I ragazzi di Easy Rider oggi hanno quarant’anni in più.
Uno è diventato una star dello show-biz, un altro, componente della più famosa famiglia d’attori americana, si è perso per strada dopo un pugno di pellicole troppo figlie del loro tempo per poter sperare di valicarne i confini, il terzo, all’epoca anche improvvisato benché non sprovveduto regista, ricompare saltuariamente, ma regolarmente in linea col suo personaggio di outsider un po’ studiato a tavolino.
Era il 1969 quando con le loro Harley Davidson erravano per un’America insolitamente ostile alla ricerca di risposte a domande divenute tutto d’un tratto mastodontiche.
Promuovendo un nuovo mito di libertà che nascondeva la crisi d’identità di tutta una generazione.
E salvando il cinema del loro Paese ingrato grazie anche ad un pizzico d’opportunismo.
Come capita spesso alle opere che possono fregiarsi del titolo di pietre miliari, infatti, anche il paradigma del road-movie, più che un evento realmente rivoluzionario, è stato il risultato di correnti e influenze pregresse giunte a piena maturazione: ciò che ne fa un mito pressoché intramontabile, più del ribellismo dalla facile presa o di meriti strettamente artistici che oggi appaiono un po’ sbiaditi, è il fatto che non si tratta solo di un film, ma del punto d’approdo di un processo storico, sociale, cinematografico decisivo per la cultura americana.
La strada che porta alle sue interstatali sconfinate e allucinate, a ben vedere, parte da molto lontano.
Almeno da quella seconda metà degli anni Cinquanta in cui tutto sembrava congiurare contro le majors del cinema mainstream e del loro studiosystem dalla struttura piramidale, attaccato su più fronti da fattori correlati e inesorabilmente convergenti ancorché di natura diversa: leggi antitrust, diffusione massiccia della televisione, graduale deurbanizzazione della società dell’immediato dopoguerra con conseguente perdita del rito cittadino dello spettacolo del grande schermo, affermarsi di cinematografie – le nouvelles vagues europee ma anche la scena east-side del New American Cinema – che prendevano di mira i moduli espressivi pedissequamente narrativi del prodotto medio hollywoodiano.
Con una sincronicità casuale quanto si vuole, ma che non manca di ribadire l’importanza del cinema nella società americana, poi, questa crisi della fabbrica dei sogni andava a prendere forma proprio alle porte del decennio che più avrebbe fatto traballare i valori nazionali e sconvolto l’opinione pubblica.
Vietnam e attentato a Kennedy avrebbero rappresentato solo l’inizio di un processo autodistruttivo destinato a durare a lungo, ma era già abbastanza per una generazione cresciuta con il mito dell’America come nazione eletta a guidare l’occidente verso lidi di pace e prosperità.
È da questo fertile humus costituito dalla simbiotica crisi hollywoodiana e nazionale, che trae linfa vitale il nuovo cinema indipendente.
Un movimento ancora disgregato, ma già insospettabilmente vitale che intravede, nel moderno gusto europeo del primato del significato e dello stile sulla tecnica, la legittimazione a operare anche con scarsa disponibilità di mezzi; nella perdita di un tessuto di valori comuni – nonché nel contemporaneo declino del codice di autocensura Hays, caduto sotto i colpi di una realtà che lo ha reso oltremodo ipocrita e anacronistico – più d’uno spiraglio per cominciare a imbastire un discorso di revisionismo storico parallelo a quello che, di lì a poco, promuoverà “in superficie” il contro-western di stampo liberal alla Soldato blu e Piccolo grande uomo.
Ma che qui, ossia nel sottobosco delle produzioni low-budget divenute improvvisamente spavalde e aggressive, assumerà piuttosto i toni di una nuova forma di horror-movie, debitrice a sua volta dell’iconografia western di cui però esibirà generosamente un uso improprio e straniante, spogliandola così di quella vecchia mitopoietica che ora si vuole combattere a ogni costo.
Anche se pochi sul momento se ne accorgono, infatti, è in questi primi anni Sessanta che viene precocemente alla luce, grazie a un manipolo di registi destinati a rimanere per lo più nell’anonimato, quell’immagine di una provincia rurale orribilmente retrograda e violenta che avrebbe fatto la fortuna dell’horror del decennio successivo, e di pellicole destinate a divenire cult imprescindibili per generazioni di cinefili – se è vero che sopravvivono ancora oggi in una serie impressionante di varianti e remake – come Non aprite quella porta di Tobe Hooper o Le colline hanno gli occhi di Wes Craven, pietre miliari, anche in questo caso, che si sono avvalse almeno in parte di intuizioni altrui.
È l’epoca in cui comincia a serpeggiare – anche grazie all’avallo ancora scevro da ideologie di Hitchcock e del suo Psyco – un tòpos che avrebbe fatto scuola: quello che vede un gruppo di giovani forestieri abbandonare per motivi contingenti la strada maestra per inoltrarsi lungo percorsi secondari e perigliosi, dove regolarmente scopriranno un’America allergica al nuovo, e adagiata sui simboli ormai putrescenti della storia nazionale.
Da qui in avanti si moltiplicheranno case dallo stile gotico o coloniale, ancor meglio se costruite su cimiteri indiani, fregi animali che rimandano all’addomesticamento spesso brutale della wilderness e alla conquista della frontiera, vessilli di una guerra di secessione mai del tutto risolta, in virtù di lacerazioni sociali ancora imbevute di razzismo e intolleranza.
Nell’ottica della controcultura cinematografica, insomma, gli eventi fondanti della nazione smetteranno di rappresentare motivo d’orgoglio come accadeva nel vecchio cinema western per divenire simboli del rimosso della coscienza collettiva, e di un peccato originale alla luce del quale ora si vuole inquadrare tutta la storia del Paese per arrivare a comprendere quelle pericolose forze centripete di cui è diventato preda.
Quando il film del trentatreenne Dennis Hopper – attore proveniente non a caso proprio dal fulcro dello studiosystem – finalmente approda su questo terreno figurativo e tematico già in gran parte spianato, allora, il suo merito sarà semmai quello di incanalarne i caotici fermenti in un contesto più organico e persino accattivante, conciliando le istanze metaforiche della critica sociale e politica – anche qui non mancherà il martirio dei “figli” per mano dei “padri” sullo sfondo di un’America profonda e arretrata – con quelle di un nuovo vitalismo un po’ modaiolo, condito sapientemente da un uso deflagrante della colonna sonora e strizzatine d’occhio agli eccessi libertari dell’epoca.
Finendo così per rappresentare, paradossalmente, tanto il riepilogo e la celebrazione del cinema indipendente del decennio che va a concludersi, quanto già uno dei più fulgidi prodromi di quella che sarà la New Hollywood, ovvero di un nuovo cinema americano che, memore della severa lezione ricevuta da oltreoceano e dalla traumatica crisi interna, cercherà di conciliare le ragioni dello spettacolo con quelle della cosiddetta politica degli autori.
Punto cruciale di questo lunghissimo e all’epoca non ancora terminato processo di distruzione e ricostruzione, Easy Rider lungo tale direzione anticiperà, in particolare, pur con accorgimenti ruffiani che in seguito saranno meglio assorbiti dai nuovi mezzi espressivi, quella epica della contro-epica che farà grande la generazione dei cineasti degli anni Settanta – Scorsese, Coppola, Cimino – e i loro losers dalla statura tragica, capace di accogliere le contraddizioni ormai conclamate della società di cui sono espressione.
Quarant’anni fa, insomma, mentre la sua patria d’appartenenza era ancora in pieno subbuglio, il cinema americano non solo ne registrava la crisi con uno sguardo impietoso, ma ritrovava inaspettatamente se stesso tornando a fare ciò che gli era sempre riuscito meglio, ovvero nutrirsi di leggende, poco importa se moralmente irrisolte o destinate alla sconfitta.
Come quei bikers pronti a farsi inghiottire dalle fauci di un Paese cui non appartengono più.
(©L’Osservatore Romano – 3 aprile 2009)
Videoclip
A differenza del cinema o della televisione dove la musica è sottofondo o commento all’azione, nel clip essa diventa invece il nodo centrale per iniziare a raccontare una storia anche e soprattutto a livello tecnico-espressivo: ad esempio, uno degli elementi fondanti dell’immagine cinetelevisiva, il montaggio, è nel video positivamente limitato dalla presenza musicale, in quanto i suoi stacchi sono sempre scanditi dalla sezione ritmica e non viceversa.
Tutto ciò è determinato dal fatto che la canzone preesiste al filmato in quanto si tratta di un prodotto dell’industria discografica.
Cosa succede quando l’immagine è bella, ma la canzone è brutta? O viceversa quando una musica valida non è ben supportata dall’impianto figurativo? Questi interrogativi arrivano al nocciolo centrale della questione, che dunque riguarda i criteri con cui giudicare oggettivamente il valore e la qualità di un video.
La domanda però va impostata diversamente, nel senso che per una critica esaustiva su forme e contenuti del video-clip, fino a individuare il suo «specifico», non basta analizzare la compresenza dei codici musicali e figurativi ulteriormente ripartiti in sottocodici.Il fatto è che nella riuscita del clip intervengono altre componenti più psicologiche, le quali si fondano a loro volta sull’intreccio di codici espressivi quali look e telegenia.: • con look si intende tutto quanto attiene alla cura e al comportamento della persona fisica, dalla bellezza al sex-appeal, dal trucco agli abiti, dalla pettinatura agli accessori, dal modo di parlare, gesticolare, camminare fino agli hobbies preferiti e alle manie più bislacche • con telegenia si intende invece la capacità di trasferire tutte queste doti, più o meno positive, sul piccolo schermo, non solo in virtù delle capacità personali, ma anche grazie a opportuni accorgimenti intrinseci al lavoro col mezzo televisivo
Alla base del video-clip c’è il codice televisivo, poiché il clip è anzitutto televisione per il semplice fatto che passa e vive attraverso il monitor e poi perché molte delle immagini sono costruite con una regia e una tecnica televisive.
( immagini semoventi) Anche i clip più tradizionali, riescono a produrre effetti di irrealtà, come se il pubblico assistesse a uno spettacolo distaccato.
La maniera originale con cui è impostata, rispetto ad altri testi televisivi, la parte visiva del video-clip, è definibile, come un cinema-cinema, si tratta insomma di metalinguaggio con grande ostentazione della tecnica, dai movimenti di macchina all’alternanza di campi e piani, dai flashback alle dissolvenze, senza risparmiare le varie tipologie di montaggio.
In rapporto alla visione individuale e privata del clip da parte dei ragazzi, i consigli da fornire sono essenzialmente di tre tipi in ordine crescente
Il primo è non limitarsi alla fruizione esclusiva dei video o di qualsiasi altro genere televisivo (cartoons, telefilm, soap-operas, sport, ecc.), ma di impiegare il tempo libero in maniera differenziata, alternando le ore passate davanti al monitor con altre attività ricreative sia intellettuali sia motorie: oltre le solite raccomandazioni sul piacere della lettura di libri e giornali, può anche essere utile vivere in altri modi la musica stessa; dal piccolo schermo al disco o alla videocassetta, dalla riviste specializzate alla pratica esecutiva, insomma la musica deve diventare non solo un fatto visivo, ma qualcosa di assai più coinvolgente, poiché può essere guardata, ascoltata, letta, cantata, eseguita, ballata, composta, ecc.
Il secondo è predisporsi di fronte al video-clip nella maniera meno passiva, cercando non soltanto di godersi meccanicamente uno spettacolo piacevole, ma di usare la propria intelligenza nei suoi confronti; in questo senso anche a casa, da soli o con amici, si possono improvvisare alcuni giochi col clip: ad esempio a ogni serie di video, tra uno spot e l’altro, ogni ragazzo può sceglierne uno e osservarlo con attenzione, riguardarlo con calma grazie alla videoregistrazione; e successivamente riflettere su una serie di questioni: a livello formale la scelta delle immagini, i riferimenti culturali e le associazioni psichiche che sorgono spontaneamente; a livello contenutistico l’argomento della trama, i modi in cui viene raccontata, la morale che se ne deve trarre; a un livello più profondo l’analisi del protagonista del clip, in riferimento a look e telegenia con l’impatto emotivo e il grado di piacevolezza e identificazione.
Il terzo è verificare con amici e compagni di classe le proprie scelte, discutere con loro i propri gusti, spiegare il più chiaramente possibile i motivi delle preferenze; verificare gli interessi comuni e le cause di unanimità o divergenze su certi video, cercando di formulare un giudizio personale e critico; passare infine dalla teoria alla prassi, nel senso di provare a inventare uno storyboard o una sceneggiatura per tante occasioni: nuove immagini per quelle già note, o aggiunta della parte visiva su canzoni vecchie molto famose che non hanno mai avuto una veste iconica (magari su generi particolari come la classica o il jazz), o ancora tentare una vera e propria operazione multimediale costruendo canzone e immagine, giocando a suddividersi i ruoli con tutti.
Rappresentazione sociale dell’infanzia in TV
1.
Introduzione Il processo di tutela del minore include le conoscenze, le idee, le credenze socialmente condivise che concorrono alla costruzione di una realtà comune in un insieme sociale (Jodelet, 1992).
Le rappresentazioni sociali, con la duplice funzione di organizzare la percezione del mondo e di servire da codice condiviso per la comunicazione sociale, possono portare spesso alla creazione di un’immagine non reale, distorta, dell’infanzia, anche perché frutto di schemi culturalmente condivisi, lontani, il più delle volte dalla realtà.
La complessità della formazione delle credenze e la profondità delle ragioni sociali della loro organizzazione escludono che se ne possa attribuire l’origine a una sola causa (Chombart de Lauwe, 1989).
Le rappresentazioni sociali sono costruzioni mentali di cui ci serviamo per comprendere gli eventi del mondo: per «ordinare» le esperienze.
Nella nascita di una nuova rappresentazione sociale, di un nuovo oggetto condiviso tra gli attori sociali, quel che assume importanza è il successo cognitivo di un emergente modo di vedere la realtà.
Per misurare il successo cognitivo di una nuova rappresentazione, la modalità più semplice e immediata è la misura della sua diffusione nella collettività: si parla di opinioni quando le rappresentazioni non superano la dimensione della soggettività; di atteggiamenti quando le rappresentazioni vengono assunte come proprie da un gruppo sociale; di stereotipi quando esse giungono alla collettività (Moscovici, 2005).
C’è un equilibrio non definitivo tra stabilità, irrigidimento e cambiamento delle rappresentazioni.
La rappresentazione però è chiaramente visibile solo dall’esterno, in quanto i soggetti che la condividono agiscono all’interno di essa e ne sono «dominati».
Arruda (2003) sostiene che una rappresentazione sociale è costituita da ragione ed emozione; è un processo attraverso il quale si associa la memoria con l’aspirazione ed esprime sia la nostra curiosità che la nostra ambizione; qualcosa in divenire, che si basa sia sul bagaglio culturale, accumulato da chi la produce, che sulle influenze esterne.
Tutti i ricercatori che si sono occupati di questo argomento hanno messo in evidenza che la rappresentazione di qualcosa è anche la rappresentazione di chi le dà vita (Bijmolt, Claasen e Brus, 1998).
Da un punto di vista strettamente metodologico, questo significa che il «costruttore di rappresentazioni» basa la sua costruzione su tutta una serie di simbolismi ed esperienze di vita, che provvedono alla creazione della sua interpretazione del mondo (Brucks, Armstrong e Goldberg, 1988; Buijzen e Valkenburg, 2003).
La condivisione che alimenta la rappresentazione sociale è causa ed effetto sia della sua vitalità che del suo cambiamento.
Il passaggio del nuovo oggetto «rappresentato» attraverso i singoli soggetti è fonte infatti di trasformazioni che infinitamente piccole all’inizio del processo, cresceranno attraverso i molteplici legami sociali con esiti mano a mano di coesistenza di barriere e limitazioni che insieme vanno a costruire un nuovo equilibrio (Moscovici e Farr, 1984).
