Razzismo e povertà combinazione distruttiva

Pubblichiamo la traduzione dell’intervento pronunciato il 22 aprile dall’arcivescovo Silvano M.
Tomasi, Osservatore Permanente della Santa Sede presso l’Ufficio delle Nazioni Unite e Istituzioni Specializzate a Ginevra, in occasione della Conferenza di esame della Dichiarazione di Durban del 2001 contro il razzismo, la xenofobia e la relativa intolleranza, organizzata dall’Onu dal 20 al 24 aprile a Ginevra.
Signor Presidente, mi congratulo per la sua elezione e auguro a Lei, all’Alto Commissario per i Diritti Umani e a tutto l’Ufficio di condurre con successo questa Conferenza a una conclusione positiva.
Signor Presidente, La Delegazione della Santa Sede condivide l’aspirazione della comunità internazionale a superare tutte le forme di razzismo, di discriminazione razziale e xenofobia nella consapevolezza che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti” (Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, art.
1) e sono uniti in un’unica famiglia umana.
Infatti, una comunità internazionale giusta si sviluppa in modo appropriato quando il desiderio naturale delle persone umane di relazionarsi non viene distorto dal pregiudizio, dalla paura degli altri o da interessi egoistici che minano il bene comune.
In tutte le sue manifestazioni, il razzismo afferma falsamente che alcuni esseri umani hanno minori dignità e valore di altri.
Ciò infrange la loro fondamentale eguaglianza di figli di Dio e conduce a una violazione dei diritti umani di individui e di interi gruppi di persone.
Partecipando alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale, agli sforzi comuni delle Nazioni Unite e di altre importanti organizzazioni internazionali, la Santa Sede si sforza di assumersi pienamente la propria responsabilità secondo la missione che le è propria.
Si impegna a combattere, con spirito di cooperazione, tutte le forme di razzismo, discriminazione razziale, xenofobia e relativa intolleranza.
La Santa Sede ha partecipato attivamente alla Conferenza di Durban del 2001 e, senza esitare, ha dato il suo sostegno morale alla Dichiarazione e al Programma di Azione (ddpa), ben sapendo che la lotta al razzismo è un prerequisito necessario e indispensabile per la costruzione di un modo di governare, di sviluppo sostenibile, di giustizia sociale, di democrazia e pace nel mondo.
Oggi, la globalizzazione unisce le persone, ma la prossimità spaziale e temporale non crea di per sé le condizioni per una interazione costruttiva e una comunione pacifica.
Infatti, il razzismo persiste: gli stranieri e quanti sono differenti vengono troppo spesso rifiutati e si arriva perfino a commettere contro di loro atti barbarici, inclusi il genocidio e la pulizia etnica.
Vecchie forme di sfruttamento hanno lasciato spazio a nuove: traffico di donne e bambini in una forma contemporanea di schiavitù, abuso di migranti irregolari.
Persone percepite come differenti o che in effetti lo sono, divengono, in numero sproporzionato, vittime di esclusione sociale e politica, di condizioni da ghetto e di stereotipi.
Giovani donne sono costrette a contrarre matrimoni indesiderati.
I cristiani vengono arrestati o uccisi per il loro credo.
La mancanza di solidarietà, un’aumentata frammentazione dei rapporti sociali nelle nostre società multiculturali, razzismo e xenofobia spontanei, discriminazione razziale e sociale, in particolare verso gruppi minoritari ed emarginati, e sfruttamento politico delle differenze, sono evidenti nell’esperienza quotidiana.
L’impatto globale dell’attuale crisi economica colpisce, soprattutto, tutti i gruppi vulnerabili della società.
Ciò dimostra quanto spesso razzismo e povertà siano interrelati in una combinazione micidiale.
La Santa Sede è anche allarmata dalla tentazione ancora latente dell’eugenetica che può essere alimentata da tecniche di procreazione artificiale e dall’uso di “embrioni superflui”.
La possibilità di scegliere il colore degli occhi o altre caratteristiche fisiche di un bambino potrebbe portare alla creazione di una “sottocategoria di esseri umani” o all’eliminazione di quegli esseri umani che non rispondono alle caratteristiche predeterminate da una certa società.
Inoltre, l’aumentata preoccupazione per la sicurezza e la conseguente introduzione di misure e pratiche eccessive hanno fatto scaturire una maggiore mancanza di fiducia fra persone di culture differenti e hanno esacerbato la paura irrazionale degli stranieri.
La lotta legittima contro il terrorismo non dovrebbe mai minare la protezione e la promozione dei diritti umani.
Basandosi sui progressi già compiuti, la nostra Conferenza di esame di Durban può essere l’occasione per accantonare le reciproche differenze e mancanza di fiducia, rifiutare ancora una volta qualsiasi teoria di superiorità razziale o etnica e rinnovare l’impegno della comunità internazionale per l’eliminazione di tutte le espressioni di razzismo quale requisito etico del bene comune, il cui ottenimento è “l’unico motivo di esistenza delle autorità civili” (cfr Papa Giovanni XXIII, Enciclica Pacem in terris) a livello nazionale, regionale e internazionale.
Condividere risorse e iniziative migliori nello sforzo concertato di mettere in pratica le raccomandazioni della ddpa per sradicare il razzismo significa riconoscere la centralità della persona umana e la pari dignità di tutte le persone.
Questo compito è dovere e responsabilità di tutti e dimostra con chiarezza che fare ciò che è giusto procura un vantaggio politico perché così si gettano le fondamenta di una convivenza pacifica, produttiva e reciprocamente proficua.
Le alleanze e le dichiarazioni internazionali così come le legislazioni nazionali sono indispensabili per creare una cultura pubblica e per fornire norme vincolanti, in grado di combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza.
Senza un mutamento del cuore, tuttavia, le leggi non sono efficaci.
È il cuore a dover essere continuamente purificato affinché non vi governino più la paura e lo spirito di dominio, ma l’apertura agli altri, la fraternità e la solidarietà.
Un ruolo insostituibile lo svolge l’educazione che forgia le mentalità e aiuta a formare le coscienze ad accogliere una visione più ampia della realtà e a rigettare qualsiasi forma di razzismo e di discriminazione.
Alcuni sistemi educativi andrebbero rivisti per eliminare tutti gli elementi di discriminazione presenti nell’insegnamento, nei libri di testo, nei corsi di studio e nelle risorse visive.
Il fine di questo processo di educazione non è solo il riconoscimento del fatto che tutti hanno uguale valore umano e l’eliminazione del pensiero e degli atteggiamenti razzisti, ma anche la convinzione che gli Stati e gli individui devono prendere l’iniziativa e divenire prossimo a tutti.
Anche l’educazione informale e generale svolge un ruolo cruciale.
I mezzi di comunicazione, quindi, dovrebbero essere accessibili e liberi da un controllo razzista o ideologico che porta alla discriminazione e perfino alla violenza contro persone che hanno una formazione culturale o etnica differente.
In tal modo, i sistemi educativi e i mezzi di comunicazione si uniscono al resto della società nel sostenere la dignità umana che può essere tutelata e promossa soltanto da un’azione collettiva di tutti i settori.
In tale contesto di mutua accettazione il diritto di accesso all’educazione da parte di minoranze razziali, etniche e religiose sarà rispettato come diritto umano in grado di garantire la coesione della società con il contributo del talento e delle capacità di ognuno.
Nella lotta contro il razzismo, le comunità di fede svolgono un ruolo importante.
La Chiesa cattolica, per esempio, non ha lesinato sforzi per consolidare le sue numerose istituzioni scolastiche, crearne di nuove, essere presente in situazioni pericolose nelle quali la dignità umana viene calpestata e la comunità locale distrutta.
In questa vasta rete educativa, la Chiesa insegna come vivere insieme e come riconoscere che tutte le forme di pregiudizio e di discriminazione razziale feriscono la dignità comune di ogni persona creata a immagine di Dio e lo sviluppo di una società giusta e accogliente.
Per questo motivo, sottolinea che la persona “si realizza attraverso l’apertura accogliente all’altro e il generoso dono di sé…
In questa chiave, il dialogo fra le culture emerge come un’esigenza intrinseca alla natura stessa dell’uomo e della cultura…
Il dialogo porta a riconoscere la ricchezza della diversità e dispone gli animi alla reciproca accettazione, nella prospettiva di un’autentica collaborazione, rispondente all’originaria vocazione all’unità dell’intera famiglia umana.
Come tale, il dialogo è strumento eminente per realizzare la civiltà dell’amore e della pace” (Papa Giovanni Paolo II, Messaggio per la Celebrazione della Giornata Mondiale della Pace, 2001, n.
10).
Il contributo delle comunità di fede alla lotta al razzismo e all’edificazione di una società non discriminante diviene più efficace in presenza di un rispetto autentico del diritto di libertà di religione com’è chiaramente esposto negli strumenti dei diritti dell’uomo.
Purtroppo, la discriminazione non risparmia le comunità religiose, un fatto che preoccupa sempre più la comunità internazionale.
La risposta a questa preoccupazione legittima è la piena realizzazione della libertà religiosa per gli individui e il loro esercizio a livello collettivo di questo diritto umano fondamentale.
Sebbene il diritto alla libertà di espressione non sia una licenza a insultare i seguaci di qualsiasi religione o a stereotipare la loro fede, i meccanismi esistenti che offrono garanzia legale all’incitamento all’odio razziale e religioso dovrebbero essere utilizzati nella cornice della legge sui diritti umani per proteggere tutti i credenti e i non credenti.
I sistemi giudiziari nazionali dovrebbero favorire la pratica di una “gestione razionale” delle pratiche religiose e non dovrebbero essere utilizzati per giustificare il fallimento nella tutela e nella promozione del diritto a professare e praticare liberamente la propria religione.
Le sfide che dobbiamo affrontare richiedono strategie più efficaci per combattere il razzismo, la discriminazione razziale, la xenofobia e la relativa intolleranza.
Questi sono mali che corrodono il tessuto sociale della società e causano innumerevoli vittime.
Il primo passo verso una soluzione pratica consiste nell’educazione integrale che include valori etici e spirituali a favore dell’acquisizione di poteri da parte di gruppi vulnerabili come i rifugiati, i migranti e itineranti, le minoranze razziali e culturali, persone imprigionate dalla estrema povertà o malate e disabili, donne e ragazze ancora considerate inferiori in alcune società, dove una irrazionale paura delle differenze impedisce la piena partecipazione alla vita sociale.
In secondo luogo, per ottenere coesione fra strutture e meccanismi vari creati per contrastare atteggiamenti e comportamenti razzisti, è necessario intraprendere un nuovo studio per rendere le varie modalità più incisive ed efficaci.
In terzo luogo, la ratifica universale di importanti strumenti contro il razzismo e la discriminazione, come la Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale e la Convenzione internazionale sulla tutela dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie, segnalerà la volontà politica della comunità internazionale di combattere tutte le espressioni di razzismo.
Infine, nulla può sostituire una giusta legislazione nazionale che condanni esplicitamente tutte le forme di razzismo e di discriminazione e permetta a tutti i cittadini di partecipare pubblicamente alla vita del loro Paese sulla base dell’uguaglianza di diritti e di doveri.
Quindi, il lavoro di questa Conferenza ha mosso un passo in avanti verso la lotta al razzismo, il motivo per cui la maggior parte dei Paesi si sforzano congiuntamente per un risultato che risponda alla necessità di eliminare manifestazioni vecchie e nuove di razzismo.
La Conferenza, come forum internazionale di esercizio del diritto alla libertà di espressione, è stata purtroppo utilizzata per esprimere posizioni politiche estremiste e offensive che la Santa Sede deplora e rigetta: non contribuiscono al dialogo, provocano conflitti inaccettabili e in alcun modo possono essere approvate o condivise.
Signor Presidente, Otto anni fa i Paesi del mondo hanno assunto un impegno globale per combattere il razzismo con l’adozione della Dichiarazione e del Piano di Azione di Durban.
Questa visione di cambiamento rimane incompleta nella sua realizzazione e per questo motivo il cammino deve continuare.
I progressi si otterranno attraverso una rinnovata determinazione a tradurre in azione le convinzioni riaffermate in questa Conferenza secondo le quali “tutti i popoli e tutti gli individui sono un’unica famiglia umana, ricca di diversità” e tutti gli esseri umani sono uguali in dignità e diritti.
Solo allora, le vittime del razzismo saranno libere e sarà garantito un futuro comune di pace.
(©L’Osservatore Romano – 24 aprile 2009)

