“Messa dei popoli”.

L’uomo di ogni tempo e di ogni cultura ha sempre celebrato, anche con il canto, i momenti importanti della sua vita e della storia per rinnovare una gioia, soffrire per un dolore, affermare una fede, ribadire l’appartenenza ad un gruppo.
Scalamusic si inserisce in questo contesto culturale e musicale, portando la sua esperienza e originalità.
Vuole essere uno strumento in più, semplice e diretto, per la promozione del carisma scalabriniano, per la diffusione di ideali e messaggi di accoglienza e rispetto della dignità del migrante.
È per questo che Scalamusic, dopo le produzioni precedenti (Per terre lontane e Come in Cielo – 2005; Friendly Voice – 2007), ha realizzato una serie di canti liturgici multilingue.
La “Messa dei Popoli” (edita dalle Edizioni Paoline) è un’opera rivolta alle Parrocchie, sempre più ricche di immigrati cattolici che frequentano le celebrazioni, ai gruppi, ai movimenti, e a quanti sono impegnati in questa grande realtà di evangelizzazione.
Un contributo alle celebrazioni delle varie comunità etniche (anglofone, francofone e di lingua spagnola) presenti ormai da tempo in tante città e diocesi.
Tredici canti in cinque lingue, per animare i vari momenti della Celebrazione eucaristica.
Curati nella melodia e nel testo, sono stati composti pensando alle esigenze di ogni coro o comunità.
Può essere utilizzata per animare incontri come le Feste dei Popoli, particolari iniziative di festa e di preghiera, già tradizione di molte diocesi, volte a promuovere il valore dell’accoglienza, dell’unità della famiglia umana e della Chiesa; Giornate Mondiali delle Migrazioni; Giornate Missionarie e incontri di preghiera, frequentemente internazionali in queste occasioni.
Gli autori, missionari e giovani laici scalabriniani, sono: Fabio Baggio, Francesco Buttazzo, Gabriele Beltrami, Daniele Scarpa, Antonio Grasso, Enrico Selleri, Emma Maria Mannocchi.
Gli Autori e lo Staff di Scalamusic La “MESSA deiPOPOLI” una nuova proposta musicale da SCALAMUSIC Nata per sensibilizzare con la musica e lo spettacolo la società (in modo particolare il mondo giovanile) sulle questioni legate al fenomeno migratorio ed alle dinamiche interculturali contemporanee, l’Associazione Scalamusic presenta il suo ultimo cd: la “Messa dei Popoli”, una raccolta di canti per esprimere l’identità universale e missionaria della Chiesa.

“Educare per la famiglia”

Dal 15 al 17 maggio 2009, l’Istituto Superiore di Scienze Religiose all’Apollinare della Pontificia Università della Santa Croce organizza le Giornate di studio e di aggiornamento “Educare per la famiglia”.
L’iniziativa nasce dalla consapevolezza che “il rapporto educativo è un aiuto indispensabile per la maturazione della persona, in quanto mira allo sviluppo delle qualità che consentono di stabilire relazioni valide e di crescere come membri della famiglia umana”.
Per cui, “educare a saper costruire dei legami positivi per sé e per gli altri” risulta “di vitale importanza per la persona e per l’intera società”.
Come confermano gli organizzatori, l’obiettivo è di “innescare un circolo virtuoso che riporti la famiglia al centro del processo educativo, non solo perché è l’ambito naturale della crescita di ogni persona, ma anche perché costituisce il vero fine al quale il processo educativo stesso deve tendere”.
Saranno tre gli ambiti tematici attorno ai quali ruoterà lo svolgimento dei lavori: – “La famiglia, principale agenzia educativa”, con le relazioni del Prof.
Folco Cimagalli (Lumsa) su “Famiglia e famiglie: com’è cambiato il rapporto tra le generazioni” e della Prof.ssa Alessandra La Marca (Università degli Studi di Palermo) su “Sviluppare le qualità umane in famiglia”); – “Chi collabora con la famiglia? Chiesa, scuola, media”, con gli interventi del Dott.
Luca Pasquale  (Ufficio di pastorale familiare della Diocesi di Roma) su “La famiglia, cellula viva della Chiesa”; del Dott.
Sergio Cicatelli (dirigente scolastico a Roma) su “Famiglia e scuola: il recupero di un’alleanza” e del Prof.
Alessandro D’Avenia (docente e sceneggiatore) su “I mass media, agenzia educativa” a cui seguirà la proiezione di filmati, commenti e dibattito; – “L’anello mancante: l’educazione affettiva”, con la relazione della Prof.ssa Paola Binetti (Campus Bio-Medico di Roma) su “La maturazione affettiva: nuovi modelli e nuovi ritmi” e della Dott.ssa Rita Zecchel, che presenterà il progetto “Proteggi il tuo cuore”.
Le iscrizioni al Convegno sono aperte fino al 30 aprile 2009 e vanno comunicate alla segreteria dell’Istituto (ISSRA, Piazza Sant’Apollinare, 49 – 00186 Roma – Tel: 06.68164330 – issrapoll@pusc.it).
È possibile scaricare la brochure informativa direttamente dal sito www.issra.it.
Per ulteriori informazioni: Segreteria organizzativa: issrapoll@pusc.it, +39 0668164330 Rapporti con la stampa: Giovanni Tridente, tridente@pusc.it, +39 0668164399 —

Istituti professionali

Il modello elaborato dalla commissione De Toni, confermata dal ministro Gelmini, si fondava su una netta distinzione di identità e ruolo tra gli istituti tecnici – tutti confermati nei loro indirizzi fondamentali – e quelli professionali, drasticamente sfrondati nel numero (sei in tutto) e soprattutto relegati a compiti di tipo marcatamente operativo, quasi “serventi” nei confronti dei compiti riservati ai diplomati degli istituti tecnici nelle macroaree professionali individuate.
La nuova bozza di regolamento conferma in pieno questa impostazione, che prevede una forte flessibilità dei piani di studio degli IP (dal 25% del primo biennio al 40% del quinto anno), in funzione delle caratteristiche del territorio, e definisce in termini spesso generici – probabilmente per la stessa ragione – il contenuto dei vari laboratori e tecnologie.
In questo modo la futura IP si troverà a svolgere essenzialmente un “ruolo integrativo e complementare rispetto al sistema di istruzione e formazione professionale”, come si afferma nella bozza, e potrà rilasciare qualifiche (al terzo anno) e diplomi (al quarto) in regime di sussidiarietà, “sulla base di specifici accordi stipulati dal MIUR e le singole Regioni”.
In questa prospettiva si colloca l’accordo stipulato con la Lombardia, con la sottoscrizione di una formale Intesa, operativa già dal 2009-2010.
Se il modello lombardo, per ora sperimentale, si consoliderà e si estenderà, nascerà in Italia sull’anomalo asse Prodi-Berlusconi (Fioroni-Gelmini), che ha scolarizzato e centralizzato l’istruzione professionale, il sistema di istruzione e formazione di competenza esclusiva delle Regioni, alternativo ai licei, che la Moratti aveva teorizzato, ma non realizzato.
——————————————————————————– TuttoscuolaFOCUS domenica 26 aprile 2009 Dopo una prima versione di cui si era avuta notizia alla fine dell’anno scorso, mai ufficializzata dal Ministero, torna ora a circolare una bozza di regolamento per gli Istituti professionali, anch’essa ufficiosa.
L’impostazione del regolamento è rimasta la stessa, e discende dal modello messo a punto dalla commissione De Toni, istituita a suo tempo dal governo Prodi nell’ambito delle procedure di attuazione della legge n.
40/2007 (Bersani), il cui art.
13 aveva provveduto a sopprimere i licei tecnologico ed economico della riforma Moratti e a ripristinare gli istituti tecnici e quelli professionali.

Firenze e il suo vescovo:

