Irc e insegnante di classe nella primaria

UNITÀ 3 UN VOLTO PER DIO Schema  Per introdurci   1.
l’esperienza
                             Elaborazione.               Battiato: E ti vengo a cercare – integrazioni degli Autori Venditti: Stella – integrazioni dei collaboratori OF 2.
L’interpretazione Cielo: Eliade Notte stellata: Van Gog – integrazioni degli Autori megaliti di Stonehenge – integrazioni dei collaboratori 3.
suggestioni per un progetto Vado in cerca di Dio: Slamo 42 Per un bilancio – integrazioni degli Autori Salmo 92: Il Signore rende stabile il mondo – integrazioni dei collaboratori 4.
Integrazioni proposte nel testo – integrazioni degli Autori – integrazioni dei collaboratori 5.
Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Come è noto, nella scuola primaria l’Irc può essere impartito non solo dall’Idr specialista ma anche dall’insegnante di classe che si sia dichiarato disponibile a farlo e sia stato riconosciuto idoneo dalla competente autorità ecclesiastica.
Si tratta di un residuo della riforma Gentile, che aveva introdotto, ancor prima del Concordato del 1929, l’insegnamento di religione nelle scuole elementari affidandolo ordinariamente all’insegnante della classe.
Quella prassi è stata conservata anche dal nuovo Concordato, sia per continuità con il vecchio regime, sia per fronteggiare in prima applicazione la richiesta di Idr specialisti qualificati.
Col tempo l’affidamento dell’Irc all’insegnante di classe si è rivelato sempre più residuale, soprattutto da quando l’abolizione dell’istituto magistrale negli anni Novanta ha fatto mancare il corso di studi che – almeno formalmente – preparava i futuri maestri anche all’Irc attraverso un doppio orario di insegnamento motivato proprio dall’esigenza di fornire anche le competenze didattiche per insegnare religione.
È evidente che, al di là di lodevoli eccezioni, l’Idr specialista risulta formato in maniera più specifica e completa rispetto all’insegnante di classe, anche se l’attribuzione dell’Irc a chi insegna altre materie può evitare varie forme di emarginazione della disciplina.
D’altra parte va anche riconosciuto che affidare l’Irc a un insegnante comune sottopone al rischio di veder ridurre talvolta l’orario di Irc per via dell’urgenza di altre materie “più importanti”.
Per questi motivi e per una generica apertura alla presenza di altri insegnanti nella scuola, si era quindi diffusa la prassi di non dare la propria disponibilità all’Irc (in soli venti anni si è passati da zero a oltre il 70% di ore di Irc coperte da Idr specialisti nella primaria e da zero a oltre l’85% nella scuola dell’infanzia).
Ma negli ultimi mesi i provvedimenti ministeriali sull’organico del personale hanno prodotto una rapida inversione di tendenza.
Per un’equivoca interpretazione di quelle disposizioni tantissimi insegnanti di scuola primaria hanno fornito nuovamente la loro disponibilità all’Irc presumendo di poter rientrare automaticamente in questo servizio in virtù dell’idoneità ricevuta anni prima e mai revocata.
Tuttavia le cose non sono così semplici e si è creata parecchia confusione sull’argomento.
Alcuni hanno ritenuto che le ore di Irc fossero determinanti per la definizione dell’organico, temendo di poter andare in esubero proprio per via della mancata disponibilità all’Irc (ogni undici insegnanti non disponibili all’Irc si costituisce un posto di insegnamento che poteva essere tagliato).
Ma la CM 38 del 2 aprile scorso sugli organici ha rassicurato tutti chiarendo che l’organico è calcolato come se ogni docente insegni anche religione, a prescindere dalla sua effettiva condizione; quindi l’indisponibilità all’Irc, anziché sottrarre ore, crea nuova disponibilità per la scuola, perché le ore così avanzate potranno servire ad ampliare l’offerta formativa.
È a questo punto che intervengono altre preoccupazioni, di meno nobile natura.
Rassicurati sul fronte degli organici, gli insegnanti preferirebbero comunque tornare all’Irc per non dover completare il proprio orario di servizio in altre classi.
Ma si è già detto che il ritorno non è un diritto automatico e non è privo di effetti sui controinteressati, cioè gli Idr specialisti che finora hanno assicurato il servizio.
In primo luogo va ricordato che non c’è alcuna norma che stabilisca la precedenza dell’insegnante di classe sullo specialista (anzi, la CM 374/98 esplicitamente si appellava al principio della continuità didattica per limitare il rientro del docente comune nell’Irc solo all’inizio di un ciclo didattico e non anche nelle classi intermedie).
In secondo luogo va ricordato che l’idoneità a suo tempo ricevuta (dal 1990 l’idoneità è rilasciata a tempo indeterminato) non è un certificato che non perda mai di validità.
Proprio perché soggetta a revoca, essa attesta una relazione di fiducia e di appartenenza ecclesiale che può naturalmente evolversi nel tempo.
È quindi legittimo e necessario che gli ordinari diocesani verifichino, nelle forme ritenute più opportune ed efficaci, il sussistere delle condizioni che hanno consentito il primo riconoscimento di idoneità.
Gli insegnanti di classe dovevano dare la propria disponibilità entro lo scorso 15 marzo.
Di fronte a numeri talora cospicui di richieste, alcune diocesi stanno correndo ai ripari predisponendo una serie di accertamenti nei confronti dei richiedenti, con i quali è mancato negli ultimi anni quel rapporto di comunicazione che invece è stato presente con gli Idr specialisti, i quali normalmente partecipano a tutte le iniziative di formazione e animazione promosse periodicamente dalla diocesi.
Senza voler fare un processo alle intenzioni (ma con la consapevolezza che il sospetto nei confronti degli insegnanti nuovamente disponibili all’Irc è legittimo quanto meno per l’insolita quantità di richieste), è dovere dell’ordinario diocesano tutelare prima di tutto la qualità dell’Irc; ed è fuori di dubbio che un Idr specialista possieda titoli di studio e continuità nel servizio tali da assicurare quella qualità.
È altresì evidente che la formazione iniziale richiesta agli insegnanti di classe sia del tutto sproporzionata rispetto a quella degli specialisti (poche ore di Irc nel corso degli studi magistrali rispetto alla prassi più diffusa di un diploma almeno triennale di scienze religiose) e quindi sembra opportuno cercare di innalzare il livello di preparazione di chi insegna religione, pretendendo per esempio la frequenza di corsi di formazione lunghi e impegnativi.
Infine, non va trascurata la guerra tra poveri che così si è venuta a creare.
È ormai assodato che l’Idr specialista non è un supplente dell’insegnante di classe ed oggi è spesso anche di ruolo; quindi non può essere scalzato da un altro insegnante solo sulla base di una sua improvvisa dichiarazione.
Anzi, dovrebbe essere preoccupazione della stessa amministrazione scolastica non creare occasioni di esubero che andrebbero ad aggiungersi a quelle già determinate dai tagli generalizzati di personale.
Quindi, gli Idr specialisti non devono preoccuparsi per la loro sorte nel prossimo anno scolastico e potranno trovare negli interessi distinti ma convergenti dell’ordinario diocesano e dell’amministrazione scolastica la migliore garanzia per il loro futuro.