L’ipotesi che le rappresentazioni sociali siano presenti nei mezzi di comunicazione di massa è condivisa da molti studiosi.
Sembra che in televisione si proponga una sorta di simulazione delle interazioni socialmente fondate presenti nella vita quotidiana.
È come se si vivesse in un ambiente in cui i soggetti scelti (casalinghe, bambini ecc.), si facciano di volta in volta sostenitori di credenze al posto degli spettatori, facendosi portatori delle rappresentazioni sociali moderne (Buijzen e Valkenburg, 2000; D’Alessio e Laghi, 2006).
Lo sforzo dei media è quello di agire come se fosse possibile farsi capire da tutti allo stesso modo (D’Alessio, Laghi e Froio, 2007).
Di fatto quel che succede all’interno dei programmi televisivi, non è altro che il tentativo di alimentare un serbatoio di senso comune in cui si propongono di volta in volta modelli «giovanili», «familiari», «infantili», «femminili» e così via: rappresentazioni a loro volta condivise o meglio, condivisibili (Atoum e Al-Simadi, 2000).
Lo slittamento tra condiviso e condivisibile è lo spazio che, privo dell’esperienza personale, della luce dei valori sociali, realizza spesso il più famoso «salto nel buio».
Quei modelli si cristallizzano come null’altro che luoghi comuni, perché si trovano rappresentati in un contesto in cui sono privi di esperienza «reale» e sono presentati in un’esperienza «mediatica» che non è oggettiva, e, al contrario, produce un argomento di uso corrente e per questo, dozzinale.
I bambini, spesso considerati poco competenti, o addirittura «adultizzati», non vengono quasi mai considerati spettatori da tutelare, essendo inseriti nella categoria “pubblico” (D’Alessio, 1990; Miljeteig, 1994).
Le ricerche svolte (D’Alessio, 2003; D’Alessio, Baiocco e Laghi, 2007) mettono in evidenza, inoltre, due atteggiamenti fondamentali dei telespettatori: 1) insoddisfazione e scetticismo sulla qualità dei programmi televisivi; 2) incapacità a riconoscere gli atteggiamenti e i comportamenti a rischio per l’infanzia all’interno dei programmi.
Anche genitori consapevoli, iscritti ad associazioni di telespettatori, hanno difficoltà a riconoscere l’ammiccamento sessuale, la volgarità, la rozzezza, la manipolazione dell’infanzia.
Nessuna trasmissione, in particolare quelle che contengono bambini, annuncia un intento di manipolazione, disconferma, frustrazione e mancanza di rispetto (Buckingham, 1997).
Così il telespettatore non potendo tornare indietro, rivedere, confrontare ed esaminare va avanti con la visione ricevendo alla fine al massimo un sentimento di frustrazione e di disagio.
Questi sentimenti sono difficili da elaborare perché richiedono un costante distacco da quanto è trasmesso.
Il più delle volte il telespettatore è spinto dalle caratteristiche del mezzo a partecipare.
L’interazione di questi fattori può portare spesso, nello specifico, a una immagine del bambino determinata da stereotipi, credenze e opinioni anche fortemente in contrasto tra loro.
Può accadere che i bambini siano giudicati poco competenti (Qvortrup, 1990; Archard, 1993; D’Alessio, Laghi e Baiocco, 2007), piccoli e tuttavia messi in situazioni ambigue e difficili da interpretare e gestire.
Inoltre, tali convinzioni non sono costruite su base oggettiva, ma ideologica: la rappresentazione sociale dell’infanzia è in buona parte frutto di schemi culturalmente condivisi, spesso lontani dall’effettiva realtà, risultato di processi culturali, sociali e economici che hanno dato origine a modelli di allevamento del bambino che si sono alternati e sovrapposti nel corso della storia dell’umanità (Casas, 1997).
Tali schemi sono poco sensibili all’esperienza, ma spesso a essa precedenti (pregiudizi).
Anche la legge e i codici non aiutano il monitoraggio televisivo.
È vero che essi lo prevedono ma sulla base di segnalazioni: le autorità interpretano il loro ruolo come arbitri delle segnalazioni che il telespettatore dovrebbe far notare.
1.1.
Obiettivi della ricerca La ricerca ha l’obiettivo di esplorare le rappresentazioni sociali di avvocati, giudici, genitori, ecclesiastici e insegnanti in relazione alla tutela del minore rispetto alla programmazione televisiva e agli spot pubblicitari.
Sono state scelte categorie di soggetti in cui l’elaborazione della “norma” non è un caso, ma piuttosto l’obiettivo della professione: gli avvocati e i giudici, rappresentativi di come i soggetti si rapportano con la “norma giuridica”; gli ecclesiastici con la “norma ideologica” e i genitori e gli insegnanti con la “norma socio-educativa”.
L’obiettivo principale della presente ricerca è indagare le rappresentazioni sociali di categorie di soggetti che si trovano ad elaborare una linea di condotta che collega il modello ideale dell’ infanzia con i comportamenti e le esperienze quotidiane e verificare come essi risolvano il problema della norma e della rappresentazione individuale in termini di concordanza/discordanza tra norma reale e ideale.
Ci proponiamo, inoltre, di verificare se avvocati, giudici ed ecclesiastici con differenti anni di servizio e con un diverso livello di competenza riguardo al Codice di autoregolamentazione Tv e minori (2002) e alla recente Legge Gasparri (2004) abbiano una rappresentazione condivisa della televisione e dei modelli cognitivi e affettivi proposti.
2.
Metodo e tecniche 2.1.
Soggetti e procedura La ricerca è stata condotta su un campione totale di 614 soggetti: 214 avvocati (M=124 e F=90), 100 giudici (M=70 e F=30), 100 ecclesiastici (M=60 e F=40) impegnati in attività di catechesi per bambini, 100 genitori (M=45 e F=55) con figli di età compresa tra gli otto e i dieci anni e 100 insegnanti di scuola elementare (M=25 e F=75), con un’età media di 35,6 (ds=0.84).
A tutti i soggetti è stata somministrato il questionario La TV e l’infanzia; la durata media di ogni somministrazione è stata di 35 minuti.
2.2.
Descrizione dello strumento Lo strumento di indagine, La TV e l’infanzia (D’Alessio e Laghi, 2006), è un questionario costituito da: A.
21 item con scala Likert a 5 passi (da1= Per nulla a 5= Moltissimo) che misurano: a) la valutazione dell’utilità o del danno per i bambini che partecipano alle trasmissioni e per quelli che guardano la TV a casa; b) la rappresentazione sociale del bambino protagonista o destinatario delle trasmissioni; c) la presenza di contenuti espliciti (sesso, violenza, volgarità) nella fascia oraria protetta di programmazione televisiva; d) la rappresentazione e la complessità dei sentimenti infantili e delle competenze cognitive infantili in relazione agli spot pubblicitari; B.
due stralci in versione cartacea di programmi televisivi per bambini: “Genius”, condotto da Mike Buongiorno, e “Chi ha incastrato Peter Pan” condotto da Paolo Bonolis; C.
8 domande aperte che consentono di valutare: a) la capacità del soggetto di riconoscere le dimensioni stereotipiche all’interno dei programmi presentati; b) la capacità di individuare la presenza di contenuti televisivi nocivi per i bambini; c) la consapevolezza e il grado di conoscenza del Codice di autoregolamentazione in materia di tutela del minore e della sua immagine.
2.3.
Metodologia statistica utilizzata Le elaborazioni statistiche effettuate sono state eseguite con il pacchetto statistico SPSS 11.0 per Windows, calcolando i parametri di statistica descrittiva Curtosi e Asimmetria e il Coefficiente di Variazione per verificare il carattere gaussiano della distribuzione dei dati.
La struttura fattoriale della prima sezione del questionario (item 1-21) è stata indagata mediante l’Analisi delle Componenti Principali (ACP) e la rotazione Oblimin degli assi fattoriali.
L’attendibilità delle dimensioni emerse dall’ACP è stata verificata mediante il coefficiente Alfa di Cronbach.
Per verificare la presenza di differenze statisticamente significative ai punteggi medi delle diverse dimensioni della scala, è stata condotta un’Analisi della Varianza Multivariata (con metodo Wilks di Lambda) considerando come variabile indipendente il gruppo (avvocati, giudici, ecclesiastici, insegnanti e genitori) e come variabili dipendenti i punteggi alle singole sottodimensioni della scala.
Per verificare la presenza di differenze statisticamente significative tra i giudici e avvocati con diversa anzianità di servizio e livello di competenza ai punteggi medi delle diverse dimensioni della scala, è stato computato un disegno di analisi della varianza fattoriale 2x3x2.
Le risposte alle domande aperte sono state indagate mediante il programma NUDIST VIVO; sono state individuate in ogni singolo item delle unità di analisi definibili come simboli-chiave caratterizzati da pregnanza semantica e in seguito sono state calcolate le frequenze differenziate per categoria (avvocati, giudici, genitori e insegnanti).
Dopo aver individuato le categorie è stata verificata la concordanza tra giudici con la statistica Kappa, utilizzata per valutare l’accordo tra siglatori con variabili categoriali.
Tale statistica è stata applicata alle assegnazioni fatte da tre valutatori al fine di individuare l’eventuale accordo o disaccordo nell’attribuire ogni aspetto caratteristico a una determinata categoria oppure no.
Per verificare le differenze tra i gruppi rispetto alle variabili categoriali emerse dall’analisi del contenuto sono state computate analisi del Chi2.
3.
Risultati 3.1.
Analisi delle Componenti Principali La matrice di correlazione relativa ai primi 21 quesiti del questionario è stata sottoposta ad analisi fattoriale mediante l’Analisi delle Componenti Principali (ACP) al fine di individuare eventuali dimensioni latenti.
La misura dell’adeguatezza (indice di Kaiser) della matrice di correlazione è .86; la matrice può quindi ritenersi appropriata per l’analisi fattoriale.
Successivamente all’analisi dello scree test e a considerazioni di natura teorica, è stato deciso di estrarre cinque fattori che spiegano il 59,44 % della varianza totale.
Numerose prove con diversi algoritmi di estrazione e rotazione, hanno evidenziato una struttura fattoriale stabile; poiché alcuni fattori estratti mostrano tra loro una correlazione si è deciso di applicare la rotazione obliqua Oblimin.
La struttura fattoriale evidenziata coincide con la definizione operativa che si è fornita per le dimensioni indagate: gli item afferenti a ognuna delle cinque dimensioni hanno infatti (nella maggioranza dei casi) una saturazione elevata su un unico fattore e saturazioni vicino allo zero sugli altri fattori (Tab.
1).
per la consultazione dei dati vedi allegato La rappresentazione sociale dell’infanzia in TVi risultati della ricerca Lo studio indaga le rappresentazioni sociali dell’infanzia in TV.
La ricerca si è svolta su un campione di 614 soggetti (214 avvocati, 100 giudici, 100 ecclesiastici, 100 insegnanti e 100 genitori).
Metodo: lo strumento utilizzato indaga la rappresentazione sociale del bambino protagonista o destinatario delle trasmissioni e degli spot pubblicitari.
Risultati: sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra i gruppi ai punteggi medi delle dimensioni Carattere educativo dei programmi, Contenuto degli spot inadatti ai bambini, Accordo sulla presenza dei bambini negli spot.
Sono emerse differenze anche tra avvocati e giudici differenziati in base al livello di competenza e all’anzianità di servizio.
Conclusioni: i risultati emersi suggeriscono la necessità di approfondire la relazione tra le diverse variabili implicate nella rappresentazione sociale dell’infanzia nei programmi televisivi e negli spot pubblicitari.
Adolescenza
1.
Studi sull’a.
Nell’ultimo sec.
l’a.
è stata studiata da diverse scienze; le scienze psicologiche (nell’ambito delle quali ci situiamo) hanno affrontato il tema da molti punti di vista.
Ci sembra che le varie prospettive possano essere organizzate intorno a tre gruppi di studi.
In un primo gruppo di lavori, che tiene presente una preoccupazione speculativa, è possibile scorgere un tentativo di far aderire la realtà alla teoria (e non viceversa); in altri termini, la preoccupazione è quella di applicare e «imporre» alla realtà adolescenziale le caratteristiche definite aprioristicamente.
La concezione psicoanalitica, che in questo gruppo si situa, offre un’ipotesi interpretativa secondo la quale il periodo di crisi e di grande disagio proprio dell’a.
va attribuito all’emergere degli istinti e delle forze pulsionali, che provoca uno squilibrio psichico che si manifesta con quei comportamenti disadattivi, a diversi livelli di «patologia», tipici degli adolescenti; si tratta, evidentemente, di una interpretazione di tipo biologico che presenta l’a.
come una realtà con caratteristiche legate e condizionate dalla fisiologia dei soggetti.
Un secondo gruppo di studi, con preoccupazione sociologica, prende in considerazione i dati reali che emergono da incontri psicologici di tipo clinico con soggetti «atipici» o «diversi» e da osservazioni di tipo sociologico su soggetti «emarginati» o «disadattati».
Si tratta di interpretazioni di tipo socio-culturale secondo le quali l’a.
sarebbe un «prodotto» della realtà sociale delle diverse strutture nazionali ed internazionali.
A questa prospettiva interpretativa si richiama la teoria sociologica secondo la quale le difficoltà adolescenziali, ed i relativi comportamenti disadattivi, sono frutto dell’influsso della società e sono correlati al processo di socializzazione ed alla diversità di ruoli attribuiti all’adolescente.
Interpretazioni sempre di tipo sociologico, ma più complete e meno rigide, propongono categorie che consentono una più ampia e realistica visione della condizione giovanile: «marginalità», «frammentarietà», «cambio culturale», «eccedenza delle opportunità» e «lotta per l’identità».
Queste due note ipotesi interpretative della psicologia dell’a., biologica e sociale, pongono l’accento solo su uno dei due fattori di sviluppo (endogeno ed esogeno) e non tengono presente, in modo adeguato, il contributo di ciascuno e la possibilità che entrambi hanno di integrarsi.
Inoltre, vogliamo evidenziare l’insufficienza di queste posizioni poiché non vi è alcuna corrispondenza tra le caratteristiche adolescenziali da esse indicate, i conseguenti tentativi interpretativi offerti, ed i numerosi dati empirici ormai acquisiti sugli adolescenti.
Diversamente, la preoccupazione empirica è ciò che caratterizza il terzo gruppo di studi.
La realtà adolescenziale, nell’orizzonte di una definita prospettiva teorica, viene avvicinata sperimentalmente.
In altre parole, alla luce di una teoria di riferimento, una ipotesi interpretativa viene confrontata con i dati ottenuti tramite ricerche condotte su adolescenti «normali».
Se queste tre categorie di studi prese isolatamente mostrano limiti e carenze, integrandosi possono diventare una chiave di lettura molto utile per approssimarsi nel modo più adeguato e completo alla ricca realtà adolescenziale.
2.
Pista di lettura dell’a.
Senza pretendere di essere completi e senza voler schematizzare la ricchezza della persona, proponiamo la nostra lettura della realtà adolescenziale.
Nella riflessione sull’adolescente, per avere una visione il più completa possibile, è necessario tener presente gli aspetti comportamentali, cognitivi e tendenziali della persona in sviluppo e avvicinarli alla luce di una pluralità di teorie psicologiche.
a) Capacità dell’adolescente.
L’adolescente è in grado di vedersi dall’esterno, di percepirsi oggettivamente, distaccandosi dalle prime impressioni soggettive; nello stesso tempo, si trova a dover fare i conti con l’ambiente sociale e con la sensibilità che ancora lo rende vulnerabile al giudizio altrui e che, spesso in misura notevole, condiziona e ridimensiona la sua oggettiva capacità di autorealizzazione.
Sempre in riferimento allo sviluppo cognitivo, una seconda osservazione vuole evidenziare tanto la capacità dell’adolescente di creare realtà ipotetiche e di immaginare, quanto le sue esigenze di giustizia, uguaglianza e amore universali, che appaiono come una ricerca del senso della vita, di rifiuto della realtà concreta e, alle volte, di sublimazione dei suoi desideri, pensieri e sentimenti.
