greci volevano vedere Gesù.
Ecco loro indicato il cammino e lo sguardo.
Ora il vedere per credere deve trasformarsi in un conoscere che è comunione di vita e condivisione del cammino di Gesù: «se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore» (12,26).
Dov’è Gesù? È certamente presso il Padre, e questa è anche la meta del discepolo.
Ma Gesù è anche nascosto sotto terra, come chicco che muore per portare frutto: e questo è anche il luogo e il cammino del discepolo perché «chi ama la propria vita la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,25).
Quei greci rappresentano tutti quegli uomini e quelle donne che «crederanno senza aver veduto» (Gv 20,29) perché il loro vedere sarà un «volgere lo sguardo a colui che hanno trafitto».
E così nella domanda di questi greci si apre l’orizzonte del tempo della Chiesa, dove risuona senza sosta, sulle labbra di tanti uomini e donne, lo stesso desiderio: «Vogliamo vedere Gesù».
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
La potatura «D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ribellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persino il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino.
Eppure, anche in questa stagione morta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di potatura che richiede un affinato discernimento.
Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per avere il meglio possibile.
Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo arrossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro occhi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fecondo.
E lí, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio lí, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande.
Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della stagione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi parlando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).
Grande albero e piccolissimo grano «[Nella Chiesa esiste] La tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri.
E questo non è il metodo di Dio.
Per il regno di Dio vale sempre la parabola del grano di senape (cf.
Mc 4,31-32).
Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno.
Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell’impazienza di avere un albero più grande, più vitale.
Dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano».
(J.
RATZINGER, La nuova evangelizzazione in Divinarum Rerum Notitia.
Studi in onore del Card.
Walter Kasper, Roma, Studium, 2001, 506).
II seme delle domande Dio mio, sono venuto con il seme delle domande! Le seminai e non fiorirono.
Dio mio, sono arrivato con le corolle delle risposte, ma il vento non le sfoglia! Dio mio, sono Lazzaro! Piena d’aurora, la mia tomba dà al mio carro neri puledri.
Dio mio, resterò senza domanda e con risposta vedendo i rami muoversi! (F.
Garcia Lorca).
Il seme e il frutto Prendi un seme di girasole e piantalo nella terra nel grembo materno e aspetta devotamente: esso comincia a lottare, un piccolo stelo si drizza allo splendore del sole cresce, diventa grande e forte abbraccia con la corona verde delle sue foglie finché tutto intero splende al sole diventa gemma e fiorisce un fiore.
E nella fioritura, seme dopo seme, c’è, mille volte tanto, l’essenza futura.
E tu pianti nuovamente i mille semi, e sarà lo stesso spettacolo, la stessa parabola.
Affonda l’anima nelle mille fioriture dei mille e mille germogli abbracciando tutto, e poi guardando all’indietro guida verso casa i pensieri e pensa: tutto ciò era nel primo seme.
(Christian Morgenstern).
La croce “La croce -scriveva Simone Weil- è la nostra patria…nessuna foresta porta un tale albero, con questo fiore, con queste foglie e questo seme… Se noi acconsentiamo, Dio getta in noi un piccolo seme e se ne va.
In quel momento Dio non ha più niente da fare e neppure noi, se non attendere.
Dobbiamo soltanto non pentirci del consenso nuziale, che gli abbiamo accordato”.
Chi mi vuoi servire mi segua «Chi mi vuoi servire mi segua» (Gv 12,26).
Che cosa significa «mi segua», se non mi imiti? «Cristo, infatti, patì per noi», dice l’apostolo Pietro, «lasciandoci un esempio, affinché seguiamo le sue orme» (1Pt 2,21).
Questo è il senso delle parole: «Chi mi vuoi servire mi segua».
E con quale frutto? con quale ricompensa? con quale premio? «E dove sono io, dice, là sarà anche il mio servo».
Amiamolo disinteressatamente e la ricompensa del nostro servizio sarà quella di essere con lui.
Come si può star bene senza di lui, o male con lui? Ascolta ciò che vien detto in maniera più chiara.
«Se uno mi serve, il Padre mio lo onorerà» (Gv 12,26).
Con quale onore, se non con quello di poter essere suo figlio? Ciò che ha detto sopra: «Dove sono io, là sarà anche il mio servo» è la spiegazione delle parole: «II Padre mio lo onorerà».
Quale maggior onore può ricevere il figlio adottivo che quello di essere là dove è il Figlio unico, non fatto uguale a lui nella divinità, ma associato a lui nell’eternità? Dobbiamo chiederci che cosa si intenda per servire Cristo, servizio al quale viene riservata una così grande ricompensa.
[…] Servono Gesù Cristo coloro che non cercano i propri interessi, ma quelli di Gesù Cristo.
«Mi segua» vuol dire: segua le mie vie, non le sue, così come altrove sta scritto: «Chi dice di essere in Cristo, deve camminare come egli ha camminato» (1Gv 2,6).
Così, ad esempio, se uno porge il pane a chi ha fame, deve farlo animato dalla misericordia, non per vanità, non deve cercare in quel gesto nient’altro che l’opera buona, senza che la sinistra sappia ciò che fa la destra (cfr.
Mt 6,3), in modo che l’opera di carità non debba essere sciupata da secondi fini.
Chi opera in questo modo, serve Cristo e giustamente sarà detto di lui: «Ogni volta che avete fatto questo a uno dei miei più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).
Chi compie per Cristo non solamente opere di misericordia corporali, ma qualsiasi opera buona – e qualsiasi opera è buona quando obbedisce alle parole «il fine di tutta la Legge è Cristo, a giustizia di ognuno che crede» (Rm 10,4) — egli è servo di Cristo e giungerà fino a quella grande opera di carità che consiste nel dare la propria vita per i fratelli, che equivale a darla a Cristo.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 51,11,12, NBA XXIV, pp.
1022-1024).
Io pure sarò vigna Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.
Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: « Dallo stesso potere che ti abbatte io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, consegnerà me in mani più potenti.
Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo ».
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: « I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio respiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni ».
E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custodito in vasi eterni ».
E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.
(K.
GIBRAN, Il Profeta).
Piccolo seme Ho imparato che non muore chi lascia dietro di sé un seme se c’è qualcuno a custodire il piccolo seme verde e a crescerlo nel cuore sotto un dolore di neve e a lasciarlo crescere ancora nel sole senza tramonto dell’amore finché diventa un albero grande che da ombra e frutti e altri semi.
Signore, vorrei lasciargli un piccolo seme verde e vorrei, Signore, lasciargli la neve e il sole.
(Preghiere di Mamma e Papa, Gribaudi, Torino, 1989).
Preghiera Anche noi ti vogliamo vedere, Gesù, in quest’ora in cui, come seme, affondi nella terra del nostro dolore e germogli in turgida spiga, speranza di messe abbondante.
Tu sveli come è dolce morire per chi ama e si dona con gioia.
Perdere la vita con te e per te è trovarla.
Allora anche il pianto fiorisce in sorriso.
Nelle tue piaghe troviamo rifugio e in esse trova senso ogni umano patire.
Solo guardando te, troviamo la forza di un abbandono fidente nelle mani paterne di Dio.
Purifica gli occhi del nostro cuore, fino a che non come in uno specchio né in maniera confusa, ma in un eterno e amoroso faccia a faccia ti vedremo così come tu sei.
Amen.
Mine vaganti nella Chiesa.
A proposito dell’AIDS, l’accusa che è stata lanciata per l’ennesima volta contro la Chiesa è stata quella di favorirne la diffusione, vietando il preservativo.
I fatti dicono però che in Africa quasi un terzo delle iniziative di contrasto al dilagare dell’AIDS sono opera di cattolici.
I preservativi sono oggetto di diffusione massiccia da parte di governi, enti internazionali ed ONG, e non risulta che i cattolici ne ostacolino la distribuzione e l’uso, specie tra coniugi uno dei quali sia portatore di contagio.
Ma ogni operatore avveduto sa che essi non bastano, come prova la diffusione dell’AIDS nei paesi ricchi del nord dove i preservativi sono a disposizione di tutti.
