Se è alta la qualità teologica della canonizzazione, altrettanto esigente è l’invito all’adesione di fede del credente, il quale è tenuto a prestare il suo assenso fermo e saldo, fondato sulla fede nell’assistenza dello Spirito Santo al magistero della Chiesa e sulla dottrina cattolica dell’infallibilità del magistero in questo campo.
La canonizzazione, quindi, non è un semplice atto di devozione o di pietà popolare, ma l’attestazione formale e solenne della santità di alcuni fedeli, proposti come modelli a tutta Chiesa per l’esaltazione della fede cattolica e l’incremento della vita cristiana (…) Rispondendo ora al titolo della nostra relazione – sul significato cioè della santità nella vita della Chiesa oggi – si può affermare con il concilio Vaticano ii che tutti i fedeli sono chiamati alla santità.
La santità è la vocazione di ogni battezzato.
Di conseguenza ancora oggi la santità fa parte dell’identità della Chiesa, Una Sancta, e del battezzato.
Di qui la sua perenne attualità (…) La fonte originaria della santità della Chiesa e nella Chiesa è Dio Trinità: “Siate dunque perfetti – dice Gesù – come è perfetto il vostro Padre celeste” (Matteo, 5, 48) (…) La pienezza della vita cristiana e la perfezione della carità sono il traguardo di tutti i cristiani, la cui santità non è solo un ornamento spirituale della Chiesa ma anche un dono alla promozione e all’affermazione di una società umana pacificata e giusta.
Affermando che “tale santità promuove nella stessa società terrena un tenore di vita più umano”, il concilio riconosce le implicanze sociali della santità cristiana.
Per questo spesso i santi sono anche chiamati benefattori dell’umanità, perché, come Gesù, anch’essi sono passati su questa terra “beneficando” (Atti degli apostoli, 10, 38), operando il bene.
Come nei primi secoli il sangue dei martiri fu la linfa della santità della Chiesa, così oggi non solo i santi martiri ma anche i santi confessori della fede, continuano a essere i testimoni straordinari del Vangelo di Cristo, illustrando la Chiesa, madre dei santi (…) È interessante notare che nell’apologetica post-tridentina alcuni teologi evidenziavano un significato non comune della santità della Chiesa.
La qualifica sancta deriverebbe – a loro dire – da “sancire”-“stabilire” ed etimologicamente indicherebbe stabilità, indefettibilità, inviolabilità.
La Chiesa è santa perché è la roccia sulla quale si infrangono le onde dei suoi nemici.
La sua santità indicherebbe la sua indefettibilità, la sua stabilità.
In tutto ciò in primo piano non è tanto la santità dei membri quanto la santità fontale della Chiesa, dal momento che essa è santa perché mediante i suoi sacramenti santifica continuamente i suoi figli, perdonandoli e fortificandoli con la grazia.
Insomma, la Chiesa è santa perché santificatrice.
E la santità dei suoi figli, in subordine a quella di Cristo, la difende dal nemico e la fa splendere di grazia.
Ma questa santità soggettiva è il riflesso della santità oggettiva, costitutiva della Chiesa; ne è espansione e visibilizzazione.
La Chiesa ieri come oggi è stata sempre edificata dalla presenza dei martiri e dei santi.
Nei processi di canonizzazione la domanda di fondo è la seguente: il servo o la serva di Dio ha praticato in modo eroico le virtù teologali e cardinali? Il santo, infatti, non è un prodotto della cieca evoluzione cosmica, ma un dono della grazia divina (…) Ma cosa significa, in concreto, la pratica eroica della virtù? Sembra che sia stato Aristotele a parlare di virtù eroica, nella sua Etica Nicomachea.
Lo Stagirita cita un brano dell’Iliade in cui Priamo piange la morte di Ettore, suo figlio prediletto, che era stato “tanto virtuoso che non crederesti che egli sia stato generato da padre mortale, ma che sia stato piuttosto della stessa natura degli dei” (…) Nel suo Commentario all’Etica Nicomachea, san Tommaso d’Aquino considera la virtù eroica come la straordinaria perfezione della parte ragionevole dell’anima.
Lo stesso Tommaso, nella stesura della sua Summa, illustra il rapporto tra doni dello Spirito Santo e virtù.
I doni sono indispensabili perché il battezzato raggiunga il suo traguardo soprannaturale.
In questo contesto egli parla di abito eroico o divino, che indica una disposizione verso il bene più alta del comune.
La virtù eroica è l’esercizio in grado eminente della virtù.
Nella virtù eroica il livello morale in essa presente si eleva al di sopra del livello morale di quasi tutti gli uomini.
E ciò suscita ammirazione, che costituisce anche un elemento della definizione della virtù eroica.
Per il benedettino José Saenz de Aguirre (+ 1699) i segni distintivi della virtù eroica sono l’osservanza fedele dei comandamenti e l’adempimento dei consigli evangelici anche in circostanze avverse; l’ammirazione da parte degli altri uomini; qualche miracolo perpetrato da Dio per confermare l’eroismo delle virtù di una persona ritenuta santa.
Per il francescano Lorenzo Brancati la persona che possiede l’abito della virtù eroica deve agire e fare il bene expedite, prompte et delectabiliter, sotto l’influenza e la guida dei doni dello Spirito Santo.
La virtù eroica supera l’esercizio ordinario della virtù dal momento che suscita una più sublime maniera di fare il bene con frequenza, facilità e disinvoltura.
In ogni caso, essa è sempre un grado particolarmente elevato di ogni singola virtù sia teologica sia morale.
Alla domanda su come siano riconoscibili le virtù eroiche, si risponde che il grado eroico è riconoscibile, in primo luogo dalla frequenza, dalla grande prontezza e dal carattere gioioso dell’attività virtuosa; in secondo luogo dal fatto che anche ostacoli difficili, costituiti da circostanze esterne o da intralci interni, vengono superati in modo tale che l’eroe virtuoso può essere considerato capace di grandi sacrifici per il Vangelo nella totale abnegazione di se stesso.
Anche per Prospero Lambertini, poi Benedetto xiv, la virtù eroica implica speditezza, prontezza e letizia in un modo superiore al comune, nell’abnegazione e nel controllo delle passioni.
La virtù eroica è l’elevazione delle virtù fino all’apice della loro perfezione per l’influsso efficace dei doni dello Spirito Santo (…) Tuttavia, come non ogni terreno produce tutto, ma viene raccomandato soprattutto per un prodotto particolare, così i santi per lo più sono nobilitati dallo splendore singolare di una sola virtù. Nonostante la connessione di tutte le virtù, una sola è la virtù che in essi è eminente e prevalente.
Ed è proprio l’eroismo virtuoso che suscita stupore e meraviglia, ma anche sequela e imitazione.
Il Vaticano ii – Lumen gentium, n.
50 – insegna al riguardo: “Il contemplare la vita di coloro che hanno seguito fedelmente Cristo, è un motivo in più per sentirsi spinti a ricercare la città futura (cfr.