III Domenica di Pasqua Anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
Sulle tracce di Gesù II punto cruciale di questo cammino sta nel riconoscere che il Gesù risorto, che compie i desideri dell’uomo, è ancora il Gesù crocifisso, che ha affidato al Padre il compimento dei propri desideri.
Ha uniformato la propria volontà alla volontà del Padre.
Ha accettato di perdere la propria vita sulla croce, per compiere la missione di proclamare all’uomo pecca-tore e separato da Dio che il Padre non lo abbandona al fallimento, non lo rifiuta anche se è rifiutato; anzi gli dona il proprio Figlio, per mostrare che neppure il peccato impedisce a Dio di amare l’uomo e di attirarlo a sé in un gesto di perdono, che vince il peccato e la morte.
Tutto questo è implicitamente contenuto nel grido del discepolo prediletto, che rompe il silenzio del mattino: «E il Signore» (Gv 21,7).
Questa espressione, infatti, rievoca le pro-fessioni di fede della Chiesa primitiva.
Gesù, che si è umiliato nella morte, in obbedienza al Padre e per amore degli uomini, è stato glorificato dal Padre ed è stato proclamato Si-gnore, cioè colui che reca pienamente in sé la forza d’amore e di salvezza che è propria di Dio stesso.
Gesù manifesta la sua capacità e volontà di comunicare agli uomini l’amore salvifico del Padre anche attraverso un gesto simbolico.
Egli mangia con i discepoli.
L’umile, quotidiano gesto del mangiare è ricco di potenzialità espressive.
Può prestarsi a esprimere la comunicazione di beni sempre più grandi e misteriosi, che approfondiscono il bene fisico del cibo e il bene psicologico della conversazione, scambiati durante il pasto comune.
Gesù assume questo gesto umano e lo carica di prodigiose potenzialità.
Il pasto descrit-to nel cap.
21 di Giovanni non risulta essere un convito propriamente eucaristico.
Rievoca però il convito di Jahvè col popolo degli ultimi tempi, annunciato nell’Antico Testamento.
Si ricollega ai conviti messianici fatti da Gesù con i discepoli o con le folle.
Allude all’ulti-ma cena o ad altri conviti di Gesù risorto, che hanno caratteri più propriamente e chiara-mente eucaristici e comportano quindi il trapasso del generico simbolismo conviviale nella reale comunione col Signore, che si rende presente trasformando il pane e il vino nella vita e misteriosa realtà del corpo donato e del sangue versato.
(C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsa-mo, San Paolo, 2009, 258-259).
E’ il Signore! E’ l’acclamazione pasquale, è una parola che contiene tutto.
Il Signore è Colui che possiede la tua vita e te la vuole far vivere al centuplo; Colui che ha un progetto per te, che ti conduce a esprimere pienamente te stesso; Colui che è la somma di tutte le cose desiderabili; Colui che chiarisce, dipana, ordina, purifica, soddisfa tutti i tuoi desideri più profondi.
E’ il Signore della vita, della storia, della mia vicenda personale.
E’ il Signore della mia famiglia, della scuola, della società.
E’ Colui nel quale tutto trova il senso.
E’ Colui che è capace di dare a tutto un progetto ed una prospettiva.
(dagli Scritti del Card.
C.M.
Martini).
Aprire gli occhi Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente chiusi per evitare di vedere la miseria agitarsi alla nostra porta? Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente tappati per evitare di guardare faccia a faccia il prossimo che ci viene incontro? Chi aprirà i nostri occhi ostinatamente velati per evitare di essere abbagliati dalla presenza di Cristo con il suo vangelo esigente? Chi aprirà i nostri occhi per riconoscere lo Spirito di Dio all’opera sui molteplici cantieri dove l’umanità si rinnova? Chi aprirà i nostri occhi per riconoscere il seme che, con ostinazione, germoglia dall’arida terra screpolata? La pace sia con voi! Di ritorno dagli inferi, Cristo per donare la pace al mondo esclama: «La pace sia con voi! I discepoli parlavano ancora, quando Gesù stette in mezzo a loro e disse loro: La pace sia con voi!».
Giustamente dice: «con voi», perché la terra si era già consolidata, il giorno era ritornato, il sole aveva ripreso il suo splendore e il mondo aveva ritrovato il suo ordine e la coesione.
Ma presso i discepoli la guerra infuriava ancora; fede e mancanza di fede si combattevano violentemente.
Il turbamento della passione non aveva scosso il loro cuore quanto la terra; credulità e incredulità devastavano il loro animo con una guerra senza tregua; schiere di pensieri assediavano la loro mente e sotto i colpi della disperazione e della speranza il loro cuore si spezzava, nonostante la sua forza.
I sentimenti e i pensieri dei discepoli erano divisi tra gli innumerevoli miracoli che rivelano Cristo e le molteplici umiliazioni della sua morte, tra i segni della sua divinità e le debolezze della carne, tra l’orrore della sua morte e le grazie della sua vita.
Ora il loro spirito veniva portato in cielo, ora le loro anime ricadevano a terra; e nel loro cuore in cui infuriava la tempesta non tro-vavano alcun porto tranquillo, nessun luogo di pace.
Al veder questo, Cristo che scruta i cuori, che comanda ai venti, governa le tempeste e con un semplice segno muta la tempe-sta in un cielo sereno, li conferma con la sua pace, dicendo: «La pace sia con voi! Sono io; non temete.
Sono io, il morto e sepolto.
Sono io.
Per me Dio, per voi uomo.
Sono io.
Non uno spirito rivestito di un corpo, ma verità stessa fatta uomo.
Sono io.
Sono io, vivente tra i morti, celeste al cuore degli inferi.
Sono io, che la morte ha fuggito, che gli inferi hanno temuto.
Gli inferi mi hanno proclamato Dio, nel loro spavento.
Non temere Pietro, che mi hai rinnegato, ne tu, Giovanni, che sei fuggito, ne tutti voi che mi avete abbandonato, che avete pensato a tradirmi, che non credete ancora in me, anche se mi vedete.
Non temete, sono io.
Sono io, vi ho chiamati per grazia, vi ho scelti perdonandovi, vi ho sostenuto con la mia compassione, vi ho portato nel mio amore e oggi vi accolgo per mia sola bontà, per-ché il Padre non vede più il male quando accoglie suo figlio».
(PIETRO CRISOLOGO, Discorso 81, PL 52, 428A-D).
Andremo alla casa del Signore Mi rallegrai quando mi dissero: «Andremo alla casa del Signore».
E ora i nostri piedi sono nell’interno delle tue porte, Gerusalemme! Gerusalemme costruita come città, in sé ben compatta! Là salivano le tribù, le tribù del Signore, secondo il precetto dato a Israele di lodarvi il nome del Signore.
Sì, là s’ergevano i seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide.
Augurate la pace a Gerusalemme: vivano in prosperità quanti ti amano! Sia pace fra le tue mura, prosperità fra i tuoi palazzi.
Per amore dei miei fratelli e amici dirò: Sia pace in te! Per amore della casa del Signore, nostro Dio, chiederò: Sia bene per te! (Salmo 121).
L’anima soffre e anela al Signore Aiutaci, o Signore, a portare avanti nel mondo e dentro di noi la tua risurrezione.
Donaci la forza di frantumare tutte le tombe in cui la prepotenza, l’ingiustizia, la ric-chezza, l’egoismo, il peccato, la solitudine, la malattia, il tradimento, la miseria, l’indiffe-renza hanno murato gli uomini vivi.
Metti una grande speranza nel cuore degli uomini, specialmente di chi piange.
Concedi, a chi non crede in te, di comprendere che la tua Pasqua è l’unica forza della storia perennemente eversiva.
E poi, finalmente, o Signore, restituisci anche noi, tuoi credenti, alla nostra condizione di uomini.
(Don Tonino Bello).
Preghiera O Signore, Signore risorto, luce del mondo, a te sia ogni onore e gloria! Questo giorno, così pieno della tua presenza, della tua gioia, della tua pace, è davvero il tuo giorno! Sono appena rientrato da una passeggiata attraverso l’oscurità dei boschi.
Era freddo e ventoso, ma tutto parlava di te.
Ogni cosa: le nuvole, gli alberi, l’erba umida, la valle con le sue luci lontane, il rumore del vento.
Parlavano tutti della tua risurrezione: tutti mi rende-vano consapevole che ogni cosa è davvero buona.
In te tutto è creato buono e da te tutta la creazione è rinnovata e portata a una gloria persino più grande di quella posseduta al principio.
Camminando nell’oscurità dei boschi alla fine di questa giornata piena di intima gioia, ti ho sentito chiamare Maria Maddalena per nome e dalla riva del lago ti ho sentito gridare ai tuoi amici di gettare le reti.
Ti ho anche visto entrare nella sala con la porta serrata dove i tuoi discepoli erano radunati pieni di paura.
Ti ho visto apparire sul monte così come nei dintorni del villaggio.
Quanto sono veramente intimi questi eventi: sono come favori spe-ciali fatti a cari amici.
Non sono stati fatti per impressionare o sopraffare qualcuno, ma semplicemente per mostrare che il tuo amore è più forte della morte.
O Signore, ora so che è nel silenzio, in un momento tranquillo, in un angolo dimentica-to che tu m’incontrerai, mi chiamerai per nome e mi dirai una parola di pace.
E nell’ora della maggiore quiete che tu diventi per me il Signore risorto.
O Signore, sono così riconoscente per tutto quello che mi hai dato nella settimana tra-scorsa! Rimani con me nei giorni che verranno.
Benedici tutti quelli che soffrono in questo mondo e dona pace alla tua gente, che hai tanto amato da dare la vita per lei.
Amen.
(J.M.
NOUWEN, Preghiere dal silenzio, in ID., La sola cosa necessaria Vivere una vita di pre-ghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 242-243).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 3,13-15.17-19 In quei giorni, Pietro disse al popolo: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete con-segnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassi-no.
Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio l’ha risuscitato dai morti: noi ne siamo te-stimoni.
Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi.
Ma Dio ha così compiuto ciò che aveva preannunciato per bocca di tutti i profeti, che cioè il suo Cristo doveva soffrire.
Convertitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati».
Questo brano fa parte della catechesi su Gesù che Pietro rivolge ai suoi uditori di origi-ne ebraica.
L’autore degli Atti degli apostoli ha raccolto questa catechesi in una serie di «discorsi» e li ha collocati nella prima parte della sua opera (capitoli 2-4).
È importante sot-tolineare gli elementi che caratterizzano questa catechesi.
Innanzitutto emerge la continuità tra l’agire di Dio nell’Antico Testamento e ora nella risurrezione di Gesù: «Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri pa-dri ha glorificato il suo servo Gesù».
La risurrezione di Gesù non va considerata come un cor-po estraneo nella Bibbia.
Essa si inserisce pienamente nel progetto di salvezza che Dio ha pensato per l’uomo, un progetto che passa misteriosamente attraverso la croce e culmina nella gloria della Pasqua.
Questo progetto era già anticipato nei «Canti del Servo sofferen-te del Signore» (vedi Is 42; 49; 52-53), nei quali si delineava chiaramente la «logica» di Dio: il Servo sofferente sarebbe divenuto il Messia glorificato, grazie all’intervento decisivo di JHWH.
Ai suoi uditori, che conoscevano bene la Bibbia, Pietro propone questa «logica», ricorrendo alla stessa terminologia di Isaia: «Dio ha glorificato il suo Servo Gesù».
L’entrare in questa «logica» esige però un cambiamento di mentalità e una conversione nei confronti di Gesù.
L’espressione «io so che voi avete agito per ignoranza» vuole sottolinea-re quanto sia difficile comprendere la vita, la morte e la risurrezione di Gesù nella «logica» che è propria di Dio.
Il termine «ignoranza» (in greco, àghnoia) indica la difficoltà di com-prendere in questo modo tutta la vicenda di Gesù.
Questa «ignoranza» è da collocare alla base del processo condotto contro Gesù: «Voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato…
avete rinnegato il Santo e il Giusto…
Avete ucciso l’autore della vita».