Pasqua in immagini: ultima cena secondo Leonardo 

Il Vangelo della Passione di Gesù è stato letto o cantato due giorni fa in tutte le chiese cattoliche di rito romano, nella domenica che precede la Pasqua.
Quest’anno nella versione di Marco.
Ma c’è anche una Passione che parla con le immagini.
Che raggiunge e commuove un numero sterminato di persone di ogni fede.
È ad esempio quella messa in scena dalle processioni che contrassegnano la settimana santa.
O più semplicemente è quella raffigurata dall’arte pittorica.
C’è un capolavoro dell’arte universale che è forse il più conosciuto al mondo, tra quelli che rappresentano la Passione di Gesù.
È l’Ultima Cena affrescata da Leonardo da Vinci nel refettorio del convento domenicano di Santa Maria delle Grazie, a Milano.
Tantissimi conoscono e ammirano questo dipinto.
Ma pochi sanno quale momento preciso dell’ultima cena rappresenti.
Pochi sanno leggere i significati dei gesti di Gesù e degli apostoli.
E meno ancora sanno che questo affresco può essere capito solo assieme a un altro dipinto che occupa la parete di fronte del medesimo refettorio e rappresenta la crocifissione.
Sfortunatamente, quel romanzo dalla spropositata fortuna che è stato “Il Codice da Vinci” ha contribuito ad estendere non solo la fama dell’Ultima Cena di Leonardo, ma anche la sua incomprensione.
È giusto quindi strappare il velo che rende ciechi.
È ciò che fa Timothy Verdon nel testo che segue, uscito su “L’Osservatore Romano” del 30 marzo 2009.
Verdon è storico dell’arte e sacerdote.
È americano ma vive da molti anni a Firenze, dove dirige l’ufficio diocesano per la catechesi attraverso l’arte.
È uno dei maggiori esperti mondiali di arte cristiana.
Chiamato da Benedetto XV, ha partecipato agli ultimi due sinodi dei vescovi, sull’eucaristia e sulle Sacre Scritture.
In questo articolo egli spiega in chiave artistica, teologica, liturgica il senso profondo del capolavoro di Leonardo da Vinci.
Una via artisticamente sublime per capire quell’atto d’inizio della passione di Gesù che è la sua ultima cena.
E per farsene coinvolgere, come ogni grande opera d’arte sa fare.
”Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe la croce” di Timothy Verdon Il Cenacolo di Leonardo da Vinci fu dipinto in un refettorio: la cena di Cristo in un luogo dove si mangia.
Ha importanza poi il fatto che il refettorio era quello di una comunità consacrata, i domenicani del convento di Santa Maria delle Grazie a Milano.
L’Ultima Cena, nel corso della quale il protagonista, Cristo, assunse un gravoso impegno, fu dipinta per dei cristiani impegnati a seguirlo.
È inoltre significativo che questo refettorio si trovi a pochi passi dalla chiesa in cui i consacrati ascoltavano le Scritture che davano senso al loro impegno, e dove venivano alimentati del corpo e sangue originariamente offerti da Cristo nel contesto dell’evento raffigurato da Leonardo.
Ed è fondamentale ricordare che i frati si recavano al refettorio dalla chiesa: andavano a pranzo – almeno nelle grandi occasioni e nei giorni di festa – subito dopo la solenne messa comunitaria.
Vedevano cioè il Cenacolo di Leonardo nel contesto di un impegno che coinvolgeva tutta la loro vita, e dopo aver ascoltato il Vangelo e ricevuto l’eucaristia.
*** Ovviamente tale modo di guardare l’opera non era l’unico, e anche all’epoca il dipinto suggeriva altri significati.
La raffigurazione del Cenacolo più celebre di tutti i tempi illustra, ad esempio, in maniera singolare, il rapporto con i coevi “misteri” teatrali.
Eseguita tra il 1495-97, riassume inoltre l’ardita ricerca stilistica iniziata, elaborata e codificata da altri maestri fiorentini: in primo luogo Giotto, poi Donatello e Masaccio, infine Leon Battista Alberti.
Il cenacolo fu subito riconosciuto come una pietra miliare della cultura artistica del Rinascimento.
*** Le due cose non sono affatto contraddittorie.
L’Ultima Cena venne commissionata a Leonardo dall’allora duca di Milano, Ludovico Sforza, nel contesto di un progetto di ammodernamento e abbellimento del convento e della chiesa di Santa Maria delle Grazie, in cui il principe intendeva situare la propria sepoltura.
Nel quadro globale del progetto, diretto dall’architetto Donato Bramante, la Cena di Leonardo aveva una duplice funzione: da una parte doveva essere un’opera d’arte sacra – l’immagine della “coena Domini” nella sala dove i frati prendevano i loro pasti – e dall’altra doveva appagare l’ambizione del duca di dare lustro alla sua capitale con opere di architettura e arte nello stile moderno.
Oltre gli elementi di contenuto religioso nel dipinto, Leonardo vi creò infatti l’esempio più perfetto mai visto in Italia settentrionale della nuova prospettiva inaugurata dall’arte fiorentina, aprendo la parete di fondo del refettorio con l’illusione di una stanza spaziosa dal soffitto a cassettoni.
Questa stanza – come il grandioso presbiterio a cupola che Bramante realizzava contemporaneamente per la chiesa – aggiornava una struttura preesistente, definendone un’estensione ideale, a un livello più alto: lo spazio di Cristo nel convento dei frati.
In realtà i due aspetti del Cenacolo – quello tecnico e quello mistico – si sovrappongono, perché è anche grazie all’uso della prospettiva che Leonardo riesce a mostrare che la vita della comunità religiosa è un’estensione della vita di Cristo e degli apostoli.
Attraverso la sua costruzione prospettica, l’artista focalizza l’attenzione su Cristo, facendo della sua figura il punto d’incrocio dell’intero cosmo pittorico definito dalla sala.
Infatti le linee diagonali che portano l’occhio in profondità conducono inevitabilmente a Cristo, tutto si ricollega a Lui, è Lui il perno della logica visiva oltre che narrativa dell’insieme.
Egli non è il punto ultimo, il punto di fuga prospettica; le linee diagonali convergono piuttosto dietro Cristo, nell’aria vespertina che è oltre la finestra; ma quel punto ultimo rimane nascosto.
Cercando l’infinità, il nostro sguardo si ferma a Cristo, come se egli ancora dicesse: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Giovanni 14, 9).
La forza di questa concentrazione prospettico-cristologica ideata da Leonardo diventa chiara se si raffronta la sua Cena con altre interpretazioni del tema nella pittura coeva.
Domenico Ghirlandaio, ad esempio, negli anni 1480-1490 ne dipinse due, quasi identiche, nei conventi di Ognissanti e San Marco a Firenze.
Come Leonardo, questo artista si servì della prospettiva per dare l’illusione di uno spazio reale, senza però costruire lo spazio in diretto rapporto a Cristo.
Nelle Cene dipinte dal Ghirlandaio, l’occhio avanza da sinistra a destra, fermandosi su ciascuna delle tredici figure separate ma più o meno uguali, senza cogliere immediatamente quale di esse rappresenti Gesù.
Due sono in posizioni diverse dagli altri: Giuda, seduto dalla nostra parte della tavola, e il giovane san Giovanni che si riposa, con la testa tra le braccia incrociate sulla tavola.
Per un processo di eliminazione, si capisce che la figura su cui Giovanni si poggia – l’uomo posto di fronte a Giuda – deve essere Cristo.
Ma la cosa non è subito chiara.
Questa impostazione – che era classica nell’arte fiorentina, adoperata sin dal Trecento nei refettori – aiuta a capire la novità della lettura di Leonardo da Vinci.
*** Sappiamo da un suo disegno ora conservato a Venezia che, in un primo momento, pure Leonardo aveva pensato di sistemare gli apostoli lungo la tavola come tante unità separate, con san Giovanni addormentato accanto a Cristo e Giuda dall’altra parte.
A un certo punto però Leonardo sembra aver capito che l’effetto di tale frammentazione sarebbe stato come nel Ghirlandaio: dodici uomini isolati gli uni dagli altri, che reagiscono alla spicciolata, ognuno a modo suo, all’annuncio sconvolgente che invece interessa tutti: l’annuncio che li mette in crisi non tanto come individui ma come gruppo, come comunità: “In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà” (Giovanni 13, 21).
Per evitare tale frammentazione narrativa, Leonardo ha preferito allora unire i dodici intorno a Cristo in quattro grandi gruppi, in cui l’elemento che colpisce è appunto l’eloquenza corale di più persone accomunate da un solo impeto emotivo.
Con particolare attenzione alla diversità di tipologie e gesti, il pittore rappresenta ciò che poteva essere veramente accaduto in una comunità di uomini vissuti insieme per tre anni.
I dodici si suddividono naturalmente in gruppi diversificati gli uni dagli altri ma connessi tra loro; all’interno di ogni gruppo si discute sul significato di quanto Cristo ha detto, ma l’attenzione psicologica, espressa mediante sguardi e gesti, dai due lati della tavola torna necessariamente verso il centro, verso Cristo.
Tale movimento centripeto ha perciò, in superficie, la stessa funzione che hanno le linee prospettiche in profondità: conducono l’attenzione sull’attore principale, nel momento stesso del suo grande discorso, del gesto misterioso e commovente: il dono della sua vita nei segni del pane e del vino.
Notiamo poi come, nei gruppi posti immediatamente a destra e sinistra di Gesù, il movimento viene invertito: gli apostoli ai lati di Cristo si tirano indietro, il flusso dei loro sentimenti non raggiunge il Salvatore, che pronuncia il suo discorso e compie il suo gesto in maestosa solitudine.
I movimenti dei corpi a destra e a sinistra, i gesti delle mani, non lo toccano: sono come onde che lambiscono un promontorio senza bagnarne la cima.
Eppure intuiamo che l’intensità di sentimento in questi uomini – la loro capacità di agire con “un cuore solo e un’anima sola”, il loro comune desiderio di trasparenza davanti alla commozione di un Maestro che si è fatto servo e che ora parla loro di tradimento e di morte – dipende da Gesù, nasce in rapporto a Gesù: è Lui che motiva e fonda l’apertura con cui, ad esempio, Filippo, a destra, con le mani invita a leggere nel suo cuore.
Nel corso della cena Gesù si è aperto a loro, ha lasciato vedere la propria angoscia, ne ha parlato, si è dato totalmente in un modo nuovo, corpo e spirito insieme, e ora gli apostoli si trovano capaci anch’essi di aprirsi, disposti anch’essi a darsi.
A contatto con la realtà di questo Signore-Servo, di quest’uomo che parla da Dio, i suoi discepoli scoprono una capacità di risposta oltre i normali limiti della natura, una capacità soprannaturale simile all’apertura di Gesù stesso.
“Il nuovo e grande mistero che avvolge la nostra esistenza – aveva scritto san Gregorio Nazianzeno mille anni prima di Leonardo – è questa partecipazione alla vita di Cristo.
Egli si è comunicato interamente a noi: tutto ciò che Egli è, è diventato completamente nostro.
Sotto ogni aspetto noi siamo Lui.
Per Lui portiamo in noi l’immagine di Dio dal quale e per il quale siamo stati creati.
La fisionomia, l’impronta che ci caratterizza è ormai quella di Dio” (Discorso 7, Patrologia Greca 35, 786-87).
Nel Cristo di Leonardo convergono le linee portanti all’infinità, convergono i sentimenti di molti cuori, e convergono – s’intrecciano, si sovrappongono, s’identificano – la natura divina con quella umana.
In questa straordinaria figura il pittore raccoglie tutti i fili del racconto evangelico: il “desiderio ardente” di condivisione in Gesù; la piena consapevolezza di ciò che gli sarebbe accaduto; il senso poi di essere arrivato al momento supremo, di compiere per l’ultima volta un gesto comune, aprendone il significato verso un orizzonte sconfinato.
La composizione piramidale che suggerisce quiete e forza; l’eloquenza con cui Cristo apre le braccia e allunga le mani: quella destra (alla nostra sinistra) verso il bicchiere di vino, quella sinistra (alla nostra destra) che mostra il pane; il regale isolamento in mezzo agli apostoli, la testa stagliata contro la luce del tardo pomeriggio, senza aureola ma incorniciata dalla nobile architettura della sala; e l’aria di sottile tristezza nell’inclinazione del capo come anche in ciò che rimane dell’espressione in questo dipinto danneggiato: tutto è fedele all’immagine che il Nuovo Testamento offre del Salvatore la notte in cui fu tradito, l’immagine di uno che si dona spontaneamente e nel contempo istituisce un rito eterno; uno che parla del suo regno, quindi un re; e soprattutto un uomo consapevole di andare incontro alla morte che accettava liberamente, “sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani, e che era venuto da Dio e a Dio ritornava” (Giovanni 13, 3); “sapendo”, “accettando”, ma soffrendo umanamente, “rilassando le redini dell’emotività”, come dirà Gianfrancesco Pico della Mirandola in un trattato sull’immaginazione stilato negli stessi anni.
*** Cerchiamo di cogliere l’impatto di questa figura nel suo contesto d’uso originario.
Le costitutioni dell’ordine domenicano, riformulate dal capitolo generale tenutosi a Milano nel 1505 nel convento di Santa Maria delle Grazie, lo stesso del Cenacolo di Leonardo, descrivono con precisione il rituale d’ingresso a un refettorio, indicando anche la funzione di eventuali immagini collocate in tali spazi comunitari.
“Suonata la campana – leggiamo – i fratelli debbono recarsi silenziosamente ma con decorosa rapidità al luogo in cui dovranno lavarsi le mani.
Lavate le mani, devono andare poi, nell’ordine consueto, a sedersi sulla panca disposta fuori del refettorio, e in quella posizione recitare il ‘De profundis’.
Quando infine il priore suonerà per l’ingresso nel refettorio, devono entrare a due a due, incominciando dai più giovani.
E quando sono in mezzo al refettorio, devono fare un inchino alla croce o all’immagine dipinta ivi collocata, e, fatto il segno della croce, devono andare a sedere a tavola”.
Come suggerisce questo testo, il significato religioso del Cenacolo e di altre immagini nei refettori va meditato all’interno di un sistema di riti e segni elaborato dalla tradizione monastica attraverso molti secoli.
La “croce o immagine dipinta” nel refettorio dove si mangiava, e il salmo recitato prima di entrare mentre i frati si lavavano le mani, riportavano al senso eterno di azioni ordinarie, quotidiane: la pulizia e l’alimentazione.
Il Salmo 130, chiamato il “De profundis”, attribuiva ad esempio un significato spirituale al comune atto d’igiene.
“Dal profondo” della propria colpevolezza, il salmista (e con lui il frate che si lavava) esprimeva la sua fede che Dio è capace di purificarlo: “Presso il Signore è la misericordia e grande presso di Lui la redenzione.
Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe”.
Nello stesso modo, la croce o immagine dipinta sulla parete del refettorio dava un senso religioso all’atto di mangiare, invitando i commensali a leggere nel pasto un significato spirituale oltre a quello fisico: non solo sostentamento del corpo, ma sostegno della vita interiore.
In pratica, i significati dei due momenti – del “De profundis” fuori della porta e dell’inchino all’immagine della passione dentro il refettorio – erano collegati.
Se l’atto di lavarsi esprimeva la fede nel perdono divino, quello di accostarsi alla mensa comunicava il coraggio di vivere.
Il peccatore perdonato mangia e si mantiene in vita perché accetta il perdono del Dio misericordioso; s’inchina davanti alla croce o altra immagine nel refettorio perché in essa ravvisa l’espressione di tale misericordia: Cristo che offre la propria vita in riscatto per i peccati degli uomini.
La croce esprime sempre questa “redenzione”, e la “immagine dipinta” più usata nei refettori, l’ultima cena, lo comunica ugualmente: nel racconto evangelico, Gesù durante la cena dà il vino ai suoi discepoli con le parole: “Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti in remissione dei peccati” (Matteo 26, 27-28).
*** Tornando a guardare l’Ultima Cena che gli estensori delle costituzioni domenicane avevano davanti agli occhi nel 1505, il dipinto di Leonardo, dobbiamo ancora notare che nel refettorio di Santa Maria delle Grazie ci sono due dipinti, a entrambi dei quali ci si doveva inchinare.
Negli stessi anni, infatti, in cui Leonardo dipinse l’Ultima Cena, un artista milanese, Donato Montorfano, affrescò la parete di fronte a essa con una monumentale Crocifissione, tuttora visibile all’altro capo della sala.
Di conseguenza, “lavate le mani” con fede nella misericordia divina, i frati che accedevano al refettorio si trovavano abbracciati d’ambo le parti da quella misericordia: davanti e dietro di sé avevano immagini della “grande redenzione” operata a favore dei peccatori da Cristo.
Su una delle due pareti di fondo vedevano, nell’Ultima Cena, l’impegno di Gesù a offrire il suo corpo e sangue “per la remissione dei peccati”, e sulla parete opposta vedevano nella Crocifissione l’adempimento dell’impegno, quando Cristo offrì la sua vita fisicamente sulla croce.
Avendo rammentato il loro bisogno di perdono, i frati andavano cioè a tavola tra i due momenti nei quali tale perdono era stato realizzato: tra il giovedì sera e il venerdì pomeriggio dell'”ora” di Gesù, tra la Cena e la Croce.
Che Leonardo stesso abbia concepito i due dipinti del refettorio come componenti di un programma unitario è confermato dalla sua decisione di abbandonare il suo primo progetto compositivo, quello del disegno veneziano, per l’impianto che abbiamo descritto.
Al posto del Cristo che si sporge per dare il boccone a Giuda, l’artista ha ideato un Cristo regale e sacerdotale che, allargando le braccia, mostra il pane e sta per prendere il vino.
Cioè al posto di una figura narrativa – il Cristo del disegno veneziano, che interagisce con Giuda – Leonardo ha preferito un Signore tutto interiore, che invita all’introspezione psicologica.
Lo sguardo velato di tristezza, la testa inclinata, l’isolamento della figura suggeriscono un momento di profonda interiorità.
*** Leonardo deriva la composizione del suo Cristo da tre fonti.
La prima è l’immagine del re e giudice fornita dal grande Cristo a mosaico del Battistero della sua città, Firenze: l’eterno sacerdote vestito del cielo e della terra, con le braccia estese per accogliere o respingere in virtù del mistero della sua passione.
La seconda è l’immagine del legislatore tipica dell’arte paleocristiana e medievale: il Signore che allarga le braccia per trasmettere il rotolo o libro del suo Vangelo ai credenti.
La pala d’altare dell’Orcagna in Santa Maria Novella, la chiesa dell’ordine domenicano a Firenze, presenta Cristo in questo modo: un re legislatore, che con la destra affida a san Tommaso d’Aquino il libro della teologia, mentre con la sinistra dà le chiavi del regno celeste a san Pietro.
Tra i temi toccati da Gesù nella cena c’erano infatti quelli del “regno” e della “nuova legge” dell’amore.
San Tommaso, nel suo commento teologico al discorso dell’ultima cena, collega proprio queste idee, ricordando che all’ultimo pasto preso con i suoi discepoli Cristo fungeva simultaneamente da re, da legislatore e da sacerdote.
Inoltre san Tommaso – la cui interpretazione doveva essere familiare ai domenicani di Santa Maria delle Grazie – dice che queste tre funzioni, che normalmente interessano categorie distinte di persone, in Cristo “confluiscono”.
Ma è la terza fonte del suo Cristo che permette a Leonardo di fondere perfettamente le altre due.
La posa del Salvatore con le braccia estese e la testa inclinata in segno di tristezza o di morte corrisponde a quella comunemente adoperata all’epoca per le immagini del “Vir dolorum”, dell’Uomo dei dolori, che facevano vedere il corpo di Gesù deposto dalla croce con la testa inclinata e le braccia estese per mostrare le piaghe.
La maestà regale, la ieraticità sacerdotale e la dignità legale sono comprese, ricapitolate, approfondite all’infinito in quest’allusione visiva al Servo Sofferente, perché Cristo regna dalla croce quando offre se stesso come sacerdote, vittima e altare, per istituire con il proprio sangue la nuova alleanza per il perdono dei peccati.
Nella Cena del refettorio di Santa Maria delle Grazie, Cristo apre le braccia nel gesto compiuto il giorno dopo sulla croce.
La posa del Cristo leonardiano è stata cioè ideata in funzione dell’atto successivo del dramma sacro, raffigurato sulla parete opposta del refettorio.
La maestosa presenza psicologica, l’insondabile interiorità sono attributi di chi contempla e accetta la propria morte.
Se il Cristo di Leonardo alzasse lo sguardo, vedrebbe infatti la croce del giorno seguente.
La testa inclinata, la mano aperta che indica il pane, sono preannunci di ciò che deve venire dopo.
E la vita dei frati – il loro mangiare, il coraggio con cui, peccatori perdonati, si mantengono in vita – è compresa in quel “mentre”: nell’interstizio tra l’accettazione e la realizzazione, nello spazio quotidiano della sequela, in una fedeltà spesso sofferta, che li configura a Cristo.
__________  Il giornale della Santa Sede su cui è uscito l’articolo di Timothy Verdon: > L’Osservatore Romano __________ Su questi temi, in www.chiesa: > Focus su ARTE E MUSICA