Lettera agli Ebrei, 13, 14 e 11, 10); nello stesso tempo impariamo la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità.
Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono tuttavia più perfettamente trasformati nell’immagine di Cristo (cfr.
Seconda Lettera ai Corinzi, 3,18), Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto.
In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo Regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni (cfr.
Lettera agli Ebrei, 12, 1) e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati”.
Nella nota 155, il testo conciliare richiama un decreto di Benedetto xv il quale sottolinea che la virtù eroica può consistere anche nelle piccole cose e, più precisamente, nel fedele, continuo e costante adempimento dei compiti e degli uffici del proprio stato.
Dal canto suo, Pio XII, a chi affermava che i santi sono piuttosto da ammirare che da imitare, rispondeva che la perfezione della santità e la sua eroicità si potevano raggiungere anche nella quotidiana e costante osservanza della legge divina e nella intensissima carità verso Dio e il prossimo.
E ogni santo ha espresso la sua virtù in modo del tutto originale: alcuni con l’ardore dell’apostolato, altri con la fortezza del martirio, altri con lo splendore della loro verginità o con la soavità della loro umiltà.
Nella virtù eroica Cristo si fa di nuovo visibile in mezzo a noi e il santo diventa lo specchio di Cristo (…) I santi, inoltre, sono i veri operatori dell’inculturazione del Vangelo, non mediante teorie elaborate a tavolino, ma vivendo e manifestando la sequela Christi nella propria cultura.
I santi mostrano la verità evangelica con la loro esistenza.
In essi si realizza la metamorfosi cristiana di una cultura, dal momento che rivelano come le beatitudini evangeliche tocchino e convertano al bene i cuori e le menti delle persone di ogni cultura.
Nei santi l’inculturazione non avviene principalmente ab externo, nello stile delle chiese, negli atteggiamenti del corpo, nel rivestimento linguistico, ma soprattutto, ab interno, nella loro persona.
Sono loro in persona il Vangelo vivente per quella cultura.
Come agli inizi della Chiesa furono i santi pastori, i santi teologi e i santi martiri a evangelizzare le culture della terra, così oggi la Chiesa ha bisogno dei santi per la riuscita di ogni inculturazione.
Il Vangelo infatti non è riservato a una cultura determinata, ma a tutte le culture: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura” (Marco, 16, 15).
Ieri come oggi, questo compito è affidato soprattutto ai santi (…) In ciò consiste anche la dimensione missionaria dei santi, che costituiscono un’incarnazione personale del Vangelo.
La loro esistenza è la più efficace opera di convinzione della bontà della Parola di Dio, della sua verità per l’esistenza gioiosa dell’umanità.
Solo così si spiegano le conversioni al Vangelo operate dai santi missionari a cominciare dagli apostoli, che si sparsero in tutto il mondo annunciando la buona notizia della salvezza in Cristo, convertendo e battezzando (…) In conclusione, i santi sono segni concreti di speranza per un futuro di fraternità, di gioia e di pace.
Talvolta ci si lamenta per il grande numero di santi che vengono canonizzati.
Ma la Chiesa santa non può non generare figli santi.
Sarebbe come se ci lamentassimo della grande quantità, varietà e bellezza dei fiori in primavera.
(©L’Osservatore Romano – 30 aprile 2009 Prima di rispondere alla domanda sull’attualità della santità nella Chiesa e nel mondo, conviene premettere alcune considerazioni sul significato e sul valore della santità riconosciuta come tale dalla Chiesa e proposta ai fedeli come esempio d’imitazione di Cristo.
Diciamo subito che la solenne proclamazione della santità dei fedeli mediante la canonizzazione è un atto del Magistero pontificio di altissima qualità teologica.
Infatti, se al primo grado della Professio Fidei appartengono quelle dottrine di fede divina e cattolica che la Chiesa propone come divinamente e formalmente rivelate e, come tali, irreformabili, al secondo grado appartengono tutte quelle dottrine che riguardano la fede o i costumi proposte dalla Chiesa in modo definitivo.
Si tratta di verità che sono infallibilmente insegnate dal magistero ordinario e universale della Chiesa con sententia definitive tenenda.
La canonizzazione appartiene a questo secondo grado di verità proposte in modo definitivo, in quanto fa parte di quelle dottrine necessarie per custodire ed esporre fedelmente il deposito della fede.
I santi, sono quindi, pagine viventi della santità della Chiesa nei secoli. )
La mia Chiesa
(…).
1) La comprensione incondizionata dell’uomo Più che una “dittatura del relativismo”, che potrebbe compromettere ogni ricerca della verità, oggi si avverte uno “spaesamento dei valori” (diritto, doveri, giustizia, libertà, educazione, rispetto, sicurezza sociale, pace).
L’atteggiamento della Chiesa di fronte a queste realtà è molteplice.
È la spettatrice critica di fronte ai processi della società, e magari diventa arcigna e violenta di fronte ai fenomeni giudicati degenerativi della società.
Si pensi come il “magistero” ha inteso la “modernità”.
Essa è stata pensata come una deformazione delle coscienze, quando poteva tradursi in una grande educazione di umanità.
È comprensibile la diffidenza che la Chiesa ha verso la ricerca scientifica? Forse la Chiesa non ha mai voluto ammettere il “date (rendete) a Cesare quel che è di Cesare” e il “date a Dio quel che è di Dio” (Mt.
22, 21).
(…).
Attualmente la Chiesa sembra voler essere l’“autovelox” della morale.
Sta nascosta dietro l’angolo e quando la cultura sfreccia e magari sembra violare, per eccesso di velocità, soprattutto i temi della morale, eleva sanzioni (…).
La Chiesa certamente deve condurre gli uomini alla vita vera.
Ma come fa la madre.
Ella non insegna, ma educa, costruisce, con infinita comprensione, con uno spirito di riconciliazione senza limite.
La sua non è sterile constatazione, o peggio controllo (“inquisizione”), ma sempre lievito, fermento di vita, promozione.
L’umanità è comunque sofferente e bisognosa, al di là di ogni forma di peccato, e la Chiesa, con l’unica sua verità, che è la misericordia di Cristo, ripete: “Venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi e io vi ristorerò” (Mt.
11, 28).
Il cap.
15 di Luca potrebbe essere il “manifesto” del comportamento della Chiesa.
Narra le parabole della pecora smarrita, della dramma perduta e del figlio prodigo.
Si capisce in questo manifesto cosa significhi comprendere e amare l’essere umano che è sempre così debole.
I primi sette versetti del capitolo sono di una emotività eccelsa ed estrema.
“Pantes oi telonai cai oi amartoloi – Tutti i pubblicani e i peccatori vanno da lui”.
L’appuntamento di “tutte” le persone sregolate è da Gesù.
È comprensibile lo scandalo delle persone rette, i farisei e gli scribi.