Infatti nessuno era stato in grado di comprendere il progetto di salvezza di Dio, che doveva passare attraverso la cro-ce e la sofferenza.
Solo dopo la risurrezione di Gesù, gli apostoli vengono illuminati e comprendono in pienezza l’agire di Dio.
La predicazione di Pietro e degli altri apostoli, te-stimoni della misteriosa «logica» di Dio, offre la possibilità di convertirsi al progetto di Di-o, portato a compimento da Gesù in un modo e in una forma che la mentalità degli uomini non è riuscita a comprendere.
Seconda lettura: 1Giovanni 2,1-5 Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha pecca-to, abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto.
È lui la vittima di e-spiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo.
Da questo sappiamo di averlo conosciuto: se osserviamo i suoi comandamenti.
Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e in lui non c’è la verità.
Chi invece osserva la sua parola, in lui l’amore di Dio è veramente perfet-to.
Questo breve brano presenta una nuova esortazione per il cristiano, che è quella di os-servare i comandamenti.
Precedentemente l’autore aveva esortato i destinatari del suo scritto a pentirsi dei peccati e a riconoscerli davanti a Dio, per entrare nella pienezza della salvezza offerta da Gesù.
A queste esortazioni seguiranno quelle di guardarsi dal «mon-do» (inteso come tutto ciò che si oppone al vangelo) e dagli «anticristi» (il riferimento è ad alcune eresie che già hanno preso piede nella comunità cristiana a cui scrive Giovanni).
«Abbiamo un Paràclito presso il Padre»: il termine greco paràkletos («avvocato», «interces-sore», «consolatore») è caratteristico di Giovanni, che lo riferisce allo Spirito Santo (vedi i seguenti testi del suo vangelo: 14,16.26; 15,26; 16,7) e, in questo passo della prima lettera, a Gesù.
Esso designa una persona amica, che sta vicino a chi è accusato e condotto in tribu-nale (il verbo greco parakalèo significa anche: «chiamare accanto») e ne sostiene le ragioni o ne mitiga la sentenza, qualora questa risultasse sfavorevole.
«Chi dice: «Lo conosco», e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo»: il verbo «conoscere» va inteso nel suo significato globale, come è usato nella Bibbia.
Questo è il verbo che signi-fica sapere chi è Dio e ciò che egli vuole.
Significa conoscere il modo di porsi di Dio nei confronti dell’uomo e significa l’imitazione di questo stesso comportamento di Dio da par-te dell’uomo.
Non è quindi un verbo puramente astratto, teorico, ma è un verbo con una forte accentuazione pratica ed etica.
Il richiamo all’osservanza dei comandamenti è motivato dal fatto che l’eresia gnostica — sviluppatasi all’epoca di questo scritto — sosteneva che la salvezza dell’uomo era possibile solo attraverso la conoscenza teorica di Dio (ma senza alcuna implicanza etica).
Questa co-noscenza — chiamata con il termine greco ghnòsis — portava a considerare il corpo del-l’uomo, con le sue passioni e i suoi peccati, come irrilevante nel conseguimento della sal-vezza.
Ciò significava un totale disinteresse per la morale, che per il cristiano non è tanto un insieme di leggi o di divieti, quanto piuttosto la conoscenza della volontà di Dio e il conformarsi ad essa, compiendola ogni giorno.
Infatti per il cristiano non vi può essere se-parazione tra anima e corpo, tra conoscenza di Dio e pratica cristiana, tra religione e mora-le, tra vangelo e vita quotidiana.
Vangelo: Luca 24,35-48 In quel tempo, [i due discepoli che erano ritornati da Èmmaus] narravano [agli Un-dici e a quelli che erano con loro] ciò che era accaduto lungo la via e come avevano ri-conosciuto [Gesù] nello spezzare il pane.
Mentre essi parlavano di queste cose, Ge-sù in persona stette in mezzo a loro e disse: «Pace a voi!».
Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma.
Ma egli disse loro: «Perché siete turbati, e perché sorgono dubbi nel vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io! Toccatemi e guardate; un fantasma non ha carne e ossa, come vedete che io ho».
Di-cendo questo, mostrò loro le mani e i piedi.
Ma poiché per la gioia non credevano an-cora ed erano pieni di stupore, disse: «Avete qui qualche cosa da mangiare?».
Gli of-frirono una porzione di pesce arrostito; egli lo prese e lo mangiò davanti a loro.
Poi disse: «Sono queste le parole che io vi dissi quando ero ancora con voi: bisogna che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi».
Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture e disse loro: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Ge-rusalemme.
Di questo voi siete testimoni».
Esegesi Il brano proposto conclude l’episodio che ha come protagonisti i due discepoli di Em-maus, e contiene un nuovo racconto di apparizioni, che gli esegeti chiamano «apparizione di riconoscimento».
Mediante alcuni segni/gesti che Gesù compie — come il mangiare, il lasciarsi toccare, il mostrare le mani e i piedi —, egli vuole eliminare negli apostoli il so-spetto che si tratti della visione dello spirito di un morto («un fantasma»), vanificando così l’esperienza più vera della Pasqua.
Per i cristiani che provenivano dall’ambiente greco, infatti, era comune credenza che lo spirito vivesse separato dal corpo dopo la morte.
Era perciò necessario precisare che Gesù risorto non è uno spirito senza corpo e che non appartiene più al regno dei morti, come gli spiriti.
Per questo, nel racconto di apparizione, si insiste sul vedere, mangiare, toccare.
Ma anche l’ambiente ebraico incontrava grandi difficoltà nel comprendere e nell’accetta-re la risurrezione di Gesù.
Accettarla significava, infatti, che ormai si era davanti all’inter-vento definitivo di JHWH nella storia, che erano iniziati gli ultimi tempi e che ormai erano giunti il mondo nuovo, il Regno di Dio e la risurrezione finale e definitiva, promessa dai profeti (vedi Ezechiele).
Per questo l’evangelista colloca l’evento della Pasqua di Gesù nel-l’insieme delle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo dovrà patire e risuscitare dai morti il ter-zo giorno».
«Sconvolti e pieni di paura, credevano di vedere un fantasma»: lo spavento ha origine dal fat-to che Gesù appare all’improvviso.
Il termine «fantasma» traduce il greco pneuma («spiri-to»).
Secondo la concezione greca, dopo la morte lo spirito era separato dal corpo e non si riuniva più ad esso.
Nella concezione cristiana, invece, corpo e spirito costituiscono la per-sona, e la risurrezione fa di questo nostro corpo non un fantasma, ma un corpo «glorioso», «glorificato», come quello di Gesù.
«Lo prese e lo mangiò davanti a loro»: con questa frase, più che insistere sulla realtà incon-fondibile del corpo di Gesù, l’evangelista vuole evidenziare la vittoria di Gesù sulla morte, simboleggiata dalla rinnovata partecipazione alla mensa con i suoi discepoli, come avve-niva prima della morte.
L’espressione «davanti a loro» (in greco, enòpion autòn) si potrebbe tradurre anche: «a mensa con loro».
È un’espressione che ricorre anche in Lc 13,26: «Ab-biamo mangiato e bevuto in tua presenza (in greco, enòpion sou, «alla tua mensa»)» e pro-babilmente con essa si vuole esprimere la continuità tra il Gesù prima della Pasqua e il Ge-sù risorto.
«Nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi »: è la suddivisione di tutta la Bibbia secondo il canone ebraico.
È curioso, qui il rilievo dato ai Salmi, dal momento che la Bibbia ebraica chiama la terza parte della Scrittura, con il termine generico «Gli Scritti».
Probabilmente i Salmi vengono nominati perché costituiscono la parte più abbondante degli «Scritti».
Non va neppure dimenticato che nel Nuovo Testamento i Salmi vengono citati con frequenza sia nei vangeli sia negli Atti degli apostoli come profezie della risurrezione di Gesù.
Meditazione «Ma non mi riconosci?».
È capitato a tutti, almeno una volta nella vita, di trovarsi dinanzi a qualcuno che chiede di essere identificato come quel tale compagno di scuola, di lavoro, di una qualche avven-tura estiva o invernale, di un’esperienza vissuta assieme in un tempo ormai trascorso…
Prima di indagare mediante domande di approfondimento e prima di metter mano a do-cumenti probanti, cosa abbiamo fatto per verificare l’ipotesi? Abbiamo guardato con atten-zione il volto del nostro interlocutore, ovviamente! È curioso che nel brano evangelico odierno Gesù chieda di essere riconosciuto…
dalle mani e dai piedi! Ora, né Gesù né l’evangelista Luca erano dei burloni.
Questa sorprenden-te espressione del Risorto ci aiuta invece…
a non sentirci più sfortunati dei contemporanei di Gesù: se i suoi discepoli, che hanno vissuto con lui per anni, non lo hanno riconosciuto guardandolo in faccia, perché noi ci ostiniamo a sostenere che ci sarebbe più facile credere se lo avessimo visto ‘in carne e ossa’? L’invito di Gesù mira piuttosto a calibrare la nostra fede a un livello più profondo e ‘democratico’: ognuno di noi può dire con autenticità e au-torevolezza che il Signore è risorto solo se accettiamo che egli sia anche…
il Crocifisso! Ec-co perché invita a guardare le mani e i piedi, dove sono – e restano! – impressi i segni, le ci-catrici della sua morte orrenda e ingiusta.
Il mistero della ‘fìnitudine’ divina, iniziato con il Natale, trova qui la sua massima espressione.
Per condividere fino in fondo la nostra con-dizione umana, il ‘tutto’ sta e rimane in un ‘frammento spezzato, crocifisso’.
Ma la ‘credibi-lità’ di Gesù sta proprio nel non aver voluto fare il dio ‘ovvio’, giocare ad un dio ‘scontato’, che mantiene le distanze e le distinzioni…
Se gli Undici erano «sconvolti e pieni di paura» (v.
37) non è soltanto perché credevano di «vedere un fantasma» (vv.
37,39) ma probabilmente perché temevano di essere ripresi – e non poco! – a causa della loro assenza sotto la croce di Gesù.
Era pertanto difficile affron-tare questo sorprendente incontro con il loro maestro nel clima della ipotizzata ‘rimpatria-ta’ di cui sopra si diceva…
E invece non c’è nulla di tutto ciò nelle parole di Gesù che Luca ci riporta.
Emerge piuttosto la ferma volontà di voler farsi vicino ai suoi discepoli, di con-solare il loro dolore, illuminare la loro delusione, apprezzando la loro disponibilità a ritro-varsi ancora insieme per dare ascolto a Pietro e ai due sconosciuti provenienti da Emmaus; soprattutto, per offrire loro la pace, pienezza di tutti i doni messianici.
In verità, seppur più lievemente rispetto a Cleopa e al suo compagno (cfr.
vv.
24,25), Gesù ‘rimprovera’ i presenti, affermando con vigore che la sua morte in croce non è stato ‘un incidente di percorso’ da dimenticare quanto prima…
Rammenta loro che avrebbero potuto ricordare le parole del Primo Testamento, in tutte le sue parti, in cui non veniva vi-sto come contradditorio l’aspetto penoso e quello vittorioso: il percorso del Messia non era pensato come precluso alla prova, al rifiuto, all’ostilità, alla sofferenza, non era affatto pro-fetizzato come una celeste cavalcata trionfale.
Se è vero che ogni uomo cresce, matura e si appropria della sua umanità attraverso queste esperienze, perché le si sarebbe dovute e-scludere dall’esistenza di Gesù? Come avrebbe potuto costui innalzare, rialzare la vita del- l’uomo se non l’avesse assunta in pienezza? C’è effettivamente da «non riuscire a credere ed essere stupefatti per la grande gioia» (v.
41 )! Lo sguardo deve essere stato addirittura trasognato quando Gesù ha incaricato questi uomini frastornati e impauriti di aiutare ogni uomo a interpretare la propria esistenza alla luce di quella vicenda che si era appena conclusa e li aveva così impressionati.
Allora an-che l’incarico di testimoniare a tutte le genti questa solidarietà umile, ma tenace e liberante, non sarà stato fonte di timore ma stupita riconoscenza, annuncio di benevolenza gratuita e generosa, esigente educazione alla maturità a misura di Cristo: era nata la Chiesa!