Il patibolo e la tomba vuota

Se, infatti, possiamo considerare come un’eccezione singolare l’affresco del cimitero di Pretestato con una coronazione di spine, relativo alla prima metà del iii secolo, soltanto dagli anni centrali del secolo seguente appaiono alcuni sarcofagi cosiddetti di passione o dell’anàstasis, con l’arresto dei principi degli apostoli, del Cristo, il giudizio di Pilato e ancora la coronazione di spine, mentre un originale affresco della seconda metà del iv secolo, nell’ipogeo di via Dino Compagni, rappresenta i soldati romani che si giocano le vesti di Cristo e, di lì a qualche anno, nella celebre lipsanoteca eburnea di Brescia, si fa ancora esplicito riferimento all’arresto del Salvatore e alla drammatica fine di Giuda Iscariota.
Ma per incontrare la prima rappresentazione della crocifissione dobbiamo attendere i pontificati di Celestino i (422-432) e di Sisto iii (432-440), quando fu scolpita la porta lignea della monumentale basilica titolare di Santa Sabina, sull’Aventino.
Nella splendida porta, miracolosamente giunta sino ai nostri giorni, seppure non in maniera integrale e provata da una serie infinita di restauri, si avvicendano episodi del Vecchio e del Nuovo Testamento, con l’intento di realizzare una sorta di concordia biblica, che trova il suo apex semantico in una formella, che vuole rappresentare il trionfo della Chiesa, raffigurata come una matrona orante fra i principi degli apostoli, in un contesto fortemente apocalittico.
Il grande casellario ligneo prende proprio avvio da una formella, che rappresenta il momento drammatico della crocifissione, collocata contro una parete continua in opera isodoma, caratterizzata da tre timpani, che definiscono le silhouettes dei tre giustiziati, nudi, se si esclude l’esiguo subligaculum, che cinge loro i fianchi.
Le tre figure del Cristo e dei ladroni sono proiettate in primo piano e mostrano un atteggiamento expansis manibus, senza che si intraveda il legno trasversale della croce, mentre soltanto i ladroni presentano le mani inchiodate.
Il Cristo supera, per dimensioni, i due uomini posti ai lati di oltre un terzo, ha gli occhi spalancati, la barba e le chiome fluenti; il suo corpo, come quello dei due ladroni, è atletico e, nonostante la resa fortemente schiacciata del rilievo, rispetta i canoni della plastica classica romana.
Questa redazione trionfale della crocifissione, nel senso che i giustiziati, con l’atteggiamento di orante, esprimono il trionfo della risurrezione, invece del dramma pietoso della morte violenta, rispetta coerentemente la tendenza della cultura figurativa romana, improntata a una visione positiva delle storie evangeliche, che è, comunque, infranta da una tavoletta eburnea del British Museum di Londra, riferibile proprio al 420-430 e prodotta da un atelier romano.
Qui, l’evento del Golgota è rievocato nei momenti salienti della morte e della risurrezione del Cristo.
Nella scena della crocifissione, Gesù è rappresentato nudo, issato e inchiodato alla croce – sebbene vivens – e l’iscrizione rex Iudeorum sormonta il patibolo, ai piedi del quale si dispongono i comprimari del dramma: Maria, Giovanni e Longino.
Nel margine sinistro dell’avorio è rappresentata, in simultanea, la fine di Giuda Iscariota, appeso all’albero, con la borsa dei denari gettata a terra.
La tavoletta eburnea è costituita da quattro formelle e, oltre alla scena di crocifissione, riporta rispettivamente un riquadro che concentra il giudizio di Pilato, il Cristo che porta la croce e la negazione di Pietro; un altro riquadro che rievoca l’incredulità di Tommaso; un ultimo pannello che raffigura il Santo Sepolcro; con la porta semiaperta, che lascia intravedere il sarcofago vuoto, le Marie e due soldati che dormono vicino all’edificio.
La rappresentazione del Santo Sepolcro entra precocemente nel repertorio paleocristiano per tradurre in figura il racconto evangelico di Matteo (28, 1-8), Marco (16, 1-8) e Luca (24, 1-10) nell’ambito del contesto narrativo in cui si svolge la scena della visita delle pie donne, come succede nell’antico affresco del battistero della domus ecclesiae di Dura Europos, allestita nella prima metà del iii secolo, nella colonia romana situata in un’ansa dell’Eufrate, nell’attuale Siria.
Qui, le figure femminili, munite di torce, passano attraverso una porta e giungono al sepolcro, che è rappresentato come una grande arca, fornita di un coperchio, che, ai lati, presenta due grandi stelle di luce, per alludere al mistero della risurrezione.
Dal momento costantiniano, il santo sepolcro viene raffigurato in maniera realistica e puntualmente aderente alla struttura che l’imperatore aveva fatto costruire, tra il 325 e il 336, sulla tomba di Cristo, isolando la roccia nella quale era scavata.
Quest’ultimo elemento diventa il nucleo principale della grande basilica e viene caratterizzato da un’edicola, che suggerisce un edificio a pianta centrale, con un deambulatorio, delimitato da colonne, la cosiddetta Anàstasis, collegata, verso oriente, a un atrio che si allaccia a sua volta al martyrium, ossia a una monumentale basilica a cinque navate, cui si accedeva attraverso un’ampia scalinata e un portico trapezoidale.
La restituzione architettonica del monumento, meticolosamente definita dal padre Virgilio C.
Corbo dello Studium Biblicum Franciscanum, risponde perfettamente alle descrizioni di Eusebio di Cesarea (Vita Constantini, 3, 25-40), di Cirillo di Gerusalemme (Catechesi 14, 9) e della pellegrina Egeria (Peregrinatio Etheriae 24-35).
Nell’arte paleocristiana viene rappresentata spesso la Rotonda dell’Anàstasis, anche se in maniera assai sintetica, a cominciare da un gruppo di sarcofagi provenzali del tardo iv secolo, ma trova le sue manifestazioni più particolareggiate in alcuni avori, tra i quali emerge il cosiddetto dittico Trivulzio, conservato al Castello Sforzesco di Milano e datato agli esordi del v secolo.
L’unica valva superstite è suddivisa in due pannelli: nel quadro superiore è proprio rappresentato il Santo Sepolcro, come una struttura circolare finestrata e sormontata dai simboli degli evangelisti Matteo (l’angelo) e Luca (il toro), mentre due soldati romani, in primo piano, sono addormentati; nel registro inferiore l’angelo nimbato è seduto su una roccia, mentre annuncia alle due Marie la risurrezione di Cristo.
Quest’ultima scena si svolge dinanzi alla porta semiaperta del sepolcro, i cui battenti sono decorati con formelle che riproducono tre episodi evangelici, ovvero la risurrezione di Lazzaro, la chiamata di Zaccheo e la guarigione dell’emorroissa.
Il nostro itinerario attraverso le testimonianze iconografiche relative alle prime rappresentazioni della crocifissione e della risurrezione si può chiudere analizzando le decorazione delle fiaschette metalliche per pellegrini, conservate a Monza, offerte, secondo la tradizione, da Papa Gregorio Magno a Teodolinda, regina longobarda di professione cattolica romana, che si datano tra la metà del vi secolo e gli esordi del vii.
Queste ampolle contenevano gli olii delle lampade che ardevano nei santuari dei luoghi santi e rappresentano, a stampo, i simboli degli episodi che hanno ispirato la costruzione di tali complessi monumentali.
Così, in alcune di queste ampolle, vengono raffigurate simultaneamente l’anàstasis, ovvero l’annuncio dell’angelo alle donne giunte al sepolcro reso nelle forme dell’edicola costantiniana e la crocifissione, con la croce a tronco di palma, sul monte da cui sgorgano i quattro fiumi paradisiaci.
Nella sommità della croce appare il Cristo barbato, con lunghi capelli e nimbo crucigero, affiancato dai simboli del sole e della luna, per sottolineare l’atmosfera epocale che avvolge l’episodio.
Ai lati della croce, sono inginocchiati due personaggi devoti che tendono le braccia verso il simbolo centrale, mentre, a destra e a sinistra, secondo la sceneggiatura della crocifissione, si dispongono i due ladroni, seminudi e appesi al loro patibolo, e, alle estremità, si riconoscono Maria e Giovanni.
Queste rappresentazioni dimostrano come, nelle più antiche raffigurazioni della passione e della risurrezione, il concetto del dramma evocato dal patibulum è eliso dalla natura stessa della croce, che si identifica con l’albero della vita, in perfetta sintonia con la concezione trionfale che vede nell’episodio cruento della crocifissione l’antefatto e la prefigurazione della risurrezione del Cristo, evocata da quel sepolcro vuoto verso cui corrono le Marie per incontrare l’angelo che proclama il termine della storia terrena dell’Uomo, chiudendo un cerchio che si apre e che si conclude con l’annuncio dell’angelo.
(©L’Osservatore Romano – 6-7 aprile 2009) La cultura figurativa paleocristiana, proverbialmente positiva e tesa a esprimere i risvolti soterici della passio Christi, non produce, nei primi secoli, un repertorio che si soffermi, se non con rare allusioni, sulle ultime tappe della vita terrena del Salvatore e anzi, non viene neppure affrontato, dal punto di vista iconografico, il tema del martirio ordinario, tanto che per venire a contatto con le prime immagini dei campioni della fede, dobbiamo attendere il momento della pace costantiniana.

Che fatica star dietro a quel prete

“Si avvicina l’ora in cui ci sarà ancora gusto a fare il prete (…) il Signore saldi sulla Croce il tuo slancio”.
Nel dire queste parole a un giovane avviato al sacerdozio don Mazzolari parlava con piena cognizione di causa.
Fin da ragazzo aveva coltivato la virtù della vigilanza e quindi la consapevolezza che il tempo propizio, il kàiros – e l’opportunità di poterlo afferrare – è “adesso”.
Nel flusso volubile delle vicende umane, animato dalle attese del futuro o involuto e ripiegato nostalgicamente sul passato, l’attimo prezioso da cogliere al volo, e perfino con evangelica violenza – poiché “dei violenti è il Regno dei Cieli” – è proprio ora.
In tal senso anche il credente può e deve dire: carpe diem.
Il presente riflette il tempo eterno di Dio e quindi valorizza la quotidianità dell’uomo; e ciò è vero soprattutto per chi sceglie di consacrare la propria vita al servizio della Sposa di Cristo.
Il presente è il tempo del prete.
“L’adesso è la croce che va portata se uno vuol tenere dietro a Cristo.
“Adesso” è la briciola che porta tutto a Cristo.
Nella fedeltà al poco che è l'”adesso” comunico con Dio e gli rendo testimonianza (…) Non soltanto Dio, ma ogni creatura mi dà appuntamento nell'”adesso”: il mio prossimo mi dà appuntamento (…) Vi sono soluzioni che non si possono rimandare in attesa della soluzione perfetta, che non danneggi nessuno, soprattutto chi sta bene.
Chi ha fame non può attendere.
Il pane che va dato è il pane di oggi”.
Con queste parole si apre un’agile antologia di articoli mazzolariani dedicati proprio alla dimensione sacerdotale intitolata Il prete di “Adesso” (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12 ) curata dal padre rogazionista Leonardo Sapienza, addetto al Protocollo della Prefettura della Casa Pontificia.
Sacerdote, giornalista, scrittore e partigiano, don Primo Mazzolari era nato il 13 gennaio 1890 a Cremona e morì da parroco a Bozzolo (Mantova) cinquant’anni fa il 12 aprile 1959.
Di famiglia contadina, aveva fatto i suoi studi nel seminario diocesano di Cremona, dalla seconda ginnasiale fino agli studi teologici, sotto il vescovo Geremia Bonomelli (1831-1914).
I periodi di vacanza li trascorreva a Verolanuova (Brescia) dove suo padre si era stabilito, pur mantenendo sempre stretto contatto con il resto della famiglia rimasta a Boschetto di Cremona.
Fu ordinato sacerdote il 25 agosto 1915 a Verolanuova dal vescovo di Brescia monsignor Giacinto Gaggia (1847-1933).
Il mese di esercizi spirituali di preparazione all’ordinazione Primo lo aveva trascorso a Chiari (Brescia) presso l’abbazia dei monaci benedettini francesi di Solesmes.
Nei primi otto mesi di sacerdozio fu coadiutore nella parrocchia di Spinadesco, presso Cremona, quindi fu incaricato di insegnare italiano, storia e geografia nelle prime classi ginnasiali del seminario e, allo stesso tempo, prestò servizio domenicale a Boschetto dove il parroco titolare era ammalato.
Con lo scoppio della prima guerra mondiale don Mazzolari ebbe subito il dolore di perdere il fratello Peppino caduto sul Sabotino, a nord di Gorizia.
Anch’egli fu costretto a partire per la guerra.
Dapprima da soldato semplice, quindi come caporale della sanità e infine in qualità di cappellano militare.
Dopo la guerra, nel 1920, fu destinato a Bozzolo in veste di delegato vescovile della parrocchia della Santissima Trinità rimanendovi fino al 31 dicembre 1921.
Senonché i suoi metodi pastorali e la sua ampiezza di vedute, tra cui non ultima la rispettosa e dialogante amicizia col sindaco del posto, Umberto Donini che era socialista, furono motivo di forte incomprensione e di critica da parte dell’arciprete della parrocchia principale.
A complicare le cose ci si mise, a un certo punto, anche la ferma presa di posizione di don Primo in difesa delle operaie tessili della locale fabbrica di calze.
Allora il vescovo lo nominò parroco a Cicognara di Viadana dove, con il sacerdote precedente, si erano verificati seri problemi di convivenza con la gente del luogo a causa dei fittabili della prebenda.
Don Mazzolari prese possesso della parrocchia il 31 dicembre 1921 e vi restò fino al luglio del 1932, quando il suo vescovo, monsignor Giovanni Cazzani (1867-1952) decise di trasferirlo nuovamente a Bozzolo, riunendo sotto le sue cure le due parrocchie del paesino tra le quali persisteva una sorta di campanilistico antagonismo.
L’unificazione realizzata da don Primo pose fine all’incresciosa situazione.
A Bozzolo egli sarebbe rimasto fino alla morte.
Tutti in genere gli riconoscevano un forte senso evangelico e pastorale, capace di calarsi con realismo e pertinenza nella vita concreta e nei problemi più reali e umani della gente, oltre a una grande capacità di incidere sulle coscienze.
L’autorità ecclesiastica, soprattutto per i suoi molti scritti giudicati a volte troppo arditi e provocatori a un certo punto lo colpì con diversi interdetti.
Ne La più bella avventura (1934) per esempio, don Mazzolari leggendo la parabola del figliol prodigo, aveva preso le difese del fratello minore scialacquatore e accusava il vuoto perbenismo – da schiavo più che da figlio – del fratello maggiore.
Sfortuna volle che un pastore protestante di un centro vicino si servisse di quelle pagine per polemizzare con la cattolicità.
Il libro, denunciato, da qualche caritatevole zelante, al Sant’Uffizio, fu ritirato.
Don Primo inoltre si era già segnalato a livello pubblico per essersi opposto all’arroganza del fascismo fin dai tempi della marcia su Roma e specialmente nel novembre 1925 quando, dopo l’attentato – fallito – di Tito Zaniboni a Mussolini, si rifiutò di cedere alla pretesa dei fascisti del paese che gli avevano ordinato di presiedere una funzione religiosa di ringraziamento strumentalmente stabilita per controllare chi avesse “fede fascista” senza “confondersi con la solita gente che frequenta la chiesa alla domenica”.
Don Mazzolari rispose che “la Chiesa non può prestarsi a dimostrazioni politiche di nessun genere bastando, a questa bisogna, la piazza e che Cristo non poteva essere preso a discrimine di fede politica.
Che nessuno doveva vergognarsi di mettersi in ginocchio accanto alla buona gente che si ricorda di essere cristiana non in certe occasioni soltanto, ma tutte le domeniche e che più cordialmente di tutti, perché più religiosa, avrebbe ringraziato il Signore per lo scampato pericolo del Presidente del Consiglio”.
Quando nonostante tutto i fascisti inquadrarono e irreggimentarono la popolazione, “con la minaccia del bastone e della rivoltella”, per condurla al canto del Te Deum, don Mazzolari tenne testa alla prepotenza e dopo un discorso di cinque minuti – “il Signore sa quello che ho detto, perché Lui solo me l’ha ispirato e io non ricordo più” – concluso con la recita del Padre Nostro, congedò l’assemblea.
Denunciato dalla Regia procura di Cremona ai superiori ebbe una blanda reprimenda dal vescovo monsignor Cazzani il quale intimamente approvava le posizioni del suo sacerdote e lo avrebbe dimostrato in diverse circostanze, basti solo ricordare le reiterate polemiche che il presule avrebbe avuto con Farinacci, e la forte omelia pronunciata nella cattedrale di Cremona nell’Epifania del 1939 a condanna delle leggi razziali promulgate dal fascismo.
Omelia, che lo stesso don Mazzolari avrebbe definito “magistrale”.
Negli anni della seconda guerra mondiale don Primo partecipò attivamente alla lotta di liberazione.
Si adoperò per nascondere e salvare diversi ebrei e antifascisti – ma dopo la guerra avrebbe fatto lo stesso per difendere alcune persone compromesse col regime e ingiustamente perseguitate.
Fu anche arrestato e rilasciato e dovette vivere in clandestinità fino al 25 aprile del 1945.
Nel dopoguerra fondò il periodico quindicinale “Adesso” (1949-1962) e diversi suoi scritti avrebbero attirato nuove sanzioni e richiami da parte dell’autorità ecclesiastica.
Vicende che avrebbero portato anche alla momentanea chiusura del giornale nel 1951.
Nel luglio dello stesso anno venne imposto a don Primo il divieto di predicare fuori della sua diocesi senza autorizzazione e il divieto di pubblicare articoli senza preventiva revisione dell’autorità ecclesiastica.
“Adesso” riprese le pubblicazioni, don Mazzolari però dovette apparire di meno pur continuando a scrivere sotto pseudonimo.
Negli anni Cinquanta maturò la sua visione sociale prossima alle classi più deboli e soprattutto incentrata sulle tematiche della pace con la condanna della dottrina della “guerra giusta” e dell’ideologia della vittoria (Tu non uccidere, 1955, pubblicato anonimo), espressione di quell’ideale di non violenza e di obiezione di coscienza che soprattutto nel mondo del cattolicesimo fiorentino avrebbe trovato numerosi e convinti assertori quali lo scolopio Ernesto Balducci, Giorgio La Pira, Nicola Pistelli e soprattutto don Lorenzo Milani – collaboratore e lettore assiduo di “Adesso”.
Nonostante la perdurante diffidenza e gli interdetti delle autorità ecclesiastiche – sopportate silenziosamente in sostanziale e rispettosa obbedienza, aliena da clamori e da atteggiamenti vittimistici – le visioni di don Primo Mazzolari così legate al Vangelo e all’etica delle Beatitudini avrebbero anticipato diverse prospettive pastorali e dottrinarie del concilio Vaticano ii.
E proprio negli ultimi mesi di vita il parroco di Bozzolo ricevette le prime e più alte attestazioni di stima da parte delle alte gerarchie.
È noto come Papa Giovanni xxiii ricevendolo in udienza il 5 febbraio del 1959 lo salutasse con un appellativo gioioso rimasto celebre: “La Tromba dello Spirito Santo” dopo che nel novembre del 1957 l’arcivescovo di Milano Giovanni Battista Montini lo aveva chiamato a predicare agli universitari.
In seguito proprio Paolo VI avrebbe detto ricordando don Primo: “Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a tenergli dietro.
Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi.
Questo è il destino dei profeti”.
(©L’Osservatore Romano – 8 aprile 2009) Pubblichiamo un estratto dalla recentissima antologia Il prete di “Adesso” (Roma, Rogate, 2009, pagine 141, euro 12) a cura di Leonardo Sapienza.
Una sbarra tra i ricchi e i poveri di Primo Mazzolari Dicono tutti che è l’ora dei poveri, sotto nomi diversi di “povera gente”, “massa lavoratrice”, “proletariato”.
Di quest’ora che mi fa pensare all’evangelico “è giunto il momento, ed è questo” (Giovanni, 4, 23), nessuno se ne rallegra al pari di un prete, che, nonostante il “si dice”, con la povera gente vive veramente gomito a gomito in campagna e alla periferia, e vede come tira e quanto patisce: ma non vorrei che un giorno i poveri, arcistufi di tante e sviscerate concorrenti dichiarazioni di amore, dicessero a questi e a quelli: “vogliateci un po’ meno bene e trattateci un po’ meglio”.
L’allarme è (…) per timore di un possibile baratto – purtroppo già in atto un po’ ovunque – tra una “primogenitura e un piatto di lenticchie” (cfr.
Genesi, 25, 29ss.).
La colpa però di una simile tentazione, se si vuol essere onesti e non pesare soltanto su chi ha fame, ricade in gran parte su coloro che li hanno lasciati nella necessità.
Quand’uno non ne può più, come pretendere che ragioni da uomo e misuri se il baratto gli convenga o no? Molto più che da questa parte, la nostra, ove c’è la “promessa” della primogenitura, ci sono parecchi cui non importa affatto la primogenitura, si fan belli di essa al solo scopo di tener indietro coloro che offrono ai poveri il piatto di lenticchie.
Il piatto di lenticchie è prelevato su quello che credono di avere, mentre la primogenitura può divenire un comodo pretesto di resistenza al comunismo.
E molti preti abboccano e ringraziano tali infidi e poco onorevoli alleati, dimenticando che non sono i comunisti che ci perdono, ma la povera gente, la quale rimane qual era, senza “primogenitura” e senza “lenticchie”, mentre i ricchi si pappano queste e credono di avere diritto pur su quella, quasi non fosse stato detto: “È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Matteo, 19, 24).
I poveri vanno amati “Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma coi fatti e nella verità” (1 Giovanni, 3, 18) come poveri, cioè come sono, senza far calcoli sulla loro povertà, senza pretesa o diritto di ipoteca, neanche quella di farli cittadini del Regno dei Cieli, molto meno dei proseliti.
Cittadini del Regno dei Cieli i poveri sono già per diritto di chiamata evangelica.
La carità di ogni specie non c’è bisogno che renda: è feconda e perfetta in sé quand’è vera carità.
Gesù disse al paralitico: “Alzati e cammina” (Matteo, 9, 5).
Alla parola sacramentale che opera il miracolo, non aggiunge: “E va’ in Chiesa” e molto meno: “Vota questa lista”.
Neanche un “grazie” si può pretendere, dato che la carità non è una cosa che uno possa fare o non fare, un’azione “superogatoria”, “un di più”.
Il secondo comandamento, che è simile al primo e gli fa da compimento o di riprova: “Amerai il tuo prossimo come te stesso”, è un fondamentale dovere, non un consiglio.
Ed è su quello che verremo giudicati.
Per questo accade che sono molti quelli che dicono di amare i poveri e pochi coloro che li amano di cuore.
I poveri lo sanno e s’adattano al baratto, e si credono pari, mentre sul piano quantitativo son gli altri che ci guadagnano, poiché la primogenitura è come l’olio della lampada, non si può neanche imprestare (cfr.
Matteo, 25, 1 ss.).
Io prete, sprovveduto per investitura di ogni mira temporale, dovrei essere il più adatto per il “ministero dei poveri”.
La Parola è predicata ai poveri: la Grazia è per i poveri.
(Chi più povero di un peccatore?).
Tutto è per il “povero”, poiché basta essere uomo per essere “povero”, sostanzialmente e irrimediabilmente “povero”.
Prete dei poveri quindi, come si è definito, secondo il Vangelo, san Vincenzo de’ Paoli: che non fa torto a nessuno, e non scantona davanti a nessuno, poiché tutti gli uomini, i ricchi in prima fila, sono dei poveri.
La povertà è l’unica condizione dell’uomo, che il peccato ha finito per alterare al pari di ogni altra condizione: e così avviene che ci sono poveri che si credono ricchi e poveri che si rifiutano o si vergognano di esserlo.
Il primo diviene cattivo per paura di perdere ciò che stima di avere: e l’altro si incupisce per timore di essere stato defraudato.
Il benestante è malato come il fariseo.
Essendosi appropriato di qualche cosa che è solo del Padre, si crede diverso dagli altri che non hanno niente.
E davanti all’altare prega come il fariseo: “O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…” (cfr.
Luca, 18, 11), ho casa, campi, automobile e ville.
Quando i poveri sentono pregare in tal modo e vedono che c’è qualche prete che sarebbe disposto a mettere l’imprimatur su tale preghiera, non solo si sentono offesi e umiliati, ma sono in tentazione di non credere che ci sia un Padre comune, il quale, se è vero – così ragionano nella loro disperazione – che vuol bene a tutti e può tutto, le cose di quaggiù non le dovrebbe lasciare andare così.
E i ricchi, a loro volta, ispessiti nel cuore dai loro averi e sempre timorosi di perderli, se la prendono col Signore, che mette al mondo tante bocche.
Così nessuno è contento di Dio, per questione di una ricchezza “che tignola e ruggine consumano e ladri scassinano e rubano” (Matteo, 7, 20).
E se non c’è la ruggine o la tignola, se non vengono i ladri, arriva la morte: “Stolto, questa notte tu morirai” (Luca, 12, 20).
Il sacerdote, pur avendo lo sguardo sulla condizione dell’uomo, che è di comune e irrimediabile povertà finché si rimane sul piano delle cose che “oggi sono e domani non sono” (cfr.
Matteo, 6, 30) e che anche quando sono “ingombrano invece di saziare”, si inserisce in questo momento esterrefatto del peccato, che separa gli uomini in ricchi e poveri.
Il suo ufficio non è quello di far ricchi i poveri o poveri i ricchi con accorgimenti legali o di ordine economico-sociale.
Che vi sia chi lo tenti questo lavoro di equità, è buona e doverosa cosa specialmente per un cristiano che non voglia rinnegare la fraternità.
Ed è pure buona cosa che il sacerdote inviti e suggerisca tale sforzo, che entra nei normali doveri della società cristiana; ma la sua propria funzione è di portar via il peccato, che crea le disuguaglianze e ogni male.
“Ecco l’Agnello di Dio, ecco Colui che porta via i peccati del mondo” (cfr.
Giovanni, 1, 36).
Se va via il peccato dal nostro cuore, si fa anche l'”eguaglianza” e i vasi comunicano.
E siccome il peccato è purtroppo un retaggio comune, patrimonio tanto dei ricchi come dei poveri, dato che il male è dentro di noi, e il “bicchiere va lavato dal di dentro”, il sacerdote deve predicare agli uni e agli altri: ai ricchi che fanno del possedere il “mammona”, ai poveri che misconoscono la loro grande dignità per il solo fatto che non ha contropartita immediata.
Da secoli, da quando Cristo ci ha mandato “a predicare la buona novella ai poveri” (cfr.
Luca, 4, 18) ci troviamo in questo poco comodo ufficio.
Né i poveri ci ascoltano, né i ricchi ci ascoltano: e ciò che ancor più ci umilia, par che abbiano lor buone ragioni tanto questi che quelli.
I ricchi dicono: è coi poveri contro di noi: adula i poveri per averli in mano contro di noi.
I poveri dicono: tiene coi ricchi perché sono i più forti e lo foraggiano.
Non è raro il caso che ricchi e poveri si mettan d’accordo, come Erode e Pilato, per farlo tacere (cfr.
Luca, 23, 12).
A sua volta il prete, che è un uomo, cioè un pover’uomo, come ognuno se non di più, può essere preso dalla tentazione di togliersi da questa scomoda e assurda condizione, spostandosi verso destra o verso sinistra, e non per motivi volgari, ma dietro pretesti magistralmente ragionati.
“I ricchi sono irriverenti, mangiapreti, irreligiosi, senza cuore”.
“I poveri, socialisti, bolscevichi, materialisti, atei…”.
E in una vicenda che è spirituale, si finisce con alleati e mezzi di tutt’altro genere.
Ma i ricchi, che son più accorti, ci fanno la corte volentieri, e noi ci caschiamo dentro nell’inganno: con loro contro i poveri.
D’onde le sequele di accuse e di pregiudizi che ben conosciamo e che fortunatamente non meritiamo, ma che tengono lontano ricchi e poveri dalla strada buona.
Il Regno dei Cieli non è a destra né a sinistra, né coi poveri né coi ricchi, finché ricchi e poveri si differenziano soltanto per quello che hanno, non per quello che sono.
Tra questi due fronti, che il peccato ha innalzato e che il peccato tiene in piedi, ci sta, crocifisso, il sacerdote: crocifisso tra due ladroni, uno buono l’altro un po’ meno, ma ladroni entrambi.
Questo è il suo grande e tremendo destino, aggravato dal fatto, che mentre lui ha mani e piedi inchiodati, i suoi compagni, che son legione, muovono mani e piedi, e tiran sassi e calci, l’uno contro l’altro; ma tanto i sassi come i calci finiscono contro il crocifisso che sta di mezzo e fa da sbarra.
Il prete è una sbarra che ha il cuore, e il colpo, venga da destra o da sinistra lui lo riceve nel cuore, e non può ricambiarlo, neanche lamentarsi.
Oscilla soltanto, ed è per grande carità: ma gli altri dicono che parteggia perché se viene colpito a destra oscilla verso sinistra e viceversa.
E così perde anche l’onore.
(dal periodico “Adesso”, n.
5, 1° marzo 1953).
(©L’Osservatore Romano – 8 aprile 2009)