E Gesù, “umile di cuore” anche con loro, dice: “Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?”.
No, nessuno userebbe questo criterio pastorale.
Ma Gesù insiste e sostiene di essere nella gioia solo quando ritrova la pecora.
E a conferma della arditezza del suo amore, senza parametri umani: “Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”.
2) La “Cattolicità” “Deus vult omnes homines salvos fieri – Dio vuole che tutti gli uomini vengano salvati” (1 Tm.
2,4).
È evidente l’afferma-zione biblica, perché, con l’“incarnazione”, Dio si fa uomo in ogni uomo.
“Non fa preferenze di persona” (At.
10, 34).
Anzi “ogni uomo a qualsiasi popolo appartenga” è bene accetto a Dio” (At.
10, 34).
La consegna agli Apostoli, dopo la risurrezione, è: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura” (Mc.
16, 15).
Probabilmente l’assicurazione: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt.
28, 20) viene fatta per garantire che la sua Chiesa “avrà le porte sempre aperte” (Ap.
21, 25), per accogliere tutte le genti.
Riservare il cristianesimo alla civiltà occidentale è tradire il Vangelo.
Rivendicare le “radici cristiane” dell’Europa rischia di compromettere l’universalità del Vangelo.
Il Vangelo è incarnazione attiva presso tutte le genti.
Le quali sono chiamate ad esprimere il loro volto cristiano (cf.
Mt.
28, 19).
Gli Apostoli non sono mandati per dare alle genti un cristianesimo occidentale, ma per affidare a tutti il Vangelo quale sorgente di originalità.
Il messaggio del Vangelo rimane genuino e originale presso tutti i popoli: “Costoro che parlano sono tutti Galilei.
E com’è che li sentiamo ciascuno parlare la nostra lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti e abitanti della Mesopotamia, della Giudea, della Cappadocia, del Ponto, e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, stranieri di Roma, Ebrei e proseliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo annunziare nelle nostre lingue le grandi opere di Dio” (At.
2, 7-11).
(…).
3) L’Unità L’unità di tutto il genere umano ha per fondamento il Vangelo.
Dio si è incarnato in ogni uomo, rendendo ognuno di noi uguale al fratello.
Non c’è umanità, pertanto, senza l’amore del fratello.
Il quale ha tutti i diritti al mio amore, perché “nessun uomo è profano o immondo” (At.
10, 28).
L’unità, in realtà, non si fa con la dottrina, non si fa con i principi, non si fa con una religione codificata, ma soltanto con l’amore.
Amos Oz riferisce un aneddoto: “Avevo dato all’amico un appuntamento al bar.
Assolsi ad un piccolo impegno d’urgenza e subito raggiunsi l’amico.
Con mia sorpresa vidi già seduto accanto a lui un signore dal nobile aspetto.
Con qualche gesto impercettibile chiesi all’amico chi fosse.
Quegli, con fare circospetto, mi disse: mi pare tanto che sia Dio.
Mi sedetti accanto e, parlando, anch’io ebbi l’impressione che fosse Dio.
Volli allora togliermi una curiosità.
Dissi: da noi qui ci sono tante religioni: la cristiana, l’ebraica, la musulmana.
Qual è quella vera? Rispose: non lo so; io non sono religioso.
Sono venuto sulla terra per amare gli uomini e per salvarli”.
Invece il confronto religioso diventa facilmente violenza, dalla lotta contro gli Albigesi alle “crociate”.
Francesco nella Regula non bullata (cap.
16) ha una pagina di grande significato: “I frati coraggiosi vadano presso gli infedeli e, presentandosi come cristiani, si mettano a servizio di tutti senza mai contrasti e dispute”.
Incantato dalla sua figura, il delegato papale di Damietta Jaques De Gratry riferisce che Francesco si presentò al sultano “sine armis et sine argumentis philosophicis, ma solo con l’amore di Cristo”.
Giovanni XXIII, veramente ispirato, nel discorso di apertura del Concilio, chiedeva a Dio che questo evento portasse alla costituzione dell’unica famiglia umana, “all’unità dei cristiani tra loro, all’unità dei cristiani con gli uomini di altre religioni, all’unità dei credenti con i non credenti”.
L’occasione attuale della miscelatura di tutti i popoli, occidentali e arabi, cinesi e indiani, cristiani e musulmani, offre ai discepoli di Cristo la possibilità di effondere tutto l’amore di Cristo, fino alla costruzione della “Pacem in terris”.
4) La Carità La carità è la Chiesa: “charitas Christi urget nos”.
I tre Vangeli sinottici sono il poema della carità di Gesù.
Gesù è sempre in attività, per guarire tutti gli ammalati, per dare conforto a tutti i bisognosi.
Sta volentieri con le persone anonime, con le “folle”, che non hanno qualificazioni sociali, che “sono come pecore senza pastore”, e prova pietà per loro: “misereor super turbam”.
Le folle sono particolarmente bisognose, sono di solito affamate.
E Gesù provvede loro con la “moltiplicazione dei pani”.
(…).
La Chiesa pensa oggi alle “masse affamate” del mondo? Oggi, il dramma dei popoli, Iraq, Sudan, ha riscontro nella Chiesa? Gesù scombina anche i rigorosi precetti della legge mosaica, per andare incontro alle necessità dell’uomo: “Il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato”.
Con gli Apostoli Gesù percorre tutte le strade della Palestina, non per andare a formare cenacoli e gruppi di preghiera, né per andare a costruire chiese e sinagoghe, ma per “cercare e salvare ciò che era perduto” (Lc.
19, 10).
Sembra quasi trascurare il culto e anche la catechesi, quando raccomanda: “Se fai l’offerta all’altare e ti ricordi che il fratello ha qualcosa contro di te, lascia lì l’offerta, corri a riconciliarti con il fratello, poi torni e fai l’offerta all’altare” (Mt.
5, 23-24).
Di grande provocazione è il suo identificarsi con il “Buon Samaritano” e trascurare il sacerdote e il levita, ma anche il “dottore della legge”, al quale dice in pratica che non sono necessari né il tempio, né la Torah, quando invece indispensabile è agire come il Samaritano (Lc.
10, 25-37).
Incandescente per me è l’episodio del “battesimo”.
Egli, l’innocenza di Dio, vuole purificarsi come gli altri, apparire un peccatore tra i peccatori.
È chiaro allora che non c’è un reietto che non sia Lui, non c’è una vittima che non sia Lui, non c’è uno straniero che non sia Lui, non c’è un disperato che non sia Lui (cf.
Mt.
25).
5) Oscuramento di Cristo È certo che credere nel Dio annunciato da Gesù, un Dio umile e nascosto, dischiude problemi nella Chiesa, alla ricerca del suo compito e della sua autorità.
Il rischio della Chiesa di cambiare l’originalità dell’istituzione è grandissimo e sempre incombente.
Da discepola e testimone del Risorto, essa si fa interprete, vicaria e sostituta di Dio.