Ai primi di ottobre, poco prima di entrare in diocesi, disputò pubblicamente con la filosofa Roberta de Monticelli.
Questa aveva annunciato di abbandonare la Chiesa cattolica proprio per colpa di Betori: per aver egli condannato, “a nome della Chiesa italiana”, l’autodeterminazione nell’interrompere anticipatamente la vita.
Lo accusò di “diabolicamente” negare “la possibilità stessa di ogni morale: la coscienza e la sua libertà”.
Betori le rispose con un pacato editoriale sul quotidiano della CEI, “Avvenire”, dal titolo: “Chiedo anch’io la libertà di coscienza.
Altra cosa dall’autodeterminazione”.
Poco dopo l’ingresso in diocesi il 26 ottobre, corse a visitare i piccoli malati dell’ospedale pediatrico “Enrico Meyer” di Firenze, proprio mentre nello stesso ospedale si teneva un congresso sul tema: “Il neonato è persona?”, con relatore il neonatologo olandese Eduard Verhagen, promotore di “cure di fine vita” per gli infanti.
L’arcivescovo criticò l’orientamento del congresso, lo definì “inquietante”.
In novembre, la sera del 20, partecipò a una veglia di preghiera per Eluana Englaro, la giovane donna in stato vegetativo che la magistratura italiana aveva autorizzato a far morire, interrompendo l’alimentazione e l’idratazione come richiesto dal padre: un caso molto simile a quello di Terri Schiavo negli Stati Uniti.
Betori pronunciò nell’occasione una riflessione in forte difesa del mantenimento in vita di Eluana.
E questo fu il suo primo atto pubblico solenne su una questione anche politica, da nuovo arcivescovo della città.
L’8 dicembre, festa dell’Immacolata, predicando in piazza del Duomo disse: “Siamo turbati nel vedere come da più parti e in varie forme sia posta in questione l’intangibile dignità della persona umana, soprattutto dove essa vive nella fragilità, al sorgere e al naturale compiersi della vita”.
Il 23 gennaio, al consiglio pastorale diocesano, indicò tra gli obiettivi della Chiesa fiorentina quello di riconquistare “la visibilità della vita credente quotidiana” e quello di sanare la frattura consumatasi nei decenni passati tra la fede e la cultura.
Intanto, ad Eluana Englaro era stata tolta la vita.
La donna non era di Firenze.
Ma pochi giorni dopo, il 9 marzo, il consiglio comunale di questa città, su proposta di un consigliere socialista, deliberò di dare a Giuseppe Englaro, il padre di Eluana che ne aveva voluto la morte, la cittadinanza onoraria: “quale simbolo di eccellente insegnamento di grande integrità morale, di coraggio umano e civile, in difesa della legalità della laicità dello stato, dell’umanità, della civiltà”.
La delibera passò di stretta misura, con numerosi voti contrari.
Meno di un’ora dopo arrivò la replica dell’arcidiocesi, con una nota ufficiale risolutamente critica: “Il gesto compiuto è offensivo nei confronti di quella non trascurabile parte della città che nel corso della vicenda di Eluana ha manifestato orientamenti ben diversi da quelli di cui erano portatori il signor Giuseppe Englaro e il gruppo che lo ha sostenuto.
Ma l’offesa più grande è stata fatta verso i genitori, fratelli, amici e volontari che si stringono attorno ai loro oltre 2500 cari che in Italia vivono in situazioni similari a quelle da cui è stata strappata a forza Eluana, persone che chiedono invece di essere sostenute nella loro dedizione, nella loro fatica e nella loro speranza”.
Ne nacque una discussione pubblica molto animata.
Il presidente del consiglio comunale, Eros Cruccolini, scrisse una lettera alla diocesi in difesa della giustezza della delibera.
Betori rispose confermando “che proprio l’amore per questa città esige che un vescovo, in coscienza, debba esprimere, se necessario come nel caso presente, un dissenso” .
Un ulteriore botta e risposta scritto si ebbe prima della cerimonia di conferimento a Giuseppe Englaro della cittadinanza onoraria.
L’arcivescovo, invitato ad assistere alla cerimonia, rifiutò.
La disputa è tuttora viva e si intreccia, su scala nazionale, alla discussione che accompagna l’elaborazione nel parlamento italiano di una legge sul fine vita, accelerata proprio dalla sentenza della magistratura su Eluana Englaro.
Ma a Firenze il fatto nuovo è proprio il ruolo svolto dal vescovo, che non ha precedenti negli ultimi decenni.
La novità è doppia.
Anzitutto per l’impegno diretto, anche nel campo politico, del vescovo nella città.
E poi per l’oggetto di questo suo impegno pubblico, che riguarda la difesa della vita umana in quanto tale: un tema sul quale una parte dei vescovi, del clero e del laicato cattolico è molto restio a porsi in conflitto con lo “spirito del tempo”.
Questa duplice novità esige di essere analizzata e interpretata, anche per la sua forza esemplare.
È quanto fa qui di seguito il professor Pietro De Marco, fiorentino ed esperto riconosciuto del cattolicesimo della sua città:  Sul vescovo come difensore della città, nelle moderne invasioni dei barbari di Pietro De Marco 1.
La attuale congiuntura della Chiesa fiorentina, retta dall’arcivescovo Giuseppe Betori, credo abbia una sua esemplarità che può avere ripercussioni internazionali.
Ciò che avviene a Firenze è il recupero di un ruolo antico: quello del vescovo come “defensor civitatis”, difensore della città, e “consul Dei”, console di Dio, appellativo, quest’ultimo, che fu dato a papa Gregorio Magno.
Naturalmente qualcosa di questo ruolo episcopale emerge a tratti nelle guerre o nelle rivoluzioni.
Anche il cardinale Clemens August von Galen venne definito, per la sua testimonianza nella Germania hitleriana, “defensor civitatis” e “consul Dei”, come gli antichi Padri della Chiesa “tra le orde dei barbari”.
Oppure emerge in situazioni di grave conflitto sociale, come accadde col vescovo Oscar Romero in America Latina.
Ma il caso di Firenze è interessante anche perché avviene fuori dall’eccezionalità di un’azione eroica, o da uno stile “engagé”, tanto celebrato nelle culture liberazioniste quanto raramente originale, e spesso con effetti dottrinali e pastorali negativi.
Al centro del caso di Firenze vi sono questioni antropologiche, bioetiche e biopolitiche che hanno poco da spartire con i consueti terreni di disputa politica ed economica.
Sulle questioni della vita, la Chiesa è nella sua piena originalità e solitudine; è soggetto insostituibile.
In questo senso il caso fiorentino ha portata esemplare.
Che potrebbe sollecitare o confermare dei fermenti nella stessa direzione, in altri episcopati.
2.
I media laici hanno adottato la metafora calcistica dell’intervento “a gamba tesa” per indicare la forma e la sostanza del comunicato dell’arcidiocesi di Firenze del 9 marzo scorso, critico sulla concessione, da parte della municipalità, della cittadinanza onoraria a Giuseppe Englaro, padre di Eluana, la giovane donna in stato vegetativo fatta morire di fame e di sete poche settimane prima, per sentenza della magistratura.
Questo atto critico pubblico è coerente con uno stile di governo della Chiesa fiorentina che si sta delineando di settimana in settimana.
Nel comunicato arcivescovile si affermava: “La pretesa di un gruppo di consiglieri di fare una scelta a nome di tutta una città è un atto di disprezzo verso la minoranza dei rappresentanti del popolo e verso una presunta minoranza di cittadini, inferendo una profonda lacerazione nella convivenza”.
E ancora: si è inteso “mostrare con un ultimo atto di arroganza [da parte di un consiglio comunale a fine mandato – ndr] la disponibilità di un potere esercitato come arbitrio, a spregio di chi ha altre opinioni e ritiene la vita un bene indisponibile perché sacro”.
Alcuni hanno equiparato il comunicato della curia arcivescovile addirittura a un proclama intimidatorio, a un “diktat” al quale il consiglio comunale della città avrebbe dovuto inchinarsi.
Espressioni come “proclama” e “diktat” non sono nuove.
Sono state rivolte da commentatori autorevoli anche contro il presidente della conferenza episcopale italiana, cardinale Angelo Bagnasco, intervenuto anche lui sul caso di Eluana negli stessi giorni.
Il meccanismo e il vocabolario di contrapposizione alla Chiesa cattolica sono in Italia ormai standardizzati e automatici.
Viene quindi da domandarsi perché anche chi, più moderatamente, ha usato la metafora sportiva della “gamba tesa”, abbia comunque evocato un comportamento che impone all’arbitro di fischiare fallo.
La risposta investe la storia civile e religiosa italiana dell’ultimo mezzo secolo.
Vi sono diverse cause alle radici della percezione e censura di un comportamento falloso, o “uncorrect”, in ogni intervento pubblico della gerarchia cattolica.
Da decenni il popolo cattolico italiano si è assuefatto al silenzio del suo clero e dei suoi vescovi, in sede pubblica.
Anzi, si è assuefatto a qualcosa di più: a che i vescovi parlino in pubblico, eventualmente, solo per sottoscrivere valori e retoriche civili prevalenti, quasi a certificare il proprio consenso, la propria conformità ad essi.
Infatti, non sono mancate voci di denuncia da parte di vescovi dei “mali” del paese, ma principalmente rivolte a temi civili sui quali la Chiesa si allineava, spesso con qualche ritardo, alle forze politiche e morali “critiche”.
Sui temi però di diretta deduzione dall’antropologia cristiana, prevale il silenzio.
I vescovi hanno a lungo delegato il “discernimento critico” su questi temi, e la sua proposizione pubblica, al magistero ordinario degli ultimi pontefici e alle pronunce della CEI.
Così, senza rendersene conto, i vescovi lasciano alla società civile – e specialmente alle culture politiche di opposizione e denuncia – il compito di conferire la legittimazione “politica” all’autorità episcopale.
Anche se non sono mancate eccezioni, questa “correttezza politica” è stata a lungo osservata, col visibile gradimento di amministratori e forze politiche.
Da una pratica del genere sono derivate delle tacite regole del gioco.
L’opinione pubblica le ha variamente assimilate, e questo o quell’arbitro ritiene di poter dare fiato al fischietto non appena un vescovo sembri “scorretto”.
Ma vi è di più.
Un’opinione pubblica qualificata, anche cattolica, ha confuso questa “correctness” ecclesiastica nella sfera pubblica con un ideale equilibrio tra autorità politiche e spirituali.
Realizzando così nei fatti e nel costume una impropria “privatizzazione” della peculiare e irrinunciabile natura pubblica della Chiesa.
La moderna dottrina della “laïcité” condiziona la neutralità dello Stato al carattere privatistico della Chiesa e alla sua non ingerenza, alla sua innocuità politica, delle quali lo Stato sarebbe giudice.
Ma la Chiesa cattolica non è così per essenza, né è riducibile a questo.
Non lo è stata quando ha innervato di sé l’Europa e l’Occidente, non lo è diventata dopo Lutero o dopo Locke, né con la Rivoluzione francese o sotto la minaccia delle religioni politiche e delle rivoluzioni totali del Novecento.
Questa presenza magisteriale e civilizzante della Chiesa cattolica, la necessità che essa compaia come tale nella sfera pubblica, non sono mai spariti del tutto, anzi, sono da diversi anni di nuovo presenti e visibili sulla scena mondiale.
I sociologi individuano questo fenomeno come uno dei più sintomatici dell’età “postsecolare”.
Il pontificato di Giovanni Paolo II e, in Italia, l’innovativo governo della conferenza episcopale esercitato dal cardinale Camillo Ruini hanno messo questa rinnovata presenza pubblica della Chiesa sotto i nostri occhi.
Ma sia l’assuefazione di parti della società civile, sia la neutralizzazione della visibilità e autorità della Chiesa tentata dalle culture secolariste convergono tuttora nel sentire la presenza magisteriale e civilizzante della gerarchia cattolica come eccezione, come trasgressione, persino come imposizione.
3.
Passiamo a Firenze e al suo vescovo.
Fin dai primi secoli del cristianesimo il vescovo è sia centro della vita liturgica, che è già in sé pubblica, sia – in coerenza col suo ministero che è “sovraintendere” – una peculiare autorità civile.
Ha scritto uno storico della tarda antichità, Bernard Flusin: “È impressionante la lista degli ambiti in cui il vescovo è chiamato a intervenire”.