La ricerca della trascendenza attraverso la modalità intellettuale è uno degli aspetti che più caratterizza l’adolescente (riconoscere questo bisogno profondo è un modo stupendo per avvicinarsi a lui).
L’adolescente ha difficoltà ad accettare i propri sentimenti; per convivere con tali sentimenti non integrati nella personalità, li «iperdifferenzia».
L’iperdifferenziazione dell’esperienza profonda lo rende «unico», lo caratterizza con una diversità tale da fargli pensare che la sua sia una realtà incomunicabile e che nessuno sia in grado di capirlo.
Il rapporto interpersonale diventa, quindi, difficile e, alle volte, impossibile; ma, poiché è doloroso vivere incompreso, può nascere in lui la ricerca di un essere così grande, così distante, e persino così diverso, da avere la capacità di capirlo e di comprenderlo.
Proprio perché emergente da questo bisogno, da questa ricerca di comprensione, definiamo il rapporto dell’adolescente con la realtà trascendente di falso ascetismo (in quanto derivante, appunto, dalla sublimazione di alcuni bisogni ai quali non si trova una risposta corrispondente).
L’adolescente si caratterizza anche per una grande apertura agli altri.
Il desiderio della socialità, generalmente, trova soddisfazione nell’incontro con il gruppo dei pari.
In esso, il giovane ha la possibilità di confrontarsi, di realizzare attività, progetti o, semplicemente, di «stare con» gli altri; inoltre, visto che il gruppo si propone come referente normativo e affettivo, progressivamente va ad affiancare e sostituire i ruoli parentali consentendo un distacco sempre maggiore dalla famiglia; infine, l’esperienza della relazione con i coetanei, costituisce un valido aiuto alla formazione del senso di identità, poiché permette all’adolescente di conoscersi e di stimarsi di più in quanto, nel gruppo, viene accettato per ciò che è e per ciò che realizza.
La capacità cognitiva di cui l’adolescente è dotato e l’importanza dell’ambiente sociale vengono ad interagire con il suo mondo profondo che comprende il passato (a volte pesante da sopportare), i sentimenti autentici, la difficoltà dell’integrazione armonica delle diverse componenti della personalità, le ambivalenze, i bisogni ed altro ancora.
In sintesi, possiamo dire che l’adolescente viene visto come una persona capace di mettersi in rapporto proattivo con il mondo circostante e di rispondere ai compiti di sviluppo che gli si presentano e che, progressivamente e armonicamente, lo portano verso la maturità.
b) Difficoltà dell’adolescente.
Anziché parlare di «problemi», parola che fa pensare a qualcosa da sopportare od a disturbi propri dell’età per cui non si può far altro che aspettare il superamento della fase, useremo le espressioni «aspetti problematici» e «punti focali» che, ci sembra, consentono di cogliere le peculiarità dell’a.
e i possibili conflitti intra ed interpersonali senza stigmatizzarli, ma leggendoli in termini processuali di impegno verso una maturità più grande.
Un primo, e generale, aspetto problematico consiste, allora, nella difficoltà che l’adolescente incontra nel compiere un’integrazione transazionale delle tre componenti (cognitiva, affettiva, relazionale) della sua personalità; soprattutto, l’adolescente trova difficoltà ad integrare l’aspetto cognitivo e quello tendenziale: malgrado abbia la capacità di auto-vedersi oggettivamente, non riesce a cogliere la positività delle sue esperienze e non riesce a dare una spiegazione soddisfacente delle proprie tendenze, dei sentimenti o di ciò che prova nelle diverse situazioni.
Un secondo, e più «banale», aspetto problematico è legato all’immagine corporea.
Non è facile per l’adolescente integrare i mutamenti corporei che, spesso, sfuggono al controllo razionale e che non sempre è possibile armonizzare in modo da sentirsi a proprio agio sia con se stessi che nel gruppo dei pari.
La conoscenza, l’accettazione e la rielaborazione dell’immagine corporea e la formazione di una adeguata identità psicosessuale, sono compiti molto impegnativi che richiedono la presenza e la mediazione di un educatore.
Un terzo punto focale è costituito dalla conquistata capacità di pensare in termini ipotetici, che porta l’adolescente a vivere in un mondo fantastico, nel quale è possibile costruire sia eventi che persone ideali.
Due conseguenze di questa conquista possono creare difficoltà all’adolescente.
In primo luogo, il cambio della relazione «reale-possibile», che conduce l’adolescente a relazionarsi con il «possibile» come se fosse «realtà», ostacola la capacità di ragionare e di comportarsi in base ai fatti concreti ed all’esperienza vissuta e riflessa.
D’altra parte, e arriviamo alla seconda conseguenza, la capacità di vedere come possibili tante risposte e tanti modi di combinare gli eventi e le risorse in suo possesso, porta l’adolescente all’incertezza, all’indecisione e, quindi, blocca la sua azione; non potendo accettare tale immobilità, nel suo disorientamento, chiede aiuto.
I problemi emergono allorché l’adolescente confronta la scelta che gli è stata consigliata, e che lui ha messo in pratica, con tutte le altre che la sua capacità di pensiero gli presenta (realizzabili o ipoteticamente possibili che siano) e constata che l’alternativa attuata è più povera di quelle che avrebbe potuto attuare.
Questa scoperta può portare l’adolescente ad un sentimento ambivalente: colpevolizza le persone da cui ha ricevuto l’orientamento (ribellione) e, successivamente, nel momento in cui riesce a vedere sia gli aspetti positivi del consiglio ricevuto sia l’interessamento delle persone adulte a cui si è rivolto in cerca di consiglio, si sente colpevole.
Un quarto aspetto problematico riguarda la vita relazionale dell’adolescente; la tendenza ad aprirsi agli altri può trasformarsi in tendenza all’isolamento per due ordini di difficoltà.
In primo luogo, la non accettazione del proprio mondo personale può portare l’adolescente a costruirsi delle «maschere sociali» che hanno lo scopo di difenderlo dai pregiudizi e dalle etichette sociali e, soprattutto, dal pericolo di venir scoperto negli aspetti negativi che crede di avere o negli aspetti che realmente ha e non gli piacciono.
In secondo luogo, la tendenza all’isolamento dell’adolescente è favorita dall’impossibilità di manifestare chiaramente e apertamente nel mondo sociale la sua ricchezza intrapsichica.
3.
Suggerimenti educativi.
Da un punto di vista educativo è necessario partire da una concezione dell’uomo che permetta di coglierne tutta la ricchezza e che, di conseguenza, offra una visione dell’adolescente come persona che realizza in modo proprio, non solo in funzione dell’adulto che diventerà o del fanciullo che non è più, il compito di essere uomo.
Da un punto di vista psicologico in generale e della psicologia dell’a.
in particolare, è bene tener presente che un processo educativo si realizza seguendo alcuni passi.
Per prima cosa, è necessario «stare con» il soggetto in modo da conoscere la sua struttura cognitiva, il suo modo di ragionare, le sue risorse.
L’adolescente si sviluppa continuamente; le sue risposte non sono mai definitive.
È necessario saper decodificare e proporre le risposte considerandole parte di un processo, di un dinamismo in continuo sviluppo e mai come entità chiuse e definite.
Indichiamo alcune mete che, se comunicate in modo chiaro, possono essere raggiunte favorendo così la crescita dell’adolescente: accettare le opinioni per il loro valore, differire la soddisfazione dei bisogni, operare un equilibrio tra dipendenza e indipendenza, richiedere secondo le esigenze e non solo secondo le apparenze.
L’educatore deve essere in grado di capire e di accettare le risposte e le sollecitazioni che gli vengono dal mondo adolescenziale in qualsiasi modo gli arrivino; nello stesso tempo, deve essere capace di dar ragione esplicita delle sue proposte in modo tale che l’adolescente le possa accettare per il loro valore intrinseco (senza dimenticare l’importanza che la persona dell’educatore ha per l’adolescente).
Bibliografia Arto A., Psicologia evolutiva.
Metodologia di studio e proposta educativa, Roma, LAS, 1990; Palmonari A.
(Ed.), Psicologia dell’adolescenza., Ibid., 1993; Berger K.
S., Lo sviluppo della persona: periodo prenatale, infanzia, a., maturità, vecchiaia, Bologna, Zanichelli, 1996; Erikson E.
H., I cicli della vita.
Continuità e mutamenti, Roma, Armando, 1999; Caprara G.
V.
– A.
Fonzi, L’età sospesa.
Itinerari del viaggio adolescenziale, Firenze, Giunti, 2000; Pellai A.
– S.
Boncinelli, Just do it! I comportamenti a rischio in a.
Manuale di prevenzione per scuola e famiglia, Milano, Angeli, 2002; Bonino S.
– E.
Cattelino – S.
Ciairano, Adolescenti e rischio.
Comportamenti, funzioni e fattori di protezione, Firenze, Giunti, 2003; Bonino S., Il fascino del rischio negli adolescenti, Ibid., 2005; Couyoumdjian A.
– R.
Baiocco – C.
Del Miglio, Adolescenti e nuove dipendenze.
Le basi teoriche, i fattori di rischio, la prevenzione, Bari, Laterza, 2006; Marcelli D.
– A.
Bracconnier, A.
e psicopatologia, Milano, Masson, 2006; Montuschi F.
– A. Palmonari, Nuovi adolescenti: dalla conoscenza all’incontro, Roma, EDB, 2006. A.
Arto Classicamente, l’adolescenza è considerata come il periodo della vita situato tra 1’infanzia e l’età adulta.
In termini biologici, l’inizio viene segnalato dalla pubertà e la durata, in genere, viene attribuita ad un arco di tempo che va dai 12 ai 18 anni d’età (le differenze sessuali e delle condizioni ambientali, sociali e razziali fanno oscillare questi limiti temporali).
In base ad un criterio di tipo cognitivo-sociale, l’a.
va dal momento in cui il ragazzo comincia ad essere capace di utilizzare con una certa autonomia il pensiero logico, fino a quando giunge alla piena integrazione delle sue capacità logico-cognitive ed ha la possibilità di vivere una vita indipendente a livello affettivo, economico e relazionale.
Domenica delle Palme anno B
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.M.
NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino.
Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 50,4-7 Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato.
Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli.
Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro.
Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a colo-ro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi.
Il Si-gnore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia fac-cia dura come pietra, sapendo di non restare confuso.
Il brano apre il terzo dei «Canti del Servo».
Il personaggio che parla non è nominato, e non viene usata la parola «servo»; si esprime come un profeta, e presenta le caratteristiche del discepolo, docilità e fedeltà.
Alcuni commentatori lo identificano con Zorobabele, il di-scendente di Davide che aveva acceso le speranze messianiche nel post-esilio.
Le difficoltà che si oppongono alla sua missione, già presenti nel secondo canto (49,1-9), si fanno qui più concrete: gli insulti e gli oltraggi di cui il Servo è fatto segno rientrano in ciò che ci si aspettava dalla vocazione profetica (cf.
le Confessioni di Geremia).
Il testo del v.
4, è molto tormentato, alcuni vocaboli dell’ebraico sono di difficile inter-pretazione, la «lingua da discepolo» (o «discepoli», limûdîm: parola rara nell’AT) potrebbe alludere a una scuola di discepoli che accoglie una tradizione di cui il Secondo e il terzo I-saia sarebbero i continuatori.
Enigmatico anche il termine lacût, tradotto con «indirizzare (una parola)», «sostenere», o anche «rispondere» (sulla base del testo greco della Settanta), allo «sfiduciato», o «stanco» (jacef).
Il senso può essere «indirizzare una parola allo sfidu-ciato», o anche «sostenere colui che non ha più parole».
L’orecchio (v.
4 e v.
5) è anche la facoltà di intendere.
Il Servo è quindi un maestro di sapienza, fedele ascoltatore della Parola, che trasmette l’insegnamento divino ai discepoli.
I vv.
6-7 mostrano la persecuzione, conseguenza di questa docilità alla Parola.
È la con-dizione degli Israeliti, anche dopo il ritorno dall’esilio.
Il Servo oppone alla persecuzione la sua fermezza, o anche ostinazione: la «faccia dura come pietra».
La sua sicurezza viene dal-l’aiuto del Signore Dio d’Israele (nominato ben tre volte in questi quattro versetti).
Seconda lettura: Filippesi 2,6-11 Cristo Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo, diventan-do simile agli uomini.
Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce.
Per questo Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pie-ghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: «Gesù Cristo è Signore!», a gloria di Dio Padre.
In un contesto parenetico, introdotto dal v.
5 — «abbiate fra voi gli stessi sentimenti che in Cristo Gesù» —, Paolo inserisce un inno di alto contenuto cristologico.
Si tratta di un te-sto prepaolino nella sostanza, che si può far risalire agli anni 50, e che ripercorre l’intero cammino di Gesù: pre-esistenza, incarnazione, vita terrena, croce, esaltazione.
Seguendo lo schema abbassamento/esaltazione, risponde alla domanda «chi è Gesù»?.
Due strofe consequenziali (vv.
6-8; 9-11, la seconda introdotta da «Per questo») espon-gono la storia di Gesù in cinque tappe, scandite da cinque verbi: tre con soggetto Gesù nel-la prima strofa, due con soggetto Dio nella seconda.
1a strofa – I tre verbi all’indicativo aoristo dicono le azioni e si riferiscono a fatti circoscritti, accompagnati da participi che ne esprimono le modalità: a) non ritenne (ouk egesato, v.
6) bottino l’essere simile a Dio, pur essendo radicato di diritto (yparchon) nella forma (morfè) divina: il ragionamento che prelude all’incarnazione è fatto nella condizione di Dio, all’interno della Trinità: la decisione di donarsi è la legge stessa dell’esistenza di Dio.
b) ma svuotò (ekénosen, v.
7) se stesso…
La rinuncia globale è scandita da una serie di parti-cipi che sottolineano la normalità dell’essere uomo: prendendo la condizione (morfe) di ser-vo, divenuto simile all’uomo, comportandosi alla maniera degli uomini.
c) Umiliò (etapeinosen, v.
8) se stesso, sottoponendosi alle modalità del vivere terreno e di-venendo obbediente (ypèkoos = colui che ascolta dal basso) fino a condividere l’esperienza del-l’uomo di fronte alla morte.
2a strofa – A queste tre tappe fa riscontro la risposta del Padre: la logica divina della dona-zione incondizionata è confermata, la croce manifesta il suo carattere rivelativo.
a) Per questo (diò kai) Dio lo esaltò (yperypsosen, v.
9).
La via dell’amore si mostra vittoriosa nella sconfitta.
b) L’esaltazione è la conseguenza, il frutto dell’amore, e tuttavia è dono: gli ha donato (echa-rìsato) un Nome al di sopra di ogni altro nome.
La storia di Gesù si risolve a gloria universale di Dio Padre: ogni ginocchio si pieghi (v.
10) e ogni lingua proclami (v.
11) Gesù Cristo Signore, a gloria (dòxa) di Dio Padre.
Alcune corrispondenze sottolineano l’antitesi: isa theò (v.
6) contrapposto a homoiòmati anthròpon (v.
7), servo (v.
7) contrapposto a Signore (v.11), svuotare-umiliare (vv.
7-8) con-trapposti a esaltare (v.
9).
Vangelo: Marco 14,1-15,47 Cercavano il modo di impadronirsi di lui per ucciderlo Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Àzzimi, e i capi dei sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di catturare Gesù con un inganno per farlo morire.
Dicevano infat-ti: «Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo».
Ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura Gesù si trovava a Betània, nella casa di Simone il lebbroso.
Mentre era a tavola, giunse una donna che aveva un vaso di alabastro, pieno di profumo di puro nardo, di grande valore.
Ella ruppe il vaso di alabastro e versò il profumo sul suo capo.
Ci fu-rono alcuni, fra loro, che si indignarono: «Perché questo spreco di profumo? Si pote-va venderlo per più di trecento denari e darli ai poveri!».
Ed erano infuriati contro di lei.