Si pone come unica titolare e depositaria del divino sulla Terra.
Gesù aveva proclamato la “giustizia superiore” delle “beatitudini”, vincendo le tentazioni della ricchezza, del prestigio e del potere.
La Chiesa invece preferisce tenere in disparte Gesù e sacralizzare questi beni (“La leggenda del Grande Inquisitore”).
L’irrilevanza di Gesù è caratterizzata da quasi tutta la modernità.
E sembra esplicita nella Chiesa.
Nelle recenti dispute con i legislatori italiani e spagnoli e con i costituenti europei, la Chiesa fa appello alla biologia, alla natura, alla storia, alle tradizioni culturali, alla precauzione politica, non al Vangelo.
Anzi ci tiene ad affermare che la sua dottrina, la verità di cui è custode, corrispondono a una visione razionale e umana a tutti comune.
La trascuranza di Cristo sembra così evidente.
Ma “sine me nihil potestis facere” (Gv.
15, 5).
E questo oscuramento del Cristo è la ragione di tutti i nostri smarrimenti.
Per fortuna e per grazia, anche se noi trascuriamo il Signore, egli viene a noi incontro.
“Gesù in persona si accosta a me e con me cammina” (Lc.
24,15).
E mi confida: “Ecco, io sto alla tua porta e busso.
Se tu ascolti la mia voce e mi apri la porta, io vengo da te, ceno con te e tu con me” (Ap.
3, 20).
6) Il “principio speranza” “Noi diamo ragione della speranza che palpita nel nostro cuore”, perché abbiamo il Vangelo.
E il Vangelo è tutta la speranza.
Il Vangelo è una proiezione infinita di luce, è l’apertura e la libertà della vita, è “pieno di immortalità”.
“Gesù è colui che vive e più non muore” (Ap.
1, 18).
È lui il destino dell’uomo e quindi è la sua speranza infinita.
Anche la Chiesa non ha nessuna verità da dare.
Ha unicamente l’“amore eterno” (Ger.
31, 3), da comunicare a tutti.
(…).
Esercizi di nonviolenza – L’evangelizzazione oggi sembra asfittica.
Occorre annunziare di nuovo le Beatitudini e il Magnificat.
Se Gesù ci chiede di superare le tentazioni della ricchezza, del potere, del prestigio, il Magnificat ci assicura che lui rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili.
– Recuperare la memoria del Concilio: non dimenticare le salutari avanguardie che hanno aperto nuovi percorsi; riconoscere, come papa Giovanni XXIII, che “Ecclesia sempre reformanda”; proclamare il valore dell’Ecumenismo ad ogni costo; credere nella scelta preferenziale dei poveri; la solidarietà della Gaudium et spes: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo” (n.
5.1).
– Superare la neutralità: un giovane non può rimanere neutrale tra dittatura e democrazia, tra libertà e fascismo, tra pace e guerra, tra obiezione di coscienza e militarismo, tra accoglienza degli stranieri e razzismo.
– Recuperare la memoria dei Profeti: don Mazzolari, don Milani, p.
Balducci, p.
Turoldo, p.
Dossetti, La Pira, Lazzati, Bachelet, Moro, Dorothy Day, M.L.
King, mons.
Romero, mons.
Camara…
È necessario raccontarli per poterli rivivere.
– Resistere ai “vitelli d’oro”: consumismo, telecrazia…, non rifiuto acritico, ma ragionato.
Reagire al neo-nazismo, al neo-liberismo, alla xenofobia, al nazionalismo.
Combattere l’integralismo e difendere la laicità della politica.
– La libertà.
È una parola difficile e non deve creare equivoci.
A me hanno insegnato ad amare questa parola Gandhi, Martin Luther King, Oscar Romero e Madre Teresa di Calcutta.
Libertà non è liberismo sfrenato, è liberazione dall’oppressione, dalla tirannia, difesa del pluralismo, della tolleranza, dell’ascolto, del dialogo.
Libertà è difesa delle minoranze politiche, religiose, culturali, sociali, etniche.
– Educazione alla condivisione delle risorse, alla redistribuzione delle risorse, per ridurre il fossato Nord-Sud, per affrontare la questione dei flussi migratori inarrestabili.
– Impegno di lotta senza quartiere contro le mafie e le camorre.
Rivoltarsi contro le sottoculture dell’illegalità.
Studiare catechismi di solidarietà.
– Rifondare il sindacato di tutti, non solo dei “protetti”, ma anche degli “esclusi”.
– Lotta per la libertà dell’informazione.
Impegno per la crescita delle voci non omologate, locali e nazionali.
Sostenere l’informazione libera e la comunicazione conviviale.
– Scelta di campo per i poveri.
Non solo interiore, teologica, emotiva, ma concreta sul territorio.
(…).
– Accoglienza dell’altro.
Dell’immigrato e del rom.
Questi dovrebbero essere accolti non dalle polizie, ma dalle amministrazioni locali o da istituzioni a ciò preposte.
(…).
Amo la mia gente con le opere di Misericordia Gesù è l’uomo per gli altri.
Anch’io, suo apostolo, devo essere l’uomo per gli altri.
Sono personalmente convinto che oggi la Chiesa sia fortemente ancorata alla liturgia e alla evangelizzazione e meno sensibile alla carità, all’amore verso tutti gli uomini.
Sogno una Chiesa piena di vangelo, che rende Gesù visibile dovunque.
Gesù parla poco di questioni morali, mentre la sua condotta sembra “eccessivamente” misericordiosa.
Non insiste mai sui precetti e sulle ideologie giustificatrici.
Presentandosi come “Figlio dell’uomo”, non appare certo come il Dio dei poteri, delle istituzioni e dei sistemi, che creano le vittime e gli sfiduciati.
Ma sta con coloro che piangono e che “hanno fame e sete di giustizia”.
Non cerca i grandi templi, con lo scopo di onorare Dio, ma gli bastano “lo spirito e la verità” (Gv.
4,23).
Oggi una Chiesa autoreferenziale confonde facilmente i suoi fini con i suoi interessi.
Sembra si debba pensare che Dio è nella Chiesa e pertanto il mondo esista per servire la Chiesa e questa per difendere ad ogni costo se stessa.
Invece Dio è nel mondo e la Chiesa esiste per servire il mondo, creato da Dio e amato, e redento e perdonato da Lui.
Questo mondo è il nostro mondo, è quello che Dio ci ha dato da amare.
Non siamo qui per giudicarlo, ma per annunciargli il Vangelo, cioè la salvezza e la felicità.
Per Gesù i sabati, i templi, le filatterie, i precetti diventano totalmente secondari di fronte al dolore degli uomini.
Gesù lascia le curie del potere e va nell’“orto”, dove egli suda il sangue dei poveri.
L’opzione della Chiesa dovrebbe ancora essere il predicare un cristianesimo di sequela, piuttosto che un cristianesimo di consumo.
Non si può pensare che con più praticanti si salvano più uomini.