Il giudizio della Chiesa, confermato dall’esperienza sul campo, è che da soli i preservativi non frenano la promiscuità sessuale, vera causa del dilagare del flagello, anzi talora la incoraggiano accendendo una ingannevole sicurezza.
Di conseguenza la Chiesa cattolica, sul fronte dell’AIDS, si prodiga soprattutto in due modi, che Benedetto XVI ha ricordato nella risposta che ha dato esca alla polemica: con una “umanizzazione della sessualità”, incoraggiandone l’esercizio solo entro l’amore coniugale fedele, e con la cura dei malati.
Le indagini provano che dove all’uso del preservativo si antepongono una guida al controllo della sessualità e cure adeguate e gratuite, i risultati sono confortanti.
Nell’incontrare a Yaoundé degli operatori contro l’AIDS e poi dei malati sottoposti a cura, Benedetto XVI ha paragonato l’azione della Chiesa a quella del Cireneo, il contadino africano che aiutò Gesù a portare la croce.
Questa immagine di prossimità al sofferente porta dritto al secondo conflitto scoppiato nei giorni scorsi, sull’aborto di una fanciulla.
*** “Dalla parte della bambina brasiliana”: così ha titolato “L’Osservatore Romano” del 15 marzo una nota di prima pagina firmata dall’arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontificia accademia per la vita, oltre che rettore della Pontificia Università Lateranense.
Per il ruolo dell’autore, per la collocazione e più ancora per i contenuti, sicuramente l’articolo era tra quelli controllati e autorizzati dalla segreteria di stato vaticana.
L’articolo partiva dal caso di una bambina brasiliana in età fertile già a nove anni, violentata più volte dal giovane patrigno, rimasta incinta di due gemelli e poi fatta abortire al quarto mese di gestazione.
Il suo caso, scriveva Fisichella, “ha guadagnato le pagine dei giornali solo perché l’arcivescovo di Olinda e Recife si è affrettato a dichiarare la scomunica per i medici che l’hanno aiutata a interrompere la gravidanza”.
Quando invece, “prima di pensare alla scomunica”, la fanciulla “doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata” con quella “umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri”.
Ma “così non è stato”.
L’attacco all’arcivescovo di Olinda e Recife – la diocesi che fu di Helder Camara – non poteva essere più duro.
In effetti, le dichiarazioni dell’arcivescovo sulla scomunica degli operatori del duplice aborto avevano occasionato l’inasprirsi del conflitto già in corso da tempo in Brasile tra la Chiesa e il governo, la prima impegnata in una grande campagna in difesa della vita nascente, il secondo orientato a liberalizzare l’aborto più di quanto già sia.
Da Roma, il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione vaticana per i vescovi, in un’intervista a “La Stampa” aveva preso le difese dell’arcivescovo di Olinda e Recife.
Altrettanto aveva fatto, in Brasile, la conferenza episcopale, con una nota diffusa il 13 marzo e con dichiarazioni del suo presidente, l’arcivescovo Geraldo Lyrio Rocha, e del suo segretario, Dimas Lara.
Anche il nuovo arcivescovo di Rio de Janeiro, Orani João Tempesta, si era espresso nello stesso senso, rimarcando tra l’altro che la madre della fanciulla aveva testimoniato che “l’unico luogo in cui non si era sentita maltrattata ma rispettata era stato l’ufficio della Caritas”.
Persino dalla Francia era giunto un autorevole sostegno all’operato della Chiesa brasiliana.
Il vescovo di Tolone, Dominique Rey, in visita in quel paese, aveva dichiarato d’aver visto con i suoi occhi “le molteplici testimonianze di misericordia vissute dalle comunità cristiane che avevano avvicinato e accompagnato la fanciulla e sua madre”.
La Santa Sede si è però mossa diversamente.
Pubblicando l’articolo di Fisichella su “L’Osservatore Romano” ha mostrato di anteporre alla difesa della Chiesa brasiliana e della sua campagna “pro vita” l’obiettivo di appianare il dissidio con l’opinione laica, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva e il suo governo.
Col risultato di portare il conflitto tutto all’interno della gerarchia.
Per di più aprendo una controversia sul giudizio da dare all’aborto in casi come quello in oggetto.
L’articolo di Fisichella, infatti, così proseguiva: “A causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie, la vita [della fanciulla] era in serio pericolo per la gravidanza in atto.
Come agire in questi casi? Decisione ardua per il medico e per la stessa legge morale.
Scelte come questa […] si ripetono quotidianamente […] e la coscienza del medico si ritrova sola con se stessa nell’atto di dovere decidere cosa sia meglio fare”.
Nel finale dell’articolo Fisichella plaudiva a coloro che alla fanciulla “hanno permesso di vivere”.
È vero che, in un altro passaggio, il presidente della pontifica accademia per la vita ribadiva che “l’aborto provocato è sempre stato condannato dalla legge morale come un atto intrinsecamente cattivo e questo insegnamento permane immutato ai nostri giorni”.
Ma i dubbi prima affacciati restavano.
E davano l’impronta all’intero articolo.
Dubbi visibilmente in contrasto con la solidità granitica di questo passaggio del paragrafo 62 dell’enciclica di Giovanni Paolo II “Evangelium vitae”: “Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa”.
*** All’articolo di Fisichella su “L’Osservatore Romano” l’arcidiocesi di Olinda e Recife ha replicato il 16 marzo con delle “Chiarificazioni” ufficiali, pubblicate con grande evidenza sulla home page del suo sito web.
Da parte di Roma nessun cenno di ricevuta.
Neppure quando, il 21 marzo, è intervenuto nuovamente sulla vicenda il direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi.
Padre Lombardi era quel giorno a Luanda, al seguito del viaggio di Benedetto XVI in Camerun e in Angola.
Il giorno precedente, parlando al corpo diplomatico e facendo riferimento all’articolo 14 del Protocollo di Maputo sulla “salute materna e riproduttiva”, il papa aveva polemicamente esclamato: “Quanto amara è l’ironia di coloro che promuovono l’aborto tra le cure della salute materna! Quanto sconcertante la tesi di coloro secondo i quali la soppressione della vita sarebbe una questione di salute riproduttiva!”.
Padre Lombardi, incontrando i giornalisti, ha escluso qualsiasi collegamento tra le parole del papa e la vicenda della fanciulla brasiliana.
E ha così proseguito: “In proposito valgono le considerazioni di monsignor Rino Fisichella, che su ‘L’Osservatore Romano’ ha lamentato la scomunica dichiarata con troppa fretta dall’arcivescovo di Recife.
Nessun caso limite deve oscurare il vero senso del discorso del Santo Padre, che si riferiva a una cosa estremamente diversa.
[…] Il papa non ha parlato assolutamente di aborto terapeutico e non ha detto che deve essere sempre rifiutato”.
Ha sorpreso che, a distanza di quasi una settimana dalla diffusione delle “Chiarificazioni” dell’arcidiocesi brasiliana, il portavoce ufficiale della Santa Sede abbia mostrato di ignorarle del tutto, sia nella opposta ricostruzione dei fatti, sia nelle obiezioni di carattere dottrinale e morale.
Il sito web del giornale della Santa Sede: > L’Osservatore Romano __________ Il testo originale, in portoghese, della dichiarazione dell’arcidiocesi di Olinda e Recife: > Esclaricimentos sobre o artigo publicado no “L’Osservatore Romano”… __________ Il commento del vescovo di Frejus-Tolone, Dominique Rey: > À propos de l’affaire de la petite fille brésilienne __________ Per una valutazione sul rischio di vita di bambine gravide e sulla liceità morale dell’aborto in questi casi, una nota di Renzo Puccetti, medico e segretario dell’associazione “Scienza & Vita” di Pisa e Livorno, in “Zenit” del 22 marzo 2009: > Valutazione bioetica del caso della bambina brasiliana __________ Tutti i discorsi e le omelie del viaggio in Africa di Benedetto XVI, nel sito del Vaticano: > Viaggio apostolico in Camerun e Angola, 17-23 marzo 2009 __________ Sull’Africa, l’AIDS e altri nodi polemici, una nota di Pietro De Marco ne “l’Occidentale”: > Il piacere di aggredire il papa senza capirne il messaggio __________ Sulla Chiesa cattolica e l’AIDS, in www.chiesa: > Preservativo sì o no: “La Civiltà Cattolica” sbarra la strada (22.5.2006) __________ Per altre notizie e commenti vedi il blog SETTIMO CIELO che Sandro Magister cura per i lettori italiani.