La preghiera e la scienza

Lo studio si è concentrato esclusivamente sulla religione cristiana ed è stato condotto da Uffe Schjodt, dell’università di Aarhus in Danimarca pubblicato sulla rivista Social Cognitive and Affective Neuroscience e riportato sul magazine britannico New Scientist.
Gli esperti hanno chiesto ai venti devoti volontari in prima battuta di recitare il Padrenostro o una filastrocca per bambini: in entrambi casi la risonanza magnetica mostra che nel loro cervello si accendono aree associate alla ripetizione.
Poi hanno chiesto loro di parlare con Dio, con preghiere personali, o di parlare con Babbo Natale per esprimere i propri desideri sotto l’albero.
In questo caso la risonanza mostra che si accendono le aree della conversazione e che, in particolare, quando ci si rivolge a Dio sono attive anche aree della corteccia prefrontale che servono a capire intenzioni ed emozioni altrui, cosa che succede sempre di fronte a un interlocutore in carne ed ossa.
Ciò però non avviene quando si parla con Babbo Natale.
In base a questi risultati, secondo Schjodt rivolgersi a Dio è come parlare con una persona, mentre Babbo Natale non sprigiona gli stessi effetti perché si è consapevoli dell’aspetto simbolico e lo si considera più un “oggetto”, il protagonista di una leggenda.
(7 aprile 2009) NON c’è nulla di mistico in una preghiera.
Per il nostro cervello rivolgersi a dio è come parlare a un amico in carne e ossa.
Un gruppo di scienziati ha infatti esaminato le reazioni cerebrali di un gruppo di fedeli impegnati nella ricerca di un conforto spirituale attraverso un dialogo con dio, scoprendo che si attivano le stesse aree di una normalissima conversazione.
Cosa che non capita quando ci si rivolge a Babbo Natale.
Mentre quando si recita una preghiera a memoria si attivano esclusivamente le zone adibite alla ripetizione.

Concordato: riforma incompiuta.

Vorrei soffermarmi, in apertura, sul contesto storico della riforma del Concordato nel 1984 e sulle prospettive che la revisione ha aperto nel nostro e in altri ordinamenti.
Vorrei trattare, cioè, del Concordato italiano del 1984 in un orizzonte riformatore più ampio rispetto al testo dell’accordo, in relazione all’ordinamento italiano e all’evoluzione del diritto europeo.
In altri termini, vorrei riprendere la lezione di Francesco Ruffini che già nell’Ottocento aveva sprovincializzato la cultura italiana introducendo e facendo conoscere le grandi acquisizioni della laicità in diversi paesi, e che per primo a livello scientifico (dopo Alexis de Tocqueville) aveva chiarito la differenza tra il separatismo amico delle Chiese degli Stati Uniti d’America e il separatismo ostile alle Chiese e alla religione della Francia illuminista.
Per la consultazione del contributo  concordato .Cardia Regno-att.
n.4, 2009, p.120