Allora Gesù disse: «Lasciatela stare; perché la infastidite? Ha compiuto un’azione buona verso di me.
I poveri infatti li avete sempre con voi e potete far loro del bene quando volete, ma non sempre avete me.
Ella ha fatto ciò che era in suo po-tere, ha unto in anticipo il mio corpo per la sepoltura.
In verità io vi dico: dovunque sarà proclamato il Vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto».
Promisero a Giuda Iscariota di dargli denaro Allora Giuda Iscariota, uno dei Dodici, si recò dai capi dei sacerdoti per consegnare loro Gesù.
Quelli, all’udirlo, si rallegrarono e promisero di dargli del denaro.
Ed egli cercava come consegnarlo al momento opportuno.
Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli? Il primo giorno degli Àzzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: «Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?».
Allora mandò due dei suoi discepoli, dicendo loro: «Andate in città e vi verrà incontro un uo-mo con una brocca d’acqua; seguitelo.
Là dove entrerà, dite al padrone di casa: “Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, in cui io possa mangiare la Pasqua con i miei disce-poli?”.
Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala, arredata e già pronta; lì preparate la cena per noi».
I discepoli andarono e, entrati in città, trovarono come a-veva detto loro e prepararono la Pasqua.
Uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici.
Ora, mentre erano a tavola e mangiavano, Gesù disse: «In verità io vi dico: uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà».
Co-minciarono a rattristarsi e a dirgli, uno dopo l’altro: «Sono forse io?».
Egli disse loro: «Uno dei Dodici, colui che mette con me la mano nel piatto.
Il Figlio dell’uomo se ne va, come sta scritto di lui; ma guai a quell’uomo, dal quale il Figlio dell’uomo viene tradi-to! Meglio per quell’uomo se non fosse mai nato!».
Questo è il mio corpo.
Questo è il mio sangue dell’alleanza E, mentre mangiavano, prese il pane e recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: «Prendete, questo è il mio corpo».
Poi prese un calice e rese grazie, lo diede loro e ne bevvero tutti.
E disse loro: «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è ver-sato per molti.
In verità io vi dico che non berrò mai più del frutto della vite fino al gior-no in cui lo berrò nuovo, nel regno di Dio».
Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi.
Gesù disse loro: «Tutti rimarrete scandalizzati, perché sta scritto: “Percuoterò il pastore e le pecore saranno disperse”.
Ma, dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea».
Pietro gli disse: «An-che se tutti si scandalizzeranno, io no!».
Gesù gli disse: «In verità io ti dico: proprio tu, oggi, questa notte, prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
Ma egli, con grande insistenza, diceva: «Anche se dovessi morire con te, io non ti rinnegherò».
Lo stesso dicevano pure tutti gli altri.
Cominciò a sentire paura e angoscia Giunsero a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: «Sedetevi qui, mentre io prego».
Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia.
Disse loro: «La mia anima è triste fino alla morte.
Restate qui e ve-gliate».
Poi, andato un po’ innanzi, cadde a terra e pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora.
E diceva: «Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allonta-na da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu».
Poi venne, li trovò addormentati e disse a Pietro: «Simone, dormi? Non sei riuscito a vegliare una sola ora? Vegliate e pregate per non entrare in tentazione.
Lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
Si allontanò di nuovo e pregò dicendo le stesse parole.
Poi venne di nuovo e li trovò addormentati, perché i loro occhi si erano fatti pesanti, e non sapeva-no che cosa rispondergli.
Venne per la terza volta e disse loro: «Dormite pure e ripo-satevi! Basta! È venuta l’ora: ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori.
Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi tradisce è vicino».
Arrestatelo e conducetelo via sotto buona scorta E subito, mentre ancora egli parlava, arrivò Giuda, uno dei Dodici, e con lui una folla con spade e bastoni, mandata dai capi dei sacerdoti, dagli scribi e dagli anziani.
Il tra-ditore aveva dato loro un segno convenuto, dicendo: «Quello che bacerò, è lui; arre-statelo e conducetelo via sotto buona scorta».
Appena giunto, gli si avvicinò e disse: «Rabbì» e lo baciò.
Quelli gli misero le mani addosso e lo arrestarono.
Uno dei pre-senti estrasse la spada, percosse il servo del sommo sacerdote e gli staccò l’orecchio.
Allora Gesù disse loro: «Come se fossi un brigante siete venuti a prendermi con spade e bastoni.
Ogni giorno ero in mezzo a voi nel tempio a insegnare, e non mi avete arrestato.
Si compiano dunque le Scritture!».
Allora tutti lo abbandonarono e fuggi-rono.
Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo affer-rarono.
Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo.
Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? Condussero Gesù dal sommo sacerdote, e là si riunirono tutti i capi dei sacerdoti, gli anziani e gli scribi.
Pietro lo aveva seguito da lontano, fin dentro il cortile del palazzo del sommo sacerdote, e se ne stava seduto tra i servi, scaldandosi al fuoco.
I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una testimonianza contro Gesù per metterlo a morte, ma non la trovavano.
Molti infatti testimoniavano il falso contro di lui e le loro testimonianze non erano concordi.
Alcuni si alzarono a testimoniare il falso contro di lui, dicendo: «Lo abbiamo udito mentre diceva: “Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d’uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d’uomo”».
Ma nemmeno così la loro testimonianza era concorde.
Il sommo sacerdote, alzatosi in mez-zo all’assemblea, interrogò Gesù dicendo: «Non rispondi nulla? Che cosa testimonia-no costoro contro di te?».
Ma egli taceva e non rispondeva nulla.
Di nuovo il sommo sacerdote lo interrogò dicendogli: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?».
Gesù rispose: «Io lo sono! E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo».
Allora il sommo sacerdote, stracciandosi le vesti, disse: «Che bisogno abbiamo ancora di testimoni? Avete udito la bestemmia; che ve ne pa-re?».
Tutti sentenziarono che era reo di morte.
Alcuni si misero a sputargli addosso, a bendargli il volto, a percuoterlo e a dirgli: «Fa’ il profeta!».
E i servi lo schiaffeggiava-no.
Non conosco quest’uomo di cui parlate Mentre Pietro era giù nel cortile, venne una delle giovani serve del sommo sacerdote e, vedendo Pietro che stava a scaldarsi, lo guardò in faccia e gli disse: «Anche tu eri con il Nazareno, con Gesù».
Ma egli negò, dicendo: «Non so e non capisco che cosa di-ci».
Poi uscì fuori verso l’ingresso e un gallo cantò.
E la serva, vedendolo, ricominciò a dire ai presenti: «Costui è uno di loro».
Ma egli di nuovo negava.
Poco dopo i presen-ti dicevano di nuovo a Pietro: «È vero, tu certo sei uno di loro; infatti sei Galileo».
Ma egli cominciò a imprecare e a giurare: «Non conosco quest’uomo di cui parlate».
E subito, per la seconda volta, un gallo cantò.
E Pietro si ricordò della parola che Gesù gli aveva detto: «Prima che due volte il gallo canti, tre volte mi rinnegherai».
E scoppiò in pianto.
Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei? E subito, al mattino, i capi dei sacerdoti, con gli anziani, gli scribi e tutto il sinedrio, dopo aver tenuto consiglio, misero in catene Gesù, lo portarono via e lo consegnaro-no a Pilato.
Pilato gli domandò: «Tu sei il re dei Giudei?».
Ed egli rispose: «Tu lo di-ci».
I capi dei sacerdoti lo accusavano di molte cose.
Pilato lo interrogò di nuovo di-cendo: «Non rispondi nulla? Vedi di quante cose ti accusano!».
Ma Gesù non rispose più nulla, tanto che Pilato rimase stupito.
A ogni festa, egli era solito rimettere in liber-tà per loro un carcerato, a loro richiesta.
Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio.
La folla, che si era radunata, cominciò a chiedere ciò che egli era solito concedere.
Pilato rispose loro: «Volete che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Sapeva infatti che i capi dei sacerdoti glielo avevano consegnato per invidia.
Ma i capi dei sacerdoti inci-tarono la folla perché, piuttosto, egli rimettesse in libertà per loro Barabba.
Pilato disse loro di nuovo: «Che cosa volete dunque che io faccia di quello che voi chiamate il re dei Giudei?».
Ed essi di nuovo gridarono: «Crocifiggilo!».
Pilato diceva loro: «Che male ha fatto?».
Ma essi gridarono più forte: «Crocifiggilo!».
Pilato, volendo dare soddisfazione alla folla, rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto fla-gellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
Intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo Allora i soldati lo condussero dentro il cortile, cioè nel pretorio, e convocarono tutta la truppa.
Lo vestirono di porpora, intrecciarono una corona di spine e gliela misero attorno al capo.
Poi presero a salutarlo: «Salve, re dei Giudei!».
E gli percuotevano il capo con una canna, gli sputavano addosso e, piegando le ginocchia, si prostravano davanti a lui.
Dopo essersi fatti beffe di lui, lo spogliarono della porpora e gli fecero indossare le sue vesti, poi lo condussero fuori per crocifiggerlo.
Condussero Gesù al luogo del Gòlgota Costrinsero a portare la sua croce un tale che passava, un certo Simone di Cirene, che veniva dalla campagna, padre di Alessandro e di Rufo.
Condussero Gesù al luo-go del Gòlgota, che significa «Luogo del cranio», e gli davano vino mescolato con mir-ra, ma egli non ne prese.
Con lui crocifissero anche due ladroni Poi lo crocifissero e si divisero le sue vesti, tirando a sorte su di esse ciò che ognuno avrebbe preso.
Erano le nove del mattino quando lo crocifissero.
La scritta con il mo-tivo della sua condanna diceva: «Il re dei Giudei».
Con lui crocifissero anche due la-droni, uno a destra e uno alla sua sinistra.
Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Quelli che passavano di là lo insultavano, scuotendo il capo e dicendo: «Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!».
Così anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi, fra loro si facevano beffe di lui e diceva-no: «Ha salvato altri e non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo!».
E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano.
Gesù, dando un forte grido, spirò Quando fu mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio.
Alle tre, Gesù gridò a gran voce: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?», che significa: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Udendo questo, alcuni dei presenti dicevano: «Ecco, chiama Elia!».
Uno corse a inzuppare di aceto una spugna, la fissò su una canna e gli dava da bere, dicendo: «Aspettate, vediamo se viene Elia a farlo scende-re».
Ma Gesù, dando un forte grido, spirò.
Il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo.
Il centurione, che si trovava di fronte a lui, avendolo visto spirare in quel modo, disse: «Davvero quest’uomo era Fi-glio di Dio!».
Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme.
Giuseppe fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro Venuta ormai la sera, poiché era la Parascève, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d’Arimatèa, membro autorevole del sinedrio, che aspettava anch’egli il regno di Dio, con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù.
Pilato si meravigliò che fosse già morto e, chiamato il centurione, gli domandò se era morto da tempo.
Informato dal centurione, concesse la salma a Giuseppe.
Egli allora, comprato un lenzuolo, lo de-pose dalla croce, lo avvolse con il lenzuolo e lo mise in un sepolcro scavato nella roccia.
Poi fece rotolare una pietra all’entrata del sepolcro.
Maria di Màgdala e Maria madre di Ioses stavano a osservare dove veniva posto.
Esegesi Introdotto da due versetti che svelano l’intenzione omicida di scribi e sacerdoti, tenuta nascosta per timore della folla (è un primo accenno alla Passione), la lunga lettura evange-lica di oggi è racchiusa tra due momenti — anticipo e conclusione del dramma — che ve-dono protagoniste le donne: l’unzione di Betania (14,3-9) e la presenza delle donne ai piedi della croce e al sepolcro (15,40-41.47).
Unzione di Betania (14,3-9) A differenza del testo di Giovanni la donna qui (come in Matteo) è anonima, mentre è nominato il padrone di casa, un certo Simone, e il luogo, Betania, il villaggio presso Geru-salemme dove Gesù si ritirava la notte per non essere catturato.
Comuni gli elementi es-senziali del racconto: la sottolineatura dello spreco, con l’indicazione del prezioso alaba-stro e del costosissimo profumo, oggetti di lusso che sembrano contrastare con lo stile di vita di Gesù; lo scandalo, più o meno sincero, dei discepoli, con l’accenno (forse strumenta-le?) ai poveri; la sorprendente reazione di Gesù, che accetta l’omaggio e rimprovera i di-scepoli: la donna ha compiuto una buona opera (kalòn ergon, v.
6); i poveri sono una scusa, infatti ci sarà sempre tempo per far loro del bene (v.
7); il gesto della donna ha soprattutto significato profetico, annuncia la sepoltura di Gesù (secondo accenno alla Passione, v.
8).
Il valore perenne del gesto è sancito dalla consegna alla memoria («sarà narrato in memoria di lei»: presente in Matteo, non in Giovanni).
Al terzo accenno della Passione (racconto del tradimento di Giuda, vv.
10-11) seguono i preparativi della Cena pasquale (vv.
12-16); tutto appare già predisposto, come in un dise-gno dall’alto, fin nei minimi particolari, e questa Pasqua si preannuncia già con un caratte-re di unicità.
Ultima Cena (14,17-31) Il grande quadro della Cena racchiude il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia (vv.
22-25) fra due annunci di Gesù che si corrispondono: il tradimento di Giuda (vv.
17-21), indi-cato senza nominarlo come «colui che mangia con me», e il rinnegamento di Pietro (vv.
26-31).
Quarto e quinto accenno alla Passione, quest’ultimo contiene anche un primo accenno alla resurrezione (v.
28) che passa quasi inosservato, non compreso dai discepoli.
L’istituzione dell’Eucaristia corrisponde sostanzialmente al testo di Matteo, manca però la motivazione «in remissione dei peccati» (Mt 26,28).
Diversa, com’è noto, la relazione di Luca (22,15-20) e di Paolo (1Cor 11,23-25): in Marco e Matteo l’alleanza non è chiamata «nuova».
Come in Matteo e in Luca, in Marco si parla del compimento escatologico nel Regno, e questo è detto «nuovo»: «non berrò mai più del frutto della vite…».
Getsemani e arresto (14,32-52) Il racconto appare molto tormentato quanto alla formazione.
Si possono riconoscere due tradizioni intrecciate: una cristologica, in risposta alla domanda «chi è Gesù»?; una mora-leggiante, che propone un modello di comportamento per i discepoli.
Intorno a un nucleo antichissimo — «il Figlio dell’uomo viene consegnato» (v.
41) — si svi-luppa una lettura in profondità, un racconto in cui Gesù manifesta il suo sentimento, e che fa inclusione con il culmine della Passione («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», 15,34).
Si susseguono cinque brevi discorsi di Gesù (quattro ai discepoli, quello centrale al Padre).
L’azione ha una struttura ternaria: tre volte Gesù prega, tre volte i discepoli dor-mono, tre volte Gesù va e viene.
Anche i verbi si ripetono: pregare (4x), dormire (4x), vegliare (3x).
Protagonista è Gesù, il Padre è presente nell’ombra.
Gli altri personaggi, poco più che comparse, sono in concentrazione successiva: i discepoli, i tre, Pietro; più tardi il quadro si allarga: Giuda, i Dodici, la folla.
Gesù sceglie i tre, come altre volte prima di compiere un gesto importante (cf.
5,37; 9.2).
È rappresentato totalmente dalla parte dell’uomo: si prostra (v.
35), la sua preghiera (v.
36) ha lo svolgimento classico dei salmi (invocazione, professione di fede, supplica, accetta-zione della volontà di Dio; manca il ringraziamento).
La sua tristezza è scandita da due immagini: l’ora e il calice.
L’insistenza sul sonno dei discepoli mette in luce la loro lonta-nanza e debolezza.
L’invito a pregare per non soccombere alla tentazione, rivolto non solo a Pietro, contrappone la carne e lo spirito non come due sostanze, ma come due tendenze che coinvolgono l’uomo intero: la lacerazione tra volontà e debolezza è interna al cuore dell’uomo (v.
38).
Infine, l’accettazione, con una espressione curiosa e rara: apéchei (v.
41), «basta», si trova in calce alle fatture nei papiri, con il senso di «saldato, pagato».