Il primo annuncio nella comunità cristiana delle origini

La Chiesa ha bisogno continuo di ritrovare la sua identità, soprattutto quando la situazione storica diventa per essa una sfida che mette in gioco la sua capacità di realizzare i propri compiti e dunque la sua stessa legittimità di Chiesa.
Per la Chiesa la memoria delle radici diventa perciò una memoria vitale.
Quindi la rilettura delle sue origini, non è un lusso; non è nemmeno pura ricerca archeologica, ma un atto di memoria vitale (un memoriale), con notevoli ripercussioni dogmatiche e pastorali.
È in quest’ottica che si pone questa ricerca, con l’intento di chiarire meglio le idee, di superare stereotipi circolanti, esaminando con cura le fonti.
per la consultazione del contributo: Il primo annuncio nella comunità cristiana delle origini da Catechesi 2008 numero 93

Io non mi vergogno del Vangelo

L’Apostolo Paolo, può essere un modello per l’insegnante di religione cattolica, giacché è capace di dialogo con la cultura del tempo a partire dalle sollecitazioni del vangelo.
Egli infatti è testimone consapevole della forza interpretativa della Parola di Dio circa l’esperienza religiosa umana e da credente proclama la salvezza per chiunque crede, esprimendo la gioia dell’appartenenza ed il coraggio della testimonianza.
Da questa riflessione è nato lo slogan messo a tema del Meeting: “Io non mi vergogno del Vangelo” (Rm 1,16).
L’Irc per una cultura a servizio dell’uomo.
Il titolo intende richiamare, da una parte, la portata umana del Vangelo, ispiratore della civiltà dell’amore nell’attuale contesto socio-culturale; dall’altra, l’Irc come disciplina scolastica a servizio della persona umana e della sua crescita integrale, per cui l’Idr esercita la sua professionalità docente con la sua identità credente e appartenenza ecclesiale.
La cura e la competenza con cui gli Idr svolgono la loro quotidiana azione scolastica è una risorsa non solo per la Scuola, ma per l’intera Società, giacché va incontro ai bisogni culturali ed educativi degli alunni e delle loro famiglie, mostrando un impegno educativo per la piena realizzazione dell’uomo.
–  Programma completo  (PDF) –  Organizzazione dell’evento