Ultimi titoli: Bagnasco su Eluana: “Più la gente è sembrata farsi cauta, pensosa…” Sacro romano disordine.
Un’istantanea della curia vaticana In Camerun Benedetto XVI dialoga con l’islam.
A modo suo L’articolo uscito su “L’Osservatore Romano” del 15 marzo 2009, oggetto della dichiarazione dell’arcidiocesi di Olinda e Recife: Dalla parte della bambina brasiliana di Rino Fisichella Il dibattito su alcune questioni si fa spesso serrato e le differenti prospettive non sempre permettono di considerare quanto la posta in gioco sia veramente grande.
È questo il momento in cui si deve guardare all’essenziale e, per un attimo, lasciare in disparte ciò che non tocca direttamente il problema.
Il caso nella sua drammaticità è semplice.
C’è una bambina di soli nove anni – la chiameremo Carmen – che dobbiamo guardare fisso negli occhi senza distrarre lo sguardo neppure un attimo, per farle capire quanto le si vuole bene.
Carmen, a Recife, in Brasile, viene violentata ripetutamente dal giovane patrigno, rimane incinta di due gemellini e non avrà più una vita facile.
La ferita è profonda perché la violenza del tutto gratuita l’ha distrutta dentro e difficilmente le permetterà in futuro di guardare agli altri con amore.
Carmen rappresenta una storia di quotidiana violenza e ha guadagnato le pagine dei giornali solo perché l’arcivescovo di Olinda e Recife si è affrettato a dichiarare la scomunica per i medici che l’hanno aiutata a interrompere la gravidanza.
Una storia di violenza che, purtroppo, sarebbe passata inosservata, tanto si è abituati a subire ogni giorno fatti di una gravità ineguagliabile, se non fosse stato per lo scalpore e le reazioni suscitate dall’intervento del vescovo.
La violenza su una donna, già grave di per sé, assume una valenza ancora più deprecabile quando a subirla è una bambina, con l’aggravante della povertà e del degrado sociale in cui vive.
Non c’è linguaggio corrispondente per condannare tali episodi, e i sentimenti che ne derivano sono spesso una miscela di rabbia e di rancore che si assopiscono solo quando viene fatta realmente giustizia e la pena inflitta al delinquente di turno ha certezza di essere scontata.
Carmen doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata con dolcezza per farle sentire che eravamo tutti con lei; tutti, senza distinzione alcuna.
Prima di pensare alla scomunica era necessario e urgente salvaguardare la sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri.
Così non è stato e, purtroppo, ne risente la credibilità del nostro insegnamento che appare agli occhi di tanti come insensibile, incomprensibile e privo di misericordia.
È vero, Carmen portava dentro di sé altre vite innocenti come la sua, anche se frutto della violenza, e sono state soppresse; ciò, tuttavia, non basta per dare un giudizio che pesa come una mannaia.
Nel caso di Carmen si sono scontrate la vita e la morte.
A causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie la sua vita era in serio pericolo per la gravidanza in atto.
Come agire in questi casi? Decisione ardua per il medico e per la stessa legge morale.
Scelte come questa, anche se con una casistica differente, si ripetono quotidianamente nelle sale di rianimazione e la coscienza del medico si ritrova sola con se stessa nell’atto di dovere decidere cosa sia meglio fare.
Nessuno, comunque, arriva a una decisione di questo genere con disinvoltura; è ingiusto e offensivo il solo pensarlo.
Il rispetto dovuto alla professionalità del medico è una regola che deve coinvolgere tutti e non può consentire di giungere a un giudizio negativo senza prima aver considerato il conflitto che si è creato nel suo intimo.
Il medico porta con sé la sua storia e la sua esperienza; una scelta come quella di dover salvare una vita, sapendo che ne mette a serio rischio una seconda, non viene mai vissuta con facilità.
Certo, alcuni si abituano alle situazioni così da non provare più neppure l’emozione; in questi casi, però, la scelta di essere medico viene degradata a solo mestiere vissuto senza entusiasmo e subito passivamente.
Fare di tutta un’erba un fascio, tuttavia, oltre che scorretto sarebbe ingiusto.
Carmen ha riproposto un caso morale tra i più delicati; trattarlo sbrigativamente non renderebbe giustizia né alla sua fragile persona né a quanti sono coinvolti a diverso titolo nella vicenda.
Come ogni caso singolo e concreto, comunque, merita di essere analizzato nella sua peculiarità, senza generalizzazioni.
La morale cattolica ha principi da cui non può prescindere, anche se lo volesse.
La difesa della vita umana fin dal suo concepimento appartiene a uno di questi e si giustifica per la sacralità dell’esistenza.
Ogni essere umano, infatti, fin dal primo istante porta impressa in sé l’immagine del Creatore, e per questo siamo convinti che debbano essergli riconosciuti la dignità e i diritti di ogni persona, primo fra tutti quello della sua intangibilità e inviolabilità.
L’aborto provocato è sempre stato condannato dalla legge morale come un atto intrinsecamente cattivo e questo insegnamento permane immutato ai nostri giorni fin dai primordi della Chiesa.
Il concilio Vaticano II nella “Gaudium et spes” – documento di grande apertura e accortezza in riferimento al mondo contemporaneo – usa in maniera inaspettata parole inequivocabili e durissime contro l’aborto diretto.
La stessa collaborazione formale costituisce una colpa grave che, quando è realizzata, porta automaticamente al di fuori della comunità cristiana.
Tecnicamente, il codice di diritto canonico usa l’espressione “latae sententiae” per indicare che la scomunica si attua appunto nel momento stesso in cui il fatto avviene.
Non c’era bisogno, riteniamo, di tanta urgenza e pubblicità nel dichiarare un fatto che si attua in maniera automatica.
Ciò di cui si sente maggiormente il bisogno in questo momento è il segno di una testimonianza di vicinanza con chi soffre, un atto di misericordia che, pur mantenendo fermo il principio, è capace di guardare oltre la sfera giuridica per raggiungere ciò che il diritto stesso prevede come scopo della sua esistenza: il bene e la salvezza di quanti credono nell’amore del Padre e di quanti accolgono il vangelo di Cristo come i bambini, che Gesù chiamava accanto a sé e stringeva tra le sue braccia dicendo che il regno dei cieli appartiene a chi è come loro.
Carmen, stiamo dalla tua parte.
Condividiamo con te la sofferenza che hai provato, vorremmo fare di tutto per restituirti la dignità di cui sei stata privata e l’amore di cui avrai ancora più bisogno.
Sono altri che meritano la scomunica e il nostro perdono, non quanti ti hanno permesso di vivere e ti aiuteranno a recuperare la speranza e la fiducia.
Nonostante la presenza del male e la cattiveria di molti.
__________ Sui media d’Europa e d’America, il viaggio di Benedetto XVI in Camerun e in Angola, che si conclude oggi, è stato largamente oscurato dalle polemiche scoppiate per una frase da lui detta in partenza, sull’aereo che lo portava a Yaoundé, in risposta alla domanda di un giornalista: “Non si può risolvere il flagello dell’AIDS con la distribuzione di preservativi: al contrario, il rischio è di aumentare il problema”.
Contemporaneamente, una seconda polemica è deflagrata a partire da un altro paese del sud del mondo, il Brasile, a motivo dell’aborto di una giovanissima.
Contraccettivi ed aborto sono due questioni tra le più controverse nel rapporto tra Chiesa e modernità.
Sui contraccettivi la Chiesa cattolica si è pronunciata in particolare con l’enciclica “Humanae vitae” di Paolo VI.
Sull’aborto con l’enciclica “Evangelium vitae” di Giovanni Paolo II.