Anche se non è un signore territoriale, il vescovo è un “defensor civitatis” con un ruolo di bilanciamento rispetto ai funzionari imperiali.
Attraverso i vescovi la chiesa porta a evidenza istituzionale nuova, rispetto agli ordinamenti precristiani, le funzioni di assistenza e di governo: i vescovi organizzano il culto, ammaestrano, sovvengono ai poveri, influenzano lo spazio urbano.
Il vescovo, nel quadro della sua città, è detentore di poteri definiti giuridicamente, che lo pongono a capo della comunità cittadina di fronte al potere civile.
Confermano altri storici, tra cui Luce Pietri: “I suoi titoli lo dichiarano garante della giustizia e protettore dei deboli, spesso in contrasto con la giurisdizione” civile.
È ministro dell’assistenza.
Questi tratti di lungo periodo sono stati poi aggiornati e armonizzati agli ordinamenti dello stato moderno e delle democrazie pluralistiche, ma non estinti.
Restano costitutivi.
E ciò è così vero e così evidente alla coscienza pubblica e al calcolo dei governanti, che quando i compiti del vescovo verso la “polis” si esprimono in attività sociali di “supplenza” sono graditi, ricercati, elogiati.
Quando invece la sollecitudine del vescovo – che in se stessa non è per il welfare ma risponde all’assoluto comando evangelico ed è in ultimo ordinata alla salvezza delle anime anche quando sovviene ai corpi – si rivolge ad altre e decisive tutele del benessere spirituale e morale dei cittadini, e lo fa secondo autorità, a voce alta, essa è fischiata come “fallosa”.
Eppure non sono che momenti distinti dello stesso mandato e dello stesso ufficio.
Il comunicato dell’arcidiocesi è, nella sostanza, la prima lettera del vescovo Giuseppe Betori alla città e sulla città.
È un atto di sollecitudine del pastore, che si fa “garante della giustizia e protettore dei deboli” sul terreno antropologico, anche in contrasto con i poteri pubblici.
Egli analizza la realtà e mette in guardia dai pericoli.
Il richiamo al “rispetto dei ruoli e delle reciproche autonomie”, che compare nella lettera inviata all’arcivescovo dal presidente del consiglio comunale di Firenze, mostra scarsa conoscenza di questo compito episcopale.
4.
Il dibattito pubblico che ne è venuto, inedito per Firenze come inedita, da mezzo secolo, è in questa città l’assunzione di responsabilità pubblica da parte di un vescovo in contrasto con i poteri civili, rappresenta un paradigma per un nuovo stile ecclesiale, almeno in Europa.
La svolta non ha mancato di sollevare alcune obiezioni.
Si è osservato che lo stile “ortodosso” di Betori non è in sintonia con Firenze, poiché “Firenze è atipica, non è città dell’ortodossia”.
Questa convinzione appartiene a una sorta di mito romantico e risorgimentale di una Firenze “eretica”, che ha avuto qualche fortuna anche nel Novecento.
Ma proprio la vicenda recente del cattolicesimo fiorentino, che molti conoscono anche al di fuori dell’Italia, non ha nulla a che fare con quel mito.
Giorgio La Pira, il sindaco di cui è in corso la causa di beatificazione, era un “piagnone” (parola con cui erano designati nel Quattrocento i seguaci del monaco rigorista Girolamo Savonarola) di forte ortodossia, obbedientissimo alla Chiesa e al papa.
Dopo la stagione lapiriana quel robusto filone cattolico si è dissolto nel silenzio pubblico, tra marginalità, nascondimento nicodemita e conformismo progressista.
Ma di nuovo, con Betori vescovo, non è più stagione di silenzi o sussurri, per la Chiesa.
Il presidente del consiglio comunale della città ha sostenuto che le decisioni a maggioranza di un organo elettivo, “espressione concreta della volontà della città”, non possono mai essere considerate “negative”.
Ma così ha confuso legalità con legittimità politica.
La lotta tra gruppi e correnti della maggioranza progressista che amministra Firenze ha prodotto una delibera di portata ideologica, militante, fatta per suggestionare con riti civili (il conferimento della cittadinanza onoraria al padre di Eluana Englaro) l’opinione pubblica e conquistarla a una irriflessa opzione verso l’eutanasia, quindi su frontiere etiche di estrema gravità.
Inoltre una ridotta maggioranza di consiglieri ha fatto uso di poteri e strumenti legali per schierarsi contro il governo nazionale e contro la Chiesa, proprio mentre a Roma il parlamento stava elaborando una legge sul “testamento biologico”.
Un atto politico che è difficile non giudicare – come ha fatto il vescovo – “pretestuoso, offensivo, distruttivo” per il governo della città, non meno che per l’etica pubblica.
Domani, quali altre decisioni potranno essere prese facendo leva simbolicamente sul “cittadino Englaro”, e con l’apporto di quanto resta del dissenso cattolico? Il vescovo di Firenze, sollecito perché si realizzi “iustitia” nel senso profondo della politica cristiana, ha reso consapevoli i cittadini di questa anomalia etico-politica.
Ha agito nonostante la pressione contraria di un’opinione pubblica anche ecclesiale: quella che si oppone alla Chiesa “delle condanne” in nome della “medicina della misericordia”.
Quest’ultima pressione è obiettivamente alleata con le polemiche laiche contro la “Chiesa del no”, ridicolmente additata come Chiesa della paura e della conservazione.
Anche la cosiddetta “opinione pubblica ecclesiale” mostra una assoluta sordità (spesso tradotta in pratica pastorale) alla battaglia bioetica della Chiesa e degli ultimi pontefici.
Sempre propensa a parlare di apertura alla speranza, questa opposizione intra-ecclesiale ignora che la speranza dell’uomo è affidata a coerenza antropologica, a responsabilità universalistica, non a un minimalismo di paradigmi rivolto a sovvenire pietosamente ai casi particolari.
Ignora che altra è, ecclesiologicamente, la responsabilità di un parroco, condizionata dall’immediato dei “mondi vitali” dei suoi fedeli, altra quella del papa e dei vescovi.
L’immediato dei mondi vitali non può divenire canone di fede.
5.
C’è poi anche un’altra obiezione: perché il recente risveglio delle gerarchie cattoliche si esercita solo o prevalentemente nel campo della bioetica e della biopolitica? Rispondo che non è importante argomentare qui, come pur sarebbe possibile, che non è così.
Credo in effetti che questa prevalenza debba esistere.
L’ambito bioetico e biopolitico è di tale crucialità che sarebbe piuttosto l’assenza di questi temi nella predicazione cristiana ordinaria ad apparire colpevole.
Vi sono ambienti, anche cattolici, dove i temi bioetici sembrano scottare le labbra e si preferisce deprecare che altrove se ne parli: deprecare cioè che ne parli la gerarchia, seguita da cerchie “fondamentalistiche”.
È invece colpevole il silenzio su questi temi, perché nessun cattolico è esonerato dall’intendere che la sfida delle biotecnologie non discende da soli bisogni terapeutici e non approda alla sola riduzione di una patologia o di una sofferenza.
Essa è sfida antropologica nel significato pieno della parola, ossia all’esistenza e al senso dell’uomo come creatura.
Quella che chiamiamo da qualche tempo antropologia teologica è stata per secoli una sezione del trattato “de Deo creante et elevante”.
Né può essere diversamente.
Senza fondamento nel Dio creatore, scienze e filosofie dell’uomo e del “bios” divengono saperi e pratiche di un videogame giocato sull’uomo reale.
Le implicazioni della sfida, il frequente cinismo nichilistico alla Peter Singer, il fantasticare sul post-umano sono oggi così ricorrenti ed espliciti che solo una “differenza cristiana” incantata dall’innocenza del mondo può non prenderne atto.
Questa frontiera è, invece, di assoluta priorità per la responsabilità cristiana.
Se l’uomo non è pensato come creatura non vi può essere sensato ragionamento sui suoi atti.
La teoria che calcola il “migliore interesse” dell’essere umano, prima o dopo la nascita, portatore di handicap o malato grave, è esemplare, più ancora che per la sua inumanità, per la sua vacuità teoretica.
Quale sarebbe il miglior interesse per un essere non integro, non sano? Non essere più.
Che meravigliosa integrità e felicità restituiremmo al feto, all’infante, al malato, all’anziano, sopprimendolo! La irragionata convinzione secondo cui il migliore interesse di un essere ne chiederebbe e giustificherebbe la soppressione è, da sola, la straordinaria spia di una deriva suicidaria.
Benedetto XVI l’ha messo in luce.
6.
A tutto questo il vescovo cattolico, per primo, ha il compito di dire autorevolmente “no”, “mi oppongo” (come nel “Racconto dell’Anticristo” di Solov’ev), non sorpreso dal trovarsi magari solo nella sollecitudine ultima per l’uomo: perché sola e universale nella comunità degli uomini è la Chiesa, com’è suo mandato e sua certezza, dall’origine.
Un “no” detto senza pathos apocalittico.
Con argomenti e con analisi, discernendo le tecniche e le metodiche.
Con la sapienza di chi ha costruito e garantito la ragione dell’Occidente.
Perciò, nella risposta cattolica all’emergenza bioetica non vi è alcuna “sacralizzazione del biologico”, come qualche critico sostiene.
Ogni vita di cui l’intelletto e l’amore cattolico si occupano è sempre l’intero umano, che è molto più del vivente che appare al biologo o al clinico in quanto tali.
Né vi è alcunché da sacralizzare, perché quell’intero è già “sacro”.
Sono evidenze difficilmente controvertibili.
Eppure resta, preoccupante, la diffusa incapacità, per non dire la resistenza cattolica a capire e a motivare il primato radicale, oggi, dell’annuncio antropologico.
Sembra reciso il filo con la grande tradizione apologetica.
La confusa cedevolezza di tanta cultura cattolica alle campagne mediatiche contro la “Chiesa del no” non attesta alcun proficuo “dialogo col mondo”, piuttosto una situazione di dipendenza intellettuale e politica.
Ma dei vescovi combattenti potranno portarci fuori dall’Egitto.
__________ Firenze è una città faro per il mondo intero.
Lo è come capitale dell’arte.
Ma lo è anche come laboratorio di forti esperienze cristiane, personali e di gruppo.
Lo è stato sicuramente per una gran parte del Novecento.
Il nuovo esempio che oggi Firenze offre al mondo cattolico, non solo italiano, ha a che fare con il ruolo del suo arcivescovo.
Il suo nome è Giuseppe Betori.
Ha 62 anni, è originario dell’Umbria e ha fatto studi da biblista.
È arcivescovo di Firenze dall’8 settembre del 2008.
In precedenza era stato segretario generale della conferenza episcopale italiana, braccio destro del cardinale presidente Camillo Ruini e poi del suo successore, il cardinale Angelo Bagnasco.
L’estate scorsa, quando la sua nomina era nell’aria ma non ancora ufficialmente decisa, un buon numero di sacerdoti e di laici fiorentini firmarono una lettera aperta per chiedere che il nuovo vescovo fosse uomo di “pazienza” e di “perdono”, lasciasse cadere “i toni amari e di condanna”, instaurasse tra la Chiesa e la società civile “un clima di libertà e di rispetto reciproco”.
Era facile indovinare che questo profilo di vescovo non corrispondeva a quello polemicamente attribuito a Betori dai firmatari della lettera.
In ogni caso Benedetto XVI mandò lui a Firenze.
Nella sua prima intervista al giornale della diocesi, Betori annunciò che avrebbe operato per “una fede capace di fare cultura”.
E aggiunse: “Nulla di ciò che è umano è alieno alla Chiesa e quindi ci sarà una parola della Chiesa su tutta la realtà cittadina.
L’umano può e deve essere illuminato dal Vangelo”.
I due precedenti servizi di www.chiesa sulla particolarità del cattolicesimo fiorentino, entrambi con commenti del professor Pietro De Marco: > Firenze contro Roma: un cattolicesimo in stato di disagio (25.6.2007) > A Firenze i cattolici riscrivono la loro storia (26.6.2008) Il prossimo 16 maggio, i cattolici che in Italia si dicono “in sofferenza” per una Chiesa che antepone la condanna alla misericordia si sono dati nuovamente appuntamento a Firenze.
Questo è il loro invito all’incontro, con le firme dei proponenti tra cui Alberto Melloni, Giuseppe Ruggieri, Luigi Pedrazzi, Angelina Alberigo, Enrico Peyretti, Pier Giorgio Camaiani, Giovanni Nicolini, Massimo Toschi: > Il Vangelo che abbiamo ricevuto E questo è un commento critico del professor De Marco: > In attesa dell’incontro fiorentino sulla “sofferenza” dell’Evangelo nella Chiesa __________