Apprendere la Religione

OSSERVATORIO RELIGIOSO TRIVENETO, A.
CASTEGNARO (a cura ), Apprendere la religione.  L’alfabetizzazione religiosa degli studenti che si avvalgono dell’insegnamento di religione cattolica, Edizioni EDB, Bologna 2009, ISBN 978-88-10-60610-0,  pp.
264, Euro 21,60 Che cosa sanno i ragazzi e i giovani di oggi della religione, e in particolare della religione cattolica? È proprio vero che la nostra società si caratterizza per una crescente ignoranza religiosa, che le nuove generazioni anticipano? E che ciò avviene nonostante l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole, sia pubbliche sia paritarie? E nonostante la partecipazione dei bambini e dei ragazzi alla catechesi? Questi interrogativi sono all’origine dell’indagine sui livelli di alfabetizzazione religiosa manifestati, al termine della scuola secondaria di I e II grado, dagli studenti che frequentano l’ora di religione.
La ricerca ha coinvolto oltre 5000 studenti delle scuole statali e paritarie ai quali è stato sottoposto un test e un questionario mirato.
L’indagine getta uno sguardo sui livelli di conoscenza acquisiti.
Perché alcuni studenti ne sanno di più e altri di meno? C’è qualcosa nel modo in cui i corsi vengono impostati, nella didattica o nei contenuti proposti, che può influenzare i livelli di apprendimento? I risultati sembrano smentire il luogo comune secondo cui i giovani di oggi non sanno niente di religione.
Gli studenti paiono aver acquisito in maggioranza una significativa formazione di base, forse più ampia di quella posseduta dalle generazioni precedenti, comparabile a quella ottenuta in altri campi del sapere, che esigono un diverso impegno di studio e dispongono di orari più ampi.
I risultati migliori si ottengono non dove l’offerta formativa enfatizza i contenuti di istruzione religiosa, ma quando i docenti propongono una sintesi tra la riflessione sui problemi della vita e le conoscenze relative alla religione.
Non dall’insistenza sugli specifici contenuti conoscitivi deriva l’apprendimento, ma dalla capacità di porre in relazione la materia studiata con l’esperienza di vita.
Una conclusione il cui valore va probabilmente al di là dell’ora di religione.
è presidente dell’Osservatorio Socio¬Religioso Triveneto e membro del Consiglio Scientifico dell’Associazione Italiana di sociologia, sezione sociologia della religione.
Tra le sue più recenti pubblicazioni: Fede e libertà.
Indagini sulla religiosità nel Patriarcato di Venezia, Marcianum Press, Venezia 2oo6; Preti del Nord Est.
Condizioni di vita e questioni di pastorale, Marcianum Press, Venezia 2oo6; Religione in Standby, Marcianum Press, Venezia 2008.
Marcianum è un centro di ricerca promosso dalle diocesi del Triveneto.
Conduce attività di documentazione e ricerca sulle trasformazioni socio-culturali e religiose oltre che sull’evoluzione delle Chiese del Nord Est.

La testimonianza della povertà

L’ultima giornata umbra del Capitolo – che da mercoledì 15 ha portato ad Assisi circa duemila tra religiose e religiosi in rappresentanza della Famiglia francescana – è trascorsa nel segno del digiuno, della penitenza e del rinnovo della fedeltà al mandato di san Francesco.
Nella mattinata i partecipanti al Capitolo hanno letteralmente invaso Assisi per un silenzioso pellegrinaggio individuale nei diversi luoghi del santo.
Successivamente, nel pomeriggio, è partita dal piazzale della Porziuncola di Santa Maria degli Angeli la processione penitenziale che ha raggiunto la tomba di san Francesco, nella Basilica Inferiore.
Qui i ministri generali dei quattro ordini francescani – frati minori, minori conventuali, minori cappuccini, terz’Ordine regolare – hanno consegnato a tutti i frati una copia della Regola di san Francesco.
Il Capitolo internazionale delle stuoie è stato convocato infatti proprio a ricordo degli ottocento anni dell’approvazione “orale”, da parte di Papa Innocenzo iii, della prima regola del santo d’Assisi.
L’importanza e l’attualità della regola francescana sono state ribadite dal cardinale Hummes nel corso della messa celebrata nel piazzale della Basilica Inferiore.
Il porporato ha indicato e riassunto i punti essenziali del carisma francescano: “il rinnovamento, l’apostolica missionarietà, l’amore alla povertà e ai poveri, la fraternità francescana e la comunione con la Chiesa”.
Binari lungo i quali oggi, come ai tempi di Francesco, deve snodarsi la presenza francescana.
“Il Papa ripete sempre – ha osservato il cardinale – che bisogna riprendere con urgenza e determinazione il lavoro missionario, nel senso stretto della parola, non soltanto ad gentes, che continua a essere importantissimo, ma anche all’interno dello stesso gregge già costituito della Chiesa, ossia tra i battezzati che si sono allontanati per tanti motivi o mai sono stati veramente evangelizzati, perché nessuno li ha portati a fare un vero incontro con il Signore risorto”.
Hummes si è poi soffermato soprattutto sul valore della povertà.
“Vivere la povertà evangelica – ha affermato – in una società sempre più affascinata e schiavizzata dal denaro, e vivere l’amore e la solidarietà verso i poveri, verso ogni singolo povero, dev’essere una delle principali e più significative contribuzioni dei frati francescani alla testimonianza della Chiesa nel mondo attuale.
La povertà e l’esclusione sociale di centinaia di milioni di persone, di interi popoli, sono piaghe crescenti oggi e cresceranno ancora di più nell’attuale crisi economica, con la crescita angosciante della disoccupazione nel mondo del lavoro”.
Quello della testimonianza è stato il tema centrale anche degli interventi proposti nel corso del Capitolo da tre francescani che in passato hanno ricoperto l’incarico di ministro generale.
Per padre Giacomi Bini, dei frati minori, “è tempo di risvegliare una nuova coscienza missionaria ancorata in una fede più vissuta e una vocazione evangelica più autentica, più appassionata.
E più i valori sono chiari e forti più si creano e s’inventano nuove forme d’evangelizzazione e d’incontro”.
Per l’arcivescovo Agostino Gardin, ex ministro generale dei minori conventuali e oggi segretario della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, “probabilmente vi è ancora qualcosa da riscoprire e di cui riappropriarci nella nostra ricerca di come essere francescani oggi, proprio in relazione alla minorità.
Perché oggi, in particolare, ho l’impressione che uno stile mite, non arrogante, discreto, paziente, capace di ascolto e di riflessione, propositivo, privo di facili giudizi, remissivo farebbe bene non solo alla vita interna delle nostre comunità, ma alla stessa Chiesa e al suo porsi nel mondo”.
Il vescovo di Nelson, in Canada, monsignor John Corriveau, già ministro generale dei cappuccini, ha aggiunto che “il mondo secolarizzato nel quale viviamo crede che la propria tecnologia contenga in sé tutto ciò che è necessario per il progresso e la liberazione dell’umanità”, ma “la tecnologia fallisce di fronte all’avarizia e alla prepotenza dell’uomo”.
(©L’Osservatore Romano – 19 aprile 2009) La scelta della povertà resta uno dei principali contributi che il mondo francescano può offrire alla testimonianza della Chiesa nel mondo d’oggi.
Con questa sottolineatura del cardinale Cláudio Hummes, o.f.m., prefetto della Congregazione per il Clero, si sono concluse ieri le giornate umbre del Capitolo internazionale delle stuoie.
Raduno che ha vissuto nella mattina di sabato 18 il suo alto momento e conclusivo con il trasferimento nella capitale e l’udienza a Castel Gandolfo con Benedetto XVI (di cui riferiamo in altra parte del giornale, ndr).
Nel pomeriggio poi, a Castel Porziano, una delegazione di venticinque responsabili mondiali dei diversi ordini francescani ha incontrato il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, al quale è stata consegnata una copia della lettera che, otto secoli fa, Francesco d’Assisi, indirizzò ai “Reggitori dei popoli”.