Sulla prima questione, la polemica dei giorni scorsi è stata ingigantita soprattutto dalle stizzite reazioni alle parole del papa dei governi di Francia, Germania, Belgio, Spagna, della Commissione Europea, di dirigenti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite e del Fondo Monetario Internazionale.
Nel caso dell’aborto della fanciulla brasiliana, invece, alla polemica tra stato e Chiesa si è sovrapposto un conflitto dentro la stessa gerarchia cattolica, ai livelli più alti.
*** A proposito dell’AIDS, l’accusa che è stata lanciata per l’ennesima volta contro la Chiesa è stata quella di favorirne la diffusione, vietando il preservativo.
I fatti dicono però che in Africa quasi un terzo delle iniziative di contrasto al dilagare dell’AIDS sono opera di cattolici.
I preservativi sono oggetto di diffusione massiccia da parte di governi, enti internazionali ed ONG, e non risulta che i cattolici ne ostacolino la distribuzione e l’uso, specie tra coniugi uno dei quali sia portatore di contagio.
Ma ogni operatore avveduto sa che essi non bastano, come prova la diffusione dell’AIDS nei paesi ricchi del nord dove i preservativi sono a disposizione di tutti.
Il giudizio della Chiesa, confermato dall’esperienza sul campo, è che da soli i preservativi non frenano la promiscuità sessuale, vera causa del dilagare del flagello, anzi talora la incoraggiano accendendo una ingannevole sicurezza.
Di conseguenza la Chiesa cattolica, sul fronte dell’AIDS, si prodiga soprattutto in due modi, che Benedetto XVI ha ricordato nella risposta che ha dato esca alla polemica: con una “umanizzazione della sessualità”, incoraggiandone l’esercizio solo entro l’amore coniugale fedele, e con la cura dei malati.
Le indagini provano che dove all’uso del preservativo si antepongono una guida al controllo della sessualità e cure adeguate e gratuite, i risultati sono confortanti.
Nell’incontrare a Yaoundé degli operatori contro l’AIDS e poi dei malati sottoposti a cura, Benedetto XVI ha paragonato l’azione della Chiesa a quella del Cireneo, il contadino africano che aiutò Gesù a portare la croce.
Questa immagine di prossimità al sofferente porta dritto al secondo conflitto scoppiato nei giorni scorsi, sull’aborto di una fanciulla.
*** “Dalla parte della bambina brasiliana”: così ha titolato “L’Osservatore Romano” del 15 marzo una nota di prima pagina firmata dall’arcivescovo Rino Fisichella, presidente della pontificia accademia per la vita, oltre che rettore della Pontificia Università Lateranense.
Per il ruolo dell’autore, per la collocazione e più ancora per i contenuti, sicuramente l’articolo era tra quelli controllati e autorizzati dalla segreteria di stato vaticana.
L’articolo partiva dal caso di una bambina brasiliana in età fertile già a nove anni, violentata più volte dal giovane patrigno, rimasta incinta di due gemelli e poi fatta abortire al quarto mese di gestazione.
Il suo caso, scriveva Fisichella, “ha guadagnato le pagine dei giornali solo perché l’arcivescovo di Olinda e Recife si è affrettato a dichiarare la scomunica per i medici che l’hanno aiutata a interrompere la gravidanza”.
Quando invece, “prima di pensare alla scomunica”, la fanciulla “doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata” con quella “umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri”.
Ma “così non è stato”.
L’attacco all’arcivescovo di Olinda e Recife – la diocesi che fu di Helder Camara – non poteva essere più duro.
In effetti, le dichiarazioni dell’arcivescovo sulla scomunica degli operatori del duplice aborto avevano occasionato l’inasprirsi del conflitto già in corso da tempo in Brasile tra la Chiesa e il governo, la prima impegnata in una grande campagna in difesa della vita nascente, il secondo orientato a liberalizzare l’aborto più di quanto già sia.
Da Roma, il cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione vaticana per i vescovi, in un’intervista a “La Stampa” aveva preso le difese dell’arcivescovo di Olinda e Recife.
Altrettanto aveva fatto, in Brasile, la conferenza episcopale, con una nota diffusa il 13 marzo e con dichiarazioni del suo presidente, l’arcivescovo Geraldo Lyrio Rocha, e del suo segretario, Dimas Lara.
Anche il nuovo arcivescovo di Rio de Janeiro, Orani João Tempesta, si era espresso nello stesso senso, rimarcando tra l’altro che la madre della fanciulla aveva testimoniato che “l’unico luogo in cui non si era sentita maltrattata ma rispettata era stato l’ufficio della Caritas”.
Persino dalla Francia era giunto un autorevole sostegno all’operato della Chiesa brasiliana.
Il vescovo di Tolone, Dominique Rey, in visita in quel paese, aveva dichiarato d’aver visto con i suoi occhi “le molteplici testimonianze di misericordia vissute dalle comunità cristiane che avevano avvicinato e accompagnato la fanciulla e sua madre”.
La Santa Sede si è però mossa diversamente.
Pubblicando l’articolo di Fisichella su “L’Osservatore Romano” ha mostrato di anteporre alla difesa della Chiesa brasiliana e della sua campagna “pro vita” l’obiettivo di appianare il dissidio con l’opinione laica, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva e il suo governo.
Col risultato di portare il conflitto tutto all’interno della gerarchia.
Per di più aprendo una controversia sul giudizio da dare all’aborto in casi come quello in oggetto.
L’articolo di Fisichella, infatti, così proseguiva: “A causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie, la vita [della fanciulla] era in serio pericolo per la gravidanza in atto.
Come agire in questi casi? Decisione ardua per il medico e per la stessa legge morale.
Scelte come questa […] si ripetono quotidianamente […] e la coscienza del medico si ritrova sola con se stessa nell’atto di dovere decidere cosa sia meglio fare”.
Nel finale dell’articolo Fisichella plaudiva a coloro che alla fanciulla “hanno permesso di vivere”.
È vero che, in un altro passaggio, il presidente della pontifica accademia per la vita ribadiva che “l’aborto provocato è sempre stato condannato dalla legge morale come un atto intrinsecamente cattivo e questo insegnamento permane immutato ai nostri giorni”.
Ma i dubbi prima affacciati restavano.
E davano l’impronta all’intero articolo.
Dubbi visibilmente in contrasto con la solidità granitica di questo passaggio del paragrafo 62 dell’enciclica di Giovanni Paolo II “Evangelium vitae”: “Nessuna circostanza, nessuna finalità, nessuna legge al mondo potrà mai rendere lecito un atto che è intrinsecamente illecito, perché contrario alla legge di Dio, scritta nel cuore di ogni uomo, riconoscibile dalla ragione stessa, e proclamata dalla Chiesa”.
*** All’articolo di Fisichella su “L’Osservatore Romano” l’arcidiocesi di Olinda e Recife ha replicato il 16 marzo con delle “Chiarificazioni” ufficiali, pubblicate con grande evidenza sulla home page del suo sito web.
Da parte di Roma nessun cenno di ricevuta.
Neppure quando, il 21 marzo, è intervenuto nuovamente sulla vicenda il direttore della sala stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi.
Padre Lombardi era quel giorno a Luanda, al seguito del viaggio di Benedetto XVI in Camerun e in Angola.
Il giorno precedente, parlando al corpo diplomatico e facendo riferimento all’articolo 14 del Protocollo di Maputo sulla “salute materna e riproduttiva”, il papa aveva polemicamente esclamato: “Quanto amara è l’ironia di coloro che promuovono l’aborto tra le cure della salute materna! Quanto sconcertante la tesi di coloro secondo i quali la soppressione della vita sarebbe una questione di salute riproduttiva!”.
Padre Lombardi, incontrando i giornalisti, ha escluso qualsiasi collegamento tra le parole del papa e la vicenda della fanciulla brasiliana.
E ha così proseguito: “In proposito valgono le considerazioni di monsignor Rino Fisichella, che su ‘L’Osservatore Romano’ ha lamentato la scomunica dichiarata con troppa fretta dall’arcivescovo di Recife.
Nessun caso limite deve oscurare il vero senso del discorso del Santo Padre, che si riferiva a una cosa estremamente diversa.