Se non esagero, vorrei proporre oggi una Chiesa di frontiera.
La frontiera è fuori dal tempio.
La frontiera è un luogo esposto.
È il luogo degli arrivi e delle partenze.
È il luogo dell’imprevisto, dell’inedito.
È il luogo dell’originale.
È il luogo dell’uomo sempre nuovo e sempre in attesa di una patria.
Ma è anche il luogo di Cristo.
Non si può pensare qualcosa di più urgente e di più precario della Capanna della sua nascita.
La Chiesa è artigiana della pace, non solo della pace dei cuori, ma anche della pace che passa attraverso l’azione politica.
Deve pregare per la pace, ma anche difendere l’uomo dal dominio incontrollato delle istituzioni e delle corporazioni, che rischiano di renderlo puro strumento della loro volontà di potenza.
Deve intervenire per allargare gli ordinamenti democratici, che esprimono la sovranità popolare, per rendere attiva sempre la libertà personale.
Deve difendere l’uguaglianza tra gli uomini, impedire lo sfruttamento di una sull’altra, di un popolo su un altro e combattere apertamente l’onnipotenza del capitale e del profitto, della mafia e della camorra.
Deve denunciare quelle scelte politiche che procurano la corsa agli armamenti e deve sostenere il disarmo progressivo.
Deve solidarizzare con coloro che pongono gesti di doverosa protesta: obiezione di coscienza, marce per la pace, giudizi di illegalità per le spese militari.
Deve combattere l’autoritarismo, le forme molteplici di violenza, la chiusura ideologica.
L’esaltazione dei condottieri, il disprezzo per i vinti, il culto della razza, la magnificenza della patria, l’eurocentrismo non sono certamente elementi che rendono maturo e idoneo l’uomo del villaggio globale.
La denuncia delle inadempienze radicali degli uomini e delle intollerabili povertà di certe categorie sociali non è sufficiente.
È necessario che la Chiesa difenda i diritti e le attese dei poveri e dei bisognosi, intervenendo nelle forme più attente ed efficaci.
Gesù con la “moltiplicazione dei pani” nutre le folle e le fa vivere nella speranza.
La Chiesa o è carità o è falsità.
La Chiesa è sempre e solo amare la gente.
(…).
Responsabilità verso la Camorra La camorra, in Campania, impedisce le riforme strutturali, indispensabili per organizzare la speranza del futuro.
Procura le dimissioni di ogni imprenditoria intelligente e produttiva.
Una politica che crea progetti, stabilisca obiettivi, dia la spinta alla soluzione dei problemi è impensabile.
E le dirigenze di ogni tipo confondono facilmente il bene comune con l’interesse privato.
Il degrado, il sottosviluppo e la disoccupazione fanno sì che l’emigrazione dei giovani volenterosi sia enorme.
I talenti migliori salgono al Nord, privando le nostre terre di quella propulsività fatta di promozione e di progresso.
Ritengo che, in particolare nel meridione, la Chiesa deve esercitare la sua forza istitutrice di etica e di civiltà.
Purtroppo, l’esempio fulgido di un don Peppino Diana, che viene ucciso dopo quel documento salutare, Per amore del mio popolo non tacerò, rimane ancora controllato e isolato.
Le gerarchie ecclesiastiche sono molto preoccupate di difendersi dai nemici “ideologici”, massoni, comunisti, laicisti di ogni genere, e sottovalutano l’inquinamento morale e civile causato dai poteri illegali.
I camorristi, che pure sradicano il Vangelo dal cuore della nostra gente, negando ogni forma di amore del prossimo, diventano facilmente promotori delle iniziative della ritualità religiosa e della collettività.
Proteggono un certo ordine stabilito, e quindi vengono corteggiati dalle istituzioni.
E, per un falso amore di pace, la Chiesa tace.
(…) La storia della Campania, come la sua cronaca contemporanea, non si spiega senza tenere nel debito conto l’influenza della Chiesa.
Si osserva quindi che le espressioni religiose, soprattutto quelle enfatiche, e la camorra non sono due fenomeni indipendenti.
Fortunatamente non si arriva mai alla complicità.
Non si può tuttavia rimanere in disparte, scaricando la realtà criminale alla competenza dello Stato.
L’esercizio del potere nel mondo della camorra si prefigge l’infiltrazione nelle istituzioni per gestirle in maniera privatistica e clientelare.
E se la camorra diventa mentalità di popolo, il messaggio d’amore di Cristo non può avere vita.
Per cominciare, nelle parrocchie si devono superare supporti che possono configurarsi come camorristi: gli atteggiamenti autoritari, la violenza di un potere costituito, la precettistica morale imposta come inquisizione delle coscienze, la mancanza di democrazia nella gestione comunitaria, gli accordi unidirezionali che producono i gruppi fra loro conflittuali.
La Chiesa è di tutti ed è essenziale che si mantenga libera dal potere politico e di casta, e lasci trasparire lo stile di un servizio incondizionato all’uomo, “senza preferenze di persone” o di categorie sociali.
Insisto perché nelle parrocchie si faccia il catechismo della legalità.
Archivio anno 2009- Adista documenti n.
5 Adista, 12 gennaio ’09
Quello che la Bibbia non ha mai raccontato
La Pasqua secondo gli apocrifi.
Giuda, Pilato, Maria di Gianfranco Ravasi È paradossale, ma non è impresa difficile quella di ordinare una mostra che abbia come filo conduttore i vangeli apocrifi, come appunto è testimoniato dalla grandiosa esposizione che si è aperta il 24 aprile a Illegio in Friuli, cittadina divenuta nota per i suoi straordinari eventi artistici.
Questa letteratura ebbe, infatti, uno straordinario successo proprio nell’arte e nella tradizione popolare.
Sotto il termine di “apocrifi” – letteralmente, dal greco, i libri “nascosti” – si stende, infatti, un’immensa produzione letteraria e religiosa, anche di bassa qualità, che corre parallela ma autonoma rispetto all’Antico e al Nuovo Testamento i quali contengono invece i libri “canonici”, ossia quelli riconosciuti dall’ebraismo e dal cristianesimo come testi sacri, ispirati da Dio.
Questi documenti si distribuiscono anche nell’ultima fase dell’ebraismo anticotestamentario e costituiscono un capitolo della stessa letteratura religiosa giudaica.
Gli apocrifi giudaici sono almeno 65 testi diversi, composti a partire dal III secolo prima dell’era cristiana fino al II secolo, riconducibili ad ambiti e generi diversi.
Importanti, ad esempio, sono certi scritti apocalittici come i tre diversi libri di Enoch che offrono una testimonianza variegata ma decisiva di molte concezioni del giudaismo.
Significativi sono anche i “testamenti” messi in bocca a vari personaggi biblici come i vari patriarchi, oppure Giobbe, Mosè o Salomone.