Giobbe interroga il Creatore

Questo secondo contributo orienta la riflessione sulla figura di Giobbe.
– Il male, il dolore incombono sulla vita dell’uomo, magari innocente: – La fede nel Dio creatore può darvi un senso? Quale?                      Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
            – Quale l’atteggiamento del laico credente nel momento della prova?     Dalla potenza ordinatrice del cosmo alla signoria sull’esistenza: Giobbe   La fede di Israele sa che JHVH ha creato i cieli.
Man mano assume anche chiara coscienza che ha creato pure lo stesso Israele.
E di conseguenza,sia pure piuttosto tardi, la creazione si pone a garanzia della signoria di JHVH sulla storia.
I libri sapienziali ne danno luminosa conferma.
Il libro di Giobbe è importante perché misura la signoria di Dio nei confronti dell’aspetto più conturbante della creazione: il dolore e il male ch possono incombere sull’esistenza, magari innocente.
Di fatto nel caso di Giobbe la riflessione si fa sofferta e drammatica: non sono più i limiti e le resistenze del cosmo che fanno problema ma il dolore, il male che attanaglia l’esistenza e non sembra avere spiegazione.
La figura di Giobbe porta all’esasperazione l’interrogativo; rende conturbante la domanda su Dio stesso: quale signoria sulla creazione, quale garanzia di giustizia nel pesare la vita e l’agire dell’uomo davvero gli compete? La ribellione veemente e la vibrante requisitoria  dell’uomo Giobbe sembrano scalzare questa serena visione di uno sviluppo sicuro  che accompagna la vita nel suo imporsi sull’avversione tenace del caos.
Perciò l’intervento stesso di Dio parte proprio dall’appassionata difesa del suo mondo, in cui la vita incede trionfante a dispetto di tutte le resistenze e i limiti che ancora le si oppongono.
‘Dov’eri tu quand’io ponevo le fondamenta della terra? Dillo se ha i tanta intelligenza… chi ha posto la sua pietra angolare, mentre giocavano in coro le stelle del mattino e plaudivano tutti i figli di Dio?’ (Giobbe, 38, 4,6b,7) In fondo, Dio non risponde a Giobbe; lo inchioda sulla contemplazione di un universo magnifico e misterioso, di cui Lui solo conosce il segreto, perché l’ha fondato e lo governa.
Il riferimento alla creazione, la celebrazione della sua insondata grandezza, del suo irruente dinamismo; della sovrana autorità con cui Dio la muove inducono Giobbe a riconoscere una sapienza che aveva osato contestare.
Giobbe al pari dei suoi amici guardano il mondo in una fissità e organizzazione definite.
Dio spalanca loro la visione di una vitalità dinamica comandata da un principio irresistibile che va man mano integrando e organizzando gli aspetti difficilmente conciliabili e apparentemente caotici che lo fermentano.
L’appassionata difesa di Dio esprime una presenza straordinariamente avvertita e disponibile ad aprire il gioco imprevedibile della vita, a lasciarlo affermarsi fino allo scontro e all’apparente inconciliabilità, per guidarlo in realtà con superiore sapienza al fine che gli è assegnato.
Di fronte all’uomo Dio solleva il velo per far capire come dietro un enigma che l’uomo scorge se ne celano altri innumerevoli;  che il problema situato e parziale, di cui l’uomo si rende conto, suppone ulteriori interrogativi, che neppure avverte.
L’uomo e la sua tracotanza è dunque messa a tacere; ma soprattutto è ammaestrata a dare fiducia ad una sapienza ordinatrice che intesse in forma suggestiva e sovrano le fila dell’ universo progressivamente riportato all’ordine  e condotto a buon fine.
Giobbe si ricrede; la resa e il riconoscimento pieno al disegno sapiente di Dio sulla sua vita; un disegno profondo e arcano ma non perciò meno garantito e rasserenante.
“Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te.
… Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono.
Perciò mi ricredo e ne provo pentimento su polvere e cenere.” ( Giobbe, 42, 2, 8, 9 )   E’ una confessione umile, ma anche grande: piena di fiducia e di abbandono.
Celebra l’insondabile sapienza di Dio, ma anche la consapevole dignità dell’uomo.
Il dolore può non compromettere, ma rinsaldare l’intimità dell’uomo con Dio.
  ————————————————-                                                                                                                     Per la riflessione personale o di gruppo si può opportunamente riferirsi a: Giobbe, dal capitolo 38°: Le sfide del Signore   Per l’approfondimento personale e di gruppo:             Quale provocazione religiosa sottende il problema del male?             Quale risposta può dare il credente?             Per l’aggiornamento: LÖNING K.
– E.
ZENGLER, In principio Dio Creò.
Teologie bibliche della creazione, Brescia, Queriniana, 2007 RAD (Von) G., Teologia dell’Antico Testamento, 2 voll., Brescia, Paideia, 1974.
 TRENTI Z., La secolarità nell’orizzonte della creazione, Leumann, Ellenici, 2009