[…] Il papa non ha parlato assolutamente di aborto terapeutico e non ha detto che deve essere sempre rifiutato”.
Ha sorpreso che, a distanza di quasi una settimana dalla diffusione delle “Chiarificazioni” dell’arcidiocesi brasiliana, il portavoce ufficiale della Santa Sede abbia mostrato di ignorarle del tutto, sia nella opposta ricostruzione dei fatti, sia nelle obiezioni di carattere dottrinale e morale.
Ecco qui di seguito, integrale, il documento dell’arcidiocesi brasiliana: Chiarificazioni dell’arcidiocesi di Olinda e Recife Riguardo all’articolo “Dalla parte della bambina brasiliana”, pubblicato su “L’Osservatore Romano” il giorno 15 marzo, noi sottoscritti dichiariamo: 1.
Il fatto dello stupro non è avvenuto a Recife, come dice l’articolo, ma nella città di Alagoinha, diocesi di Pesqueira.
Mentre l’aborto è stato praticato a Recife.
2.
Tutti noi – a cominciare dal parroco di Alagoinha, che è tra i firmatari – siamo stati vicini alla fanciulla incinta e alla sua famiglia con grande carità e affetto.
Il parroco, mettendo in opera la sua sollecitudine pastorale, raggiunto dalla notizia quand’era a casa, si recò immediatamente a casa della famiglia, dove incontrò la fanciulla per darle sostegno e accompagnamento, posta la grave e difficile situazione nella quale la fanciulla si era trovata.
Questa attitudine è stata mantenuta in tutti i giorni successivi, ad Alagoinha come a Recife, dove si è avuto il triste finale dell’aborto di due innocenti.
Pertanto, fu evidente e inequivocabile che nessuno pensò in primo luogo alla “scomunica”.
Abbiamo fatto ricorso a tutti i mezzi a nostra disposizione per evitare l’aborto e salvare le tre vite.
Il parroco affiancò di persona il Consiglio tutelare della città in tutte le iniziative finalizzate al bene della fanciulla e dei suoi figli.
Sia nell’ospedale che nelle visite quotidiane diede prova di un affetto e di un’attenzione che fecero capire, tanto alla fanciulla come a sua madre, che entrambe non erano sole, ma che la Chiesa, lì rappresentata dal parroco del luogo, assicurava loro l’assistenza necessaria e la certezza che tutto si sarebbe fatto per il bene della fanciulla e per salvare i suoi due figli.
3.
Dopo che la fanciulla fu trasferita in un ospedale della città di Recife, abbiamo fatto ricorso a tutti i mezzi legali per evitare l’aborto.
In nessun momento la Chiesa fu assente dall’ospedale.
Il parroco della fanciulla si recava in ospedale ogni giorno, partendo dalla sua città che dista 230 chilometri da Recife, senza risparmiare alcuno sforzo, affinché tanto la fanciulla come sua madre sentissero la presenza di Gesù, il Buon Pastore che va incontro alle pecorelle che hanno più bisogno del suo aiuto.
In questo modo la vicenda fu trattata con tutta l’attenzione dovuta da parte della Chiesa e non “sbrigativamente” come dice l’articolo.
4.
Non siamo d’accordo con l’affermazione che “la decisione è ardua…
per la stessa legge morale”.
La nostra santa Chiesa non cessa di proclamare che la legge morale è chiarissima: mai è lecito sopprimere la vita di un innocente per salvare un’altra vita.
I fatti oggettivi sono questi: vi sono medici che dichiarano esplicitamente di aver praticato e voler continuare a praticare aborti, mentre ve ne sono altri che dichiarano con altrettanta fermezza che un aborto non lo praticheranno mai.
Questa è la dichiarazione scritta e firmata di un medico cattolico brasiliano: “Come medico ostetrico da 50 anni, formato alla facoltà nazionale di medicina della Università del Brasile, e come ex primario della clinica ostetrica dell’ospedale di Andarai, nel quale ho operato per 35 anni fino al mio pensionamento, per dedicarmi al diaconato, e avendo praticato 4524 parti, molti in età minorile, mai ho avuto la necessità di ricorrere all’aborto per ‘salvare vite’, al pari di tutti i miei colleghi retti ed onesti nella loro professione, fedeli al giuramento di Ippocrate”.
5.
È falsa l’affermazione che il fatto fu divulgato nei giornali solo perché l’arcivescovo di Olinda e Recife si affrettò a dichiarare la scomunica.
Basta osservare che il caso divenne di dominio pubblico ad Alagoinha mercoledì 25 febbraio, l’arcivescovo fece le sue dichiarazioni alla stampa il 3 marzo e l’aborto fu effettuato il 4 marzo.
Era impensabile che la stampa brasiliana, di fronte a un fatto di tale gravità, lo tenesse sotto silenzio per sei giorni.
La realtà dei fatti è che la notizia della fanciulla – “Carmen” – incinta fu divulgata nei giorni precedenti l’attuazione dell’aborto.
Solo allora, martedì 3 marzo, interrogato dai giornalisti, l’arcivescovo menzionò il canone 1398 [del codice di diritto canonico].
Siamo convinti che la divulgazione di questa pena medicinale, la scomunica, faccia bene a molti cattolici, per indurli ad evitare questo peccato gravissimo.
Il silenzio della Chiesa sarebbe molto equivocato, soprattutto di fronte alla constatazione che nel mondo si compiono cinquanta milioni di aborti ogni anno e solo nel Brasile si sopprimono un milione di vite innocenti.
Il silenzio può essere interpretato come connivenza o complicità.
Se qualche medico avesse una “coscienza dubbiosa” prima di praticare un aborto (cosa che ci sembra estremamente improbabile), egli, se cattolico e tenuto ad osservare la legge di Dio, dovrebbe consultare un direttore spirituale.
6.
In altre parole, l’articolo è un affronto diretto alla difesa della vita delle tre creature, fatta col massimo della forza dall’arcivescovo José Cardoso Sobrinho, e mostra che l’autore non possiede le basi e le informazioni necessarie per parlare della vicenda, a motivo della sua totale ignoranza dei particolari del fatto.
L’ospedale che ha effettuato l’aborto sulla fanciulla è uno di quelli che compiono sistematicamente questa pratica nel nostro Stato, sotto il manto della “legalità”.
I medici che hanno praticato l’aborto dei due gemelli hanno dichiarato e continuano a dichiarare sui media nazionali d’aver compiuto un atto che sono soliti compiere “con molto orgoglio”.
Uno di essi ha aggiunto: “Già sono stato in passato scomunicato più volte”.
7.
L’autore si è arrogato il diritto di parlare di ciò che non conosceva, senza fare lo sforzo di conversare previamente in modo fraterno ed evangelico con l’arcivescovo, e per questo atto imprudente sta causando una grande confusione tra i fedeli cattolici del Brasile.
Invece di consultare il suo fratello nell’episcopato, ha preferito dar credito alla nostra stampa molto spesso anticlericale.
Recife, 16 marzo 2009 Edvaldo Bezerra da Silva Vicario generale dell’arcidiocesi di Olinda e Recife Cicero Ferreira de Paula Cancelliere dell’arcidiocesi di Olinda e Recife Moisés Ferreira de Lima Rettore del seminario arcidiocesano Márcio Miranda Avvocato dell’arcidiocesi di Olinda e Recife Edson Rodrigues Parroco di Alagoinha, diocesi di Pesqueira __________ L’articolo uscito su “L’Osservatore Romano” del 15 marzo 2009, oggetto della dichiarazione dell’arcidiocesi di Olinda e Recife: Dalla parte della bambina brasiliana di Rino Fisichella Il dibattito su alcune questioni si fa spesso serrato e le differenti prospettive non sempre permettono di considerare quanto la posta in gioco sia veramente grande.
È questo il momento in cui si deve guardare all’essenziale e, per un attimo, lasciare in disparte ciò che non tocca direttamente il problema.
Il caso nella sua drammaticità è semplice.
C’è una bambina di soli nove anni – la chiameremo Carmen – che dobbiamo guardare fisso negli occhi senza distrarre lo sguardo neppure un attimo, per farle capire quanto le si vuole bene.