Lavorare con il film

Tutti hanno esperienza di che cosa sia un film.
Ci sono però modi diversi per guardare un’opera cinematografica: una modalità percettiva affidata alle emozioni, una modalità estetica attenta alla natura e alla forma del linguaggio, una modalità contenutistica che prescinde dalla qualità linguistica, una modalità infine che tiene conto di tutti gli elementi in gioco.
 Allo stesso modo si danno approcci soggettivi che lasciano il destinatario interprete autonomo dell’atto di comunicazione che il film costituisce; approcci oggettivi attenti al testo e all’intenzione dell’autore, e approcci che vedono in esso una molteplicità di processi comunicativi, che variano a seconda del destinatario e del contesto culturale e sociale, oltre che del tempo in cui viene fruita l’opera.
Ciascuno adotterà l’approccio più congeniale e utilizzerà il film nella sua interezza oppure per frammenti; ciò che importa è non prescindere – come troppo spesso accade– dalla natura specifica del linguaggio cinematografico, a meno che non si intenda fare un uso pretestuale dell’opera filmica.
L’aspetto più importante è usare il film per parlare del film e non per parlare sul fim.
Ma in classe come si può usare un film ( o parte di esso ) e attraverso quale metodologia lo si può animare? Cercando di rispondere a questa domanda ho pensato di fissare alcuni criteri molto operativi, precisamente: 1.
di distinguere i punti di vista a partire dai quali accostarsi ad un film; 2.
di precisare i tre livelli a cui è possibile focalizzare l’attenzione dello studente -spettatore; 3.
di indicare alcune strategie di intervento ed animazione Mutuando parzialmente la terminologia della analisi della narrazione mi sembra che tre siano i rilievi metodologicamente significativi: essi riguardano il punto di vista, la focalizzazione e le strategie operative mediante cui strutturare il nostro intervento.
Vediamoli nello specifico.
Il punto di vista: parlare del film, parlare sul film Il parlare sul film traduce il punto di vista che Umberto Eco, definisce della lettura pretestuale: in quest’ottica il film è selezionato in funzione illustrativa e diviene un pretesto per introdurre una problematica o trovarne conferma nella concretezza delle immagini.
Confortata dalla consuetudine dei cinedibattiti televisivi, in cui il film funge semplicemente da input alla discussione in studio di un determinato argomento questa scelta autorizza di solito impressioni superficiali, soggettive ed estemporanee e rischia di configurarsi come prassi di dialogo che per nulla contribuisce alla educazione dello sguardo spettatoriale.
Il parlare del film, invece, da corpo ad un punto di vista sostanzialmente differente, un punto di vista di tipo testuale, in ordine al quale, superata l’ottica contenutistica ed illustrativa, il film diviene un campo metodologico da attraversare – come suggerisce R Barthes – un oggetto culturale da smontare e rimontare non per autorizzare percorsi di lettura arbitrari e soggettivi, ma per elaborarne di critici, sebbene personali, sempre e comunque autorizzati dalla materialità significante del testo (i limiti dell’interpretazione, come precisa U.
Eco, sono nel testo stesso).
La focalizzazione: vedere, sapere, credere (vedere) un primo livello di focalizzazione è quello che si appunta sul vedere.
Il cinema è uno sguardo sul mondo articolato in modo sempre più personale in rapporto all’evolvere del linguaggio oltre la camera fissa, grazie a panora­miche, carrèlli, montaggio…
Registrare questo sguardo, coglierne le diverse declinazioni, è sicuramente un primo grande campo di lavoro : è l’approccio del cinefilo, inteso come colui che fa pratica empirica di conoscenza e consumo di autori, di movimenti di tendenze estetiche ed ideologiche.
(sapere) ma un film non è soltanto il luogo entro cui si organizza un vedere.
Esso, proprio attra­verso questo vedere, contribuisce al prodursi di un sapere.
Verificare come questo sapere ven­ga realizzato, ricondurlo alle logiche culturali ed alle problematiche storiche del momento in cui è stato prodotto è il compito dell”approccio filmologico, applicazione di metodologie e ca­tegorie critiche spesso proprie di altre discipline ed ambiti comunicativi (psicologia, sociologia, letteratura); (credere) quando, infine, ad essere messo a fuoco è il credere che il film induce, mediante il vedere ed in virtù del sapere che lo caratterizzano, dall’ approccio cinefilo e filmologico, siamo passati a quello valoriale, attento alle strategie comu­nicative mediante le quali il film costruisce sistemi di credenze nel pubblico (ed in questo senso si espone alla valutazione etica) o alle modalità secondo cui affronta il proprio tema.
il nodo linguistico-espressivo.
È l’aspetto grammaticale e sintattico, che comprende l’ana­lisi dei seguenti elementi: la fotografia (illuminazione, contrasto, composizione, uso della pellicola), il colore (naturale, equilibrato, valore sim­bolico delle dominanti, effetti), i campi ed i piani (tipologie, utilizzo) angolazione ed inclinazione, uso della macchina (presente, nascosta), il montaggio ed il sonoro.
La competenza attivata è quella del saper vedere; 2.
il nodo narrativo-tematìco.
E l’aspetto con­tenutistico del film, il suo dire qualcosa raccon­tando qualcosa.
Comprende i rilievi relativi a: struttura narrativa del film (prima e ultima scena, momenti topici, evoluzione), personaggi (caratteristiche, rapporti reciproci, funzioni nel racconto), contenuto (temi ricorrenti, problemati­che, funzionamento simbolico).
La competenza attivata è quella del saper comprendere; 3.
il nodo etico-valoriale.
È l’aspetto “ideologico” del film, il suo dire qualcosa in un certo modo.
Esso implica tre interventi valutativi su: dignità estetica del film (qualità artistica, com­piutezza di sviluppo, ecc.), problematiche in gioco (valutazione sul tema e su come il film ha trattato il tema), impatto sul pubblico (impegno morale del regista, ecc.).
La competenza attivata è quella del saper valutare.
Leggere il frammento A volte, quando i ragazzi non sono abituati a uno sguardo attento e a un lavoro d’analisi esteso all’intero testo filmico, può essere didatticamente più efficace lavorare sul frammento: la sequenza o la singola scena.
Spesso sono gli inizi del fim (incipit ) a prestarsi al lavoro di analisi, perché anticipano a livello strutturale – nella messa in scena, in quadro, in serie, nell’uso del sonoro – i temi e i motivi che il film svilupperà.
Analizzare il frammento prima della visione integrale del film consente ai ragazzi di realizzare per intero il percorso di analisi senza demotivarsi; permette loro di formulare ipotesi circa il testo completo e di guardare questo, in seguito, con maggiore interesse, in una prospettiva di verifica delle ipotesi formulate.
La strategia vale evidentemente per i film impegnativi, che affidano il racconto al piano della rappresentazione, piuttosto che a quello della narrazione.
Ma lavorare sul frammento ha senso anche con film che fanno leva sull’azione e su una dimensione spettacolare.
In questo caso, al percorso d’analisi che evidenzierebbe solo la povertà del testo filmico si preferirà un lavoro pretestuale a partire da una scena, un dialogo, una situazione, che permettano di portare l’attenzione sul tema che si intende affrontare al di là del film.

Numeri e fede/10: Le cifre sono deboli

Aveva ragione Socrate, il filo­sofo impertinente, ammo­nendo gli scienziati con il suo «so di non sapere», che stupiva e irritava l’establishment ateniese.
Gli scienziati (e in particolare i ma­tematici) di oggi se ne stanno ren­dendo conto, con una meraviglia crescente.
Il «so di non sapere» rap­presenta per difetto il paradossale stato che oggi caratterizza la cono­scenza scientifica.
«Man mano che andiamo avanti, scopriamo sempre più cose, ma quello che scopriamo veramente è quanto aumenti, di continuo, tutto ciò che non cono­sciamo » dice Mario Girardi, ordina­rio di Analisi matematica all’Uni­versità Roma Tre, dove è stato per 13 anni, fino a due mesi fa, preside di Facoltà (e da 40 anni pratica uno sport, il volo in aliante, che sembra una metafora della conoscenza).
Co­me se non bastasse l’ansia socrati­ca, i ricercatori non riescono proprio a capire come mai la madre di tutte le scienze, la matematica, possa fun­zionare in modo rigoroso anche se non può dimostrare, con puri me­todi logici o con metodi elementari, la propria coerenza scientifica (vedi Kurt Godel e il suo «teorema di in­completezza »).
 L’intervista a Mario Girardi Professore, si può dire che più co­nosciamo e più diventa difficile rag­giungere la verità scientifica, data la sua galoppante complessità? «La scienza moderna s’imbatte in un’infinità di problemi, ha una vi­sione molto più ampia della com­plessità.
Appena conosciamo un pezzettino in più, ci si apre uno ster­minato orizzonte di questioni che neanche immaginavamo.
Lo può notare qualsiasi scienziato.
Faccia­mo un esempio.
Prima che venisse studiato il genoma umano, nem­meno si sospettava l’enorme vastità dei problemi che avrebbe dischiu­so.
Scoprire dove sono collocati i ge­ni non vuol dire avere scoperto la fit­ta rete di interrelazioni tra i geni.
Nel­la matematica poi esistono questio­ni classiche, a volte molto semplici nella formulazione, la cui soluzione, quando si raggiunge, è molto com­plessa (si pensi al Teorema di Fer­mat).
Tutta questa complessità che ci circonda suscita meraviglia e va in parallelo con la profonda sorpre­sa che provano i matematici».
Ma perché alla matematica manca la solidità dei fondamenti? «Abbiamo una scienza matematica così bella, rigorosa sul piano forma­le, ma i suoi fondamenti non sono affatto solidi.
E tutto questo, secon­do me, da un certo punto di vista è un’indicazione molto precisa della nostra insufficienza, cioè della ne­cessità che ci sia un qualche altro substrato».
E quali sono i fondamenti? «Le regole della logica formale che garantiscono tutto, e la struttura di base dei numeri naturali.
Ora non c’è una dimostrazione logica o una dimostrazione matematica elemen­tare che la teoria dei numeri naturali sia ‘coerente’.
Questo è un termine tecnico.
Si dice che una teoria è coe­rente quando non può dimostrare che sia vera un’affermazione e anche il suo contrario.
Viceversa una teo­ria incoerente vìola le leggi fonda­mentali della logica.
Accade se io posso dimostrare come vera sia la proposizione ‘A’ sia la negazione della proposizione ‘A’.
Si ha cioè in­coerenza quando una teoria sostie­ne che una proposizione è vera ed è falsa.
Noi dovremmo riuscire a di­mostrare, con la sola logica o con metodi matematici elementari, che la teoria dei numeri naturali, quelli che usiamo tutti i giorni, è coeren- te.
Ma, in virtù del teorema di Go­del, non lo possiamo fare».
Eppure i numeri salvano vite, fan­no correre i treni e volare gli aerei.
«Non è possibile dimostrare la coe­renza della matematica, ma questa “funziona”, ha successo.
E la cosa è quasi incredibile, è una caratteristi­ca straordinaria».
Ma è vero che, per essere bravi ma­tematici, bisogna essere atei? «Ovviamente no.
La domanda è pri­va di senso (in termini più precisi, dovrei dire che è mal posta).
Chi ab­bina matematica e ateismo cerca di confondere i piani.
Non si limita ad affermare “So di non sapere”.
Fa u­na professione di fede a rovescio.
In proposito vorrei invece sottolineare che, a mio avviso, chiunque faccia scienza non può che rimanere sor­preso e stupefatto di fronte alla realtà da conoscere.
Nonostante le difficoltà e i pro­blemi sui fonda­menti, esistono tutta una serie di segnali, che non possiamo igno­rare.
C’è da do­mandarsi: può essere soltanto un caso che tut­to funzioni in questa maniera? Esi­stono una serie di indicazioni mol­to precise – segni, segnali e “punta­tori” – sparse dovunque, che danno un altro significato a tutto quello che troviamo e vediamo.
Non ci danno certezze scientifiche: siamo stati la­sciati liberi di poter interpretare, op­pure no, questi segnali che ci cir­condano.
Ma basta sapersi guarda­re intorno».
I mass media attribuiscono grande valore scientifico all’esperimento in corso al Cern di Ginevra con il Lar­ge Hadron Collider.
L’obiettivo è tro­vare il bosone di Higgs, che il Nobel Leon Max Lederman ha definito «la particella di Dio».
Porterà a scopri­re l’intima struttura della materia? «Direi che ormai abbiamo perso completamente l’idea che sia pos­sibile conoscere l’intima struttura della realtà che ci circonda.
L’obiet­tivo dell’esperimento è la validazio­ne di un modello che comprenda tutto quello che sappiamo, che ab­biamo scoperto con un lungo per­corso nell’ambito delle particelle e­lementari, che parte dalla fisica clas­sica per proseguire con la relativi­stica e con quella quantistica.
Se verrà trovata questa particella fino­ra mai osservata, si darà una siste­mazione a tutto ciò che è noto fino ad ora sulla struttura della materia».
Non ci si spinge più in là? «Si unifica quello che si sa, ma poi si farà qualche altro passo avanti nel­la conoscenza e si scopriranno un abisso di cose in più che sono sco­nosciute.
Se nel super-acceleratore si riesce a dimostrare che quella par­ticella esiste, allora vorrà dire che il modello standard (che mette insie­me tutto ciò che si è appreso finora ) è un modello coerente.
Se non si scopre, siamo al punto di prima.
Stephen Hawking ha detto: “Come tutti gli scienziati, spero che si trovi il bosone di Higgs; Luigi Dell’Aglio