Numeri e fede/9: I domatori di stelle

L’ntervista al professor Massimo Buscema Che cosa serve per fare un’eccellente matematica? «Immaginazione e rigore analitico.
L’immaginazione è la componente creativa della matematica.
È un portento del cervello, che non conosciamo.
È l’attività tramite la quale si avanzano ipotesi insolite sulla struttura invisibile del mondo, che genera quella visibile.
La capacità analitica consiste nel dimostrare logicamente e sperimentalmente tali ipotesi.
Il rigore analitico permette di raggiungere la verità ma anche di ottenere una ‘democrazia della scienza’, per cui ogni altro ricercatore può ripercorrere i tuoi passi e andare oltre.
Il matematico è come uno che salta su una stella sconosciuta e poi deve verificare se è in grado di costruire – da quella stella, fino al punto della Terra da cui è saltato – una scala che qualunque essere umano (anche non particolarmente dotato) possa percorrere».
La matematica applicata può commettere errori? «Quella che facciamo al ‘Semeion’, nel campo dell’imaging medico, si è dimostrata capace di trasformare nell’informazione-chiave ciò che da altri ricercatori era stato scartato come ‘rumore’ o inutile disturbo.
Ma la scienza non esiste se non fa errori.
Di fronte alla complessità della natura, i pensieri di un uomo di scienza non possono che essere sfumati, flessibili, spesso contraddittori.
Oggi purtroppo alcuni scienziati hanno invece pensieri categorici (e comportamenti ambigui)».
Esistono anche limiti oggettivi.
«La matematica sa individuarli.
Prima di tutto: limiti di computabilità.
Siamo in grado di calcolare l’angolo con cui rimbalza la palla sul bordo rettilineo di un biliardo.
Ma, se il biliardo ha il bordo a cresta di montagna, cioè irregolare, la traiettoria della palla è diversa.
Dopo ‘n’ rimbalzi, la differenza diventa esponenziale e la posizione della palla è sempre più imprevedibile.
Il secondo limite è l’incertezza della misurazione: quando misuro entità molto piccole, interferisco con l’entità stessa.
Un elettrone, prima che io ne verifichi la posizione, è rappresentato come una nube di probabilità, cioè potrebbe essere dovunque in un certo ‘intorno’.
Ma quando lo misuro, lo trovo in un punto specifico.
Qui nasce l’arcano: è come se chi osserva determinasse la posizione dell’elettrone.
È il sistema osservatore-osservato che fa passare un oggetto da pura informazione a materia.
Alcuni teorici hanno immaginato che lo stesso Big Bang sia un collasso della pura informazione in massa-energia.
Allora si può porre la domanda: in quella circostanza chi era l’osservatore? A livello di congettura non dimostrabile, questa domanda è ragionevole».
Che rapporto c’è tra matematica e fede? «È come se mi chiedesse: ‘In casa preferisce una finestra o un televisore?’ La finestra è essenziale per vedere ciò che succede fuori casa.
Il televisore mi serve per sapere che cosa succede nel mondo che non posso vedere dalla finestra.
Nessun architetto obbligherebbe un futuro padrone di casa a scegliere tra finestra e televisore.
Perciò non ha senso sostenere che, se sei credente, non puoi essere un bravo scienziato.
È come dire: ‘poiché hai una casa con finestre, non puoi comprare anche il televisore’.
Per quanto mi riguarda, penso che credere in un Dio-persona, come quello cristiano, mi dia il coraggio di guardare da ogni finestra e di accendere ogni televisore».
Ma allora com’è nata la contrapposizione tra scienza e fede? «La risposta è: a chi giova questa contrapposizione? Non agli scienziati, semmai a quelli che tramite la scienza acquisiscono soldi, fama e potere.
Da una ricerca risulta che credono in un Dio trascendente il 4% dei biologi, il 7% dei fisici e il 14% dei matematici.
Queste percentuali corrispondono, grosso modo, ai rispettivi flussi di finanziamento industriale che arrivano ai vari rami della ricerca.
Le multinazionali che producono tecnologia possono influenzare in maniera crescente il campo biologico e un po’ anche la fisica.
Ma molto meno i matematici.
Chi sforna prodotti ci vuole consumatori, ha interesse a far credere a ogni persona sul globo che l’imperativo è il consumo perché ‘tutto è qui, adesso’, e ‘del doman non v’è certezza’».
È nelle informazioni-chiave dell’universo e del mondo che va cercata la risposta agli interrogativi fondamentali? «Sì, e anche nelle informazioni che riguardano la singola persona.
Dobbiamo pensare all’identità di ognuno come a un’incredibile quantità organizzata di atomi.
Ma durante la sua vita, ogni individuo non fa che cedere vecchi atomi e prenderne nuovi.
È credibile che all’età di 50 anni, io non abbia più neanche un atomo di quelli che avevo a cinque anni.
Ma allora perché mi sento la stessa identità e mi ricordo anche di quando avevo cinque anni, se tutta la materia di cui ero fatto è cambiata? Dove sono stato registrato? Dov’è il disco rigido su cui è stato fatto il backup di me stesso? Non c’è.
E allora perché ho memoria? E’ più probabile che la mia identità non sia fornita dalla mia struttura bio-materiale (che cambia continuamente) ma dalla funzione matematica che connette tutte le traiettorie di qualsiasi mio atomo.
In altri termini: la mia identità è solo un’organizzazione di informazioni, un pensiero.
Ora, se tutta la complessità che esploriamo nasconde un pensiero, e se è così ben congegnato da permetterci di esistere e di formulare una domanda sensata sull’origine del cosmo, è più che ragionevole credere che l’informazione iniziale non sia stata buttata lì a casaccio.
‘Penso quindi esisto’ oppure ‘Esisto perché sono pensato’? Luigi Dell’Aglio «La matematica è l’arte di immaginare e di dimostrare, cogliendo le invarianti più astratte della realtà.
Procedendo solo con un pensiero astratto e con le sue conseguenze logiche, ci si allontana infinitamente dalla realtà ma per trovarsi, alla fine, nel cuore stesso della realtà.
Ecco il prodigio della matematica, arte di trasformare, in maniera analitica, l’impossibile nel possibile».
Questa è oggi la scienza di Euclide e Leibniz, secondo il professor Massimo Buscema, computer scientist di grande successo, che ha conseguito fama internazionale con nuovi modelli e algoritmi di intelligenza artificiale, alcuni dei quali confluiti in 14 brevetti internazionali.
È fondatore e direttore del centro di ricerche «Semeion» ed è il secondo tra gli autori più prolifici, a livello mondiale, nel campo delle reti neurali artificiali (fonte: GoPubMed 2008).
Consulente di New Scotland Yard, con il Progetto Central Drug Trafficking Database ha fornito alla più famosa polizia del mondo il know how per scoprire le rotte del traffico internazionale di droga dal momento dell’entrata e della capillare distribuzione sul territorio britannico.

C’è bisogno di maestri, non di facilitatori

Giorgio Israel, ordinario di matematica alla Sapienza di Roma, intervenendo al IX Forum del Progetto culturale dedicato all’emergenza educativa, ha messo a nudo il ruolo e la figura attuale dell’insegnante nel suo rapporto umano con gli alunni.
Vi è una concezione del ruolo del docente, secondo Israel, che “sembra volerli trasformare sempre più in facilitatori, in animatori culturali, quasi non si avesse più bisogno di maestri, di testimoni della società in cui i giovani stessi si apprestano ad entrare”.
La scuola non sembra essere consapevole del rischio di una visione meccanicistica dell’apprendimento.
L’intervento del prof.
Israel assume maggiore rilievo in considerazione del fatto che egli è coordinatore del gruppo di lavoro costituito con decreto 30 luglio 2008 dal ministro Gelmini per definire requisiti e modalità per la formazione iniziale del personale docente delle istituzioni scolastiche, l’attività procedurale per il suo reclutamento, nonché per definire gli ordinamenti didattici universitari per la formazione degli insegnanti.
Nel documento generale del gruppo, emerge il pensiero del prof.
Israel laddove si afferma che “il futuro insegnante, oltre a possedere sicure e imprescindibili conoscenze delle discipline da insegnare, deve avere l’opportunità di riflettere sulle modalità di trasmissione delle conoscenze e di acquisizione delle competenze e sulle complesse e articolate problematiche della mediazione didattica.
La sua formazione socio-psico-pedagogica deve renderlo capace di orientarsi nelle diverse fasce di età e permettergli di operare al meglio sia nell’ambito dei problemi legati alle relazioni interpersonali a scuola (lavoro di gruppo, rapporti tra studenti, rapporti con le famiglie, ecc.) sia all’individuazione delle modalità educative (motivazioni allo studio, partecipazione, ecc.) adeguate a promuovere il successo didattico”.
tuttoscuola.com

Il triduo Pasquale:

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 52,13-53,12 Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente.
Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.
Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida.
Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere.
Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato.
Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità.
Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti.
Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca.
Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte.
Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca.
Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.
I carmi del «Servo di JHWH» segnano una svolta nel messianismo biblico.
L’affermazione monarchica aveva fatto pensare che la salvezza escatologica potesse venire da un eventuale discendente della famiglia regale (cf 2Sam 7,12-14).
La figura del re davidico compare nei salmi e nei profeti e servirà ad accendere l’immaginazione popolare verso un grande futuro, che si rivelerà ben presto illusorio.
Con l’esilio le speranza riposte nella dinastia e nel dinasta davidico vanno attenuandosi e al suo posto subentra la figura di un martire ideale che sopporta afflizioni e pene per l’intera nazione.
Una figura insolita che non farà mostra di potenza ma di umiltà e di mansuetudine; non trionferà sui nemici con la forza delle armi anzi sarà deriso umiliato, sconfitto.
Egli ritrae in concreto le sofferenze del popolo d’Israele nella sua amara esperienza dell’esilio.
Sulle rive del Chebar, in terra straniera nasce una nuova scuola di spiritualità, un nuovo modo di pensare e di impostare i rapporti con Dio e con i propri simili, i connazionali e gli altri, fatto di remissività, di abbandono e di perdono.
Occorreva farsi umili davanti a Dio come lo si era diventati davanti alle genti e con tale atteggiamento da poveri, mendichi alzare il volto verso l’alto con fiducia.
Non era importante offrire a Dio doni, quanto semmai mostrargli le proprie mani vuote e, bisognose di essere riempite dalle sue elargizioni.
I «poveri in spirito» sono nati nell’esilio e fanno sentire la loro voce in molti salmi (I salmi dei poveri) e tra di essi vi sono anche i «Carmi del servo di JHWH», l’ideale che Gesù ritiene dovere incarnare nella sua vita più che quello del discendente davidico.
Infatti respingerà le insinuazioni di grandezza, di potenze come istigazioni salamene (Mt 4,1-11), fuggirà quando vorranno farlo re (Gv 6,15), e respingerà come diabolico il suggerimento di Pietro di evitare a scansare la passione (Mt l6,23).
Perché umile e indifeso, sarà facilmente catturato e vinto, ma per questa sconfitta conseguirà la vittoria.
«Non doveva il Cristo patire è così, cioè e per questo motivo, entrare nella gloria», ricorda il misterioso viandante ai discepoli di Emmaus (Lc 24,26).
Perché si è umiliato fino alla morte di croce Dio l’ha esaltato al di sopra di ogni potestà, ribadisce l’autore dell’inno presente nella lettera agli Efesini (2,1-11).
Seconda lettura: Ebrei 4,14-16; 5,7-9 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
[Cristo, infatti,] nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito.
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Il testo di Ebr 5,7-9 riassume l’esperienza del Getsemani nei termini più drammatici di tutto il nuovo Testamento.
L’autore chiama la passione di Gesù «i giorni della sua carne».
Nel linguaggio biblico il termine basar (carne) denota l’aspetto maggiormente precario più vulnerabile dell’essere umano: uno stato di «debolezza» (5,2) più che di forza, simboleggiata quest’ultima dallo «spirito».
La «carne è debole» ricorda Gesù nel Getsemani (Mt 26,41) e intendeva far riferimento anche alla condizione di panico e di ansietà che stava attraversando nel suo animo.
La passione metteva alla prova anche Gesù.
La sconfitta imminente, l’abbandono degli amici e, sembrava, anche del Padre (Mc 15,34) provocavano uno stato di insicurezza interiore che lo facevano tremare.
Per questo, l’autore parla di «preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime» per ridire il suo stato di vera, estrema angoscia.
Le semplici parole dei sinottici «passi da me questo calice» lo esprimono con maggiore concretezza e forse obiettività.
Davanti allo spettro della morte Gesù non rimane impavido, ma atterrito e non trova altro scampo che volgere il pensiero al Padre.
L’autore non ricorda che cosa egli dice ma certamente parole di comprensione e di soccorso.
La frase «Dio che poteva salvarlo da morte» lascia capire quale possa essere stato l’oggetto della sua preghiera.
La morte sopraggiungerà egualmente, ma l’autore afferma che ciò nonostante «venne esaudito».
La vera vittoria non era quella di evitare la morte, ma di saperla accettare; l’importante non era sconfiggere i nemici, ma superare le reazioni che si annidavano nel suo animo: la volontà di fuga davanti al dolore e alla croce, la possibilità di cedere e di arrendersi.
Era ciò che a Gesù stava a cuore; non di evitare ma di superare la dura prova che la missione profetica gli stava riservando.
E Gesù fu esaudito per la sua riverenza, pietà, fiducia in Dio.
Pregare è un atto di fede, ma occorre anche essere pronti ad accogliere qualsiasi risposta, sapendo che tutto ciò che Dio dispone è tutto quello che egli può dare, quello che è più opportuno per la creatura, maggiormente rispondente al suo disegno.
Gesù è stato sempre un «figlio» ubbidiente, ma ha dovuto anche apprendere a quale prezzo a volte l’ubbidienza è subordinata.
Vangelo: Giovanni 18,1-19,42 – Catturarono Gesù e lo legarono In quel tempo, Gesù uscì con i suoi discepoli al di là del torrente Cèdron, dove c’era un giardino, nel quale entrò con i suoi discepoli.
Anche Giuda, il traditore, conosceva quel luogo, perché Gesù spesso si era trovato là con i suoi discepoli.
Giuda dunque vi andò, dopo aver preso un gruppo di soldati e alcune guardie fornite dai capi dei sacerdoti e dai farisei, con lanterne, fiaccole e armi.
Gesù allora, sapendo tutto quello che doveva accadergli, si fece innanzi e disse loro: «Chi cercate?».
Gli risposero: «Gesù, il Nazareno».
Disse loro Gesù: «Sono io!».
Vi era con loro anche Giuda, il traditore.
Appena disse loro «Sono io», indietreggiarono e caddero a terra.
Domandò loro di nuovo: «Chi cercate?».
Risposero: «Gesù, il Nazareno».
Gesù replicò: «Vi ho detto: sono io.
Se dunque cercate me, lasciate che questi se ne vadano», perché si compisse la parola che egli aveva detto: «Non ho perduto nessuno di quelli che mi hai dato».
Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori, colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro.
Quel servo si chiamava Malco.
Gesù allora disse a Pietro: «Rimetti la spada nel fodero: il calice che il Padre mi ha dato, non dovrò berlo?».
– Lo condussero prima da Anna Allora i soldati, con il comandante e le guardie dei Giudei, catturarono Gesù, lo legarono e lo condussero prima da Anna: egli infatti era suocero di Caifa, che era sommo sacerdote quell’anno.
Caifa era quello che aveva consigliato ai Giudei: «È conveniente che un solo uomo muoia per il popolo».
Intanto Simon Pietro seguiva Gesù insieme a un altro discepolo.
Questo discepolo era conosciuto dal sommo sacerdote ed entrò con Gesù nel cortile del sommo sacerdote.
Pietro invece si fermò fuori, vicino alla porta.
Allora quell’altro discepolo, noto al sommo sacerdote, tornò fuori, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro.
E la giovane portinaia disse a Pietro: «Non sei anche tu uno dei discepoli di quest’uomo?».
Egli rispose: «Non lo sono».
Intanto i servi e le guardie avevano acceso un fuoco, perché faceva freddo, e si scaldavano; anche Pietro stava con loro e si scaldava.
Il sommo sacerdote, dunque, interrogò Gesù riguardo ai suoi discepoli e al suo insegnamento.
Gesù gli rispose: «Io ho parlato al mondo apertamente; ho sempre insegnato nella sinagoga e nel tempio, dove tutti i Giudei si riuniscono, e non ho mai detto nulla di nascosto.
Perché interroghi me? Interroga quelli che hanno udito ciò che ho detto loro; ecco, essi sanno che cosa ho detto».
Appena detto questo, una delle guardie presenti diede uno schiaffo a Gesù, dicendo: «Così rispondi al sommo sacerdote?».
Gli rispose Gesù: «Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male.
Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?».
Allora Anna lo mandò, con le mani legate, a Caifa, il sommo sacerdote.
– Non sei anche tu uno dei suoi discepoli? Non lo sono! Intanto Simon Pietro stava lì a scaldarsi.
Gli dissero: «Non sei anche tu uno dei suoi discepoli?».
Egli lo negò e disse: «Non lo sono».
Ma uno dei servi del sommo sacerdote, parente di quello a cui Pietro aveva tagliato l’orecchio, disse: «Non ti ho forse visto con lui nel giardino?».
Pietro negò di nuovo, e subito un gallo cantò.
– Il mio regno non è di questo mondo Condussero poi Gesù dalla casa di Caifa nel pretorio.
Era l’alba ed essi non vollero entrare nel pretorio, per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua.
Pilato dunque uscì verso di loro e domandò: «Che accusa portate contro quest’uomo?».
Gli risposero: «Se costui non fosse un malfattore, non te l’avremmo consegnato».
Allora Pilato disse loro: «Prendetelo voi e giudicatelo secondo la vostra Legge!».
Gli risposero i Giudei: «A noi non è consentito mettere a morte nessuno».
Così si compivano le parole che Gesù aveva detto, indicando di quale morte doveva morire.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Sei tu il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?».
Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me.
Che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?».
Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re.
Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità.
Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Gli dice Pilato: «Che cos’è la verità?».
E, detto questo, uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui colpa alcuna.
Vi è tra voi l’usanza che, in occasione della Pasqua, io rimetta uno in libertà per voi: volete dunque che io rimetta in libertà per voi il re dei Giudei?».
Allora essi gridarono di nuovo: «Non costui, ma Barabba!».
Barabba era un brigante.
– Salve, re dei Giudei! Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare.
E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora.
Poi gli si avvicinavano e dicevano: «Salve, re dei Giudei!».
E gli davano schiaffi.
Pilato uscì fuori di nuovo e disse loro: «Ecco, io ve lo conduco fuori, perché sappiate che non trovo in lui colpa alcuna».
Allora Gesù uscì, portando la corona di spine e il mantello di porpora.
E Pilato disse loro: «Ecco l’uomo!».
Come lo videro, i capi dei sacerdoti e le guardie gridarono: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Prendetelo voi e crocifiggetelo; io in lui non trovo colpa».
Gli risposero i Giudei: «Noi abbiamo una Legge e secondo la Legge deve morire, perché si è fatto Figlio di Dio».
All’udire queste parole, Pilato ebbe ancor più paura.
Entrò di nuovo nel pretorio e disse a Gesù: «Di dove sei tu?».
Ma Gesù non gli diede risposta.
Gli disse allora Pilato: «Non mi parli? Non sai che ho il potere di metterti in libertà e il potere di metterti in croce?».
Gli rispose Gesù: «Tu non avresti alcun potere su di me, se ciò non ti fosse stato dato dall’alto.
Per questo chi mi ha consegnato a te ha un peccato più grande».
– Via! Via! Crocifiggilo! Da quel momento Pilato cercava di metterlo in libertà.
Ma i Giudei gridarono: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare! Chiunque si fa re si mette contro Cesare».
Udite queste parole, Pilato fece condurre fuori Gesù e sedette in tribunale, nel luogo chiamato Litòstroto, in ebraico Gabbatà.
Era la Parascève della Pasqua, verso mezzogiorno.
Pilato disse ai Giudei: «Ecco il vostro re!».
Ma quelli gridarono: «Via! Via! Crocifiggilo!».
Disse loro Pilato: «Metterò in croce il vostro re?».
Risposero i capi dei sacerdoti: «Non abbiamo altro re che Cesare».
Allora lo consegnò loro perché fosse crocifisso.
– Lo crocifissero e con lui altri due Essi presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Gòlgota, dove lo crocifissero e con lui altri due, uno da una parte e uno dall’altra, e Gesù in mezzo.
Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei».
Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove Gesù fu crocifisso era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino e in greco.
I capi dei sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: «Non scrivere: “Il re dei Giudei”, ma: “Costui ha detto: Io sono il re dei Giudei”».
Rispose Pilato: «Quel che ho scritto, ho scritto».
– Si sono divisi tra loro le mie vesti I soldati poi, quando ebbero crocifisso Gesù, presero le sue vesti, ne fecero quattro parti – una per ciascun soldato –, e la tunica.
Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d’un pezzo da cima a fondo.
Perciò dissero tra loro: «Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca».
Così si compiva la Scrittura, che dice: «Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte».
E i soldati fecero così.
– Ecco tuo figlio! Ecco tua madre! Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria madre di Clèopa e Maria di Màgdala.
Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco tuo figlio!».
Poi disse al discepolo: «Ecco tua madre!».
E da quell’ora il discepolo l’accolse con sé.
Dopo questo, Gesù, sapendo che ormai tutto era compiuto, affinché si compisse la Scrittura, disse: «Ho sete».
Vi era lì un vaso pieno di aceto; posero perciò una spugna, imbevuta di aceto, in cima a una canna e gliela accostarono alla bocca.
Dopo aver preso l’aceto, Gesù disse: «È compiuto!».
E, chinato il capo, consegnò lo spirito.
– E subito ne uscì sangue e acqua Era il giorno della Parascève e i Giudei, perché i corpi non rimanessero sulla croce durante il sabato – era infatti un giorno solenne quel sabato –, chiesero a Pilato che fossero spezzate loro le gambe e fossero portati via.
Vennero dunque i soldati e spezzarono le gambe all’uno e all’altro che erano stati crocifissi insieme con lui.
Venuti però da Gesù, vedendo che era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua.
Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate.
Questo infatti avvenne perché si compisse la Scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso».
E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto».
– Presero il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli insieme ad aromi Dopo questi fatti Giuseppe di Arimatèa, che era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù.
Pilato lo concesse.
Allora egli andò e prese il corpo di Gesù.
Vi andò anche Nicodèmo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di áloe.
Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura.
Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto.
Là dunque, poiché era il giorno della Parascève dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù.
Esegesi Il «racconto» della passione secondo Giovanni è totalmente diverso da quello dei sinottici (Mc-Mt-Lc).
Il quarto evangelista ricorda occasionalmente i patimenti di Gesù; di fatti descrive il suo cammino trionfale verso il trono della sua gloria.
Il titolo è dato già in 12,32: «quando sarò esaltato da terra trarrò tutti a me».
Nel Getsemani invece di essere prostrato dal dolore, sopraffatto dall’agonia (cf.
Mc 14,33-34) Gesù si erge contro i suoi avversari prostrandoli a terra (18,6).
In Marco è lui a cadere su se stesso sopraffatto dal dolore e dallo spavento; qui sono i suoi nemici folgorati dalla sua maestà.
Un’intera corte e le guardie dei giudei indietreggiano e finiscono a terra quando dice: «Sono io».
Gesù accetta sì il «calice» che il padre gli ha preparato ma da «Signore» più che da vittima.
Il processo davanti ad Anna (18,18-24) e a Pilato (18,28-40) è sostenuto da Gesù dignitosamente.
Sembra egli il giudice più che il reo.
Pur incatenato è sempre a testa alta di fronte agli accusatori e alle accuse.
Non ha paura di rispondere al sommo sacerdote come il reagire contro il servo che l’ha ingiustamente schiaffeggiato mentre i sinottici riferiscono solo gli scherni e gli insulti che ha ricevuto e danno più rilievo al comportamento degli avversari che all’atteggiamento di Gesù.
L’interrogatorio da parte di Pilato serve a mettere in rilievo l’innocenza di Gesù e la sua supremazia sul giudice e sugli accusatori.
Egli è la «verità» in persona e cerca di raggiungere persino lo stesso procuratore romano e quelli che l’attorniano dato che quelli a cui era prima di tutti destinata la rifiutano come rifiutano il loro re per sottostare a Cesare.
Il «re dei giudei» di cui i soldati mettono in scena una sua simbolica intronizzazione è proposto a Barabba, un rivoltoso quindi un partigiano, ma per Giovanni è semplicemente un «ladro».
La scena centrale del racconto della passione di Giovanni è quando il funzionario romano fa uscire Gesù dall’interno del pretorio, lo fa sedere su uno sgabello alla vista di tutto il popolo e pronuncia le fatidiche parole: «Ecco l’uomo!» ( 19,14).
L’evangelista nota il giorno (la «parasceve» ossia della preparazione alla Pasqua), l’ora «sesta», ossia verso le dodici) e il luogo (Lithostron).
Pilato non si rende conto di ciò che sta facendo; senza volerlo egli sta compiendo un gesto altamente profetico: emette un pronunciamento che avrebbero dovuto emettere le autorità religiose d’Israele.
In tutti i modi è un riconoscimento ufficiale della messianità di Gesù che viene più sicuramente da Dio quanto più è estraneo alle intenzioni di chi lo pronuncia.
Quando Caifa aveva proclamato che era opportuna la morte di Gesù per salvare tutta la nazione, Giovanni commenta che pronunciò una profezia a sua insaputa (11,51); la stessa cosa pensa ora, anche se non lo dice espressamente, del gesto di Pilato.
Solo così si spiega il rilievo che gli accorda.
La maggior parte degli esegeti interpretano il verbo ekathisen in senso intransitivo e quindi lo riferiscono a Pilato che si «siede» sul seggio del giudice; solo che il termine bêma (seggio) è senza articolo e sta più per «uno scanno» qualunque che per la sedia del tribuno.
In tutti i modi con questo simbolico insediamento o senza di esso è indiscutibile per Giovanni che Gesù più che processato è riconosciuto persino dal procuratore il re messianico che gli israeliti attendevano.
Non solo non c’è alcuna condanna sul suo conto, ma c’è il pubblico riconoscimento della sua reale dignità da parte della persona più impreparata a farlo, quindi è ancora più autentico.
Il viaggio di Gesù al luogo del supplizio è senza traumi; egli avanza «portandosi la croce» come uno stendardo.
Non c’è alcun cireneo ad aiutarlo; come non ci sono segni di sofferenza o di stanchezza quando è sulla croce, non riceve alcuna droga («vino e mirra», non grida, non si raccomanda al Padre ma conserva il pieno dominio di sé e il controllo della situazione.
La croce non può essere né cancellata né dimenticata, ma è più un trono, un luogo regale che un luogo di tormenti.
La scritta che Pilato ha fatto apporre al vertice lo conferma.
Gesù è il re dei giudei e già fa sentire il peso della sua autorità; da le sue ultime disposizioni; consegna alla madre il discepolo prediletto e viceversa (19,26-27); dà compimento agli ultimi oracoli profetici (la spartizione delle vesti, il sorteggiamento della tunica, il dissetamento mediante l’aceto invece che con l’acqua, come aveva predetto il Sal 69,22) e quando aveva portato tutto a compimento, attuata quindi in pieno la sua missione, come un martire ma anche come un eroe vittorioso, lascia partire il suo spirito.
La frase giovannea «consegnò lo spirito» è volutamente ambivalente.
Dietro il significato abituale, morire, ce n’è uno più recondito: trasmise lo Spirito sugli stanti, quindi dà corso alla sua attività salvifica.
Poco dopo, in occasione della trafittura del costato, l’evangelista annota che ne «uscì sangue ed acqua».
Se il sangue richiama la passione, la morte, l’acqua riporta alla promessa dello Spirito santo fatta nel giorno della festa dei tabernacoli (Gv 7,39).
«Chi ha sete venga a me e beva.
Disse questo dello Spirito che stavano per ricevere quelli che avevano creduto in lui, ma lo Spirito non veniva ancora accordato perché Gesù non era stato ancora glorificato» (ivi).
Ma ora dalla croce lo può già effondere, anche se la donazione piena, ufficiale comincia la sera di pasqua quando nel cenacolo si presenta ai suoi, alita su di loro e dice: «Ricevete lo Spirito santo» (20,22).
I corpi dei condannati a morte venivano gettati nella fossa comune dei malfattori, ma gli evangelisti si sono preoccupati di evitare a Gesù questa umiliazione e gli accordano una onorata sepoltura.
Anzi Giovanni menziona la bende, gli aromi e prima ancora la mirra recata in abbondanza da Nicodemo; la sepoltura non è affrettata, ma secondo tutte le regole giudaiche.
I sinottici parlano del sepolcro nuovo (Mt 27,60) Giovanni aggiunge che era in un «giardino», traduzione dell’ebraico gan, il luogo dove Dio aveva collocato il primo uomo dopo la creazione avvenuta nell’adamah o terra arida.
Gesù non è entrato perciò nel regno della morte, ma della vera vita; il paradiso delle origini da cui l’uomo era stato espulso si è finalmente riaperto grazie alla sua opera.
La storia stava riprendendo il corso impostale dal creatore.
Meditazione La liturgia del Venerdì santo, celebrando la passione del Signore, mette al centro dello sguardo credente la Croce, che viene svelata e mostrata.
Alla sua estensione segue l’adorazione.
Questa terminologia, per quanto tradizionale, non è del tutto esatta; può rischiare anzi di essere fuorviante.
Non si adora infatti né la Croce, né la morte di Cristo in se stessa, ma la sua persona e ciò che la sua persona crocifissa significa per noi: la rivelazione insuperabile dell’amore di Dio che ci salva.
Il racconto della Passione, che ogni anno in questo giorno ascoltiamo secondo il vangelo di Giovanni, ci offre lo sguardo giusto con cui guardare alla Croce, posta al centro di questa celebrazione liturgica.
I tre annunci della passione, che nei sinottici scandiscono il cammino di Gesù verso Gerusalemme, nel quarto vangelo sono sostituiti dai tre annunci dell’’innalzamento’ (Gv 3,14-15; 8,28; 12,32).
Il Cristo crocifisso è ‘elevato’ e la sua elevazione significa per Giovanni che gli uomini dispersi sono nuovamente riuniti, perché attratti insieme verso di lui.
Riletti in modo sintetico, questi annunci consentono di individuare almeno tre doni che Colui che è innalzato sulla Croce offre agli uomini nella sua Pasqua.
Perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna: l’Innalzato comunica la vita eterna, cioè la vita stessa di Dio, il mistero di amore e di comunione che nello Spirito sussiste tra il Padre e il Figlio.
Essere attratti a lui significa perciò entrare nel mistero della vita stessa di Dio che ci vie- ne donata.
Saprete che Io Sono: l’Innalzato costituisce la piena rivelazione del volto di Dio che traspare nella carne umiliata di Gesù.
Essere attratti a lui significa perciò giungere a una conoscenza più profonda del mistero di Dio che proprio nella Pasqua si rivela.
Attirerò tutti a me: l’Innalzato consente di vincere ogni nostra dispersione, creando legami di comunione con Dio e tra di noi.
Essere attratti significa perciò entrare in comunione con il Crocifisso perché da questa fonte possano scaturire anche rapporti di riconciliazione e di amore tra di noi.
Potremmo ridire tutto ciò con un’immagine.
La liturgia mostra oggi la Croce invitandoci a contemplarla.
Fissiamo così lo sguardo sulla verticalità del Crocifisso, innalzato tra cielo e terra, con le braccia distese orizzontalmente in un ampio abbraccio.
Nell’incrocio di questa verticalità e di questa orizzontalità la Croce disegna il duplice slancio con cui Gesù ha vissuto la sua ora.
Nel movimento verticale possiamo riconoscere una caduta/abbassamento cui corrisponde un innalzamento (a essere elevato da terra è infatti proprio colui che ha accettato di cadere nella terra per morirvi come un seme, secondo Gv 12,20-33); nel movimento orizzontale c’è un dono, o una consegna di sé, cui corrisponde un’attrazione.
O meglio, più che corrispondersi, i diversi movimenti avvengono l’uno dentro l’altro.
Il Cristo è innalzato perché ha accettato di essere umiliato; il Cristo ci attrae a sé perché ha consegnato per noi la sua vita.
È questo dono di sé che diventa la vera ‘calamità’ che ci attrae, così come l’accettazione di vivere un cammino di abbassamento, di umiliazione, fino alla croce, addirittura fino agli inferi, diviene la grande ‘calamità’ che lo innalza verso l’alto e verso il Padre.
A essere elevato dalla terra è proprio il seme che vi è caduto per marcirvi.
Muore nella terra per non rimanere solo; viene elevato dalla terra per attrarre tutti a sé.
Morte e vita, umiliazione e innalzamento, solitudine e comunione costituiscono sempre un unico e indivisibile movimento.
L’unica ora di Gesù.
Il racconto della Passione secondo Giovanni ci ricorda con forza che il luogo di questa attrazione è il costato aperto, il fianco trafitto da cui sgorga sangue e acqua.
«Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 37).
Nei racconti sinottici è il velo del tempio a squarciarsi per significare il pieno accesso al mistero di Dio, reso possibile anche per il peccatore.
Non sussiste più separazione di sorta: siamo in comunione con Dio.
In Giovanni non quello del tempio, ma è il velo stesso della carne di Gesù a essere squarciato.
Essere attratti significa entrare nello spazio di questo costato aperto, che è lo spazio dell’amore che si consegna, dello Spirito che si effonde.
Come ha scritto von Balthasar, l’ultimo grande segno nell’evangelo di Giovanni è il cuore aperto che diviene insieme spazio di rivelazione e di comunione.
Sulla croce la rivelazione di Dio diviene un cuore aperto in cui dimorare.
Nel Cristo di Velàzquez Miguel de Unamuno commenta con questi versi il costato trafitto: Ecco la bocca che la lancia aperse perché col sangue la passione parlasse, serrata l’altra bocca.
Quando la bocca di Gesù viene serrata dalla morte è il suo costato a divenire bocca aperta, da cui esce la parola definitiva di Dio, che salva, attrae, ci consegna, crea comunione.
Giovanni scrive con precisione: «volgeranno lo sguardo verso colui che hanno trafitto».
Questo futuro ci coinvolge in prima persona.
Il testo greco ha una sfumatura da non lasciar cadere.
«Guardare verso» è detto con una preposizione che suggerisce l’idea di un guardare ‘dentro’, un ‘entrare in’.
Alcuni anni fa il Cardinale Martini, nella sua lettera pastorale Quale bellezza salverà il mondo?, suggeriva di entrare nei sentimenti del Figlio, e da qui, dal segreto della sua vita, conoscere veramente il volto del Padre.
Il cuore della esistenza di Gesù è tutto racchiuso in quel sangue e in quell’acqua che fuoriescono dal suo costato trafitto, segno di una vita che si dona totalmente per comunicare anche a noi la vita stessa di Dio, il suo Spirito, il suo amore, che rimane in noi e diviene possibilità di amarci come lui ci ha amati.
Sangue e acqua, insieme, inseparabilmente.
C’è un famoso detto di un padre del deserto, Longino, che afferma: «Da’ il sangue e prendi lo Spirito».
Dare sangue allude a ogni gesto della nostra vita in cui sappiamo far vivere in noi l’amore di Cristo, divenendo disponili al dono di noi stessi, unificando in questa logica la no-stra obbedienza, la nostra libertà, il nostro desiderio.
Solo dimorando in questo mistero, avendo in noi gli stessi sentimenti del Figlio, possiamo vedere il volto del Padre e ricevere il dono del suo Spirito.
Nel suo essere frutto della terra e del lavoro dell’uomo, della natura e della cultura, il pane esprime il bisogno, ciò che davvero è necessario per vivere.