Earth Day: Il Giorno della Terra

Il 22 aprile si é celebrato in pompa magna in quasi tutta la terra (prima nell’emisfero Nord e poi in quello Sud) l’ “Earth Day”, cioè la Giornata della terra.
Questa umanità ipocrita che per il suo comodo stare sta dilaniando foreste, mari, monti, bestie- che certe volte sono più degne dell’uomo- una volta all’anno celebra la Terra che- come pure i più imbecilli sanno, non ha molto da vivere davanti a sé, seppure sia un qualcosa di meraviglioso e stupendo, creato da Dio come dicono i credenti, usciti dal Big Bang come sostengono molti scienziati che però ancora non sono arrivati a dimostrare il famoso inizio del “Bang”(e non lo scopriranno perché la creazione è un mistero troppo grande per la piccola mente umana).
Nel corso degli anni, ho riportato la voce di scienziati, di astronomi, di sociologi, di umanisti che mi avvertivano di informare sul disastro cui andava incontro l’umanità se non si dava una regolata nei consumi, nello strafare e nella prepotenza del mondo ricco sul mondo povero.
Ma si sa, le “piccole voci” che non hanno supporti politici sono soffocate, ammutolite.
Certe volte, mi sembra di rivedere il dramma di Sodoma e Gomorra raccontato nella Bibbia(Gn 18 e 19) i cui abitanti ridevano e sghignazzavano, si davano ai bagordi di ogni genere, credendosi “immortali”.
Sulla Terra, niente è immortale, tranne il pensiero che- certe volte- indirizza gli uomini e le donne a trovare dei “rimedi” per aiutare i propri simili a credere nel Bene.
Naturalmente, come al solito , nell’insieme dei fatti che presento, ce n’è per tutti: sfruttatori e amici della Terra Madre.
Terra madre Regia di Ermanno Olmi [Terra madre, 2009, Documentario, durata 78′] Con Ampello Bucci, Maurizio Gelati, Carlo Petrini, Pier Paolo Poggio, Marco Rizzone, Aldo Schiavone, Vandana Shiva, Angelo Vescovi Il regista denuncia i disastri ambientali e prende spunto dal Forum Mondiale Terra Madre, tenutosi a Torino nel 2006, per poi seguire nei luoghi d’origine alcuni dei protagonisti del Forum: dalle isole Svalbard (Nord della Novergia) per filmare l’inaugurazione della Banca Mondiale dei Semi, a Dehradun (regione Uttaranchal, Nord dell’India) per riprendere la raccolta del riso, nei pressi della Navdanya Farm, la fattoria di Vandana Shiva, dove sono custoditi i semi del riso tramandati di generazione in generazione sino a Quarto d’Altino, Comune di Roncade nel Veneto, dove racconta la storia di un contadino.
Il lavoro di Olmi è stato presentato a Berlino 2009, però uscirà nei cinema in Italia:08 maggio 2009.
Il Giorno della Terra, in inglese Earth Day è il nome usato per indicare due diverse festività: una che si tiene annualmente ogni primavera nell’emisfero nord del pianeta, e un’altra in autunno nell’emisfero sud, dedicate entrambe all’ambiente e alla salvaguardia del pianeta Terra.
Le Nazioni Unite celebrano questa festa ogni anno nell’equinozio di primavera, ma è un’osservanza ufficializzarla il 22 aprile di ciascun anno.
La festività è riconosciuta da ben 175 nazioni e viene celebrata da migliaia e migliaia di persone.
L’Earth Day fu celebrato a livello internazionale per la prima volta il 22 aprile 1970 per sottolineare la necessità della conservazione delle risorse naturali della Terra.
Nato come movimento universitario, nel tempo, l’Earth Day è divenuto un avvenimento educativo ed informativo.
I gruppi ecologisti lo utilizzano come occasione per valutare le problematiche del pianeta: l’inquinamento di aria, acqua e suolo, la distruzione degli ecosistemi, le migliaia di piante e specie animali che scompaiono, e l’esaurimento delle risorse non rinnovabili.
Si insiste in soluzioni che permettano di eliminare gli effetti negativi delle attività dell’uomo; queste soluzioni includono il riciclo dei materiali, la conservazione delle risorse naturali come il petrolio e i gas fossili, il divieto di utilizzare prodotti chimici dannosi, la cessazione della distruzione di habitat fondamentali come i boschi umidi e la protezione delle specie minacciate.
Tutti, a prescindere dalla razza, dal sesso, da quanto guadagnino o in che parte del mondo vivano, hanno il diritto morale a un ambiente sano e sostenibile.
L’Earth Day, il giorno della Terra, da quasi quarant’anni si basa saldamente su questo principio.
Il 22 aprile del 1970, 20 milioni di cittadini americani, rispondendo a un appello del senatore democratico Gaylord Nelson, si mobilitarono in una storica manifestazione a difesa del nostro pianeta.
Oggi, su questo principio quanto mai d’attualità si sono mobilitati ancora, in 174 paesi del mondo.
L’Earth Day 2009 ha segnato anche l’inizio di un’ ampia campagna di sensibilizzazione denominata dagli organizzatori “Green Generation Campaign” i cui punti principali sono la ricerca di un futuro basato sulle energie rinnovabili, che ponga fine alla nostra comune dipendenza dai combustibili fossili, incluso il carbone.
Un impegno personale a un consumo responsabile e sostenibile.
La creazione di una “economia verde” che tolga la gente dalla povertà con la creazione di milioni di “posti di lavoro verdi” e trasformi anche il sistema educativo globale in un sistema educativo “verde”.
Il 22 aprile 2009, Giorno della Terra, è stata l’occasione per migliaia di eventi organizzati in scuole, comunità, villaggi e città nel mondo.
In Italia, per il terzo anno consecutivo, a promuovere la manifestazione è stato Nat Geo Music, il canale musicale di National Geographic( quello che ha commissionato a Cementato il suo “predicavideo sulla Terra”.
Non dimentichiamo che è stato proiettato nelle varie sale italiane i “Earth – La nostra terra”, prodotto della DisneyNature.
«Earth» è un inno alla natura con immagine di paesaggi incontaminati e animali ripresi nel loro ambiente naturale.
Il settimanale Topolino è in edicola con un numero a Impatto Zero.
Grazie all’adesione al progetto di LifeGate, il magazine Disney compenserà le emissioni di gas ad effetto serra generate dalla produzione di ogni copia, con la creazione e tutela di nuove foreste in Italia e nel mondo.
Anche «Il Sole 24 Ore» partecipa all’iniziativa: dal 21 aprile le emissioni di CO2 legate al ciclo di vita Sole24ore.com saranno compensate con la creazione e la tutela di nuove foreste nel Parco del Ticino, Madagascar e Costa Rica grazie alla collaborazione con Lifegate e Lexmark.
A www.decrescita.com.terra vi è il blog che raccoglie informazioni e organizza eventi per l’Earth Day 2009.
Ma intanto, cominciamo a non sprecare l’acqua, a non essere schizzinosi nel mangiare, a non usare tutti i detersivi variamente pubblicizzati, a sopportare con più pazienza i cambi atmosferici.
Io( e con me tutti) “speriamo che me la cavo”! Figurarsi se mancava Celentano! Su Sky ha presentato Sognando Chernobyl, ovviamente commissionatogli sia da Sky che da Nat Geo Music.
Egli, predicatore “eccellente” ha detto che «Tutti quanti insieme salteremo in aria bum!»( che grande scoperta) Sempre per l’Earth Day arriva in tutte le radio il nuovo singolo dei Rio (band formata da Marco Ligabue, fratello di Luciano, e Fabio Mora).
A dare manforte al duo saranno il comico Paolo Rossi e Fiorella Mannoia: il primo recita una filastrocca all’inizio del brano, mentre Fiorella fa da contrappunto ai gorgheggi di Ligabue Jr.
e Mora.
«Con questa canzone – spiegano i Rio – appoggiamo il progetto Impatto Zero.
Essi dichiarano che “Tutti dovremmo fare un piccolo gesto per questo pianeta schiacciato da quello che noi chiamiamo “gigante”.
Un robot-transformer bestiale e inquinante che rappresenta il tempo moderno e non si cura di nulla in nome degli interessi economici».
Al progetto italiano Impatto Zero Lifegate aderiscono ricercatori, universitari, ambientalisti: l’obiettivo è rendere concreti gli intenti del protocollo di Kyoto sulla riduzione delle emissioni di CO2 attraverso la creazione di nuove foreste”.