L’ora è venuta: il Figlio è consegnato, agli uomini e al compimento del disegno di Dio.
Tra i due imperativi: «restate qui» (v.
32) e «andiamo» (v.
42), gli altri personaggi sono immobili e pas-sivi, solo Gesù è in piena luce.
Gesù è protagonista assoluto anche nella scena dell’arresto (vv.
43-52).
Giuda crede di condurre l’azione, in realtà è una pedina, come i soldati e lo stesso discepolo che ferisce il servo del sommo sacerdote.
È Gesù che domina, mostrando di conoscere tutto da principio e che tutto si svolge secondo il progetto annunciato dalle Scritture (v.
49).
Rimane a con-clusione l’immagine del giovinetto che fugge nudo (51-52): secondo la tradizione lo stesso evangelista Marco, in realtà figura di tutti noi, nudi come Adamo ed Eva di fronte al mo-mentaneo trionfo del peccato (Gn 3,7), inermi e affidati solo alla gratuita misericordia di Dio.
Gesù davanti al sinedrio (14,53-65) Due racconti si annunciano nel primo versetto, con uno svolgimento parallelo: Gesù è portato davanti al sinedrio, Pietro si scalda al fuoco in cortile.
La prima scena si apre con l’affannosa ricerca dei falsi testimoni, confusi e contraddittori (vv.
55-59).
Segue l’interrogatorio, cui Gesù oppone prima il silenzio (v.
61), poi la citazio-ne di Dan 7,13.
La testimonianza di Gesù, a differenza di quella dei suoi avversari, è chiara e inequivocabile, e la sentenza di condanna — del resto già decisa — è immediata.
La seconda scena, contemporanea, vede snodarsi il dramma di Pietro: la prima nega-zione, il primo canto del gallo (v.
68), la seconda e la terza negazione, ancor più decisa (vv.
70-71).
Infine, il secondo canto del gallo e il pianto liberatorio di Pietro, ormai consapevole e convertito (v.
72).
Gesù davanti a Pilato (15,1 -20a) Mentre davanti al sommo sacerdote Gesù passa dal silenzio alla parola, davanti a Pila-to, dopo una prima lapidaria risposta — «Tu lo dici» (v.
2) — sceglie il silenzio.
Rimane tut-tavia protagonista della storia, colui che, contro le apparenze, conduce il gioco.
Pilato si af-fanna a cercare una via d’uscita non troppo disonorevole da quella che per lui è solo una seccatura; Barabba è un fantoccio nelle mani dei potenti; la folla, manovrata dai capi, grida senza comprendere ciò che dice.
Da tutta questa pericope (vv.
6-15) Gesù è assente, altri decidono di lui; e tuttavia si intuisce che tutto avviene secondo la sua consonanza con la volontà del Padre.
La scena seguente (vv.
16-20) lo mostra paradossalmente vincitore proprio nella massi-ma umiliazione.
Rivestito di porpora, incoronato di spine (v.
17), salutato re dei Giudei (v.
18), omaggiato per scherno (v.
19): con un procedimento di ironia tragica, appare qui ol-traggiato e torturato, e proprio così, secondo la logica della croce (sub contraria specie), ma-nifesta la sua regalità.
Crocifissione, morte, sepoltura (15,20b- 47) Il racconto si snoda sempre più drammatico, allineando con precisione i particolari.
Per aiutare il condannato viene chiamato un contadino, individuato con nome, provenienza, parentado; il luogo della crocifissione è segnalato con la denominazione aramaica e greca (vv.
21-22).
Il seguito è registrato con una preoccupazione quasi cronachistica: Gesù rifiuta il vino drogato che si dava ai condannati per renderli incoscienti; i soldati sorteggiano le sue vesti; si indicano l’ora — la terza —, l’iscrizione con il motivo della condanna, i brigan-ti compagni di sventura (vv.
23-27).
Da questo primo livello di cronaca il racconto passa a uno stile narrativo più ricco, e ri-porta i commenti sarcastici dei passanti e degli avversari.
Per l’ultima volta, si chiede inu-tilmente a Gesù un segno straordinario che renda obbligata, e quindi inutile, la fede: «scen-da ora dalla croce»! (v.
32).
Ancora una precisazione temporale: l’ora sesta, quando la terra si oscura fino all’ora nona (v.
33).
Ed ecco il grido di Gesù, riportato anche in ebraico: è l’inci-pit del salmo 22, il lamento del giusto perseguitato, che si conclude con la lode e il ringra-ziamento al Dio d’Israele.
In bocca a Gesù, il grido ha probabilmente una duplice valenza: è il lamento profondamente umano e autentico di chi appare veramente abbandonato e vede il fallimento della sua missione, nella fuga dei suoi; ma è difficile negare che ci sia l’e-co del salmo, e quindi la conferma della speranza in Dio.
Infine, con un grido, Gesù muore (v.
37), uomo fino all’ultimo: proprio qui si rivela in lui una potenza riconosciuta proprio dal testimone che sembrerebbe più lontano, il centu-rione pagano cui si deve la più alta professione di fede: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!».
Dei seguaci di Gesù sono presenti qui solamente, ma in disparte, le donne, fra cui non è nemmeno nominata la madre (vv.
40-41).
Tolto dalla croce, il corpo viene avvolto in un lenzuolo e deposto in un sepolcro nuovo, in fretta perché il sabato sta per iniziare.
Le donne che osservano da lontano chiudono il racconto, e lo riapriranno, tornando alla tom-ba vuota, all’alba del primo giorno dopo il sabato (16,1).
Meditazione La proclamazione dell’evangelo della Passione ci inserisce direttamente nel clima pa-squale di questa santa settimana.
Nell’ascolto attento e partecipe di questo testo già vivia-mo, in tutta la sua ricchezza, quel mistero di morte e risurrezione che ci apprestiamo a ce-lebrare in modo più solenne nei prossimi giorni.
Il racconto di Marco è sobrio, spoglio, essenziale; i fatti sono presentati nella loro nudità in modo sconcertante.
Il ritmo della narrazione è incalzante e gli episodi si susseguono in una progressione implacabile, quasi come un gioco tragico che procede senza posa verso la sua ineluttabile conclusione.
Marco, per far emergere la sua teologia, non ha bisogno di affidarsi a lunghi discorsi, né di introdurre troppi interventi personali nel corso del testo: gli basta mettere il suo lettore «davanti allo “shock” delle immagini e dei fatti» (M.
Berder).
Il paradosso della croce è fatto risaltare in tutta la sua evidenza semplicemente dalla forza drammatica con cui vengono dispiegati i singoli avvenimenti.
Gli eventi parlano da soli per chi li sa ascoltare…
Un tratto tipico – comune ai quattro evangelisti – del racconto della Passione è lo spazio abbondante dato ai riferimenti scritturistici, in buona parte tratti dal libro dei Salmi.
Al ri-guardo, è emblematico che le rarissime volte in cui si vogliono rendere manifesti i senti-menti di Gesù si ricorra quasi esclusivamente a citazioni di salmi (al Getsèmani Gesù e-sprime la sua tristezza mortale con le parole del Sal 42-43; sulla croce grida il suo abban-dono con le parole del Sal 22).
Per le prime comunità cristiane era importante trovare un senso allo scandalo di un Messia crocifisso e questo lo si poteva fare solamente interrogando le Scritture, cercando di scorgere in esse il piano di Dio.
Come poteva lo scandalo della Croce rientrare nel disegno salvifico di Dio? La fede dei primi cristiani ha trovato luce nel-le pagine del Primo Testamento, soprattutto là dove esse svelano che spesso la riuscita di Dio passa attraverso lo scacco degli uomini da lui eletti, che il suo piano «va sempre a buon fine attraverso il fallimento» (J.
Delorme).
Così i giusti perseguitati, di cui trabocca il Salterio, diventano figure trasparenti attraverso cui guardare il dramma del Giusto perse-guitato per eccellenza.
Così anche il misterioso personaggio del Servo del Signore (di cui ci parla la prima lettura tratta dal profeta Isaia) diventa figura capace di illuminare la vicen-da dolorosa e insondabile del Figlio dell’uomo «consegnato nelle mani dei peccatori» (14,41).
Fin dai primi capitoli del suo vangelo, Marco ci aveva preparati all’eventualità di una fi-ne violenta del Maestro di Nàzaret.
Infatti, già in 3,6, dopo una guarigione operata di saba-to, si dice: «i farisei con gli erodiani tennero consiglio contro di lui per farlo morire».
Ora il momento è inesorabilmente arrivato e Gesù si avvia solo, tradito e abbandonato da tutti (cfr.
14,50!) verso il luogo in cui si consumerà la sua passione.
Egli sa a cosa sta andando incontro, eppure continua, nonostante tutto, a rendere grazie (cfr.
14,22-23), a riaffermare la sua confidenza in Dio, il suo Abbà (cfr.
14,36), a mantenere la fiducia in un al di là vittorioso (cfr.
14,9; 25.28), a confessare la sua grande speranza in un’aurora di luce, quando verrà sulle nubi del cielo «seduto alla destra della Potenza» (14,62).
L’interrogativo che affiora a più riprese nel corso del secondo vangelo («Chi è dunque Gesù?») trova qui una risposta defi-nitiva: Gesù stesso, rispondendo al sommo sacerdote che gli domandava se è il Cristo, il Fi-glio del Benedetto, dichiara: «Io lo sono!» (14,62); e sotto la croce sarà inaspettatamente un pagano a riconoscere in quell’uomo agonizzante il Figlio di Dio: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (15,32).
Possiamo dire che, proprio nell’estremo «svuotamento», nell’estrema «umiliazione», nell’estremo «abbassamento» (per usare le parole dell’inno di Fil 2,6-11) di una morte infame e maledetta, si rivela agli occhi della fede l’identità vera di Gesù.
Proprio quella morte (e quel modo di morire) fa alzare il velo sul mistero della sua persona, rende palese il segreto a lungo taciuto.
Il silenzio della croce è più eloquente di molte parole, il buio di quella morte è più luminoso di tante luci…
Ma il racconto della passione non vuol semplicemente informarci sulle ultime ore terre-ne di Gesù, esso vuole soprattutto invitarci a un coinvolgimento personale – il cammino di Gesù deve diventare il nostro cammino – e vuole anche farci riflettere sulla vicenda di al-cuni personaggi che compaiono nel corso della narrazione, con tutto il loro carico di corag-gio e di codardia, di fedeltà e di tradimento, di coerenza e di contraddizione, di amore e di odio.
È utile anche riflettere sulle motivazioni profonde del loro agire (Marco si premura di rendercene note alcune: per esempio, in 15,10, ci dice che i capi del popolo hanno con-segnato Gesù alla morte «per invidia»…).
Significative, a questo proposito, sono le due fi-gure speculari di Giuda e di Pietro.
Entrambi della cerchia dei Dodici, l’uno tradisce il Ma-estro, l’altro lo rinnega; l’uno passa dalla parte degli oppositori, l’altro rivela tutta la fragili-tà e l’inconsistenza della sequela del discepolo.
Essi, in qualche modo, non cessano di rap-presentarci, perché in Giuda riconosciamo il traditore in potenza che è in ciascuno di noi e in Pietro riconosciamo le nostre paure, le nostre debolezze, la nostra poca fede.
Ci sono però altri personaggi minori, più positivi, che, seppure fanno una breve com-parsa sulla scena, lasciano dietro di sé una scia luminosa.
La donna di Betània che, con un solo gesto, mostra di comprendere Gesù più di ogni altro discepolo (cfr.
14,3-9); il miste-rioso ragazzo che segue Gesù dopo che tutti i discepoli lo hanno abbandonato (cfr.
14,51-52); Simone di Cirene che porta la croce di Gesù come un buon discepolo (cfr.
15,21); il centurione che, unico tra i presenti, confessa la sua fede sotto la croce (cfr.
15,39); le donne che, a dispetto dei discepoli, hanno continuato a seguire Gesù e sono salite con lui sul Cal-vario (cfr.
15,40-41); Giuseppe d’Arimatea che, con coraggio e pietà, va a chiedere il corpo di Gesù per assicurargli una degna sepoltura (cfr.
15,43-46).
Figure curiose ed esemplari che, con la loro presenza e il loro atteggiamento, si fanno prossimi e solidali al Crocifisso rendendo, in certa misura, meno cupo il dramma della sua passione.
La processione e la passione Molti furono stupiti della sua gloria, simile a quella di un trionfatore vittorioso, nel momento in cui entrava in Gerusalemme, ma poco dopo, nel momento in cui affrontava la passione, il suo volto era privo di gloria e umiliato.
[…] Se dunque si considera a un tempo la processione di quest’oggi e la passione, Gesù appare sublime e glorioso da una parte e umiliato e sofferente dall’altra.
La processione fa pensare all’onore riservato ai re; la Pas-sione mostra la punizione riservata al ladrone.
Qui lo circondano gloria e onore, là «non ha né forma né bellezza» (Is 53,2).
Qui è la gioia degli uomini e il vanto del popolo, «là l’ob-brobrio degli uomini, l’oggetto di disprezzo del popolo» (Sal 21 [22], 7).
Qui lo si acclama: «Osanna al figlio di David! Benedetto colui che viene, il re, nel nome del Signore» (Mc 11,10); là lo si proclama degno di morte e lo si deride perché si è fatto re di Israele.
Qui gli si va incontro con rami di palma; là con le loro mani lo percuotono sul volto e gli colpisco-no la testa con una canna.
Qui è colmo di lodi; là è saziato di insulti.
Qui, a gara, si ricopre la sua via con vesti altrui; là è spogliato delle proprie vesti.
Qui è accolto a Gerusalemme come il re giusto e il Salvatore (cfr.
Zc 9,9) ; là è scacciato da Gerusalemme come un crimi-nale e un impostore.
Qui siede sopra un asino, avvolto di onore; là è appeso al legno della croce, straziato dalle verghe, coperto di piaghe, abbandonato dai suoi.
[…] Fratelli, se vo-gliamo seguire la nostra guida senza vacillare tanto nei momenti felici che in quelli avver-si, contempliamolo avvolto di onore nella processione delle Palme, sottoposto agli oltraggi e alle sofferenze nella passione, ma in tale mutamento di circostanze non mutò i suoi pen-sieri.
[…] Signore Gesù, tutti ti benedicano, tu gioia e salvezza di tutti, sia che ti vedano se-duto sull’asino, sia che ti vedano sospeso al legno della croce.
Vedendoti regnare sul trono ti lodino nei secoli dei secoli.
A te lode e onore per tutti i secoli dei secoli.
(GUERRICO D’IGNY, Terzo discorso sulle Palme 2.5, SC 202, pp.
188-192.198-200) L’esempio di Gesù nel Getsèmani «Giunsero intanto a un podere chiamato Getsèmani, ed egli disse ai suoi discepoli: “Se-detevi qui, mentre io prego”.
Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e cominciò a sentire paura e angoscia.
Gesù disse loro: “L’anima mia è triste fino alla morte.
Restate qui e ve-gliate”.
Poi, andato un po’ innanzi, si gettò a terra e pregava che, se fosse possibile, passas-se da lui quell’ora» (Mc 14,32-35).
[…] Che cosa significano questi sentimenti di angoscia che hanno il culmine nella tri-stezza “fino alla morte”?.
[…] Come Gesù reagisce in questa lotta per l’obbedienza della mente, il cui esito, per molti, è di fuggire, di ritirarsi, di abbandonare tutto? Reagisce restando.
Chiede ai discepoli di restare, di non fuggire, di non cambiare situa-zione, ma di affrontare la lotta.
Poi, andato un poco innanzi, si getta a terra e prega perché, se è possibile, passi da lui quell’ora.
È molto bello che Gesù affronti direttamente il male ma, a partire dalla propria debolezza, «che passasse da lui quell’ora» (Mc 14,35).
La sua è una lotta col Padre, ed egli vuole ad ogni costo che sia vittoriosa la volontà del Padre.
Infatti «diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu”» (Mc 14,36).