Non a caso la parola «pane» indica cibo essenziale e non superfluo: quando diciamo che «non c’è pane», evochiamo fame e carestia, cosi come del fenomeno migratorio non c’è spiegazione più tragicamente semplice dell’evidenza che sempre gli affamati corrono verso il pane perché il pane non corre dove c’è la fame.
Una corsa, quella cui assistiamo oggi – dalle sponde meridionali a quelle settentrionali del Mediterraneo – che segue il percorso compiuto proprio dalla cultura del pane quasi cinquemila anni fa.
Pane, allora, anche come cifra della nostra capacità di condivisione, della nostra disponibilità o meno a spezzarlo perché tutti ne possano avere, pane che, secondo i racconti evangelici, basta per tutti solo quando è spezzato e condiviso.
E la civiltà del Mediterraneo ha sempre accostato al pane un altro frutto della terra e del lavoro umano: il vino.
Anche qui, il gratuito accanto all’essenziale, il dono accanto al necessario, la gioia accanto alla sostanza: il pane fa vivere, il vino dà gusto alla vita; il pane ritempra le forze, il vino rallegra il cuore; il pane fa corpo con il lavoro, il vino ne addolcisce le fatiche.
Pane e vino sulla tavola sono lì a ricordarci la grandezza dell’uomo e a interpellare la nostra sensibilità: quanta fatica e quanta speranza sono raccolti in quei due semplici alimenti, quanti volti appaiono dietro di loro! Il contadino e il mugnaio, il fornaio e il vignaiolo, e poi il bottaio e il mercante, le loro famiglie e i loro bambini, le ansie e le speranze di un anno, le grida della vendemmia e i canti della mietitura, il silenzio delle cantine e dei granai, il rumore della mola e il pigiare nei tini …
E ora sono lì, raccolti sulla nostra tavola, a narrarci la qualità della nostra umanizzazione, a interpellarci su chi siamo e su come desideriamo che sia il nostro mondo.
Forse anche per questo, come ha giustamente osservato Predrag Matvejevié, «la storia della fede e quella del pane hanno spesso strade parallele o contigue o simili».
Non a caso nell’ebraismo e nel cristianesimo il pane e il vino sono elementi essenziali della liturgia per eccellenza, il memoriale della Pasqua.
Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».
È cosi che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo.
E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua materialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
(Enzo BIANCHI, Il Pane di ieri, Einaudi, Torino, 2008, 42-44) Vi ho dato un esempio «Quando ebbe lavato i loro piedi e riprese le sue vesti e si fu adagiato di nuovo a mensa, disse loro: Comprendete ciò che vi ho fatto?» (Gv 13,12).
È giunta l’ora di mantenere la promessa che aveva fatto al beato Pietro e che aveva differita quando a lui che si era spaventato e gli aveva detto: «Non mi laverai i piedi in eterno», il Signore aveva risposto: «Quello che io faccio, tu adesso non lo comprendi, lo comprenderai più tardi» (Gv 13,7).
[…] Ora, dunque, comincia a spiegare il significato del suo gesto, come aveva promesso dicendo: «Lo capirai più tardi».
[…] «Se dunque», dice, «io il Signore e il maestro vi ho lavato i piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi a vicenda.
Vi ho dato infatti un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io» (Gv 13,14-15).
Questo, o beato Pietro, è ciò che tu non comprendevi, quando non volevi lasciarti lavare i piedi.
Egli ti promise che l’avresti compreso più tardi, quando il tuo Signore e Maestro ti spaventò affinché tu gli lasciassi lavare i tuoi piedi.
[…] Non disdegni il cristiano di fare quanto fece Cristo.
Poiché quando il corpo si piega fino ai piedi del fratello, anche nel cuore si accende, o se già c’era, si alimenta il sentimento di umiltà.
[…] «Vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come ho fatto io».
Dobbiamo forse dire che anche il fratello può purificare il fratello dal contagio del peccato? Certamente; questo sublime gesto del Signore costituisce per noi un grande impegno: quello di confessarci a vicenda le nostre colpe e di pregare gli uni per gli altri, così come Cristo per tutti noi intercede.
Ascoltiamo l’apostolo Giacomo, che ci indica questo impegno con molta chiarezza: «Confessatevi gli uni agli altri i peccati e pregate gli uni per gli altri» (Gc 5,16).
È questo l’esempio che ci ha dato il Signore.
Se colui che non ha, che ha avuto e non avrà mai alcun peccato, prega per i nostri peccati, non dobbiamo tanto più noi pregare gli uni per gli altri? E se ci perdona i peccati colui che non ha niente da farsi perdonare da noi, non dovremo a maggior ragione perdonare a vicenda i nostri peccati, noi che non riusciamo a vivere su questa terra senza peccato? Che altro vuol farci intendere il Signore, con un gesto così significativo, quando dice: «Vi ho dato un esempio affinché anche voi facciate come ho fatto io», se non quanto l’Apostolo dice in modo esplicito: «Perdonatevi a vicenda qualora qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri; come il Signore ha perdonato a voi, fate anche voi» (Col 3,13).
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 58,24-25, NBA XXIV, pp.
1094.1098-1100) Pane della condivisione Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Un giorno unico Felici coloro che mangiarono, un giorno, un giorno unico, un giorno tra tutti i giorni, felici di una gioia unica, felici coloro che mangiarono un giorno, un giorno, quel Giovedì Santo, felici coloro che mangiarono il pane del tuo corpo; te stesso consacrato da te stesso; con una consacrazione unica; un giorno che mai ricomincerà; quando tu stesso dicesti la prima messa; sul tuo stesso corpo; quando celebrasti la prima messa; quando consacrasti te stesso; quando di quel pane, davanti ai Dodici, e davanti al dodicesimo, facesti il tuo corpo; e quando di quel vino facesti il tuo sangue; quel giorno in cui fosti insieme la vittima e il sacrificatore, il medesimo la vittima e il sacrificatore, l’offerta e l’offerente, il pane e il panettiere, il vino e il coppiere; il pane e colui che dà il pane; il vino e colui che versa il vino; la carne e il sangue, il pane e il vino.
Quella volta che tu fosti il prete ed essi erano i fedeli, quella volta che tu fosti il prete che operava, che sacrificava per la prima volta.
Quella volta che tu fosti l’invenzione del prete, il primo prete a operare, a sacrificare per la prima volta.
Ed eri contemporaneamente il prete e la vittima.
Quella volta che facesti il primo sacrificio.
Che tu fosti il primo sacrificato, la prima ostia.
La prima vittima.
(Ch.
PÉGUY, I Misteri, Milano, Jaca Book, 1994, 53-54).
Giovedì Santo Gesù depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugatoio di cui era cinto.
Disse: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,4-5.15).
Poco prima di avviarsi per la strada della sua passione, Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli e offrì loro il suo corpo e il suo sangue come cibo e bevanda.
Questi due gesti sono intimamente uniti.
Sono ambedue un’espressione della determinazione di Dio di mostrarci la pienezza del suo amore.
Per questo, Giovanni introduce il racconto della lavanda dei piedi con queste parole: «Gesù dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine» (Gv 13,1).
Ma c’è una cosa ancora più sorprendente: in ambedue le occasioni, Gesù ci comanda di fare lo stesso.
Dopo aver lavato i piedi ai discepoli, Gesù dice: «Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io facciate anche voi» (Gv 13,15).
Dopo aver offerto se stesso come cibo e come bevanda, egli afferma: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19).
Gesù ci chiama a continuare la sua missione di rivelare il perfetto amore di Dio in questo mondo.
Ci chiama a una totale autodonazione.
Vuole che non ci teniamo niente per noi stessi.
Piuttosto, vuole che il nostro amore sia tanto pieno, tanto radicale, tanto completo quanto il suo.
Vuole che ci chiniamo a terra e ci tocchiamo a vicenda le parti che hanno più bisogno di essere lavate.
E vuole anche che ci diciamo gli uni gli altri: «Mangia di me, e bevi di me».
Con questo nutrirci a vicenda e in modo così completo, egli vuole che diventiamo un solo corpo e un solo spirito, uniti dall’amore di Dio.
(H.J.M.
NOUWEN, In cammino verso la luce).
O Signore, dove mai potrei andare? Io volgo il mio sguardo a te, o Signore.
Tu hai pronunciato parole così piene di amore.
Il tuo cuore ha parlato così chiaro.
Adesso mi vuoi far vedere ancora più chiaramente quanto mi ami.
Sapendo che il Padre tuo ha messo tutto nelle tue mani, che sei venuto da Dio e ritorni a Dio, ti togli le vesti e, preso un asciugatoio, te lo cingi alla vita, versi dell’acqua in un catino e cominci a lavare i miei piedi, e poi li asciughi con l’asciugatoio di cui ti eri cinto…
Volgi il tuo sguardo su di me con la massima tenerezza, e mi dici: «Io voglio che tu stia con me.
Voglio che tu condivida in pieno la mia vita.
Voglio che tu mi appartenga come io appartengo al Padre.
Ti voglio lavare così da renderti completamente puro, in modo che tu e io possiamo essere una sola cosa e tu possa fare agli altri ciò che io ho fatto a te».
Ti sto di nuovo guardando, o Signore.
Tu ti alzi e mi inviti alla mensa.
Mentre mangiamo, prendi il pane, reciti la benedizione e lo dai a me.
«Prendi e mangia – dici – questo è il mio corpo dato per te».
Poi prendi una coppa e dopo aver reso grazie, me la porgi, dicendo: «Questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza sparso per te».
Sapendo che è giunta la tua ora di passare da questo mondo al Padre tuo, e avendomi amato, adesso mi ami fino alla fine.
Mi dai tutto ciò che hai e tutto ciò che sei.
Mi doni il tuo stesso io.
Tutto l’amore che hai per me nel tuo cuore ora diventa manifesto.
Mi lavi i piedi e poi mi dai il tuo corpo e il tuo sangue come cibo e bevanda.
O Signore, dove mai potrei andare, se non da te, per trovare l’amore che desidero tanto? (H.J.M.
NOUWEN, Da cuore a cuore).
Ogni volta Ogni volta che celebriamo l’eucaristia e riceviamo il pane e il vino, il corpo e il sangue di Gesù, la sua sofferenza e la sua morte diventano sofferenza e morte per noi.
Siamo incorporati in Gesù.
La passione diventa compassione, per noi.
Veniamo incorporati a Gesù.
Diventiamo parte del suo ‘corpo’ e in questa via quanto mai compassionevole, veniamo liberati dalla nostra più profonda solitudine.
Per mezzo dell’eucaristia riusciamo ad appartenere a Gesù nella maniera più intima a lui che ha sofferto per noi, è morto per noi ed è di nuovo risorto, così che possiamo soffrire, morire e di nuovo risorgere con lui.
(H.J.M.
NOUWEN, Lettere a un giovane).
Preghiera Dio onnipotente ed eterno la sera prima di soffrire, il tuo figlio prediletto affidò alla chiesa il sacrifico della nuova ed eterna alleanza e istituì il convito del suo amore.
Fa’ che da questo mistero possiamo ricevere la pienezza di vita e di amore.
Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore LECTIO – ANNO B Prima lettura: Esodo 12,1-8.11-14 Questo mese sarà per voi l’inizio dei mesi, sarà per voi il primo mese dell’anno.
Parlate a tutta la comunità d’Israele e dite: “Il dieci di questo mese ciascuno si procuri un agnello per famiglia, un agnello per casa.
Se la famiglia fosse troppo piccola per un agnello, si unirà al vicino, il più prossimo alla sua casa, secondo il numero delle persone; calcolerete come dovrà essere l’agnello secondo quanto ciascuno può mangiarne.
Il vostro agnello sia senza difetto, maschio, nato nell’anno; potrete sceglierlo tra le pecore o tra le capre e lo conserverete fino al quattordici di questo mese: allora tutta l’assemblea della comunità d’Israele lo immolerà al tramonto.
Preso un po’ del suo sangue, lo porranno sui due stipiti e sull’architrave delle case nelle quali lo mangeranno.
In quella notte ne mangeranno la carne arrostita al fuoco; la mangeranno con azzimi e con erbe amare.
Ecco in qual modo lo mangerete: con i fianchi cinti, i sandali ai piedi, il bastone in mano; lo mangerete in fretta.
È la Pasqua del Signore! In quella notte io passerò per la terra d’Egitto e colpirò ogni primogenito nella terra d’Egitto, uomo o animale; così farò giustizia di tutti gli dèi dell’Egitto.
Io sono il Signore! Il sangue sulle case dove vi troverete servirà da segno in vostro favore: io vedrò il sangue e passerò oltre; non vi sarà tra voi flagello di sterminio quando io colpirò la terra d’Egitto.
Questo giorno sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne”.
La Pasqua è la grande solennità del calendario giudaico.
Indipendentemente dal suo significato originario si ricollegava con la liberazione egiziana, il soggiorno sinaitico, l’alleanza.
Soprattutto era il ricordo della partenza miracolosa dalla terra della schiavitù verso la libertà.
«Pasqua» significa infatti «passaggio» (Es 12,11), sia dell’angelo di JHWH nella notte dell’esodo, sia del popolo di Dio dalla servitù dei faraoni al servizio del vero Dio, sia l’ingresso d’Israele nell’alleanza con il Signore del cielo e della terra.
Ritualmente la celebrazione era legata all’immolazione dell’agnello e al banchetto conviviale dei membri della comunità che si raccoglieva per rivivere l’esperienza dei padri e riassorbirne i benefici.
Ognuno si doveva sentire come liberato personalmente dall’antica e da qualsiasi altra forma di schiavitù presente.
E tutti erano invitati a sentire la gioia della liberazione.
Il banchetto a cui tutti i gruppi di dodici persone sedevano, i cibi simbolici che venivano apprestati (l’agnello di un anno, intatto e senza macchia perché rappresentava tutto intero Israele, le erbe amare per ricordare le sofferenze sopportate, il dolce color mattone per rievocare i lavori forzati a cui furono costretti) commemorava la fine dell’esilio e la gioia della conseguita liberazione.
Un «trapasso» che doveva quasi inorgoglire tutti i membri del popolo eletto fino agli ultimi discendenti e rallegrarli dal profondo del cuore.
Essi avevano sperimentato la presenza di Dio in modo tangibile e spettacolare, una presenza e assistenza che non era venuta mai meno e costituiva il vanto e l’esultanza di ogni israelita.
Non c’è altra «grande nazione che abbia la divinità così vicina a sé, come il Signore nostro Dio è vicino a noi», sottolinea il deuteronomista (4,7).
Israele è un popolo missionario chiamato a segnalare alle genti l’unico vero Dio creatore di tutte le cose e ad attendere la piena manifestazione della sua benevolenza (salvezza) in mezzo agli uomini, ma è caduto in un grave abbaglio quando si è ritenuto destinatario esclusivo delle «benedizioni» divine che oltre ad Abramo erano destinate a «tutte le nazioni» (Gn 12,3).
Seconda lettura: 1 Corinzi 11,23-26 Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me».
Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
L’apostolo Paolo è un testimone della tradizione primitiva della Chiesa, in questo caso della «cena del Signore» che è il momento culminante della convocazione assembleare.
I cristiani (di Gerusalemme) si radunano per pregare (At 1,14), per ascoltare l’istruzione degli apostoli, prender parte all’agape e alla frazione del pane (At 2,42; 20,7,11; 27,35).
Frequentavano la liturgia del tempio e poi nelle case «spezzavano il pane prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (ivi).
È quanto fanno i cristiani di Corinto.
Anche se con certi gravi abusi anch’essi si ritrovano insieme per la condivisione del cibo con i più poveri e per la frazione del pane, solo che alcuni consumavano quello che avevano portato prima che arrivassero gli altri, gli ultimi, in genere servi o operai che non potevano lasciare il lavoro a piacimento.
Quindi oltre che eran più stanchi di tutti trovano poco o nulla per rifocillarsi.
Questa prima refezione ordinata al nutrimento del corpo era il contesto in cui si ripeteva, si commemorava l’ultima cena di Gesù con i suoi, nella stessa notte in cui stava per essere tradito, consegnato cioè nelle mani dei nemici ed essere ucciso.
Gesù compì un rito che doveva tenere desta nella memoria, quindi nella mente e nel cuore dei suoi, quello che egli aveva sopportato per il loro bene e il bene di tutti gli uomini.
Aveva costituito un «memoriale», voluto cioè ritualizzare l’atto della sua morte affinché i suoi seguaci potessero più agevolmente tenerlo presente e assumersi tutto l’onere che un tale «ricordo» comportava.
Ogni volta infatti che il cristiano si apprestava a ricevere gli alimenti, il pane e il vino, sui quali erano state ripetute le formule di benedizione: «Questo è il mio corpo (spezzato) per voi», «Questo è il calice del mio sangue (versato per voi)» intendeva compiere una commemorazione (anamnesis) e quindi un «”annunzio” della morte e risurrezione del Signore».
Alla vigilia della sua morte Gesù ha voluto lasciare ai suoi un segno permanente del suo amore.
Egli da lì a poco avrebbe finito i suoi giorni sul patibolo, ma quella morte era il prezzo della sua dedizione al volere del Padre e del suo bene ai fratelli.
Si lascerà spezzare, verserà fino alla sua ultima goccia il suo sangue ma non si arrenderà alle pressioni e angherie delle potestà terrene, ossia del potere ingiustamente costituito.
Gesù moriva martire di ubbidienza e di carità e lasciava ricapitolato il suo sacrificio nel simbolico rito dello spezzamento del pane e nel versamento del vino nel calice.
Chiunque avesse preso parte a tale banchetto commemorativo e avesse assunto gli alimenti offerti dichiarava agli astanti e più ancora a se stesso che anche lui era pronto come Gesù ad accogliere la proposta del Padre mettendo la propria vita a servizio dei fratelli fino a perderla per il loro bene.
Vangelo: Giovanni 13,1-15 Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.
Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita.
Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto.
Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?».
Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo».
Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!».
Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me».
Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!».
Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti».
Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono.
Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri.
Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
Esegesi La lavanda dei piedi è la testimonianza estrema che Gesù lascia del suo amore ai discepoli e in essi a tutti gli uomini.
L’evangelista Giovanni non parla dell’autorità intesa come puro servizio, della scelta dell’ultimo posto per chi desidera porsi al primo (cf.
Mc 10,41-45; Mt 20,24-28; Lc 22,22-27), ma è l’unico a ricordare questa alta prova di umiltà che Gesù lascia ai suoi nelle ore precedenti al suo commiato.
È un gesto che vale più per il suo significato che per se stesso, per il beneficio cioè che apporta a coloro che lo ricevono.
La lavanda dei piedi era un’operazione che compiva non un comune domestico ma solo lo schiavo.
Era addirittura indegna da parte di un uomo libero.
Gesù pur definendosi «signore e maestro», anche se verosimilmente è dubbio che una tale dichiarazione sia uscita dalle sue labbra, non trova impossibile o irriverente compiere un tale atto.
Lo stupore di Pietro e dei suoi colleghi è più che plausibile.
Anche se gli altri discepoli non parlano, sentono dentro di sé lo stesso disagio.
Ma Gesù è irremovibile, non perché i dodici hanno bisogno di una particolare mondezza fisica prima della cena, ma perché debbono imparare ad assumere un particolare atteggiamento interiore davanti a Dio e ai propri fratelli.
Gesù lavando i piedi ai discepoli segnala una sua scelta e collocazione sociale, una chiara opzione messianica.
Tutti attendevano il prestigioso, potente discendente davidico, egli invece opta per l’ideale del «Servo sofferente» (Is 53) pronto agli scherni, alle derisioni, alle sofferenze al martirio.
È quanto Pietro e i suoi colleghi debbono capire e accettare.
O al seguito di un salvatore senza titolature e aureole, anzi disprezzato e vilipeso come uno schiavo o ritirarsi dalla sua sequela.
Le due strade erano inconciliabili: quella della liberazione degli uomini poveri e affranti e quella della propria esaltazione.
Se si doveva scegliere la prima era impraticabile la seconda, poiché le moltitudini fatte di gente senza dignità e onore avevano bisogno di un salvatore del loro rango, non di un altro oppressore.
Gesù sarà un messia mite ed umile di cuore (Mt 11,29), passerà senza spezzare la canna incrinata e spegnere il lucignolo fumigante, senza gridare sulle piazze (Mt 12,18-19), andrà incontro a una fine ignominiosa per difendere la causa dei peccatori, ma anche dei poveri e oppressi.
Cingersi i fianchi con un grembiule, prendere in mano un catino e mettersi a lavare i piedi dei suoi discepoli era una conferma delle scelte, dei comportamenti assunti sino allora, per questo diventava un gesto altamente significativo.
Essenziale come la morte sul legno della croce; che era oggetto di sofferenza e insieme di maledizione.
Gesù non ha assunto atteggiamenti guerrieri, né trionfalistici; è fuggito quando volevano farlo re (Gv 6,15) ed entra a Gerusalemme su un giumento invece che su un destriere e ha esortato i suoi a portare la croce più che lo scettro.
E Luca aggiunge quotidianamente (9.13).
Egli era venuto per servire e non per essere servito (Mt 20.28) per questo non trova inopportuno il gesto che compie.
Le parole conclusive esplicitano il significato e tutta la portata che l’operazione compiuta ha nella vita cristiana.
Non è una scelta e un atteggiamento che riguarda la sua persona, ma indistintamente tutti coloro che desiderano essere suoi discepoli.
«Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (v.
15).
Anche per loro valeva l’alternativa posta a Pietro o accettare un messia servo e assumere un comportamento dimesso e umile o rinunciare a proclamarsi cristiani.
Bisognava sentirsi pronti a lavare i piedi degli altri, degli amici e persino dei nemici, aggiungeranno Matteo (5,48) e Luca (6,35) senza tirarsi indietro.
La lavanda dei piedi è un gesto reale ed emblematico poiché in pratica abbraccia qualsiasi tipo di servizio, persino spiacevole e ripugnante se qualcuno ne ha bisogno.
Lavare i piedi è il sacramento fondamentale del cristiano poiché è la prova inconfondibile della sua identità e della sua conformità a Cristo.
È il segno di quella carità che rende l’uomo «figlio di Dio», «perfetto» come lui (cf.
Mt 5,48; Lc 6,35).
Meditazione Il Giovedì santo costituisce un grande portale di ingresso al Triduo pasquale della morte, sepoltura e risurrezione del Signore.
La memoria rituale della cena del Signore fornisce infatti la corretta chiave per entrare nel Triduo, suggerendo come interpretarlo e viverlo.
Celebrando il memoriale dei due gesti che Gesù pone nella vigilia della sua passione – la consegna del pane e del vino secondo la tradizione sinottica e la lavanda dei piedi secondo la tradizione giovannea – la liturgia ci introduce nell’atteggiamento stesso con cui Gesù è andato incontro alla sua morte, dandole un senso diverso, secondo la volontà del Padre e non secondo quella degli uomini.
I gesti e le parole sono differenti, ma tutti rivelano il modo con cui Gesù ha interpretato la sua morte e più ancora il significato che nella sua libertà obbediente e nel suo amore radicale – «fino alla fine» (Gv 13,1) – ha voluto conferirle.
Il racconto evangelico di Giovanni si apre con quattro versetti molto densi, che nell’originale greco costituiscono un’unica frase, nei quali per due volte risuona il verbo ‘sapere’ (vv.
1.3).
L’evangelista dischiude in tal modo un piccolo squarcio nel ‘sentire’ stesso con cui Gesù si appresta a vivere gli eventi decisivi della sua Pasqua.
Se il racconto della Passione narra quanto accadrà lungo la via della Croce, il racconto della cena svela l’atteggiamento interiore con cui Gesù ha vissuto quel cammino.
In particolare il quarto evangelo insiste sulla sua consapevolezza: egli sa che è giunta l’ora di passare da questo mondo al Padre, ma sa anche che il Padre ha posto tutto nelle sue mani.
È consapevole dunque degli avvenimenti tragici che si stanno profilando davanti a lui, del destino che lo attende, di ciò che gli uomini, in primis uno dei suoi discepoli, Giuda, stanno ordendo contro la sua persona; ma è consapevole che tutto è stato messo dal Padre nelle sue mani: rimane dunque libero e signore degli eventi.
Conosce la situazione, non è lui a determinarla, sono altri a farlo; nello stesso tempo non la subisce passivamente.
Negli eventi della passione sta per manifestarsi la volontà peccaminosa degli uomini; Gesù li vivrà per trasformarli in luogo in cui si manifesterà compiutamente l’amore misericordioso del Padre.
Con i gesti che compie e le parole che pronuncia durante questa cena Gesù anticipa quello che sta per accadere e gli dona un significato nuovo e diverso attraverso la consegna di se stesso nell’amore, in obbedienza libera all’amore stesso del Padre che consegna il proprio Figlio.
Quando subito dopo lo arresteranno nel Getsemani, o nel ‘giardino’, come lo definisce Giovanni, si impossesseranno di una vita che si era già liberamente consegnata nell’amore.
Il suo è infatti un corpo offerto per noi, un sangue versato per noi e per la nostra salvezza.
Anche il gesto della lavanda dei piedi racchiude simbolicamente il medesimo significato.
Gesù inverte i ruoli: lui, il Maestro e Signore, compie il gesto dello schiavo.
Addirittura, se possibile, si pone un gradino sotto lo schiavo, perché uno schiavo ebreo mai avrebbe lavato i piedi a un altro ebreo.
Si fa schiavo e servo dei suoi discepoli, e il servizio che vive è quello di chi giunge a donare la vita per loro, in modo del tutto gratuito, perché i piedi Gesù li lava anche a Giuda, colui che sta per consegnarlo e al quale invece è Gesù stesso a consegnarsi in un amore più forte e radicale, che previene il peccato di chi lo tradisce.
I verbi con i quali l’evangelista narra che Gesù depone le vesti (v.
4) per poi riprenderle di nuovo (v.
12), in greco sono i medesimi con cui al capitolo decimo, nel cosiddetto «discorso del buon pastore», Gesù dichiara di deporre la propria vita nella morte per poi riprenderla di nuovo nella risurrezione (cfr.
Gv 10,17).
Appare chiaro che con questo gesto Gesù non solo si fa servo, ma vive il servizio di chi dona la propria vita per poi riprenderla di nuovo, affinché gli uomini possano «avere parte con lui» (v.
8).
Possano, in altri termini, divenire partecipi della sua stessa vita e di quell’amore che ne costituisce il segreto più intimo e profondo.
Il gesto della lavanda dei piedi, infatti, come anche il pane spezzato e il vino versato, sono espressione di un amore «fino alla fine».
Dovremmo tradurre meglio: «fino al compimento».
Gesù, morendo sulla croce, esclamerà «tutto è compiuto» (Gv 19,30), con il verbo greco tetélestai in cui risuona il termine télos (‘fine’, ‘compimento’) che Giovanni usa qui, in apertura del capitolo tredicesimo.
L’amore di Gesù giunge al suo compimento non solo perché giunge a donare tutto, fino all’ultimo respiro, non solo perché è un amore definitivo, ma anche perché è un amore che si «compie in noi».
Non arresta la sua corsa pri-ma di giungere a questo traguardo, che è il suo amore in noi, la nostra possibilità di amarci come lui ci ha amati.
Il compimento dell’amore di Gesù, che la lavanda dei piedi simbolicamente rivela, è il comandamento nuovo, che Gesù consegna in questa stessa cena, in versetti che la lectio liturgica omette ma che è utile richiamare alla memoria: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri.
Come io ho amato voi, così ama-tevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Il comandamento nuovo è il dono di un ‘come’, da intendersi però non nella prospettiva dell’imitazione, ma di una ‘fondazione’: sul fondamento di come io vi ho amati, ora potete amarvi gli uni gli altri.
Lo s