Earth

La trama Cinque miliardi di anni fa un imponente asteroide si abbatté su una Terra ancora giovane, spostandola a esattamente 23,5 gradi di inclinazione rispetto al sole.
Questo incidente cosmico si è rivelato un assoluto miracolo, perché senza questa fondamentale inclinazione tutto sarebbe stato decisamente diverso.
E’ questo che ha creato la spettacolare varietà di territori diversi sul nostro pianeta, gli estremi del caldo e del freddo e, cosa più importante, le stagioni che cambiano nel corso dell’anno.
Cast tenico Regia:Alastair Fothergill , Mark Linfield Sceneggiatura:Alastair Fothergill , Mark Linfield Musiche:George Fenton Montaggio:Martin Elsbury CastVoce narrante: Paolo Bonolis Dati Anno:2007 Nazione:S tati Uniti d’America / Germania / Stati Uniti d’America Distribuzione: Buena Vista Durata: 98 min Data uscita in Italia: 22 aprile 2009 Genere:documentario  Dolce.
Violento.
Emozionante.
Appassionante.
Pericoloso.
Intenso.
Uno spettacolo che ha luogo tutti i giorni, tutte le stagioni, tutti gli anni proprio qui, sul nostro Pianeta: tra i ghiacci del Polo come nel deserto africano, nel blu degli oceani come nella foresta pluviale, l’avventura della vita sulla Terra va avanti.
Una sorta di reality show di incredibile forza e bellezza, lontano dall’occhio indiscreto dell’uomo.
Non sempre, però.
Perché a volte i registi di documentari riescono a cogliere l’attimo, a filmare abitudini e comportamenti delle altre specie, violandone – in senso buono – i segreti.
E realizzando ottimi prodotti destinati quasi sempre alla tv, un po’ meno frequentemente (vedi La marcia dei pinguini, Il popolo migratore e altri) al cinema.
Ma forse mai nessuno è riuscito a portare sugli schermi una vera e propria summa della vita degli animali, e del ciclo delle loro migrazioni, come gli autori di Earth: pellicola in arrivo nei nostri cinema il prossimo 22 aprile (Giornata mondiale della Terra), e che sarà proiettata anche al Reggio Calabria Film Festival.
Un vero e proprio docu-kolossal.
Sponsorizzato da un marchio prestigioso come la Disney, che proprio con questo progetto ambizioso inaugura la sua nuova divisione, Disney Nature: con un occhio all’ambiente e uno al business, produrrà ogni anno opere a contenuto naturalistico.
Narrata dalla voce italiana di Paolo Bonolis (scelta nazionalpopolare per attrarre il grande pubblico), l’avventura di Earth segue il ciclo delle stagioni legandolo alle migrazioni delle varie specie.
Risultato: un reality show appassionante che parla di vita e di morte, di fame e di sete, di cacciatori e prede, di vittorie e sconfitte.
Con tanti animali protagonisti, ma con tre famiglie che svettano sulle altre: quella di un orso bianco, alle prese con lo scioglimento dei ghiacci; quella di un elefante africano, che percorre centinaia di chilometri alla ricerca dell’acqua; e quella di una balena con cucciolo al seguito, in viaggio dai Tropici all’Antartide.
A dirigere sono due registi specializzati in questo tipo di prodotti, Alastair Fothergill e Mark Linfield.
LE IMMAGINI IL TRAILER Intervista a Linfield.
Guardando Earth, si capisce che lo sforzo produttivo e registico deve essere stato imponente.
“Proprio così: basta pensare che abbiamo girato in ben cinque anni, con 40 troupe diverse, e in 200 location.
Dal Polo all’Antartide, passando per l’Equatore.
Le difficoltà sono state innumerevoli, ma la sfida è stata comunque affascinante”.
I momenti in assoluto più difficili? “Forse quando un nostro operatore ha dovuto aspettare praticamente immobile per giorni e giorni, per poter immortalare la danza degli uccelli del paradiso.
Ci sono anche capitati degli imprevisti che sono finiti nel film: ad esempio, mentre seguivamo la migrazione della balena mamma e del suo cucciolo, abbiamo visto uscire dall’acqua un enorme squalo bianco che ha azzannato la sua preda.
L’Oscar della difficoltà, però, riguarda le sequenze sui pinguini: abbiamo aspettato i sei mesi invernali, al buio completo, per poter catturare le loro immagini alla fine della stagione”.
Scelte impegnative.
E anche costose, vero? “Ovviamente.
Anche se non so dire precisamente quanto è stato speso, perché contemporaneamente al film abbiamo realizzato anche la serie televisiva Planet Earth per la Bbc, così non so distinguere precisamente tra le due attività.
Ma almeno per noi ne è valsa la pena: abbiamo fatto cose che nessuno aveva fatto prima”.
E adesso il risultato di questi sforzi arriva nei cinema, con un marchio forte come quello Disney.
“Per noi essere agganciati a un brand così universalmente noto è una grande opportunità.
Perché in qualsiasi parte del mondo Disney vuol dire cinema per famiglie di qualità: e questo spero ci aiuterà a portare più gente possibile nelle sale.
Del resto per noi Earth non si può definire un documentario, ma un film per famiglie a tutti gli effetti”.
Tenete molto al lato educativo di questa operazione? “Uno degli scopi che volevamo raggiungere era raggiungere le giovani generazioni.
Oggi la gente viaggia, è più informata, sembra più aperta: eppure, paradossalmente, stiamo perdendo i legami con le nostre origini, col Pianeta in cui viviamo.
In questo senso mostrare lo spettacolo di Earth, il reality show della natura, è sicuramente importante”.
Educativo, dunque.
Ma anche spettacolare…
“Contiene in sé tutti i generi cinematografici: dal thiller al romanticismo.
Nel nostro Pianeta c’è ogni emozione: conflitti, bellezza, violenza.
E anche humor, tenerezza, azione.
Cosa si può volere di più?”.
di Claudia Morgoglione Repubblica 31 marzo 2009

“Nuove tecnologie, nuove relazioni”