Egli sa di volere altro, di volere che si allontani da lui quel calice, ma la parola decisiva è «ciò che vuoi tu».
È la parola ultima della fede, dell’obbedienza della mente, parola che in-terpreta Abramo, Giobbe, tutti i santi della via della fede nell’Antico Testamento.
Possiamo restare in contemplazione affettiva di Gesù nel Getsèmani e chiedergli: Che cosa dici tu a me? Come vivo io queste realtà? Suggerisco tre riflessioni conclusive.
1.
Se c’è una lotta per l’obbedienza della mente, il modello è Gesù nell’orto, Gesù orante; lui è il modello ultimo che riassume tutto il combattimento di Giobbe nella sua violenza e nella sua vittoria, il luogo migliore per rileggere l’insieme del Libro di Giobbe e coglierne lo sbocco nel disegno divino.
2.
Chi prega per non entrare in tentazione ha già vinto per metà.
Difatti Gesù supplica i suoi apostoli: «Pregate per non entrare in tentazione» e obbliga noi a ripetere questa inces-sante domanda nella preghiera domenicale: domanda di cui non sempre comprendiamo l’importanza e che spesso formuliamo a fior di labbra.
Con essa si chiede al Padre di co-gliere il carattere di lotta e di prova di tante situazioni, di non entrarci a capofitto senza capire che sono una prova, ma di affrontarle nella preghiera.
Quando ci si accorge che una certa realtà, un evento, sono una prova in cui Dio ci pone abbiamo già superato per metà la difficoltà; quando invece li si legge come destino cattivo, come malvagità della gente, della società, come ignoranza dei superiori o pigrizia di quanti ci sono affidati, è assai dif-ficile uscirne se non con discorsi razionali o con provvedimenti di tipo programmatico, che però solo in parte risolvono il problema.
Se colgo l’aspetto di prova emerge il grido: «Signore, non permettere che io cada in tentazione! Fammi comprendere che sto viven-do un momento importante della mia vita e che tu sei con me per provare la mia fede e il mio amore».
3.
La vera vittoria è – come insegnano Abramo, Giobbe e soprattutto Gesù – l’abbandono al mistero inesauribile, creativo, sorprendente di Dio che ha risorse al di là di quanto noi possiamo pensare e capire.
Non dobbiamo mai credere di essere in un vicolo cieco, perché anche quando ne abbiamo l’impressione la Trinità è talmente capace di creatività da acco-glierci; quindi il muro del resistenza, il vicolo cieco in cui ci si sente, viene scavalcato e su-perato da un abbandono che è l’atto supremo di libertà dell’uomo, l’atto in cui l’uomo per- viene a essere maggiormente se stesso, cioè creatura fatta per il dialogo con Dio e che si salva nell’affidamento totale a lui come Padre pieno di amore e di misericordia.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 99-102).
“Mai più” Madame Michel è morta stamattina.
È stata investita dal camioncino di una tintoria, vi-cino a rue du Bac.
[…] E io? Io che cosa provo? Chiacchiero dei piccoli eventi del 7 di rue de Grenelle ma non sono molto coraggiosa.
Ho paura di guardare dentro me stessa e ve-dere cosa sta succedendo.
Mi vergogno anche un po’.
Credo che in fondo io volessi morire e far soffrire Colombe, la mamma e papa solo perché ancora non avevo mai soffer-to davvero.
O meglio: soffrivo senza provare dolore, e tutti i miei bei progetti erano un lusso da ragazzina senza problemi.
La lucidità di una bambina ricca che vuole rendersi in-teressante.
Ma ora, per la prima volta, sono stata male, tanto male.
Un pugno nello stomaco, senza respiro, il cuore in poltiglia, lo stomaco completamente spappolato.
Un dolore fisico in-sopportabile.
Mi sono chiesta se mai un giorno potrò rimettermi da dolore.
Volevo urlare dal dolore.
Ma non ho urlato.
Adesso la sofferenza c’è ancora, ma non mi impedisce più di camminare o di parlare, mentre provo una sensazione di impotenza e assurdità totali.
Al-lora è proprio così? Di colpo svaniscono tutte le possibilità? Una vita piena di progetti, di discussioni appena abbozzate, di desideri ancora non esauditi si spegne in un secondo, e non rimane più niente, non c’è più niente da fare, non si può più tornare indietro? Per la prima volta in vita mia ho sperimentato il senso delle parole mai più.
Beh, è una cosa terribile.
Le pronunciamo cento volte al giorno, ma non sappiamo cosa stiamo dicen-do se non ci siamo ancora confrontati con un vero “mai più”.
In fondo ci illudiamo sempre di poter controllare ciò che accade; nulla ci sembra definitivo.
Anche se in queste ultime settimane dicevo che presto mi sarei suicidata, non so se ci credessi veramente.
Ma questa decisione mi faceva davvero provare il senso della parola “mai”? Niente affatto.
Mi faceva provare il mio potere di decidere.
E penso che, qualche istante prima di mettere fine alla mia vita, “finito per sempre” sarebbe rimasta ancora un’espressione vuota.
Ma quando qual-cuno a cui vuoi bene muore…
allora posso dire che capisci cosa significa, ed è una cosa che fa molto molto male.
È come un fuoco d’artificio che si spegne di colpo e tutto diventa ne-ro.
Mi sento sola, malata, ho la nausea e ogni movimento mi costa uno sforzo immane.
[…] Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita è così: molta disperazione, ma anche qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso.
È come se le note musicali creassero un specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai.
Sì, è proprio un sempre nel mai.
Non preoccuparti, Renée, non mi suiciderò e non darò fuoco proprio a un bel niente.
Perché d’ora in poi, per te, andrò alla ricerca dei sempre nel mai.
La bellezza, qui, in questo mondo.
(Mauriel BARBERY, L’eleganza del riccio, Edizione e/o, Roma, 2007, 315-319).
Come vivere la settimana Santa La benedizione delle palme, da cui questa domenica prende il nome, e la processione che ne è seguita vogliono evocare l’ingresso in Gerusalemme di Gesù e la folla che gli va incontro festosa e acclamante.
Forse la nostra processione appare un po’ povera rispetto a ciò che dovrebbe rievocare.
L’importante, tuttavia, non è prendere in mano le palme e gli ulivi e compiere qualche pas-so, ma esprimere la volontà di iniziare un cammino.
Questa scena infatti, che vorrebbe es-sere di entusiasmo, non ha valore in sé: assume piuttosto il suo significato nell’insieme de-gli eventi successivi che culmineranno nella morte e nella risurrezione di Gesù.
Contiene perciò una domanda che è anche un invito: vuoi tu muovere i passi entrando con Gesù a Gerusalemme fino al calvario? Vuoi vedere dove finiscono i passi del tuo Dio, vuoi essere con lui là dove lui è? Solo così sarà tua la gioia di Pasqua.
Entriamo dunque con la domenica delle Palme nella Settimana santa, chiamata anche “autentica” o “grande”.
Grande perché, come dice san Giovanni Crisostomo, «in essa si sono verificati per noi beni infallibili: si è conclusa la lunga guerra, è stata estinta la morte, cancellata la maledizione, rimossa ogni barriera, soppressa la schiavitù del peccato.
In essa il Dio della pace ha pacificato ogni cosa, sia in cielo che in terra».
Sarà dunque una settimana nella quale pregheremo in particolare per la pace a Gerusa-lemme e ci interrogheremo pure sulle condizioni profonde per attuare una reale pace a Gerusalemme e nel resto del mondo.
La liturgia odierna è quindi un preludio alla Pasqua del Signore.
L’entrata in Gerusa-lemme dà il via all’ora storica di Cristo, l’ora verso la quale tende tutta la sua vita, l’ora che è al centro della storia del mondo.
Gesù stesso lo dirà poco dopo ai greci che, avendo sa-puto della sua presenza in città, chiedono di vederlo: «È venuta l’ora in cui sarà glorificato il Figlio dell’uomo» (Gv 12,23).
Gloria che risplenderà quando dalla croce attirerà tutti a sé.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 159-160).
Narrare la fede… coi gialli /1
Stravaganti, irriverenti, sarcastici, con la battuta sempre pronta, occhi a palla e pelle gialla: sono i Simpson! Diciamo la verità: alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Homer, Marge, Bart, Lisa e della piccola Maggie (se qualcuno alza la mano, ecco pronto un bel “d’oh!” da parte dell’autore).
“I Simpson” è la serie animata televisiva più famosa e seguita da quindici anni ad oggi: incollano davanti allo schermo un pubblico abbastanza eterogeneo, che va dagli adolescenti sino agli adulti.
Cosa c’è di tanto ammaliante in questa famiglia di esseri gialli da riuscire a catturare l’attenzione di giovani e non? Ma soprattutto: che c’azzecca questa tipica famiglia della classe media americana e le sue sgangherate avventure con il percorso sulla narrazione della fede di quest’anno? Forse che un cartone animato possa esserci d’aiuto per affrontare qualche riflessione in parrocchia? Breve identikit di una famiglia-tipo all’occidentale Non è escluso che chi ora sta leggendo sappia poco o nulla della sitcom animata in questione…
Ecco quindi una breve descrizione della storia e dei personaggi.
I Simpson vivono nella città di Springfield, negli Stati Uniti: assieme alla loro eterogenea comunità, questa famiglia rappresenta in maniera umoristica e per lo più sarcastica uno spaccato della società e dello stile di vita statunitense (ma, data la sempre più diffusa “americanizzazione” che anche il nostro tessuto sociale sta conoscendo, possiamo dire che molto spesso ritrae vizi e virtù non solo degli States, ma del mondo occidentale in generis).
I personaggi Narrare la fede…
coi giallii Simpson Come ogni serial, anche questo comincia con la sigla che, nei modi più bizzarri e rocamboleschi, rappresenta la frenetica corsa dei componenti della famiglia per prender posto sul divano di casa e accendere la tv che trasmette proprio…
i Simpson! L’irruenza del tubo catodico nella vita moderna è la deduzione forse più banale cui si può giungere guardando la sigla in questione, ma a questa riflessione si può aggiungere una altrettanto semplice ed onesta intuizione: tutti i ragazzi hanno familiarità con i linguaggi della tv e, considerazione ancor più importante, molti di loro conoscono e seguono i Simpson.
Certo, non è questo il motivo principale per cui si è scelta la strada di tentare un approccio alla discussione sulla fede mediante questo cartone animato, ma è bene tenerlo presente, specie se ad un primo impatto questo vivace quintetto ci trasmette sensazioni contrastanti, capaci di mettere in subbuglio la nostra coscienza circa l’opportunità o meno di proporre qualche spezzone di questo serial in parrocchia.
I giovani vedono i Simpson e ridono alle loro provocatorie battute: che tutto questo possa rivelarsi utile per parlare di fede nei nostri oratori? Consapevoli del fatto che i “Simpson” sono una serie televisiva nel complesso discutibile e non adatta ai più piccoli, ma anche molto famosa e largamente seguita dai giovani, proponiamo una selezione di puntate (con relativa guida) per tentare un nuovo approccio al dialogo sulla fede nei gruppi parrocchiali.
Un altro aspetto importante di questa sitcom è che nelle svariate sfumature dei personaggi, nei loro comportamenti e caratteri non è poi così difficile intravedere delle somiglianze con i modi di pensare e di agire nostri o di persone a noi vicine.
I Simpson dunque siamo noi (anche se preferiremmo non esserlo)? In un certo modo è così.
Chiaramente non all’estremo: lungi Homer Simpson dall’essere il padre medio italiano (per fortuna non siamo ancora arrivati a questo punto!), però a ben vedere in questo cartone animato ci sono numerosi richiami ai luoghi comuni (il politico corrotto, l’imprenditore tirchio e senza scrupoli, la madre che farebbe qualunque cosa per i figli, il sacerdote dalla predica lunga e noiosa,…) e alle dinamiche classiche della nostra società (a scuola: i bulli e i secchioni, gli scontri di personalità tra l’alunno ed il professore…
e tra professore e bidello…).
Sotto questo aspetto i Simpson pongono il riflettore su diversi contesti del nostro vivere quotidiano, con il rispettivo mix di stati d’animo e con quella punta di ironia e sarcasmo che ci permette di ridere anche sui nostri difetti.
Gli amici del Bar Margherita
TITOLO del film Gli amici del Bar Margherita Regia: Pupi Avati Sceneggiatura: Pupi Avati Attori: Diego Abatantuono, Pierpaolo Zizzi, Laura Chiatti, Fabio De Luigi, Luigi Lo Cascio, Neri Marcorè, Luisa Ranieri, Claudio Botosso, Gianni Ippoliti, Gianni Cavina, Katia Ricciarelli Ruoli ed Interpreti Fotografia: Pasquale Rachini Montaggio: Amedeo Salfa Musiche: Lucio Dalla Produzione: Antonio Avati per Duea Film e Rai Cinema Distribuzione: 01 DistributionPaese: Italia 2008 Uscita Cinema: 03/04/2009 Genere: Commedia Formato: Colore Sito Ufficiale Il «mitico» Bar Margherita, in realtà, non esiste.
O meglio: ne sono esistiti d’innumerevoli.
«Erano tutti quei bar di una certa provincia italiana degli anni 50, frequentati da un insieme straordinario di sciocchi ‘eroi’, il cui atteggiamento oggi apparirebbe deplorevole ma che allora attraeva moltissimo i giovani.
I quali cercavano d’imitarli investendovi tutta la propria ‘creatività’, nel più assoluto disimpegno e nel totale disinteresse degli adulti, sperperando così con disinvoltura un’adolescenza spensierata ».
L’adolescente protagonista che frequenta questo Bar Margherita viene chiamato «Coso».
Ma potrebbe anche chiamarsi Pupi.
«Questa non è esattamente la mia storia; ma non c’è dubbio che anche in questo personaggio ci sia molto di me ragazzo – confessa Pupi Avati – Soprattutto per quel cinismo misto alla gioiosità che è tipico di una certa adolescenza.
E che ha messo insieme una stagione nella vita di quelli della mia generazione».
Gli amici del Bar Margherita, insomma – dal 3 aprile in 300 cinema – è il divertito ‘amarcord’ del grande regista, a confronto coi ‘miti’ della propria giovinezza incontrati e ammirati nel bar di via Saragozza, tra le vie della Bologna anni 50.
Testimone-alter ego di Pupi è «Coso» (cioè Taddeo, interpretato da Pierpaolo Zizzi), un diciottenne che sogna di essere ammesso tra i mitici frequentatori del Bar: il misterioso e carismatico Al (Diego Abatantuono), il fantasioso Bep (Neri Marcorè) innamorato dell’entraineuse Marcella (Laura Chiatti), il cantante Gian (Fabio De Luigi), il ladruncolo sessuofobo Manuelo (Luigi Lo Cascio); il tutto sotto il paziente sguardo tollerante della mamma (Katia Ricciarelli) e del nonno (Gianni Cavina), innamorato della prosperosa maestra di pianoforte (Luisa Ranieri).
«Per raccogliere questo gruppo eterogeneo ho messo insieme ricordi miei e dei miei amici, ripercorrendoli con sguardo divertito, leggero, collegato a certe mie commedie sentimentali per la tv, come Jazz Band.
Ma sempre attraverso i miei occhi di oggi.
Gli amici del Bar Margherita, insomma – spiega Avati – è la storia di un dicottenne.
Ma raccontata da un settantenne».
Al centro del film, fa notare il regista, c’è pro- prio l’«essere giovani» di allora, così diverso dall’esserlo oggi.
«Dalla metà degli anni 60 i giovani sono diventati gli interlocutori numero uno della politica e del commercio.
Cinquant’anni fa, invece, i ragazzi vivevano nell’indifferenza totale degli adulti, non contavano assolutamente nulla.
Così potevano compiere errori, bizzarrie, stravaganze; trovare un’identità, individuare la propria strada.
Mentre oggi, apparentemente messi al centro di tutto, si sentono ripetere continuamente che non hanno prospettive, che per loro non c’è futuro».