C’è, poi, una serie di opere di taglio filosofico o sapienziale, come l’antico racconto di Achikar, di origine babilonese, adottato e trasformato dal mondo giudaico e divenuto molto popolare.
Non mancano, inoltre, preghiere, odi, salmi, alcuni venuti alla luce a Qumran, sulla costa del mar Morto, in una delle più celebri scoperte del secolo scorso.
Sono da registrare anche aggiunte o approfondimenti liberi di testi biblici come la “Vita di Adamo ed Eva” o la storia d’amore tra Giuseppe e Asenet.
La mostra di Illegio, però, mette in scena rappresentazioni artistiche legate agli apocrifi cristiani che puntano a ricreare, spesso molto liberamente, la vita di Gesù dando origine a nuovi Vangeli – non mancano però Apocalissi o Atti di vari apostoli e lettere sul modello di quelle paoline.
Si tratta di una massa rilevante di scritti cristiani, nati soprattutto dalla pietà popolare ma anche da ambiti colti: pensiamo agli scritti gnostici egiziani.
Essi furono ben presto contestati, nonostante rivendicassero il desiderio di allinearsi e di completare i libri canonici.
Questa esclusione, per altro spesso motivata a causa della loro qualità teologica discutibile e della loro fantasiosa creatività storica, non ne impedì l’ingresso nella devozione popolare, nella stessa storia della teologia, nella liturgia e soprattutto nella tradizione artistica dei secoli successivi.
Entriamo, dunque, anche noi come viandanti stupiti in questa selva di pagine, di immagini, di colpi di scena, di simboli, di fantasie.
Qui appaiono, ad esempio, le “divine malefatte” di un Gesù ragazzo che fa morire e risorgere o mutare in capretti i compagni di giuoco, che paralizza il maestro che sta per picchiarlo a causa della sua sapienza troppo saccente, ma che sa guarire dai morsi di vipera e estrae prodigiosamente bimbi caduti in forni o pozzi, che aggiusta senza fatica manuale un letto sghembo uscito dalla falegnameria di Giuseppe.
Tra le decine di percorsi che si aprono davanti a noi in tale foresta letteraria ne scegliamo uno che ci conduca all’evento della Pasqua di Cristo, il periodo liturgico che ci sta accompagnando.
Un’enorme massa di racconti segue, infatti, le ore della settimana che verrà poi chiamata “santa”.
Inseguiremo solo alcuni attori di quei giorni oscuri e gloriosi, prescindendo quindi dai vari soggetti esposti nella mostra friulana.
*** Il primo a venirci incontro è Giuda Iscariota, il traditore, un personaggio che ha continuato a generare nuovi “apocrifi” fino ai nostri giorni con vari romanzi e opere di autori diversi moderni.
Per gli apocrifi antichi la storia del traditore di Gesù ha radici remote e molto fantasiose.
Figlio del sacerdote Caifa, fin da piccolo Giuda – secondo il “Vangelo arabo dell’infanzia del Salvatore”, un apocrifo carissimo ai cristiani d’Oriente e persino ai musulmani – dava segni di possessione diabolica.
Sua moglie, stando invece a un testo copto egiziano, aveva accolto presso di sé per allattarlo il figlio neonato di Giuseppe d’Arimatea, colui che avrebbe offerto la tomba di famiglia per deporvi il cadavere di Gesù.
Ebbene, quando Giuda tornò a casa stringendo in mano i trenta denari del tradimento, quel neonato non volle più succhiare il latte.
Venne, allora, convocato suo padre Giuseppe: appena il piccolo lo vide, prodigiosamente si mise a gridare: “Vieni, padre mio, portami via dalle mani di questa donna che è una bestia selvatica.
Ieri, nell’ora nona, hanno preso il prezzo del sangue del Giusto”.
Infatti sempre secondo i testi apocrifi, era stata la moglie a spingere Giuda al tradimento per venalità: costringeva già da tempo il marito a rubare alla cassa comune dei discepoli che, come si legge nel Vangelo canonico di Giovanni (12, 6), era appunto gestita da Giuda.
Ma la scena più clamorosa è narrata dalle Memorie o Vangelo di Nicodemo, un famoso apocrifo greco, giunto a noi anche in versione copta e latina, forse dell’inizio del II secolo.
Giuda, dopo aver tradito Gesù, si ritira a casa sua, cupo e deciso al suicidio.
Sua moglie cerca di convincerlo a non impiccarsi, certa che Cristo non potrà mai risorgere.
La donna sta arrostendo un gallo per il pranzo e scommette con il marito: “Nello stesso modo in cui questo gallo arrostito può cantare, così Gesù potrà risorgere.
Ma, proprio mentre stava parlando, quel gallo allargò le ali e cantò tre volte.
Giuda, allora, del tutto convinto, con la corda fece un capestro e andò a impiccarsi”.
È evidente la ripresa in forma surreale ed esasperata del tema evangelico del gallo che canta al momento del tradimento di Pietro.
Altri apocrifi dipingeranno la morte di Giuda, invece, come un’esplosione dopo che il suo corpo si era gonfiato a dismisura – c’è un libero riferimento ad Atti degli Apostoli 1, 18 – e rappresenteranno la sua anima mentre vaga disperata nell’Amenti, cioè negli inferi.
*** Non poteva mancare una fioritura apocrifa anche attorno a un altro attore del racconto evangelico delle ultime ore terrene di Gesù: il procuratore romano Ponzio Pilato.
Lo scrittore e martire cristiano Giustino nel 155 circa chiamava “Atti di Pilato” quelle Memorie di Nicodemo a cui abbiamo appena accennato.
Esse, infatti, contengono una vivace sceneggiatura del processo romano di Cristo, nei confronti del quale vengono avanzati come capi di imputazione la nascita impura da fornicazione e la violazione della legge, soprattutto quella del riposo sabbatico.
Ma lasciamo la parola all’antico narratore che già esalta la grandezza sovrumana di Cristo.
“Pilato chiamò un messo e gli ordinò: Mi sia condotto qui Gesù, ma con gentilezza! Il messo uscì e, quando riconobbe Gesù, lo adorò, stese a terra il sudario che aveva in mano e gli disse: Signore, cammina qui sopra e vieni perché il governatore ti chiama.
[…] Quando Gesù entrò da Pilato, le immagini che i vessilliferi reggevano sulle insegne si inchinarono da sole e adorarono Gesù”.
Sfilano poi davanti a Pilato i testimoni a discarico: ciechi, paralitici, un gobbo, l’emorroissa, tutti guariti da Gesù, e Nicodemo, membro del Sinedrio giudaico.
Qui entra in scena la moglie stessa del procuratore della quale i vari apocrifi offrono anche il nome, Claudia Procula, o Procla: “Sapete che mia moglie – dice Pilato agli accusatori di Gesù – simpatizza con voi riguardo al giudaismo.
Gli ebrei risposero: Sì, lo sappiamo! Pilato: Ecco, mia moglie mi ha mandato a dire: Non ci sia nulla tra te e quest’uomo giusto! Questa notte, infatti, ho sofferto molto a causa sua.