Carmen, a Recife, in Brasile, viene violentata ripetutamente dal giovane patrigno, rimane incinta di due gemellini e non avrà più una vita facile.
La ferita è profonda perché la violenza del tutto gratuita l’ha distrutta dentro e difficilmente le permetterà in futuro di guardare agli altri con amore.
Carmen rappresenta una storia di quotidiana violenza e ha guadagnato le pagine dei giornali solo perché l’arcivescovo di Olinda e Recife si è affrettato a dichiarare la scomunica per i medici che l’hanno aiutata a interrompere la gravidanza.
Una storia di violenza che, purtroppo, sarebbe passata inosservata, tanto si è abituati a subire ogni giorno fatti di una gravità ineguagliabile, se non fosse stato per lo scalpore e le reazioni suscitate dall’intervento del vescovo.
La violenza su una donna, già grave di per sé, assume una valenza ancora più deprecabile quando a subirla è una bambina, con l’aggravante della povertà e del degrado sociale in cui vive.
Non c’è linguaggio corrispondente per condannare tali episodi, e i sentimenti che ne derivano sono spesso una miscela di rabbia e di rancore che si assopiscono solo quando viene fatta realmente giustizia e la pena inflitta al delinquente di turno ha certezza di essere scontata.
Carmen doveva essere in primo luogo difesa, abbracciata, accarezzata con dolcezza per farle sentire che eravamo tutti con lei; tutti, senza distinzione alcuna.
Prima di pensare alla scomunica era necessario e urgente salvaguardare la sua vita innocente e riportarla a un livello di umanità di cui noi uomini di Chiesa dovremmo essere esperti annunciatori e maestri.
Così non è stato e, purtroppo, ne risente la credibilità del nostro insegnamento che appare agli occhi di tanti come insensibile, incomprensibile e privo di misericordia.
È vero, Carmen portava dentro di sé altre vite innocenti come la sua, anche se frutto della violenza, e sono state soppresse; ciò, tuttavia, non basta per dare un giudizio che pesa come una mannaia.
Nel caso di Carmen si sono scontrate la vita e la morte.
A causa della giovanissima età e delle condizioni di salute precarie la sua vita era in serio pericolo per la gravidanza in atto.
Come agire in questi casi? Decisione ardua per il medico e per la stessa legge morale.
Scelte come questa, anche se con una casistica differente, si ripetono quotidianamente nelle sale di rianimazione e la coscienza del medico si ritrova sola con se stessa nell’atto di dovere decidere cosa sia meglio fare.
Nessuno, comunque, arriva a una decisione di questo genere con disinvoltura; è ingiusto e offensivo il solo pensarlo.
Il rispetto dovuto alla professionalità del medico è una regola che deve coinvolgere tutti e non può consentire di giungere a un giudizio negativo senza prima aver considerato il conflitto che si è creato nel suo intimo.
Il medico porta con sé la sua storia e la sua esperienza; una scelta come quella di dover salvare una vita, sapendo che ne mette a serio rischio una seconda, non viene mai vissuta con facilità.
Certo, alcuni si abituano alle situazioni così da non provare più neppure l’emozione; in questi casi, però, la scelta di essere medico viene degradata a solo mestiere vissuto senza entusiasmo e subito passivamente.
Fare di tutta un’erba un fascio, tuttavia, oltre che scorretto sarebbe ingiusto.
Carmen ha riproposto un caso morale tra i più delicati; trattarlo sbrigativamente non renderebbe giustizia né alla sua fragile persona né a quanti sono coinvolti a diverso titolo nella vicenda.
Come ogni caso singolo e concreto, comunque, merita di essere analizzato nella sua peculiarità, senza generalizzazioni.
La morale cattolica ha principi da cui non può prescindere, anche se lo volesse.
La difesa della vita umana fin dal suo concepimento appartiene a uno di questi e si giustifica per la sacralità dell’esistenza.
Ogni essere umano, infatti, fin dal primo istante porta impressa in sé l’immagine del Creatore, e per questo siamo convinti che debbano essergli riconosciuti la dignità e i diritti di ogni persona, primo fra tutti quello della sua intangibilità e inviolabilità.
L’aborto provocato è sempre stato condannato dalla legge morale come un atto intrinsecamente cattivo e questo insegnamento permane immutato ai nostri giorni fin dai primordi della Chiesa.
Il concilio Vaticano II nella “Gaudium et spes” – documento di grande apertura e accortezza in riferimento al mondo contemporaneo – usa in maniera inaspettata parole inequivocabili e durissime contro l’aborto diretto.
La stessa collaborazione formale costituisce una colpa grave che, quando è realizzata, porta automaticamente al di fuori della comunità cristiana.
Tecnicamente, il codice di diritto canonico usa l’espressione “latae sententiae” per indicare che la scomunica si attua appunto nel momento stesso in cui il fatto avviene.
Non c’era bisogno, riteniamo, di tanta urgenza e pubblicità nel dichiarare un fatto che si attua in maniera automatica.
Ciò di cui si sente maggiormente il bisogno in questo momento è il segno di una testimonianza di vicinanza con chi soffre, un atto di misericordia che, pur mantenendo fermo il principio, è capace di guardare oltre la sfera giuridica per raggiungere ciò che il diritto stesso prevede come scopo della sua esistenza: il bene e la salvezza di quanti credono nell’amore del Padre e di quanti accolgono il vangelo di Cristo come i bambini, che Gesù chiamava accanto a sé e stringeva tra le sue braccia dicendo che il regno dei cieli appartiene a chi è come loro.
Carmen, stiamo dalla tua parte.
Condividiamo con te la sofferenza che hai provato, vorremmo fare di tutto per restituirti la dignità di cui sei stata privata e l’amore di cui avrai ancora più bisogno.
Sono altri che meritano la scomunica e il nostro perdono, non quanti ti hanno permesso di vivere e ti aiuteranno a recuperare la speranza e la fiducia.
Nonostante la presenza del male e la cattiveria di molti.
Chiarificazioni dell’arcidiocesi di Olinda e Recife Riguardo all’articolo “Dalla parte della bambina brasiliana”, pubblicato su “L’Osservatore Romano” il giorno 15 marzo, noi sottoscritti dichiariamo: 1.
Il fatto dello stupro non è avvenuto a Recife, come dice l’articolo, ma nella città di Alagoinha, diocesi di Pesqueira.
Mentre l’aborto è stato praticato a Recife.
2.
Tutti noi – a cominciare dal parroco di Alagoinha, che è tra i firmatari – siamo stati vicini alla fanciulla incinta e alla sua famiglia con grande carità e affetto.
Il parroco, mettendo in opera la sua sollecitudine pastorale, raggiunto dalla notizia quand’era a casa, si recò immediatamente a casa della famiglia, dove incontrò la fanciulla per darle sostegno e accompagnamento, posta la grave e difficile situazione nella quale la fanciulla si era trovata.
Questa attitudine è stata mantenuta in tutti i giorni successivi, ad Alagoinha come a Recife, dove si è avuto il triste finale dell’aborto di due innocenti.
Pertanto, fu evidente e inequivocabile che nessuno pensò in primo luogo alla “scomunica”.
Abbiamo fatto ricorso a tutti i mezzi a nostra disposizione per evitare l’aborto e salvare le tre vite.
Il parroco affiancò di persona il Consiglio tutelare della città in tutte le iniziative finalizzate al bene della fanciulla e dei suoi figli.
Sia nell’ospedale che nelle visite quotidiane diede prova di un affetto e di un’attenzione che fecero capire, tanto alla fanciulla come a sua madre, che entrambe non erano sole, ma che la Chiesa, lì rappresentata dal parroco del luogo, assicurava loro l’assistenza necessaria e la certezza che tutto si sarebbe fatto per il bene della fanciulla e per salvare i suoi due figli.
3.
Dopo che la fanciulla fu trasferita in un ospedale della città di Recife, abbiamo fatto ricorso a tutti i mezzi legali per evitare l’aborto.
In nessun momento la Chiesa fu assente dall’ospedale.