In un cinema italiano che «al 99,99 per cento parla del presente – considera inoltre il regista – qualcuno dovrà pur fare i conti col passato.
Così oggi mi sento un po’ la ‘vestale’ del tempo che è stato.
E il ci confronto coll’oggi può aiutarci capire meglio noi stessi».
Giacomo Vallati TRAILER E ALTRI VIDEO DEL FILM GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA Il trailer del film diretto da Pupi Avati Pupi Avati, presenta a Roma il suo nuovo film Intervista a Diego Abatantuono Il regista, Pupi Avati parla del film Intervista a Laura Chiatti e Luigi Lo Cascio Laura Chiatti e Luigi Lo Cascio, parlano del film ARTICOLI CORRELATI AL FILM GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA Gli amici del bar Margherita, intervista al cast e al regista Pupi Avati FOTOGALLERY DEL FILM GLI AMICI DEL BAR MARGHERITA Guarda le foto presenti nella Photogallery Trama del film Gli amici del Bar Margherita Bologna, 1954.
Taddeo (Pierpaolo Zizzi), un ragazzo di 18 anni, sogna di diventare un frequentatore del mitico Bar Margherita che si trova proprio sotto i portici davanti a casa sua.
Con uno stratagemma, il giovane diventa l’autista personale di Al (Diego Abatantuono), l’uomo più carismatico e più misterioso del quartiere.
Attraverso la sua protezione, Taddeo riuscirà ad essere testimone delle avventure di Bep (Neri Marcorè), innamorato della entreneuse Marcella (Laura Chiatti); delle peripezie di Gian (Fabio De Luigi); delle follie di Manuelo (Luigi Lo Cascio); delle cattiverie di Zanchi (Claudio Botosso) e delle stranezze di Sarti (Gianni Ippoliti).
Ma alla fine, Taddeo che tutti chiamavano “Coso” ce la farà ad essere considerato uno del Bar Margherita?
Identità dissolta
In questa pagina pubblichiamo alcuni stralci del capitolo su «Laicità dello Stato e religioni».
L’aggettivo laikós indicava originariamente un membro della Chiesa, che fa parte del laós tou theou, il «popolo di Dio».
Ciò è ancora più evidente se si considera la traduzione latina del termine, che non è il generico populus, bensì plebs, che indicava specificamente la comunità cristiana.
L’inevitabile evoluzione del termine nei secoli successivi è specchio non solo di peculiari condizioni storiche – particolarmente, in questo caso, le divisioni provocate all’interno della comunità cattolica dalla Riforma protestante nel XVI e XVII secolo –, ma anche e soprattutto dell’orizzonte culturale a essa sotteso.
Si è così progressivamente giunti a identificare la condizione di «laicità» come uno stato di autonomia della politica dalla sfera religiosa e come indice della possibilità di raggiungere la verità tramite la sola ragione, prescindendo dalla fede.
In entrambi i casi, l’autentico significato del termine, per come si è evoluto nel corso dei millenni, è stato snaturato.
Se da una parte, infatti, non si può non concordare sul concetto di distinzione dei poteri e dei ruoli che spettano rispettivamente alla Chiesa e allo Stato, è invece difficilmente condivisibile la tesi secondo cui uno Stato è «laico» perché nel suo legiferare prescinde completamente dalla religione e dai suoi contenuti.
Questa posizione si può riassumere con la massima di Ugo Grozio, fatta propria, quasi fosse una formula magica, dal movimento secolarista, il quale però ne ha corrotto il significato originale: etsi Deus non daretur, «come se Dio non ci fosse».
Analogamente, è assurdo temere che la verità della fede possa attentare all’autonomia della ragione, oppure teorizzare che solo questa possa raggiungere la verità, e fa meraviglia che i fautori di tali posizioni non ne siano coscienti.
Se si è giunti a questa concezione moderna del termine «laicità» – è bene ribadirlo –, in ambito sia filosofico sia politico, è solo perché nel cristianesimo si erano precedentemente sviluppate le forme concettuali ed espressive che ne permisero il comune riconoscimento, nonostante l’uso ambiguo e spesso strumentale a cui il termine è soggetto.
Rivendichiamo, pertanto, la primogenitura di questa concezione, non per orgoglio – anche se avremmo tutti i diritti per farlo –, ma esclusivamente perché ci venga riconosciuto un diritto di originalità che non ci può essere sottratto, se non altro per rispetto della verità storica.
Ultimamente, si sente parlare sempre più spesso di «etica laica».
Cosa si nasconda dietro questa espressione è facile immaginarlo, alla luce di quanto abbiamo esposto in precedenza.
Di fatto, si vuole imporre questo concetto per accreditare la tesi di un’autonomia, soprattutto dalla sfera cattolica, in grado di favorire la scienza e così produrre progresso.
Quanto questa visione sia ingenua è evidente.
Per sua stessa natura l’etica non ha alcuna colorazione e ogni sua ulteriore qualificazione risulta pleonastica.
L’etica, infatti, riconosce il primato della ragione e assieme alla ratio giunge ai principi fondamentali che stanno alla base della vita personale.
Difendere in ambito politico l’esistenza di un’etica «laica» indipendente dalla «morale cattolica» è giusto e corretto, ma ciò non implica che i loro contenuti debbano essere necessariamente contrapposti.
Significherebbe non percepire il nesso costitutivo che intercorre tra etica e morale cattolica e creare artificiosamente, e con intenti strumentali, un’inesistente contrapposizione.
Per quanto possa apparire paradossale, oggi gli Stati hanno urgente bisogno di confrontarsi con la questione della verità; devono ricercarla incessantemente e proporla ai cittadini soprattutto quando questa ha a che fare con i diritti fondamentali della persona, come quelli che riguardano la vita e la morte.
Dinanzi a quei problemi etici particolarmente controversi, lo Stato deve confrontarsi con la verità e specialmente con quella proposta dalla religione, che più di ogni altra conferisce valore alla dignità della persona.
Il concetto di tolleranza, applicato oggi ai più svariati ambiti – si pensi per esempio alla tolleranza razziale, politica, etnica, sessuale, culturale –, non è di aiuto per risolvere la situazione conflittuale nella quale ci troviamo.
Lo Stato non può assestarsi in una sorta di neutralità che tutti accoglie e nessuno predilige.
Deve senz’altro adoperarsi per riconoscere e difendere le minoranze, anche quelle religiose, ma ciò non può andare a detrimento della maggioranza presente nel Paese, che ne rappresenta la storia, la tradizione e l’identità.
Infine, riteniamo che in questa sua ricerca e attuazione della verità, lo Stato «democratico» sia chiamato a tenere fede a questo suo fondamentale attributo.
In virtù del suo essere democratico, lo Stato non solo deve accettare di confrontarsi con la Chiesa, ma deve anche saperne accogliere – solo in un secondo momento temperandole – le eventuali ingerenze.
Non si tratta di una questione di laicità ma di democrazia, che dà prova di maturità accettando i rischi di tale condizione.
La Chiesa invece, richiamandosi a principi che hanno un’origine superiore a quella umana, non potrebbe mai accettare una qualsiasi ingerenza dello Stato riguardo ai propri contenuti.
Ciò non rende una superiore all’altro, ma semplicemente riconosce l’autonomia e l’autoctonia di entrambe le istituzioni.
La cosa può apparire paradossale, e lo è.
La democrazia, obbligata per sua costituzione ad accogliere in sé elementi che vanno oltre la sfera della politica, trova in sé anche i mezzi per neutralizzare eventuali schegge impazzite.
La Chiesa, da parte sua, ben conosce i limiti entro cui può operare.
Gli Stati, a volte, ricorrono al Concordato per ratificare i rapporti tra le due istituzioni; si tratta comunque di uno strumento, non di un fine.
Ciò che caratterizza la presenza della Chiesa nella società è l’annuncio di un’esistenza che non si esaurisce nelle situazioni e nelle eventualità regolamentate dalle leggi emanate dagli Stati, ma va oltre.
L’irrilevanza del messaggio cristiano potrebbe sembrare segno della laicità acquisita dallo Stato, ma in realtà si tratta soltanto di un sintomo della debolezza congenita delle strutture che, in tal modo, manifestano la povertà culturale che le minaccia.
I seguaci di Voltaire storceranno il naso, ma, se vorranno essere coerenti, saranno obbligati, oggi più di ieri, a legittimare la nostra esistenza all’interno della società; eppure, non potranno esimersi dall’affermare che siamo un’anomalia, una presenza fortuita, accidentale, addirittura fastidiosa soprattutto in questi ultimi tempi, perché tanto ingombrante con le sue certezze e i suoi dogmi.
La pretesa di verità che rechiamo contraddice il loro principio di tolleranza – espressione genuina di dogmi laicisti – secondo il quale sarebbe meglio per tutti, e per il progresso della società, se fossimo confinati nel privato, senza alcuna possibilità di esprimerci pubblicamente su questioni di carattere sociale ed etico.
Non è lontano da questa stessa tentazione anche chi si richiama a una rinnovata comprensione dello Stato etico, che legifera non solo prescindendo dalla morale presente nella società, ma si arroga la facoltà di presentarsi come istanza morale assoluta, traendo dall’ideologia l’ispirazione per i propri interventi legislativi.
L’apertura degli Stati generali a Versailles il 5 maggio 1789, uno degli atti fondanti della Rivoluzione francese Rino Fisichella RINO FISICHELLA, Identità dissolta.
Il cristianesimo, lingua madre dell’Europa, Mondadori, Milano 2’009, pp.
144, euro17.
Va in libreria da oggi «Identità dissolta», il nuovo libro di monsignor Rino Fisichella su «il cristianesimo, lingua madre dell’Europa» (Mondadori, pp.
144, euro17).
L’arcivescovo rettore dell’Università Lateranense nonché Presidente della Pontificia Accademia per la Vita cerca di rintracciare nella matrice religiosa scaturita dal Vangelo un’«impronta» genetica, quasi un denominatore comune che continua ad essere utile per la crescita anche sociale e civile del Vecchio Continente, soprattutto in questo momento «gravido di sfide» in cui il pluralismo, le migrazioni, il multiculturalismo contribuiscono a rendere più vaga l’identità europea.
L’ultimo capitolo è dedicato all’«emergenza educativa», argomento dell’appena concluso Forum del Progetto culturale della Cei.
Da tempo si assiste, in Europa, a un progressivo distacco della vita e della discussione politica dalle istanze della religione, in particolare quella cristiana.
In un mondo multiculturale e multireligioso e in un contesto europeo in cui sempre più sono gli immigrati che professano fedi non cristiane e sempre più sono i laici che contestano la validità e l’importanza della religione nell’epoca moderna, sembra forse giusto e condivisibile lasciar perdere, come un relitto che viene da un tempo ormai finito, la matrice religiosa cristiana che accomuna tutti i paesi del continente.
Tuttavia, come sostiene il cardinale Fisichella, questo sarebbe un grave errore: proprio perché in difficoltà nella definizione della propria identità, l’Europa dovrebbe fare tesoro delle sue radici che affondano nella religione cristiana.
Attraverso di esse, infatti, laici e credenti di tutti i paesi europei possono rifarsi a un quadro etico e morale condiviso, a una vera concezione di rispetto e tolleranza interreligiosa, a una base filosofica naturale per i diritti umani fondamentali.
Pubblichiamo uno stralcio del primo capitolo del volume Identità dissolta (Milano, Mondadori, 2009, pagine 138, euro 17).
Non mi è stato facile dare un titolo a questo saggio.
Alla fine l’idea vincente si è condensata in due parole: Identità dissolta.
L’aggettivo, però, merita di essere precisato per non dare al lettore l’impressione che l’analisi compiuta nelle pagine seguenti sia permeata di un latente pessimismo che non mi appartiene.
Spesso negli ultimi anni si è parlato giustamente di identità dell’Unione europea.
Una realtà come questa, che nasce sulla base di tradizioni culturali diverse, dovrebbe costruirsi intorno a tratti comuni che lascino percepire chi è il soggetto in questione.
E mia forte convinzione che per poter offrire un contributo significativo a questa tematica sia necessario ripercorrere un cammino che appare spesso offuscato, quando non del tutto sconosciuto.
C’è stato un tempo in cui l’identità dei popoli che costituivano l’attuale Unione europea era evidente, chiara e subito riconoscibile.
Oggi non è più così.
Negli ultimi decenni si è creata progressivamente una condizione di dissolvimento di questa identità, che appare drammatica in quanto a essere in gioco è la sorte delle giovani generazioni.
La ricchezza economica raggiunta, le sofisticate tecnologie disponibili e lo stile di vita acquisito sembrano aver favorito la disgregazione dell’identità conservata per secoli, che si è sciolta come neve al sole.
Le radici su cui era cresciuta la cultura europea sembrano essersi seccate e così la pianta non produce più i frutti sperati.
La storia di generazioni di persone che per secoli hanno vissuto con punti di riferimento normativi per la convivenza sociale viene oggi confutata e contraddetta.
Dunque, l’immagine che se ne ricava è proprio quella di un’identità dissolta.
Non sono, però, un pessimista.
E il sottotitolo del libro lo vuole in qualche modo confermare.
Prendo le mosse da una frase di Goethe: “L’Europa è nata in pellegrinaggio e la sua lingua materna è il cristianesimo”.
L’immagine è limpida e, per alcuni versi, solo un poeta poteva descrivere con un unico verso la complessità della realtà.
L’Europa è nata cristiana, e soltanto nella misura in cui conserverà questa identità potrà realizzare ciò che è stata nel passato e ciò che le permetterà di sopravvivere nel futuro senza dissolversi.
Un popolo privo di religione, infatti, tende a perdere coesione e si indebolisce sempre più fino a smarrire completamente la propria identità.
La frase di Goethe coglie una verità che spesso oggi viene volutamente dimenticata da molti: l’Europa, fin dal suo nascere, ha conosciuto il cristianesimo come suo fondamento.
Le ragioni politiche che hanno portato a un serrato dibattito e al mancato inserimento delle radici cristiane nel Preambolo della nuova Costituzione europea hanno mostrato che spesso, anche contro la verità storica, prevale l’opportunismo che tende a negare perfino l’evidenza.
Non è intenzione di queste pagine entrare nel merito del dibattito politico sulle radici cristiane.
Su questo punto tanto si è parlato e poco si è fatto, preferendo cedere alla prepotenza di pochi.
Le radici cristiane dell’Europa, d’altronde, sono talmente visibili che non meritano lo sforzo di una giustificazione.
Chi è responsabile della loro esclusione dalla magna charta, in qualsiasi parte dell’Europa si trovi, sarà ricordato anche per aver ricevuto una risposta negativa quando le popolazioni sono state giustamente interpellate per dare il loro consenso.
Ciò che a noi preme è non far perdere la memoria storica.
È giusto infatti che quanti si affacciano a considerare il nuovo soggetto in questione sappiano che l’Europa non è stata inventata oggi, ma ha fondamenta radicate nei secoli passati.
In questo contesto non si può dimenticare la grande azione svolta da Papa Giovanni Paolo II.
Tra i suoi numerosi interventi in proposito, uno particolarmente significativo del 3 giugno 1997 (a Gniezno, in Polonia) merita di essere citato: “Il traguardo di un’autentica unità del continente europeo è ancora lontano.
Non ci sarà l’unità dell’Europa fino a quando essa non si fonderà nell’unità dello spirito.
Questo fondamento profondissimo dell’unità fu portato all’Europa e fu consolidato lungo i secoli dal cristianesimo con il suo Vangelo, con la sua comprensione dell’uomo e con il suo contributo allo sviluppo della storia dei popoli e delle nazioni.
Questo non significa volersi appropriare della storia.
La storia d’Europa, infatti, è un grande fiume, nel quale sboccano numerosi affluenti, e la varietà delle tradizioni e delle culture che la formano è la sua grande ricchezza.
Le fondamenta dell’identità dell’Europa sono costruite sul cristianesimo.
E l’attuale mancanza della sua unità spirituale scaturisce principalmente dalla crisi di questa autocoscienza cristiana”.