Gli ebrei, allora, replicarono a Pilato: Non ti abbiamo forse detto che è un mago? È lui che ha inviato a tua moglie i fantasmi dei sogni”.
È evidente anche in tal caso come la base narrativa del Vangelo canonico di Matteo (27, 19) venga ampliata con aggiunte di colore.
A questo punto Pilato – stando al Vangelo di Pietro che è stato definito “il più antico racconto non canonico della Passione di Cristo” (scritto attorno al 100 e ritrovato solo nel 1887 in Alto Egitto nella tomba di un monaco) – “si alzò; nessuno degli ebrei si lavò le mani, né Erode né alcuno dei suoi giudici”.
Solo Pilato, dunque, si lava le mani dichiarando simbolicamente la sua innocenza.
Poi, sempre secondo le Memorie di Nicodemo, “ordinò che fosse tirato il velo davanti alla sedia curule e disse a Gesù: Il tuo popolo ti accusa di assumere il titolo di re.
Perciò ho decretato che, in ossequio alla legge dei pii imperatori, tu sia prima flagellato e poi appeso alla croce nel giardino dove sei stato catturato.
Disma e Gesta, entrambi malfattori, saranno crocifissi con te”.
Appaiono così anche i nomi improbabili dei due compagni di crocifissione di Gesù, anonimi secondo Luca 23, 39-43.
È, però, soprattutto sulla vita successiva di Pilato che si scatenerà la fantasia apocrifa, compresa quella moderna: pensiamo al “Procuratore di Giudea” di Anatole France, a “Il punto di vista di Ponzio Pilato” di Paul Claudel, alla “Moglie di Pilato” di Gertrud von Le Fort, al “Ponzio Pilato” di Roger Caillois, al “Pilato” di Friedrich Dürrenmatt, al “Maestro e Margherita” di Michail A.
Bulgakov e così via.
Ci è giunta dall’antichità cristiana una relazione apocrifa inviata da Pilato agli imperatori Tiberio e Claudio con i riscontri dei destinatari, una lettera di Pilato a Erode e una “Paradosi” di Pilato, cioè un’ipotetica “tradizione” storica delle sue vicende.
C’erano persino apocrifi pagani su di lui, tant’è vero che lo storico cristiano Eusebio di Cesarea lamentava che l’imperatore Massimino Daia nel 311 avesse fatto distribuire nelle scuole delle false memorie di Pilato “piene di empietà contro Cristo” e avesse ordinato che i ragazzi le imparassero a memoria per istigarli all’odio contro il cristianesimo.
Ma gli apocrifi cristiani si accaniranno in particolare sulla morte di Pilato con esiti antitetici.
Da un lato, la citata “Paradosi” descrive una fine tragica durante una partita di caccia con l’imperatore.
“Un giorno Tiberio, andando a caccia, stava inseguendo una gazzella; ma, quando questa giunse davanti alla porta di una caverna, si fermò.
Pilato si spinse a vedere.
Tiberio lanciò nel frattempo una freccia per colpire l’animale, ma essa attraversò l’ingresso della caverna e uccise Pilato”.
Più impressionante è la fine narrata da un altro testo e divenuta popolare nel Medioevo, secondo cui Pilato morì suicida a Roma con un colpo del suo prezioso pugnale.
Gettato con un peso nel Tevere, il cadavere dovette essere ripescato perché attirava gli spiriti maligni rendendo pericolosa la navigazione sul fiume.
Traslato a Vienne in Francia e immerso nel Rodano, dovette essere recuperato per la stessa ragione e sepolto a Losanna.
Ma anche qui, a causa del suo corpo infestato di demoni, lo si dovette riesumare e scaraventare in un pozzo naturale, in alta montagna.
D’altro lato, la tradizione apocrifa cristiana esalta invece la conversione di Pilato che muore come martire, decapitato per ordine di Tiberio, e viene accolto in cielo da Cristo.
Non per nulla la Chiesa etiopica venera come santo nel suo calendario liturgico il procuratore romano.
La stessa sorte toccherà a sua moglie Claudia Procula.
Ecco, infatti, un’altra versione della fine di Pilato secondo la “Paradosi” che abbiamo sopra citato.
“Il comandante Labio, incaricato dell’esecuzione capitale, troncò la testa di Pilato e un angelo del Signore la raccolse.
Sua moglie Procula, vedendo l’angelo giunto a prendere la testa del marito, ebbe un trasporto di gioia ed emise l’ultimo respiro.
Fu, così, sepolta con suo marito Pilato per volere e benevolenza del Signore nostro Gesù Cristo”.
La conversione del procuratore era avvenuta in coincidenza della risurrezione di Cristo, secondo il Vangelo di Gamaliele, opera copta del V secolo.
Infatti, “entrato nella tomba di Cristo, Pilato prese le bende mortuarie, le abbracciò e per la gran gioia scoppiò in lacrime.
Si volse poi a un suo capitano che aveva perso un occhio in guerra e rifletté: Sono sicuro che queste bende restituiranno la luce al suo occhio.
Avvicinò a lui le bende mortuarie e gli disse: Non senti, fratello, il profumo di queste bende? Non è un odore di cadavere ma di porpora regale impregnata di soavi aromi.
[…] Il capitano prese quelle bende e si mise a baciarle dicendo: Sono certo che il corpo che voi avete avvolto è risorto dai morti! Nell’istante in cui il suo volto le toccò, il suo occhio guarì e vide la gioiosa luce del sole come prima.
Fu come se Gesù avesse posto su di lui la mano, proprio come era accaduto al cieco nato”.
*** Un capitolo particolare in molti Vangeli apocrifi è riservato ai testimoni della risurrezione che si moltiplicano rispetto ai Vangeli canonici e che diventano spettatori di epifanie clamorose.
Ecco come lo stesso Pilato narra la sua esperienza secondo il citato Vangelo di Gamaliele: “Vidi Gesù al mio fianco! Il suo splendore superava quello del sole e tutta la città ne era illuminata, ad eccezione della sinagoga degli ebrei.
Egli mi disse: Pilato, piangi forse perché hai fatto flagellare Gesù? Non aver paura! Sono io il Gesù che morì sull’albero della croce e sono io il Gesù che è risorto dai morti.
Questa luce che tu vedi è la gloria della mia risurrezione che irradia di gioia il mondo intero! Corri, dunque, alla mia tomba: troverai le bende mortuarie che sono rimaste là e gli angeli che le custodiscono; gettati davanti ad esse e baciale, diventa assertore della mia risurrezione e vedrai nella mia tomba grandi miracoli: i paralitici camminare, i ciechi vedere e i morti risorgere.
Sii forte, Pilato, per essere illuminato dallo splendore della mia risurrezione che gli ebrei negheranno”.
E di fatti Pilato giunto al sepolcro di Cristo – come si è già visto – passerà di sorpresa in sorpresa, incontrando anche il ladrone risorto.