Narrare la fede… coi gialli /2

“Ridere ci avvicina alla grazia di Dio” (Karl Barth) I Simpson fanno ridere, sono sarcastici, spesso irriverenti, talvolta cinici: si potrebbe quindi avere il dubbio che sia un rischio proporli nel nostro gruppo in parrocchia.
Certo, il buonsenso ci fa sottolineare una doverosa verità: i Simpson non sono un cartone animato per bambini, in quanto i vari tipi di comicità presenti potrebbero risultare per lo più incomprensibili o addirittura urtare la sensibilità dei più piccoli.
Ma un giovane delle superiori possiede già diverse chiavi con cui poter affrontare una rilettura di certe battute e, forte della comicità –spesso contorta– di altri programmi che già segue, possiede gli strumenti per cogliere le sfumature più sottili e ha l’esperienza per carpire certi riferimenti e allusioni, andando oltre la semplice gag.
Inoltre, al di là di quello che comunemente si pensa, la volgarità non è così frequente in questa serie animata e anche per quanto concerne il turpiloquio, solamente in alcune (pochissime) puntate c’è qualche parola che va oltre le righe.
Nei Simpson c’è una satira molto stratificata: si va dalla semplice scenetta con “botta e risposta”, alle parodie di altre serie tv o programmi (alcune a dire il vero per noi incomprensibili, in quanto riferite al palinsesto statunitense), ci sono le allusioni alla cultura alta come a quella popolare e poi doppi sensi, umorismo autoreferenziale, battute che più che ridere fanno sorridere e pensare…
 tutte comicità che accendono la mente degli spettatori e che riescono a sintonizzarsi molto bene col linguaggio dei giovani (anch’esso oggi fatto di riferimenti, battute, allusioni…).
E poi spesso una battuta resta molto più impressa nella mente di qualsiasi discorso “serio”: se si ride si sta bene e si sta bene e più facile ascoltare, dialogare, aprirsi.
  Allora simpsonizziamoci e parliamo di fede In realtà l’idea di utilizzare questo cartone animato come strumento per parlare di Dio non è nuova: su internet –e non solo– se ne sta discutendo già da diverso tempo e vi sono accreditati sostenitori della tesi che dietro i Simpson ci sia una vera e propria teologia, ossia un modo di condurre l’argomento “Dio e gli uomini” con una serie di tecniche e linguaggi propri del pubblico che li sta osservando.
Questo cartoon ha una valida struttura portante che merita di essere ripresa per qualche riflessione: a riprova di questo fatto abbiamo diversi testi usciti in questi ultimi anni nelle librerie, come “Da Bart a Barth: per una teologia all’altezza dei Simpson” di Brunetto Salvarani, ma anche “I Simpson e la filosofia”, traduzione di un testo pubblicato negli States.
                                          Qualche consiglio su come poter utilizzare questo strumento:     Guardiamoci innanzitutto la puntata (20 minuti) per conto nostro: non da subito con gli occhi dell’educatore che deve riproporla ai ragazzi; inizialmente godiamocela per quello che è…
poi ne trarremo le conclusioni e penseremo a come proporla, come giocarla per poi ricavarne eventualmente un’attività.
  Ci sono delle affinità di pensiero/comportamento tra alcuni dei personaggi della puntata e i nostri giovani?   Un’attività semplice e lineare è quella di proporre la puntata (o lo stralcio di puntata) e, al termine, avviare una discussione nel gruppo.
  Ma si potrebbe anche partire dal brano del Vangelo o da una “situazione tipo” e chiedersi come avrebbero commentato la scena i vari Simpson se si fossero trovati a passare di là.
(Un Homer come avrebbe reagito all’invito di Gesù di gettare le reti e seguirlo)? Questo naturalmente richiede una buona conoscenza della serie tv da parte dei ragazzi e degli animatori.
  Tutti i “d’oh!” che ci frullano in testa.
Pensiamo al nostro rapporto con Dio, al cammino di fede, alle incoerenze, alle cadute di un Pietro che rinnega il maestro dopo averlo tanto osannato…
Diamo ai ragazzi una serie di fumetti con la scritta “d’oh!” e chiediamo loro di scrivere sul retro situazioni di contraddizione che hanno sperimentato su sé stessi nel contesto della fede.
  Affrontiamo i temi e gli stati d’animo che emergono da un brano del Vangelo chiedendo ai ragazzi se trovano dei riscontri in una puntata del cartone animato.
            Bibliografia:   –          Irwin William H., Conard Mark T.
e Skoble Aeon J.
, “I Simpson e la filosofia”, Isbn Edizioni, 2005.
  –          Salvarani Brunetto, “Da Bart a Barth.
Per una teologia all’altezza dei Simpson”, Claudiana (collana “Nostro tempo”), 2008.
  –          Salvarani Brunetto, “Dio, Homer e la ciambella”, rivista Jesus, Anno XXX, num.
2, febbraio 2008.
  –          www.thesimpson.it       Qualche consiglio su come poter utilizzare questo strumento:   Guardiamoci innanzitutto la puntata (20 minuti) per conto nostro: non da subito con gli occhi dell’educatore che deve riproporla ai ragazzi; inizialmente godiamocela per quello che è…
poi ne trarremo le conclusioni e penseremo a come proporla, come giocarla per poi ricavarne eventualmente un’attività.
    Ci sono delle affinità di pensiero/comportamento tra alcuni dei personaggi della puntata e i nostri giovani?     Un’attività semplice e lineare è quella di proporre la puntata (o lo stralcio di puntata) e, al termine, avviare una discussione nel gruppo.
    Ma si potrebbe anche partire dal brano del Vangelo o da una “situazione tipo” e chiedersi come avrebbero commentato la scena i vari Simpson se si fossero trovati a passare di là.
(Un Homer come avrebbe reagito all’invito di Gesù di gettare le reti e seguirlo)? Questo naturalmente richiede una buona conoscenza della serie tv da parte dei ragazzi e degli animatori.
    Tutti i “d’oh!” che ci frullano in testa.
Pensiamo al nostro rapporto con Dio, al cammino di fede, alle incoerenze, alle cadute di un Pietro che rinnega il maestro dopo averlo tanto osannato…
Diamo ai ragazzi una serie di fumetti con la scritta “d’oh!” e chiediamo loro di scrivere sul retro situazioni di contraddizione che hanno sperimentato su sé stessi nel contesto della fede.
    Affrontiamo i temi e gli stati d’animo che emergono da un brano del Vangelo chiedendo ai ragazzi se trovano dei riscontri in una puntata del cartone animato.
      Allora simpsonizziamoci e parliamo di fede In realtà l’idea di utilizzare questo cartone animato come strumento per parlare di Dio non è nuova: su internet –e non solo– se ne sta discutendo già da diverso tempo e vi sono accreditati sostenitori della tesi che dietro i Simpson ci sia una vera e propria teologia, ossia un modo di condurre l’argomento “Dio e gli uomini” con una serie di tecniche e linguaggi propri del pubblico che li sta osservando.
Questo cartoon ha una valida struttura portante che merita di essere ripresa per qualche riflessione: a riprova di questo fatto abbiamo diversi testi usciti in questi ultimi anni nelle librerie, come “Da Bart a Barth: per una teologia all’altezza dei Simpson” di Brunetto Salvarani, ma anche “I Simpson e la filosofia”, traduzione di un testo pubblicato negli States.
    Bibliografia:   –          Irwin William H., Conard Mark T.
e Skoble Aeon J.
, “I Simpson e la filosofia”, Isbn Edizioni, 2005.
  –          Salvarani Brunetto, “Da Bart a Barth.
Per una teologia all’altezza dei Simpson”, Claudiana (collana “Nostro tempo”), 2008.
  –          Salvarani Brunetto, “Dio, Homer e la ciambella”, rivista Jesus, Anno XXX, num.
2, febbraio 2008.
  –          www.thesimpson.it

La vocazione nel suo «stato nascente»