Pubblichiamo ampi stralci della relazione del direttore dell’Ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e sottosegretario della Conferenza episcopale italiana, tenuta presso la Pontificia Università Lateranense nell’ambito del convegno “Nuove tecnologie, nuove relazioni”.
”Quando nel 1854 il commodoro Perry regalò una locomotiva a vapore allo shogun Ieyasu per celebrare l’apertura ufficiale degli scambi commerciali americano-nipponici – racconta Derrick De Kerckhove ne La pelle della cultura lo shogun mandò il suo artista di corte perché riproducesse la locomotiva su un dipinto dato che gli era impossibile andare a vederla di persona.
L’artista giapponese trovò così difficile rappresentare il nuovo oggetto che aggiunse un poscritto per l’imperatore: “Temo di avere fatto molti errori nel mio schizzo”.
Noi tendiamo a trovare sorpassati o buffi questi episodi che avvengono al punto di incrocio di culture diverse, ma non va dimenticato che quando una nuova tecnologia viene introdotta, essa ingaggia una guerra sotterranea con la cultura preesistente”.
L’ammissione dell’artista giapponese sembra fotografare l’incertezza diffusa che si sperimenta di fronte all’incalzante cambiamento che la tecnologia sta producendo sotto i nostri occhi.
Un ritmo che diventa insostenibile per chi proviene da ben altre velocità e che rischia di trasformarsi in un handicap culturale perché impedisce la descrizione esatta di questo oggetto misterioso dalle dimensioni e dalle prospettive indefinite.
Non si riesce a fare senza errori uno schizzo del mondo, ai tempi del web 2.0, perché la realtà della comunicazione sembra sfuggire da ogni lato, quasi che ogni sua rappresentazione sia carente.
L’uscita di sicurezza da questo imbarazzante stato di cose è – come sempre – dissimulare tutto: atteggiandoci a ingenui spettatori o a critici pregiudiziali, apocalittici o integrati.
In entrambi i casi, non dovendo esprimersi in modo circostanziato perché o già d’accordo o solo contrari, si manifesta la sostanziale incapacità di reagire all’altezza delle sfide.
Ma non è questo, a mio parere, il danno più cospicuo.
Quel che è più grave e che sfugge la questione decisiva che è poi sempre la stessa e cioè: ogni cambio tecnologico ha qualcosa di “gattopardesco” nei suoi esiti.
Cambia tutto in effetti, ma per rispondere agli stessi bisogni di sempre dell’uomo.
La guerra che si ingaggia prelude a un modo nuovo di rispondere ai bisogni di sempre.
Questa convinzione, che dà corpo a un atteggiamento né ingenuo né pregiudiziale ma criticamente aperto, mi pare ben interpretata da Benedetto XVI, per il quale le nuove tecnologie rispondono al desiderio fondamentale delle persone di entrare in rapporto le une con le altre.
Questo desiderio di comunicazione e amicizia è per altro radicato nella nostra stessa natura di esseri umani.
Anzi scrive in uno dei passaggi-chiave del suo Messaggio per la xliii giornata mondiale delle comunicazioni sociali: “Il desiderio di connessione e l’istinto di comunicazione, che sono così scontati nella cultura contemporanea, non sono in verità che manifestazioni moderne della fondamentale e costante propensione degli esseri umani ad andare oltre se stessi per entrare in rapporto con gli altri”.
Niente di nuovo sotto il sole? Non propriamente, perché il cambio è epocale; tuttavia potrebbe anche solo trattarsi dell’ennesima trasformazione che cambia la pelle, ma non il cuore che va comunque alla ricerca dei bisogni di sempre.
Una cosa è certa: il dialogo, il rispetto e l’amicizia sono valori assolutamente antichi che oggi chiedono di essere vissuti in forme inedite a motivo dell’ambiente mass-mediale che è stato così radicalmente trasformato.
Per attenuare l’impatto del nuovo che rischia di annullare le nostre capacità di reazione, dobbiamo forse rimuovere anche un diffuso pregiudizio che fa del virtuale l’equivalente di ciò che non è reale.
La ricorrente guerra tra virtuale e reale rischia di inscenare una farsa che allontana dalla vita spicciola della gente, specie dei giovani, in nome di un fatale fraintendimento.
Forse ci può essere di aiuto Pierre Lévy che nei suoi studi – prima ancora dell’esplosione del web 2.0 – nel volume intitolato Il virtuale definisce come segue questa realtà: “La parola virtuale proviene dal latino medievale virtualis, derivato a sua volta, da virtus, forza, potenza.
Nella filosofia scolastica virtuale è ciò che esiste in potenza e non in atto.
Il virtuale tende ad attualizzarsi, senza essere tuttavia passato a una concretizzazione effettiva o formale (…) il virtuale non si contrappone al reale ma all’attuale: virtualità e attualità sono solo due diversi modi di essere”.
Dunque il virtuale – o se si preferisce alludervi mediante la sua controparte tecnica, il digitale – non crea una nuova umanità (o sociologia, o antropologia, o biofisiologia), ma amplifica e potenzia quella esistente.
Ciò significa che approssima le capacità agli obiettivi, e assottiglia il legame che sempre esiste tra possibile e reale: in altri termini, rende approcciabile tutto ciò che confiniamo abitualmente nella sfera del desiderio (usando questo termine come sinonimo di “onirico” e quindi, spesso, di puramente fantastico, evanescente, irraggiungibile e irreale), rende “capaci di ciò che si spera” e, in questo senso, rende la speranza – forse ogni speranza, anche la più ardita e utopica – in un certo senso più solida, più credibile, più vera.
Questa possibilità che è il virtuale spiega pure perché ancora una volta il discorso da intraprendere non sia asettico o puramente tecnologico, ma sempre legato a doppio filo alla libertà e alla responsabilità dell’uomo.
È l’uomo quello che fa la differenza e che decide del passaggio dal virtuale al reale, sta nella scelta di ciascuno rendere possibile questo slittamento.
Per questa ragione – se è lecita una piccola digressione – nel manifesto per la prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali (24 maggio) che viene recapitato in questi giorni a tutte e 26.000 le parrocchie italiane si è scelto di mettere al centro un giovane scalatore di fronte a una parete.
Accessoriato come si deve: scarpette e un sacchetto di magnesio per facilitare le mani nude nella presa.
E soprattutto proteso visibilmente nel suo sforzo fisico.
Al di là delle tecniche e degli ausilii tecnici, che sono certo un grosso potenziale, di cui non si potrebbe fare a meno, ciò che conta è la forza di volontà che si trasforma in energia, resistenza, agilità.
E rende possibile la scalata.
Accanto a questa possibilità così intesa c’è pure una possibilità problematica da considerare con realismo.
Non vi è dubbio infatti che le nuove tecnologie informatiche possono deformare, possono causare dipendenza, possono creare effetti di ritorno nel momento in cui – cessato il loro effetto di alterazione – sbalzano il soggetto nel mondo reale e ne lasciano percepire, per contrasto, la durezza e la limitatezza; possono in questo senso indurre distorsioni percettive e perdita del controllo nelle fasi critiche.
Ma al di là di tutte queste possibilità, la domanda valida in tutti i casi esplicativi della relazionalità umana non è se questa cosa sia buona o cattiva, ma se siamo in grado di controllarla o se rischiamo di esserne sopraffatti.
Siamo consapevoli dei suoi effetti collaterali o al pari di un drogato o di un ubriaco ce ne accorgiamo solo a sbornia o a effetto finiti? Come si intuisce resta all’uomo il compito di colmare il divario tra virtuale e reale, trasformando il potenziale tecnologico in una effettiva crescita umana.
Non senza tenere conto, nel caso di internet, la sua estrema versatilità, che “si presta in egual misura a una partecipazione attiva e a un assorbimento passivo in un mondo di stimoli narcisistico e autoreferenziale, sì da poter essere utilizzata per rompere l’isolamento degli individui e dei gruppi oppure per intensificarlo” (Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, Etica in internet, 22 febbraio 2002, 7).
Venendo ora nello specifico ai tre grandi valori che Benedetto XVI evoca per declinare l’umano da risvegliare dentro il nuovo contesto massmediale, l’amicizia si impone da subito come una sfida esigente.
La questione si gioca attorno al rapporto tra connettività e riconoscimento dell’identità.
Nessuno può negare che le protesi informatiche fungano da facilitatori dell’amicizia, ma si può anche dire che Msn, Facebook, Linkedin, riconoscano e facciamo realisticamente conoscere tra loro i partner? O sono solo espedienti e catalizzatori di un incontro più accelerato, agevole (in quanto abbattono le barriere comunicative e i preliminari classici della relazionalità) ma non per questo esente da ambiguità? In altre parole: i media offrono amicizia, o solo nuove opportunità di amicizia? Sono ovviamente per la seconda possibilità.
E non solo per realismo, ma per rispetto dei linguaggi che non possono sostituirsi alla libera elezione umana che fa dell’amicizia non una scelta semplicemente indotta, ma una scelta gelosamente personale.
Così è sempre stato e credo che non si possa fare diversamente neanche oggi.
Nel concreto, mentre da un lato la multimedialità è in grado di metterci in comunicazione con tanti volti che altrimenti non avremmo mai incontrato, dandocene una rappresentazione immensamente più efficace di qualunque strumento di comunicazione, dall’altro è proprio l’essenziale – cioè la forza spiazzante – del volto che rischia di essere eliminato o ridotto a inoffensivo spettacolo.
Tornino i volti e non semplicemente le facce, vuol dire confrontarsi con l’altro da sé e non semplicemente con una sua riproduzione addomesticata.
Occorre di conseguenza guardarsi da facili scorciatoie che tendono a esasperare false intimità in relazioni virtuali e rispettare invece i tempi e le forme reali dell’amicizia.
Quello del tempo è obiettivamente un indicatore con cui fare i conti per non essere sopraffatti dalla velocizzazione che toglie al ritmo interpersonale la sua condizione di possibilità.
Se ciò accade non è impossibile allora “promuovere l’amicizia” secondo l’auspicio del Papa.
Infatti nelle tipologie estremamente varie di comunità che nascono in rete, la condivisione più importante è il self sharing.
Al di là degli interessi infatti la motivazione più forte alla base delle relazioni virtuali sembra essere quella di condividere emotivamente i propri vissuti.
Si tratta di un’urgenza accresciuta dall’assenza del corpo, per cui alla fine lo strumento di espressione sono le parole che in rete si trasformano in atti.
Forse per questo, secondo Manuel Castells, internet costituisce un mezzo attraverso cui si va diffondendo un nuovo modello di socialità, la cui nascita è anteriore a quella della rete e va rintracciata nelle trasformazioni che hanno segnato la fine della modernità.
La nuova forma di socializzazione che internet permette di rappresentare è definita dal sociologo spagnolo, trapiantato in America, networked individualism.
Si tratta di un nuovo modello di interazione sociale che ha come cellula minima non più il gruppo, ma l’individuo e che si struttura attraverso la messa in rete di singoli soggetti che sempre meno hanno una comunità tradizionale di riferimento, ma non per questo vivono in maniera isolata.
Il pontificato di Benedetto XVI coincide di fatto con una evoluzione ulteriore del mondo della rete: la sua decisa trasformazione in un network sociale.
Internet non è più un agglomerato di siti web isolati e indipendenti tra loro, ma sempre più un luogo di partecipazione e di condivisione.
Tutta la grande stampa ha enfatizzato l’approccio positivo del Papa nel suo Messaggio, rafforzato anche dall’annuncio del suo “sbarco” su “youtube”.
Probabilmente non ha colto a sufficienza che tra psychè e tèchne, tra reale e virtuale non c’è necessariamente uno scontro, se di mezzo si inserisce la persona umana, cioè quella tensione etica a essere se stessi, senza lasciarsi manipolare.
Sarà per questo che con fiducia Papa Ratzinger si rivolge proprio ai giovani, cui affida il compito di evangelizzare il continente digitale, consapevole che la comunicazione ben fatta è una via per avvicinarsi a Dio, anzi – per dirla con le sue stesse parole: “Un riflesso della nostra partecipazione al comunicativo e unificante amore di Dio, che vuol fare dell’intera umanità un’unica famiglia”.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2009)