Il parroco della fanciulla si recava in ospedale ogni giorno, partendo dalla sua città che dista 230 chilometri da Recife, senza risparmiare alcuno sforzo, affinché tanto la fanciulla come sua madre sentissero la presenza di Gesù, il Buon Pastore che va incontro alle pecorelle che hanno più bisogno del suo aiuto.
In questo modo la vicenda fu trattata con tutta l’attenzione dovuta da parte della Chiesa e non “sbrigativamente” come dice l’articolo.
4.
Non siamo d’accordo con l’affermazione che “la decisione è ardua…
per la stessa legge morale”.
La nostra santa Chiesa non cessa di proclamare che la legge morale è chiarissima: mai è lecito sopprimere la vita di un innocente per salvare un’altra vita.
I fatti oggettivi sono questi: vi sono medici che dichiarano esplicitamente di aver praticato e voler continuare a praticare aborti, mentre ve ne sono altri che dichiarano con altrettanta fermezza che un aborto non lo praticheranno mai.
Questa è la dichiarazione scritta e firmata di un medico cattolico brasiliano: “Come medico ostetrico da 50 anni, formato alla facoltà nazionale di medicina della Università del Brasile, e come ex primario della clinica ostetrica dell’ospedale di Andarai, nel quale ho operato per 35 anni fino al mio pensionamento, per dedicarmi al diaconato, e avendo praticato 4524 parti, molti in età minorile, mai ho avuto la necessità di ricorrere all’aborto per ‘salvare vite’, al pari di tutti i miei colleghi retti ed onesti nella loro professione, fedeli al giuramento di Ippocrate”.
5.
È falsa l’affermazione che il fatto fu divulgato nei giornali solo perché l’arcivescovo di Olinda e Recife si affrettò a dichiarare la scomunica.
Basta osservare che il caso divenne di dominio pubblico ad Alagoinha mercoledì 25 febbraio, l’arcivescovo fece le sue dichiarazioni alla stampa il 3 marzo e l’aborto fu effettuato il 4 marzo.
Era impensabile che la stampa brasiliana, di fronte a un fatto di tale gravità, lo tenesse sotto silenzio per sei giorni.
La realtà dei fatti è che la notizia della fanciulla – “Carmen” – incinta fu divulgata nei giorni precedenti l’attuazione dell’aborto.
Solo allora, martedì 3 marzo, interrogato dai giornalisti, l’arcivescovo menzionò il canone 1398 [del codice di diritto canonico].
Siamo convinti che la divulgazione di questa pena medicinale, la scomunica, faccia bene a molti cattolici, per indurli ad evitare questo peccato gravissimo.
Il silenzio della Chiesa sarebbe molto equivocato, soprattutto di fronte alla constatazione che nel mondo si compiono cinquanta milioni di aborti ogni anno e solo nel Brasile si sopprimono un milione di vite innocenti.
Il silenzio può essere interpretato come connivenza o complicità.
Se qualche medico avesse una “coscienza dubbiosa” prima di praticare un aborto (cosa che ci sembra estremamente improbabile), egli, se cattolico e tenuto ad osservare la legge di Dio, dovrebbe consultare un direttore spirituale.
6.
In altre parole, l’articolo è un affronto diretto alla difesa della vita delle tre creature, fatta col massimo della forza dall’arcivescovo José Cardoso Sobrinho, e mostra che l’autore non possiede le basi e le informazioni necessarie per parlare della vicenda, a motivo della sua totale ignoranza dei particolari del fatto.
L’ospedale che ha effettuato l’aborto sulla fanciulla è uno di quelli che compiono sistematicamente questa pratica nel nostro Stato, sotto il manto della “legalità”.
I medici che hanno praticato l’aborto dei due gemelli hanno dichiarato e continuano a dichiarare sui media nazionali d’aver compiuto un atto che sono soliti compiere “con molto orgoglio”.
Uno di essi ha aggiunto: “Già sono stato in passato scomunicato più volte”.
7.
L’autore si è arrogato il diritto di parlare di ciò che non conosceva, senza fare lo sforzo di conversare previamente in modo fraterno ed evangelico con l’arcivescovo, e per questo atto imprudente sta causando una grande confusione tra i fedeli cattolici del Brasile.
Invece di consultare il suo fratello nell’episcopato, ha preferito dar credito alla nostra stampa molto spesso anticlericale.
Recife, 16 marzo 2009 Edvaldo Bezerra da Silva Vicario generale dell’arcidiocesi di Olinda e Recife Cicero Ferreira de Paula Cancelliere dell’arcidiocesi di Olinda e Recife Moisés Ferreira de Lima Rettore del seminario arcidiocesano Márcio Miranda Avvocato dell’arcidiocesi di Olinda e Recife Edson Rodrigues Parroco di Alagoinha, diocesi di Pesqueira
L’ordinanza sulla mobilità degli insegnanti di religione
È stata appena pubblicata l’OM 36 del 23 marzo 2009 sulla mobilità degli Idr di ruolo (vedi il pdf allegato) che regola trasferimenti e passaggi di ruolo per il prossimo anno scolastico 2009-10.
L’ordinanza relativa alla mobilità degli altri insegnanti era uscita il 13 febbraio scorso, dopo che il relativo Contratto Nazionale Integrativo era stato sottoscritto il giorno prima, in sensibile ritardo rispetto all’anno precedente, come era peraltro prevedibile per le novità organizzative e ordinamentali introdotte dal ministro Gelmini che hanno determinato lo slittamento di molte altre operazioni, a cominciare dalle iscrizioni degli alunni.
Rispetto al testo dell’anno scorso, che costituiva il primo esperimento di una procedura di mobilità applicata agli Idr, le novità sono minime, segno che la prima esperienza è andata bene e si sono potute confermare le istruzioni precedenti, integrando nel testo dell’OM solo alcuni chiarimenti che lo scorso anno erano stati forniti in successive note.
Si può quindi sperare che stavolta tutto possa procedere con maggiore tranquillità, visto che si tratta di procedure che vanno a stabilizzarsi.
Ricordiamo che l’OM 36/09 riguarda solo la mobilità interdiocesana e quella professionale, dato che i trasferimenti all’interno della stessa diocesi (che sono certamente la maggior parte) sono regolati dalla distinta ordinanza sulle utilizzazioni e assegnazioni provvisorie che esce di solito nel mese di giugno.
Coloro che intendono spostarsi in un’altra diocesi devono ovviamente possedere il riconoscimento di idoneità da parte del vescovo della/e diocesi di destinazione e possono solo indicare sinteticamente la/le diocesi desiderata/e, poiché l’assegnazione alla singola scuola o ad un comune del territorio diocesano è oggetto della specifica intesa che gli ordinari diocesani dovranno raggiungere con il direttore dell’Ufficio scolastico regionale al termine di tutta la procedura.
Anche gli Idr che intendono far valere i titoli derivanti dall’applicazione della legge 104/92 per la tutela e l’assistenza di invalidi e disabili possono solo scegliere la diocesi e rimettersi poi alla discrezionalità del vescovo per ottenere una sistemazione adeguata alle loro necessità, confidando nella sensibilità e nel discernimento degli ordinari diocesani.
Questo aspetto suscita probabilmente il malumore di qualche Idr, che si attendeva dalla conquista del ruolo maggiore oggettività e automatismo nella gestione del personale, ma non si può dimenticare che la “nomina d’intesa” è requisito concordatario che deve presiedere alla gestione degli Idr per tutta la durata della loro attività scolastica, quindi deve accompagnare anche tutte le operazioni di mobilità oltre all’assunzione iniziale.
Diversamente l’autorità ecclesiastica perderebbe con l’andare del tempo una delle sue specifiche prerogative.
Il caso della mobilità professionale, cioè il passaggio da un ruolo all’altro dell’Irc (dalla primaria alla secondaria o viceversa), è piuttosto limitato poiché gli aspiranti devono: 1) essere in possesso dei titoli per insegnare religione anche nel settore formativo richiesto, 2) essere in possesso dell’idoneità ecclesiastica anche per il settore formativo richiesto, 3) aver superato a suo tempo entrambi i concorsi.