1.
La vocazione La vocazione è un fatto di natura teandrica, cioè divino-umano.
Agisce Dio e agisce l’uomo singolo e anche la comunità.
L’agire di Dio coincide con l’iniziativa fondamentale, mentre l’agire dell’uomo coincide con la risposta del singolo e la verifica della comunità.
Quindi, è un fatto anche umano e umanizzante, una dinamica attuata dall’uomo ma capace di condurlo verso orizzonti di umanità decisamente irraggiungibili nella sua coscienza all’inizio del cammino.
La vocazione si verifica nel momento in cui conduce l’uomo o la donna alla loro più grande intimità, quando si prendono le decisioni della vita, ma allo stesso tempo porta alla più grande estroversione della loro storia, quando le decisioni si manifestano e si compiono.
Con la vocazione l’interiorità si apre all’Altro e a tutti gli altri in modo nuovo.
È una novità che potrebbe paragonarsi all’aurora nella vita umana.
Un chiarore, un bagliore, che poi diventa luce illuminante che consente di realizzare assolutamente tutti gli altri compiti della vita.
La vocazione, dunque, non è un fatto solo esterno all’uomo o solo divino.
Paolo VI aveva identificato bene la realtà della vocazione.
Nella Populorum Progressio egli scrisse: «Ogni vita è vocazione» (n.
2).
«La vocazione si identifica con la stessa realtà della persona: la persona semplicemente è una vocazione».
La vita di ogni uomo è una vocazione, è frutto di una chiamata.
E cogliere la vita come vocazione sarà il compito più grande dell’essere umano.
La vocazione quindi, manifesta il duplice carattere di trascendenza e di immanenza.
Dal punto di vista della trascendenza, la chiamata di Dio, la vocazione, viene dall’Alto e/o dall’esterno attraverso le persone e gli avvenimenti della propria vita, ma scaturisce contemporaneamente dal più profondo di noi stessi, e si manifesta come chiamata e sviluppo, come appello e risveglio.
Sentirsi «chiamati» significa provare un’attrattiva profonda verso particolari valori perché corrispondono ad aspirazioni profonde del proprio essere.
In fondo, la vocazione è stata seminata dentro di noi ed è promossa fuori di noi dal Signore che chiama.
La risposta è personale e irripetibile, sfumata in mille tonalità spirituali diverse, nonostante le numerose somiglianze.
Dal punto di vista dell’immanenza, la vocazione prende forma dentro la propria storia, nella scoperta delle ricchezze, dei limiti e delle potenzialità, nella lettura dei propri sentimenti, desideri, paure, sogni e delusioni, nelle aspettative e nostalgie che tutti ci portiamo dentro, nei distacchi che ci sono richiesti e negli incontri che ci viene donato di vivere.
Spesso, la vocazione, come una speciale forma d’innamoramento, sembra un fenomeno spontaneo, rapido, dovuto ad affinità esteriori, superficiali, secondarie… Mentre per arrivare alla verità completa dell’amore contenuta nell’interiorità, si parte dalle affinità esteriori.
L’amore vero poi poggia su affinità interiori profonde preannunciate e preparate da quelle più esterne.
2.
Lo «stato nascente» Il momento originante della vocazione è quasi magico.
Esso lascia nel cuore una traccia indelebile, un ricordo vivo, una luminosità travolgente, tutto cambia di senso, tutto si riorienta e tutto si ripropone alla luce di una voce soave e mite, ma forte e ferma che non tace, anzi, urla nell’intimo dell’essere umano.
La voce di colui che chiama è una voce d’amore, è un «chi-che-ama»; la vocazione allo stato nascente è la percezione di un amore grande che non lascia ombra di dubbio: Egli mi ha scelto, Egli mi chiama, Egli mi invia, Egli sarà con me! Quando ci sentiamo chiamati, sentiamo di entrare serenamente e saldamente in un oceano d’amore, o come dicono gli inglesi di «fall in love» (cadere nell’amore) o anche di essere rapiti, sedotti, di essere letteralmente «innamorati» in un atto d’amore infinito e puro.
Sentire quell’amore e sentirsi molto piccoli è la stessa cosa… Tutte le vocazioni, sia quella laicale matrimoniale, sia quella sacerdotale ministeriale, sia quella consacrata, hanno alla base una forte carica emotiva e spirituale.
La fenomenologia di questo momento iniziale cambia secondo le varie età psicologiche e cronologiche.
Comunque, quando la vocazione visita un cuore giovanile capace di dire di sì con tutto se stesso, lo stato nascente diventa travolgente e simile al sorgere dell’amore.
Infatti, ognuno di noi è sessuato (da «sexus», che in latino significa tagliato in due, sdoppiato) cioè bisognoso di completamento.
Ognuno di noi scopre gradualmente il senso della propria incompletezza e asimmetria.
Ciò che si manifesta a livello sessuale, si estende anche a livello dell’interiorità dell’amore.
La vocazione all’amore umano o all’amore di Dio costituisce l’irruzione del ricongiungimento dell’unità nella nostra radicale incompiutezza.
La vocazione fa sorgere l’amore, sia per unirsi a un altro essere umano, sia per unirsi all’amore infinito di Dio, e con ciò riporta nel proprio cuore la simmetria interna mancante nella natura umana.
La vocazione nel suo stato nascente, l’innamoramento vocazionale, quindi, è rottura di un equilibrio e di un modo di essere e suppone un esodo da sé verso l’A-altro (con maiuscole e minuscole), verso la comunione.
È un momento di uscita da sé e di entrata nell’A-altro, di apparente perdita di noi stessi e di acquisizione della ricchezza e bellezza dell’A-altro.
L’innamoramento fa uscire l’io dal guscio, lo decentra, aprendolo alla relazione interpersonale, lo libera dalla propria autosufficienza, lo costituisce come «essere in rapporto» con il «T-tu» (con maiuscole e minuscole) che lo trascende e lo attira nel suo mistero.
La vocazione, il momento dell’innamoramento, ci impone di migrare, di «lasciare la propria casa», le proprie sicurezze e le ceneri della solitudine e dell’egoismo.
Nella solitudine l’uomo avverte la sua insufficienza per essere felice «da solo», e percepisce che non saranno tanto le cose o gli avvenimenti a dare un volto nuovo alla sua vita, bensì l’incontro con una persona, con l’«A-altro» che è la fonte della propria gioia.
La vocazione è una chiamata che fa sorgere la vita in una forma mai provata prima.
Con la vocazione la tua vita è in mano a qualcun A-altro a cui senti di appartenere in modo preferenziale ed emozionante.
Cadono le barriere dell’estraneità di Dio o della persona amata.
Essi diventano familiari, vicini «di casa»; è un’esperienza di improvvisa intimità col M-mistero (con maiuscole e minuscole), S-suo e mio.
L’inizio della vocazione si concentra in un momento particolare, in un’ora («le quattro del pomeriggio», Gv 1,39), in un luogo, in una circostanza, in un ambiente, con elementi che agiscono sul conscio, ma anche sull’inconscio, ma poi si identifica con tutta la vita.
Lo stato nascente della vocazione è un momento in cui la ragione lascia partire il cuore… un momento in cui il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende (Pascal), e l’A-amore diventa ideale, diventa polo e calamita che attira, che trasforma e illumina tutta la realtà.
Alcuni dicono che il primo innamoramento non lascia vedere la verità – l’amore è cieco! –.
È vero che il primo innamoramento non è ancora la verità completa.
Essa è compito dello Spirito Santo.
Infatti l’innamoramento, soprattutto quello provocato dalla vocazione, ha qualcosa di religioso, di sacro.
Non per niente l’innamoramento era rappresentato da cupidi che lanciavano delle frecce al cuore degli uomini o delle donne.
L’amore è stato spesso collegato all’intervento divino nelle diverse culture (Cupido: latini; Eros: greci; Xochipilli: aztechi; Maris: etruschi).
La conclusione della fede cristiana, che ha sperimentato l’amore di Cristo, è che «l’amore viene da Dio» perché «Diò è amore» (1Gv 4,7-8).
Nell’innamoramento vero, come nella vocazione, vi è un processo di destrutturazione-ristrutturazione (lo «stato nascente») per il quale la condizione precedente perde senso e si ricostruisce nella prospettiva dell’A-amato.
Si tratta di un processo simile alla conversione religiosa, di un cambiamento grande, forte, dinamico, che spinge a modificarsi, a formarsi, a farsi degni dell’amore provato e a dare maggiore verità all’amore dichiarato.
La scoperta della vocazione provoca una forte discontinuità con la vita passata e diventa il motore della conversione, del proprio migliorare per Lui e per la missione.
La vocazione – come l’innamoramento – ci rende migliori, più buoni, più bravi, più belli.
Si tratta di un passaggio, di un cambiamento di stato.
Con la vocazione ci rendiamo conto che la nostra vita precedente era sbagliata e incompleta, che il mondo è differente da come lo vedevamo e che è necessario cambiarlo con lo sguardo e la Volontà di Dio.
Questo si percepisce nelle storie vocazionali dei profeti, dei discepoli biblici, dei santi… Nel momento della loro vocazione essi si sono resi conto che dovevano cambiare perché ciò che facevano e ricercavano nella vita era privo di senso, che il mondo doveva essere mutato e che il Signore lo voleva.
Lo stato nascente della vocazione conduce la persona ad abbandonare ciò che è noto e sicuro e a gettarsi in ciò che è ignoto, ma che la riempie di tantissimo entusiasmo e novità al punto da darle la certezza degli innamorati: «è roba da pazzi, ma io lo voglio!» La vocazione non è un ragionamento, lo include; è un fatto emotivo e intuitivo, ma non per questo folle o assurdo.
La vocazione ha un po’ il sapore della Pasqua, è un’esperienza di morte e di rinascita che genera un nuovo tipo di azione sociale, una nuova solidarietà, perciò normalmente la vocazione spinge la persona verso il prossimo, verso il bisognoso, verso colui che non ha avuto la tua fortuna, verso colui che non conosce Colui che tu conosci… I chiamati nello stato nascente cambiano, si modificano, migliorano; peccato che non sempre l’innamoramento e/o il primo colpo vocazionale perdurino con questa forma trasformante e rimanga la tendenza a non crescere, a rinunciare alla perfezione di sé, a sedersi nel cammino.
Se non si cresce nell’amore, il sorgere di altri amori o il divorzio sono una conseguenza triste, ma più che logica.
Sarà la coscienza rinnovata giorno dopo giorno, quella che renderà dinamico e crescente l’amore.
La cultura «moderna», edonistica e soggettivistica, che pretende di ridurre l’uomo a un fascio di bisogni da soddisfare, sembra aver abolito, di fatto, l’amore e la vocazione come cammino di crescita e di responsabilità.
Si pensa che la vocazione dell’uomo sia quella di star bene, ma la vocazione non ha come fine principale quello di «stare bene», poiché questo snatura la gradualità di un necessario processo formativo verso l’amore responsabile.
La vocazione ha come fine il bene dell’altro che diventa anche il mio bene, in forma superabbondante… è il 100 x 1 per cui poi «si trova più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20,35).
Per la consultazione dell’intero contributo La vocazione nel suo «stato nascente»Mario Oscar Llanos Da Orientamenti pedagogici n.ro 1 del 2009.
La vocazione è l’esperienza più intima e sconvolgente del vissuto di qualsiasi uomo o donna di questo mondo.
Le età e le circostanze in cui la si sente variano da persona a persona, ma viene sperimentata come un «dono», come una «luce», come una «voce interiore», come un «brivido» che trasforma lo spirito, l’anima e il corpo.
La vocazione viene generalmente accompagnata dalla sensazione dello scarto tra ciò che ci viene proposto e ciò che noi siamo.
Si tratta di un dono asimmetrico nei confronti della nostra capacità di risposta, ma simmetrico nella sua capacità di elevare il nostro cuore fino a renderlo capace di amare l’A-altro (con maiuscole e minuscole) in un modo assolutamente nuovo.
Alla scoperta devono seguire poi varie azioni affinché il dono percepito non cada nel nulla.