Neuro-mania

Non è facile leggere sui giornali un buon articolo di divulgazione scientifica, che cioè non gridi subito alla scoperta sensazionale e non tiri precipitose conclusioni da piccoli passi in avanti nella conoscenza del funzionamento della natura, e soprattutto del corpo umano.
Infatti, se manca l’enfasi, o l’apparente novità, dov’è la notizia? Ma questo tipo di divulgazione esasperata – se pure serve a creare effimere celebrità scientifiche e, forse, ad attirare finanziamenti alla ricerca in questione – ha un effetto pericoloso sui lettori, perché li convince che sono stati trovati farmaci miracolosi, o che ogni stato emotivo e mentale dell’essere umano si spiega con la biologia.
E crea illusioni che conteranno molto quando si dovranno affrontare questioni che da bioetiche sono diventate biopolitiche, contribuendo a influenzare in modo decisivo la loro idea di essere umano e di vita umana.
Come, per fare un esempio, la ricerca sulle staminali embrionali.
Proprio per questi rilevanti motivi è di grande interesse la lettura del libro di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà (uno psicologo cognitivo e un neuropsichiatra) intitolato Neuro-mania (Bologna, il Mulino, 2009, pagine 125, euro 9), che passa al vaglio critico proprio quella letteratura divulgativa, oggi tanto diffusa, che si occupa del cervello pretendendo di spiegare il funzionamento della mente umana.
E, su questa base, tratta delle nuove ricerche e discipline che tendono ad abusare del prefisso neuro-, una aggiunta che – lo provano ricerche mirate – aumenta la credibilità dell’informazione presso il lettore inesperto.
Siamo passati da un eccesso a un altro, scrivono gli autori: se negli anni Settanta ogni comportamento umano veniva spiegato con motivazioni socio-economiche, oggi la stessa cosa avviene con quelle biologiche; la chiave riduttiva è la stessa, ed è dovuta al fatto che le spiegazioni monocausali sono le più efficaci e le più credibili.
Tutto però nasce da un reale progresso della ricerca perché oggi, effettivamente, cominciamo a conoscere da vicino le connessioni tra la mente e il corpo.
Gli scienziati hanno scoperto che determinate aree presiedono alle funzioni specifiche di un dato compito: come, per esempio, la ricerca visiva di un volto noto, oppure la moltiplicazione mentale di due numeri a una cifra.
Naturalmente, in queste operazioni si attivano anche aree “generiche”, che presiedono a funzioni comuni a molti compiti, e cioè quelle visive, acustiche, motorie.
La divulgazione scientifica, però, tende a mettere in rilievo di volta in volta una sola area, quella privilegiata, e a dare l’impressione che essa sia l’unica deputata a una particolare funzione o, addirittura, che sia la causa di quel determinato effetto psicologico.
È nata così l’idea di poter vedere direttamente il cervello al lavoro, che tanto entusiasma i non esperti.
Ma si tratta di un’idea fuorviante: ciò che si vede è il risultato di un artificio grafico che trasforma probabilità casuali in colori sovrapposti a una riproduzione schematica del cervello.
Ci sono sempre altre funzioni, altri sistemi più complessi e ancora in parte sconosciuti che operano.
Ma questo non fa notizia.
Si diffondono così sia la certezza che ormai sappiamo tutto sul funzionamento del cervello sia l’idea che gli stati d’animo e le sensazioni mentali siano effetto di processi biochimici.
La vita quotidiana sarebbe allora riconducibile a una realtà sottostante di natura biologica, in quanto l’uomo, inteso come corpo, fa parte a pieno titolo della natura.
Viene in questo modo legittimata la speranza che se, in futuro, si riuscisse ad analizzare in dettaglio il funzionamento di tutte le parti del corpo umano, avremmo una corrispondenza biunivoca tra quanto scoperto dagli psicologi sperimentali e quanto emerge dall’esame di meccanismi biologici elementari.
In altre parole, un unico linguaggio, quello della fisica-chimica e della biologia, sarebbe la spiegazione di tutti i fenomeni conosciuti dell’universo, dal moto dei corpi celesti alle particelle elementari, dal naturale al sociale.
Certo, si tratta di un’utopia affascinante.
Ma non funziona.
Anch’essa è frutto di una moda, nata negli anni Cinquanta per effetto delle scoperte dei fisici.
Oggi si vuole imitare il loro metodo di ricerca, riconducendo il complesso al semplice e cercando di ingabbiare il sapere in modelli matematici.
Una moda che può perfino indurre a parlare, come è stato scritto recentemente su autorevoli quotidiani, di una neuroteologia: cioè, anche se Dio viene pensato dall’uomo nei modi più diversi, questi avrebbero un prerequisito comune, neuronale.
Nasceremmo insomma con un cervello predisposto a credere.
È evidente che una divulgazione di questo tipo ha l’effetto di cancellare ogni possibilità di scelta e ogni responsabilità dell’essere umano, e di conseguenza ogni possibilità di evoluzione morale.
Anche se non è questo il problema messo a fuoco dai due scienziati, il libro è utile per la sua funzione critica nei confronti di una divulgazione spesso irresponsabile.
(©L’Osservatore Romano – 25 aprile 2009)

“Apocrifi. Memorie e leggende oltre i Vangeli”

Ottanta capolavori, a costituire un panorama di pitture su tavola lignea, dipinti su tela, sculture, altari ed incisioni, dal Medioevo ad oggi, selezionati dalle sedi museali più prestigiose d’Europa, come i Musei Vaticani, gli Uffizi di Firenze, la Galleria Borghese e la Galleria Doria Pamphilj di Roma, l’Accademia Carrara di Bergamo, la Galleria Tretyakov di Mosca, i Musei Reali di Arte e Storia di Bruxelles e diverse altre.
Nell’elegante e suggestiva sede della Casa delle Esposizioni si potranno ammirare, tra le altre, opere di Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino, Albrecht Dürer, Andrea Pozzo, Pomponio Amalteo, Ludovico Mazzolino, insieme ad antiche icone russe e bizantine.
Inoltre, Illegio esporrà eccezionalmente per un mese (fino al 18 maggio), lo straordinario dipinto “Il riposo durante la fuga in Egitto” di Caravaggio.
Questo capolavoro, del 1596 circa, lasciò la storica Galleria Doria Pamphilj di Roma soltanto in tre occasioni nella sua storia, alla volta di Londra, Parigi, Washington.
La Galleria ha però deciso che il prezioso dipinto di Caravaggio, sicuramente una delle opere più belle nella storia della pittura, uscirà una quarta volta dalla sua sede e sarà esposto ad Illegio alla mostra Apocrifi.
Il curatore scientifico della mostra, come per le precedenti edizioni, è don Alessio Geretti, che esprime grande soddisfazione per questo prestito eccezionale, ma precisa al contempo che l’esposizione avrà molte altre opere di altissimo livello e affronterà temi iconografici di notevole interesse, in un articolato percorso che va dalla scultura lignea medievale fino ad importanti opere rinascimentali e barocche.
“Questo permetterà – spiega il curatore – di riscoprire quanto a fondo l’immaginario collettivo cristiano sia stato integrato e arricchito da alcune pagine dei Vangeli apocrifi, sia contribuendo a determinare la forma tipica assunta dall’iconografia di determinati episodi canonici, come ad esempio l’Adorazione dei Magi, sia colmando i vuoti della narrazione scritturale con altri materiali compatibili con la fede, come quelli che raccontano l’infanzia di Maria o la sua Assunzione”.
Oggi si è svolta a Palazzo Borromeo, sede dell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, la presentazione a livello nazionale di “Apocrifi”, con la partecipazione del sottosegretario al Ministero per i Beni e le Attività Culturali, on.
Giro, con la presenza di mons.
Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura.
Il capolavoro di Caravaggio, che si potrà ammirare per un mese ad Illegio, racchiude anche un piccolo mistero, un messaggio “in codice”, che proprio in occasione della mostra “Apocrifi” sarà finalmente del tutto svelato.
Lo spartito musicale che san Giuseppe tiene in mano di fronte all’angelo è un mottetto composto dal fiammingo Noël Bauldewijn nel 1519.
Si tratta del “Quam pulchra es et quam decora”, dedicato alla Vergine Maria ed ispirato dal Cantico dei Cantici.
Il quadro, quindi, racchiude in sé una chiave di lettura mistica.
Don Geretti conferma: “È una specie di didascalia cifrata che ci spiega lo spirito con cui l’artista ha dipinto questo capolavoro, il messaggio che il committente gli ha domandato di inscrivere nella scena”.
Ci sarà in mostra anche un’opera di Caravaggio, per straordinaria concessione della Galleria Doria Pamphilj di Roma.
Illegio, piccolo centro montano nel cuore della Carnia, diventa ancora una volta attore protagonista e scrigno di un evento artistico di portata nazionale e internazionale.
Dopo le cinque mostre internazionali proposte annualmente dal 2004 ad oggi – ricordando le ultime, “Apocalisse.
L’ultima rivelazione” (Illegio ­ Musei Vaticani 2007) e “Genesi.
Il mistero delle origini” (Illegio 2008) –, il Comitato di San Floriano annuncia un’altra grande esposizione internazionale: “Apocrifi.
Memorie e leggende oltre i Vangeli”.
“Si solleva il velo di mistero che spesso s’immagina avvolgere gli antichi Vangeli apocrifi – spiega mons.
Angelo Zanello, presidente del Comitato promotore e parroco di Tolmezzo e Illegio –, ossia quelli che non entrarono nel canone delle Sacre Scritture, ma che talvolta lasciarono il segno in tanta parte della tradizione iconografica e devozionale cristiane.
La mostra si presenta quindi come una suggestiva indagine alla ricerca di tutto ciò che i Vangeli hanno taciuto, ma che la memoria delle prime generazioni cristiane ha fatto giungere sino a noi”.