Soprattutto quest’ultima condizione (limitata a pochi casi in Italia) dovrebbe ridurre di molto le richieste di mobilità professionale.
Le principali scadenze delle operazioni di mobilità, nonostante la recente emanazione della legge 14/09 (decreto milleproroghe) che ha spostato al 31 agosto la nomina del personale di ruolo e supplente annuale, ricalcano quelle dello scorso anno e sono riassumibili come segue: – presentazione delle domande dal 30 marzo al 28 aprile – invio delle domande all’USR entro l’8 maggio – attribuzione e notifica del punteggio entro il 4 giugno – revoca delle domande entro il 15 giugno – pubblicazione della graduatoria entro il 22 giugno – pubblicazione dei movimenti entro il 30 giugno – intesa per l’utilizzazione entro il 31 luglio Le scadenze sono diverse da quelle del restante personale docente in quanto le domande degli Idr non partecipano ai movimenti ordinari degli altri insegnanti e sono gestite manualmente dalle singole scuole e dagli Uffici scolastici regionali; il loro numero è infatti piuttosto ridotto e consente una gestione separata in tempi ragionevolmente brevi.
Il tempo a disposizione per la presentazione delle domande è sempre di trenta giorni, ma la decorrenza non coincide con la pubblicazione dell’ordinanza.
Lo scorso anno l’ordinanza era stata pubblicata molto prima dell’inizio dei termini di presentazione per concedere un po’ di tempo in più agli Idr che devono procurarsi l’idoneità presso una diocesi diversa da quella in cui prestano servizio.
Quest’anno l’OM 36 è stata pubblicata quasi a ridosso delle scadenze previste, ma si presume che le procedure si vadano stabilizzando e quindi gli interessati dovrebbero aver avviato con anticipo le operazioni connesse al proprio trasferimento.
Vedremo se nei prossimi anni sarà possibile superare il trattamento separato degli Idr in una distinta ordinanza sulla loro mobilità e si riuscirà ad integrare la loro gestione in un’unica ordinanza comune, così come comune è il Contratto Integrativo che prevede solo un articolo specifico per gli Idr.
Ma le peculiarità di cui tenere conto sono forse troppe.
Dio diviene uomo per rendere Adamo Dio
La festa dell’Annunciazione della santissima Madre di Dio e sempre vergine Maria è una delle poche feste che troviamo in quaresima nella tradizione bizantina.
Della festa abbiamo testimonianze precise a Costantinopoli attorno al 530, e anche Romano il Melode le dedica nel vi secolo un kontàkion.
Allo sviluppo della festa contribuirono le omelie antiariane che sottolineano, accanto all’umanità di Cristo, anche la sua divinità eternamente sussistente in Dio, e l’omiletica siriana, che sottolinea con forza il parallelo tra Eva e Maria.
A Roma la festa fu introdotta da Papa Sergio i (687-701), di origine siriaca, con una celebrazione liturgica a Santa Maria Maggiore e una processione.
Sin dall’inizio la festa fu celebrata il 25 marzo, sempre nel periodo quaresimale, un tempo dunque che esclude qualsiasi solennità.
Nel 692 il quarto concilio di Costantinopoli prescrisse però di celebrare con tutta solennità la festa, e così nelle Chiese bizantine si sviluppò un sistema di rubriche liturgiche che cercano di combinare l’Annunciazione con le ufficiature quaresimali e con quelle della Settimana santa.
La festa del 25 marzo ha una vigilia il 24 e un dopo-festa il 26, giorno in cui si celebra la memoria dell’arcangelo Gabriele.
Infatti, molto spesso le grandi feste nella tradizione bizantina hanno, il giorno successivo alla festa, la celebrazione del personaggio di cui Dio si serve per portare a termine il suo mistero di salvezza.
La festa ha come tema portante l’annuncio dell’Incarnazione del Verbo di Dio e la gioia che ne scaturisce.
In molti dei tropari ricorre quasi come un ritornello l’esortazione “gioisci”: si tratta di una gioia che non ha niente di superficiale, bensì nasce dalla consapevolezza della salvezza che ci viene data in Cristo, in una festa che cerca di coinvolgere tutta la creazione nella lode e nella contemplazione del mistero celebrato.
I tropari sono un intreccio di citazioni bibliche, soprattutto veterotestamentarie, profezie che annunciano il Cristo e che la tradizione patristica ha letto sempre in chiave cristologica.
Questa stessa accentuazione cristologica è già in tutti i titoli dati a Maria, legati al mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio e della divina maternità di Maria: “Gioisci, terra non seminata; gioisci, roveto incombusto; gioisci abisso imperscrutabile; gioisci, ponte che fa passare ai cieli e scala elevata contemplata da Giacobbe; gioisci, divina urna della manna; gioisci, liberazione dalla maledizione; gioisci, ritorno di Adamo dall’esilio: il Signore è con te”.
Un altro tema che torna nei testi liturgici è l’accostamento di meraviglia e dubbio in Maria; meraviglia di fronte a quello che le viene annunciato, dubbio non tanto di fronte a quello che dovrà avverarsi, bensì di non essere di nuovo ingannata come Eva da qualcuno che annuncia grandi cose (“sarete come Dio”).
Un altro accostamento di meraviglia e stupore è applicato dalla liturgia anche all’arcangelo di fronte al contenuto dell’annuncio, con una serie di affermazioni cristologicamente contrastanti, molto simili ai temi degli Inni di sant’Efrem il Siro: “L’inafferrabile che è nel più alto dei cieli, nasce da una vergine! Colui che ha il cielo per trono e la terra come sgabello si rinchiude nel grembo di una donna! Colui che i serafini dalle sei ali non possono fissare, si compiace di incarnarsi da lei.
Colui che qui è presente è il Verbo di Dio”.
Le letture del vespro sono prese dall’Antico Testamento, pericopi che già tutta la tradizione patristica di oriente e occidente legge in chiave cristologica: la scala di Giacobbe (Genesi, 28, 10-17); la porta chiusa da dove passa soltanto il Signore (Ezechiele, 43, 27 – 44, 4); la casa costruita dalla sapienza di Dio (Proverbi, 9, 1-11).
Il tropario della festa riassume in modo breve e chiaro il tema di fondo della celebrazione: “Oggi è il principio della nostra salvezza e la manifestazione del mistero nascosto da secoli: il Figlio di Dio diviene Figlio della Vergine, e Gabriele porta la buona novella della grazia.
Con lui dunque acclamiamo alla Vergine: Gioisci, piena di grazia, il Signore è con te”.
Nell’ufficiatura del mattutino uno dei suoi testi è di un autore bizantino, Teodoro Graptos (778-845), vissuto in piena controversia iconoclasta.
L’opera è un acrostico, e si svolge servendosi di un genere letterario che già Efrem usa spesso, cioè quello del dialogo o disputa tra due personaggi – qui tra l’arcangelo e la Madre di Dio – a strofe alterne.
L’autore riprende il tema accennato già al vespro, la meraviglia dello stesso arcangelo per quello che deve annunciare, e lo stupore e la paura della Vergine, paura di essere ingannata di nuovo come Eva.
L’ultimo dei tropari del mattutino riassume il mistero della nostra salvezza, già manifestato nei vangeli e nella tradizione patristica: “Il mistero che è dall’eternità è oggi rivelato, e il Figlio di Dio diviene figlio dell’uomo, affinché, assumendo ciò che è inferiore, possa comunicarmi ciò che è superiore; Dio diviene uomo per rendere Adamo Dio”.
Nella Divina liturgia del giorno 25 si leggono due brani, dalla lettera agli Ebrei (2, 11-18) e dal vangelo di Luca (1, 24-38).
“E l’angelo andò via da lei”.
Questo versetto che chiude la pericope dell’Annunciazione mi fa sempre impressione.
Il Signore ci annuncia la sua buona novella e poi ci lascia? No, non è l’abbandono né la solitudine che dobbiamo leggere nel vangelo di Luca, ma il fatto che nella nostra vita cristiana siamo chiamati a dare una risposta, con la nostra responsabilità e maturità, umana e cristiana.
(©L’Osservatore Romano – 25 marzo 2009)