Un primo quadro di sintesi sulla situazione della scuola

Il decreto conferma la cancellazione dei 42.102 posti previsti dal Piano programmatico, ripartiti in 31.485 unità in meno in organico di diritto, 5.616 posti in meno di seconda lingua comunitaria nella scuola secondaria di primo grado, e 5.001 posti in meno in sede di definizione degli organici di fatto.
Sul fronte delle istituzioni scolastiche, risultano 245 autonomie scolastiche soppresse.
La scuola dell’infanzia non subisce nessun ridimensionamento, vedendo integralmente confermati tanto gli organici, quanto i 610 posti relativi agli anticipi; l’organico della primaria diminuisce di 9.969 unità, ma trova la conferma dei 2.550 posti assegnati per effetto degli anticipi; la secondaria di primo grado subisce i tagli più cospicui, 15.542 posti in meno, derivanti dalla somma di 9.926 docenti in meno in organico, cui si aggiungono i già menzionati 5.616 posti di per la seconda lingua comunitaria; infine, sono 11.347 i posti in meno nella secondaria di secondo grado.
L’organico di sostegno viene confermato in 90.469 posti complessivi e si prevede che l’organico di diritto venga incrementato di nuovi 4.882 posti per l’anno scolastico 2009/2010 e di altri 4.885 nel 2010/2011.
Nel 2009/2010 le autonomie scolastiche saranno 245 in meno rispetto ad oggi.
75 istituzioni scolastiche saranno soppresse nella sola Calabria, 33 in Sardegna e 23 in Sicilia.
Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche e Puglia non registreranno invece nessun taglio di posti di dirigenti e di DSGA.
Questo un primo quadro di sintesi.
Tuttoscuola approfondirà in giornata i contenuti piuttosto complessi dei documenti fin da ora all’attenzione di tutti i lettori, e li riprenderà con commenti nelle tradizionali newsletter TuttoscuolaNEWS e TuttoscuolaFOCUS del fine settimana.
tuttoscuola.com I siti della Cisl Scuola e della Flc Cgil pubblicano da ieri sera i provvedimenti del Miur relativi alla determinazione della dotazione organica di diritto del personale docente.
Sono: 1) la Circolare n.
38 del 2 aprile 2009 relativa alla trasmissione dello schema di decreto interministeriale – organici per l’anno scolastico 2009/2010
; 2) lo Schema di Decreto interministriale e tabelle allegate contenenti gli organici del personale docente per l’anno scolastico 2009/10; 3) il Decreto ministeriale n.
37 del 26 marzo 2009 relativo alle nuove classi di abilitazione e alla composizione delle cattedre della scuola secondaria di I grado
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L’ultima pagina delle tabelle dello schema di decreto riepiloga come si sia arrivati alle “riduzioni di posti da operare in organico di diritto e di fatto con interventi strutturali sulla formazione delle classi e sulle dotazioni organiche”.