E necessario, pertanto, cercare di individuare alcune tematiche che possano permettere il mantenimento di un dialogo tra credenti e laici.
In forza della ragione comune, entrambi possono scambiarsi argomentazioni per trovare un cammino da percorrere in questa avventura che tende a ricostituire l’unità dell’Europa.
Come abbiamo ricordato, Goethe afferma che “l’Europa è nata in pellegrinaggio”.
Ma non è il solo.
“Nel paese basco c’è, nel cammino di Santiago, un monte molto alto che si chiama Passo del Cize, o perché li si trova la porta della Spagna, o perché attraverso questo monte si trasportano le cose necessarie da una terra all’altra.
La sua salita conta otto miglia e altre otto la sua discesa.
La sua altezza è tale che sembra giungere al cielo e colui che lo sale crede di poter toccare con la propria mano il cielo.
Dalla sommità si possono vedere il mare britannico e l’occidente e le terre di tre paesi e cioè di Castiglia, di Aragona e di Francia.
Sulla cima dello stesso monte v’è un luogo chiamato la Croce di Carlo, perché lì con asce, con picconi, con zappe e con altri attrezzi aprì una volta un sentiero Carlo Magno quando entrò in Spagna con i suoi eserciti e poi, inginocchiato verso la Galizia, innalzò le sue preghiere a Dio e a san Giacomo.
Per la qual cosa, piegando lì le ginocchia i pellegrini sono soliti pregare rivolti a Santiago e tutti loro piantano ognuno delle croci che lì possono trovarsi a migliaia.
Per questo lì si ha il primo luogo di preghiera a Santiago”.
Il passo è tratto dal Liber Sancti Jacobi (più noto come Codex Calixtinus) e risale al 1150.
Rileggere queste pagine, che riportano minuziosamente nomi di strade, villaggi, ospizi, monti e pianure, di re, vescovi e semplici pellegrini, insomma una vera enciclopedia dell’epoca, permette di compiere un’esperienza non comune: immergersi in un mondo che sembra non esistere più.
Il pellegrino del passato era certamente mosso nel suo intento da motivazioni religiose; eppure, queste erano solo l’inizio.
A partire da lì si aprivano spazi che permettevano di immergersi nella conoscenza della natura, dei luoghi sacri, delle città e delle diverse culture del mondo.
Certamente, arrivare fino a Santiago era un’impresa non da poco ed equivaleva a raggiungere il limite del mondo allora conosciuto, oltre il quale non esistevano altro che mare e spazi ignoti.
Il commento, pervenutoci intatto, di un cavaliere tedesco dell’epoca, Arnold von Harff, che aveva intrapreso un lunghissimo viaggio verso Gerusalemme e il Sinai, poi a Venezia e infine a Santiago, permette di consolidare questa impressione: “Per consolazione e salvezza della mia anima, io, Arnold von Harff, ho deciso di compiere un beneficioso pellegrinaggio (…) ma anche per conoscere le città, i paesi e i costumi dei popoli”.
Come si può notare, il pellegrino viveva un’esperienza religiosa e al contempo culturale di particolare valore.
Raggiungere il santuario era lo scopo ultimo, ma questo consentiva di vivere una serie di esperienze che aprivano lo sguardo e allargavano gli orizzonti.
Pellegrinaggio e cultura non erano contrapposti, ma sintetizzati in una visione armonica della vita che favoriva lo sviluppo e la crescita personale.
Curiosità e piacere di conoscere il mondo rientravano nella normale aspirazione di chi iniziava il pellegrinaggio.
A sostenerlo nella fatica e nell’impegno del viaggio, oltre che davanti ai pericoli, erano certamente motivazioni religiose, che tuttavia non gli impedivano di immergersi in profonde esperienze pienamente “culturali”, quali la conoscenza di costumi, modi di vivere e di pensare tra loro diversi anche se accomunati dalla fede in Gesù Cristo.
Il viaggio conservava per lui il particolare valore religioso, che racchiudeva in sé i tratti peculiari della fede cristiana – la carità, la solidarietà, la comprensione della vita come un passaggio attraverso questo mondo, nel quale rimaniamo, per dirla con le parole dell’apostolo Pietro, “stranieri e pellegrini” (1 Pietro, 2, 11) – ma il pellegrino era anche un uomo fortemente curioso, attento a tutto ciò che incontrava e desideroso di imparare.
In altri termini, era un personaggio che ammirava oggetti sulle bancarelle dei mercati, si incantava davanti a musici e giullari, sostava nelle fiere e ascoltava racconti e leggende di vario genere.
Così, insieme ai miracoli dei santi, imparava anche a conoscere le grandi gesta di Carlo Magno, di Orlando e dei paladini le cui tombe trovava sul suo cammino.
Non si dimentichi che questo pellegrino osservava come si costruivano le chiese e, spesso, prestava la propria opera in cambio di vitto e alloggio; nello stesso tempo, però, vedeva come si tingeva la lana e si intrecciavano i vimini, come si forgiava il ferro e si salava la carne, come cambiava, a seconda delle stagioni, l’abbigliamento delle popolazioni che incontrava o come si allevavano animali che non conosceva.
In una parola, il pellegrino imparava come si organizzavano le corporazioni e i comuni, come si strutturavano i mercati e le fiere, per quali vie si trasportavano i carichi di spezie prelibate che giungevano dall’Oriente o i prodotti in pelle provenienti dai Paesi nordici…
Diventava così, suo malgrado, testimone e interprete, protagonista di una trasmissione di tradizioni e costumi, fondamenti basilari di ogni cultura.
La relativa calma della sua casa, del suo villaggio e della sua città veniva turbata da un flusso di conoscenze, informazioni e linguaggi, che suscitavano una sete insaziabile di conoscenza.
Eppure, proprio questo suo porsi come pellegrino attraverso i vari Paesi che percorreva costituiva il punto di partenza per la formazione di un’identità che andava al di là di quella personale, per realizzarsi come fenomeno culturale che si sarebbe stabilizzato nel corso dei secoli.
In qualche modo, avveniva che il pellegrino entrasse a far parte di una “società” che travalicava la sua appartenenza territoriale e linguistica per costituire una condivisione di vita concreta.
Sentimenti, segni di identificazione, interessi e necessità diventavano un bagaglio comune, un tutt’uno facilmente riconoscibile da chi avesse vissuto la stessa esperienza che andava a formare, di fatto, una civiltà di appartenenza.
Insomma, il pellegrino – italiano o fiammingo, greco o scandinavo, ispanico o irlandese che fosse – si riconosceva in un’unica identità culturale che non teneva conto della nazionalità né della condizione sociale né della lingua.
Ciò che accomunava non era una regola scritta, ma un modo di essere, l’assunzione di consuetudini che si radicavano e di comportamenti che si trasmettevano creando una solida tradizione.
Quel tipo di tradizione che sta alla base di ogni genuina storia, di ogni cultura che voglia essere originale e senza la quale non si può capire il presente.
di Rino Fisichella Arcivescovo Rettore della Pontificia Università Lateranense
Numeri e fede/8: Senza assoluto la scienza dove va?
Esordiamo con la domanda di rito: ma è proprio vero che solo un ateo può divenire un buon matematico? Nel corso dell’inchiesta sulla compatibilità tra scienza e fede, Avvenire intervista il professor Alberto Strumia, ordinario di Fisica matematica all’Università di Bari e docente incaricato di Teologia fondamentale alla Facoltà teologica dell’Emilia Romagna.
«Non sono io ma la storia a rispondere di no.
L’elenco dei grandi matematici credenti (e in particolare cattolici) è ben più lungo di quello dei matematici dichiaratamente avversi alla fede.
Ma non mi sembra questo il punto decisivo.
Vorrei quasi capovolgere la domanda, spingendola più avanti.
È possibile alla matematica, e in generale alla scienza, proseguire oggi il proprio cammino senza un “fondamento” assoluto, comunque lo si voglia chiamare? Ai tempi di san Tommaso d’Aquino (XIII secolo) non si aveva timore di chiamare il fondamento ultimo con il suo nome universale che è “Dio”.
Oggi si è molto più condizionati ideologicamente e non si usa volentieri questo nome, ma il problema dei ‘ fondamenti’ della matematica, e più in generale della scienza, rimane la grande questione».
L’intervista al professor Alberto Strumia, Non è una questione filosofica più che scientifica? «Sì e no.
No, perché, si tratta di un problema “interno” alla scienza e non di una sorta di aggiunta che i filosofi, o i teologi, vogliono imporle dall’esterno.
Può la matematica e tutta la scienza, decidere da sola se è nella verità, essere “completa” ( il problema del matematico David Hilbert) oppure ha bisogno di un fondamento assoluto? E di questo fondamento si può sapere qualcosa, e come? Senza un fondamento assoluto – non arbitrario – anche la matematica e la scienza finiscono per cadere nel relativismo della cultura di oggi ( additato da Benedetto XVI come il grande problema del mondo contemporaneo) in cui tutto è opinione e niente è verità sicura, neppure il classico 2+ 2 fa 4.
Kurt Gödel, uno dei più grandi logici matematici del XX secolo – proprio lui che aveva dimostrato nel 1931, con il suo teorema più famoso, che la matematica non è “completa” come invece sperava Hilbert – sosteneva che devono esserci addirittura delle proposizioni matematiche che sono valide in senso assoluto, senza alcuna ipotesi ulteriore.
Proposizioni cosiffatte devono esistere, perché altrimenti non esisterebbero neppure i teoremi ipotetici’.
Questa è la sfida di oggi: la questione dei fondamenti.
Perché evitarla e procedere come se non ci fosse il problema, lasciando che la “macchina scientifica” vada avanti con la ‘ benzina’ che ha ancora nel serbatoio, ma che prima o poi finirà? O, peggio ancora, consegnando la scienza alla strumentalizzazione da parte dei grandi poteri e dell’ideologia, che impongono un’etica sempre meno umana?» E invece in che senso si tratta di una questione anche filosofica? «È anche una questione filosofica nel senso che ormai la matematica non è più solo una teoria dei numeri come un tempo, ma ad esempio con la teoria degli insiemi è diventata una teoria che si occupa di ‘ oggetti’ qualunque ( quelli che i filosofi chiamano ‘ enti’) che non sono per forza solo i numeri.
Certo il passaggio dagli “insiemi” agli “enti” nel senso pieno del termine richiede un lavoro ulteriore, ma è sempre più vicino e indispensabile.
Oggi sono gli ingegneri che lavorano con i computer a parlare di “ontologia formale”! Si cerca di mettere a punto una “teoria degli enti”, quella che i filosofi chiamano una metafisica, elaborata con gli strumenti della logica matematica odierna.
E questo per far funzionare il computer e non per fare teologia! Ma forse un giorno questo lavoro darà frutti utili anche ai teologi… Però gli studi teologici dovranno recuperare un po’ più di teologia sistematica e non limitarsi alle opinioni degli autori contemporanei».
La questione è essenziale per tutti, oltre che per gli specialisti? «Forse fino a una quindicina di anni fa si poteva anche pensare che la questione dei fondamenti non avesse a che fare con la vita di tutti i giorni e dei non specialisti.
Oggi le cose cominciano a mostrare proprio il contrario.
Pensiamo, ad esempio, alla difficoltà di stabilire che cosa sono i diritti della persona umana.
Senza la base di una “metafisica” che abbia rigore scientifico, cioè sia riconoscibile da tutti come valida, che fondi quella che un tempo era chiamata la “legge morale naturale”, non c’è speranza di mettersi d’accordo per varare una normativa che non sia frutto di un’operazione di potere di una parte dominante su un’altra, o almeno di un condizionamento culturale e ideologico.
E questo vale su scala locale, nazionale e internazionale.
La stessa democrazia, oggi, fatica a darsi delle regole condivise e non basta fare un referendum per stabilire se una norma è per l’uomo o è contro l’uomo.
Ormai si vede bene che i vecchi meccanismi cominciano a incepparsi e la vita diventa sempre meno vivibile per i singoli e per la società civile.
Perfino la finanza e l’economia di mercato, che sembravano inattaccabili, entrano in crisi».
Ma come si fa ad orientarsi in una questione così difficile come quella dei fondamenti? «C’è molto da imparare, oltre che dai geni più vicini a noi, anche dai grandi geni del passato.
Tra gli antichi Aristotele e Tommaso d’Aquino, e i moderni Cantor e Gödel ci sono molti più punti d’incontro di quanto si possa immaginare» .
Niente storia, si studia Internet
Il nuovo programma di studi afferma che i bambini devono uscire dalle elementari in possesso di una familiarità sufficiente con le nuove forme di comunicazione digitale: dunque devono saper usare un computer e navigare su Internet, sapere cosa sono un blog e un podcast, conoscere Facebook, Twitter e Wikipedia.
La fluidità nell’uso scritto e parlato della lingua inglese deve avanzare di pari passo con quella dell’uso del web.
Per esempio, i bambini dovranno sapere come utilizzare i programmi automatici di correzione di errori di “spelling” che esistono online, così come dovranno imparare a fare lo “spelling” da soli.
Lo studio della storia, viceversa, sarà ridotto, nell’arco di tutta la scuola elementare, a due periodi del passato britannico, a scelta dell’insegnante.
Si potrà così decidere di studiare o l’era vittoriana o quella della seconda guerra mondiale, o al limite nessuna delle due, optando per altri periodi.
La ragione è che la storia patria, e quella mondiale, vengono poi ripetute alla scuola media inferiore e di nuovo in quella superiore, e gli ispettori ministeriali ritengono che non sia necessaria una duplicazione di tale studio.
Più in generale, il piano riduce dalle attuali 13 a soltanto sei le materie di studio, raggruppandole in aree di interesse: comprensione dell’inglese, delle comunicazioni e dei linguaggi; comprensione della matematica; comprensione scientifica e tecnologica; comprensione umana, sociale e ambientale; comprensione della salute fisica e dell’esercizio; comprensione delle arti e del disegno.
L’obiettivo di fondo è aumentare la flessibilità, dare agli insegnanti più libertà di scelta su cosa insegnare e su come farlo.
Coordinatore del nuovo curriculum è sir Jim Rose, ex direttore degli ispettori del ministero dell’Istruzione, nominato dal governo come esperto qualificato per la più radicale riforma della scuola elementare britannica in due generazioni.
I primi commenti sono tuttavia piuttosto critici.
Dice John Bangs, capo del dipartimento istruzione della National Union of Teachers: “E’ una riforma che sembra preoccupata di saltare sul treno degli ultimi trend alla moda, come Twitter e Wikipedia.
La capacità di usare il computer e navigare su Internet è certamente importante nel mondo di oggi, ma non mi pare una buona idea puntare su di questo a scapito della capacità di leggere e scrivere secondo i metodi tradizionali”.
Concorda Teresa Cremin, presidente della United Kingdom Literacy Association: “Siamo preoccupati dall’assenza nel nuovo programma di un impegno per una maggiore alfabetizzazione”.
E Mary Bousted, segretario generale della Association of Teachers and Lecturers, lamenta che i sindacati degli insegnanti non siano stati sufficientemente consultati: “Sono i nostri membri che dovranno insegnare questo curriculum, è inaccettabile che non venga ascoltato il nostro punto di vista”, afferma, pur lodando l’intenzione di dare agli insegnanti più flessibilità, con programmi meno rigidi e più vari.
Repubblica (25 marzo 2009) Basta con lo studio dell’era vittoriana o della seconda guerra mondiale: nelle scuole elementari britanniche, d’ora in avanti, verranno studiati piuttosto i blog, Facebook, Twitter e Wikipedia, insomma l’abc di Internet.
Il cambiamento fa parte di una rivoluzionaria riforma della scuola di primo grado, contenuta in un piano che sarà presentato formalmente il mese prossimo dal ministero dell’Istruzione.
Il nuovo curriculm di studi per le elementari, preparato da una commissione di specialisti incaricati dal ministero, è stato però anticipato da una “talpa” ministeriale al quotidiano Guardian di Londra, che stamane lo pubblica con ampio rilievo in prima pagina.
E già fioccano le reazioni, non tutte positive.