C’è, dunque, un “altro” Cristo risorto che viene incontro negli scritti apocrifi a una folla di persone, rispetto alla ben più sobria e rigorosa narrazione dei Vangeli canonici.
Un’apparizione è riservata, ad esempio, anche all’apostolo Bartolomeo nell’omonimo vangelo apocrifo: in quell’occasione Gesù svela tutti i segreti dell’Ade, ove aveva trascorso il periodo tra la sua morte e l’alba di Pasqua.
In un altro testo è Giuseppe d’Arimatea a incontrare il Signore risorto.
Arrestato dai giudei per aver offerto a Gesù il sepolcro, egli vede avanzare Gesù con il ladrone pentito nella tenebra della sua cella: “Nella camera risplendette una luce accecante, l’edificio fu sospeso ai quattro angoli verso l’alto, si aprì un passaggio e io uscii.
Ci mettemmo in viaggio per la Galilea, mentre attorno a Gesù brillava una luce insopportabile a occhio umano e dal ladrone emanava un gradito profumo che era quello del paradiso”.
Anche Pietro, al di là delle apparizioni pasquali “canoniche”, ha un incontro straordinario registrato dagli Atti di Pietro, un apocrifo composto tra il 180 e il 190, sulla via di Roma, e divenuto la sostanza del “Quo Vadis?”, il famoso romanzo che il polacco Henryk Sienkiewicz compose tra il 1894 e il 1896.
*** Particolarmente vivace è poi la tradizione apocrifa riguardante la madre di Gesù, Maria.
I Vangeli canonici tacciono sull’incontro del Risorto con lei.
Infatti, dopo la scena del Calvario (Giovanni 19, 25-27) si passa a quella degli Atti degli Apostoli secondo la quale i discepoli di Gesù “sono assidui e concordi nella preghiera” con Maria “al piano superiore della casa [di Gerusalemme] ove abitavano” (1, 13-14) e non si aggiunge nulla sull’incontro tra la Madre e il Risorto.
A questo vuoto suppliscono abbondantemente gli apocrifi.
Riprendiamo tra le mani il Vangelo di Gamaliele.
Maria, prostrata dal dolore, rimane in casa, ed è Giovanni che le riferisce le notizie sulla sepoltura del Figlio.
Essa, tuttavia, non si rassegna a restar lontana dalla tomba di Gesù e, tra le lacrime, dice a Giovanni: “Anche se la tomba di mio Figlio fosse gloriosa come l’arca di Noè, io non ne avrei nessun conforto se non la potessi vedere per versarvi le mie lacrime.
Giovanni le rispose: Come possiamo andarci? Davanti alla tomba sono di guardia quattro soldati dell’esercito del governatore! […] La Vergine, però, non si lasciò trattenere e la domenica, di buon mattino, si recò al sepolcro.
Giunta di corsa, si guardò intorno e fissò lo sguardo sulla pietra: era stata rotolata via dal sepolcro! Allora esclamò: Questo miracolo è avvenuto a favore di mio Figlio! Si sporse in avanti, ma non vide nel sepolcro il corpo del Figlio.
Quando il sole spuntò, mentre il cuore di Maria era malinconico e triste, si sentì penetrare nella tomba dall’esterno un profumo aromatico: sembrava quello dell’albero della vita! La Vergine si voltò e in piedi, presso un cespuglio di incenso, vide Dio vestito con uno splendido abito di porpora celeste”.
Maria, tuttavia, non riconosce in questa figura gloriosa suo Figlio.
Allora inizia un dialogo simile a quello che il Vangelo di Giovanni (20, 11-18) intesse tra Maria Maddalena e il Cristo risorto e alla fine si ha lo scioglimento dell’enigma: “Non smarrirti, Maria, osserva bene il mio volto e convinciti che io sono tuo Figlio”.
E Maria replicherà augurandogli una “felice risurrezione”, inginocchiandosi a adorarlo e a baciargli i piedi.
Un’altra testimonianza, ancor più fastosa, dell’apparizione del Risorto a sua madre è conservata in un frammento copto del V-VII secolo, traduzione di un testo più arcaico.
“Il Salvatore apparve sul grande carro del Padre di tutto il mondo e, nella lingua della sua divinità, esclamò: Maricha, marima, Tiath.
Che significa: Mariam, madre del Figlio di Dio! Mariam ne capiva il senso; perciò si volse e rispose: Rabbuní, Kathiath, Thamioth.
Che significa: Figlio di Dio! Il Salvatore le disse: Salve a te, che hai portato la vita a tutto il mondo! Salve, madre mia, mia santa arca, mia città, mia dimora, mio abito di gloria del quale mi sono vestito venendo al mondo! Salve, mia brocca piena di acqua santa! Tutto il paradiso gioisce per merito tuo.
Ti assicuro, Maria, mia madre: colui che ti ama, ama la vita.
Poi il Salvatore aggiunse: Va’ dai miei fratelli e di’ loro che sono risorto dai morti e che andrò al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro.
[…] Maria disse a suo Figlio: Gesù, mio Signore e mio unico Figlio, prima di andare nei cieli dal tuo Padre, benedicimi perché io sono tua madre, anche se non vuoi che io ti tocchi! E Gesù, vita di tutti noi, le rispose: Tu sarai assisa con me nel mio regno.
Allora, il Figlio di Dio s’innalzò sul suo carro di cherubini, mentre miriadi di angeli cantavano: Alleluia! Il Salvatore stese la mano destra e benedisse la Vergine”.
Ormai con questo testo ci ritroviamo in un’altra regione, quella della devozione mariana, cara soprattutto alle Chiese d’Oriente.
L’accento scivola sulla mariologia, lasciando sullo sfondo il riferimento cristologico.
*** La ricca esemplificazione che abbiamo offerto – sebbene si riferisca a una sola fase della storia di Gesù Cristo – non rende ragione del tutto riguardo alla molteplicità tematica e ai riflessi della varie situazioni ecclesiali che sono rivelati dalle pagine apocrife.
Essa, però, riesce a mostrare in modo inequivocabile la qualità radicalmente differente, sia per attendibilità storica sia per rigore teologico, degli scritti canonici neotestamentari, esempio della loro essenzialità tematica e sobrietà narrativa.
Significativa, per contrasto, è l’elaborazione della “gnosi” – secondo la quale la salvezza è offerta solo dalla conoscenza – diffusa soprattutto in Egitto.
Essa introdurrà, ad esempio, nel Vangelo di Tommaso una collezione di frasi o detti di Gesù evangelici ed extra-evangelici, alcuni di grande interesse storico, ma anche aprirà la stura a discutibili speculazioni teologiche, spesso molto elaborate e sofisticate e fin stravaganti.
In positivo potremmo dire che, però, domina un forte senso della grandezza dell’evento cristologico e una viva coscienza dell’identità cristiana.
In un apocrifo egiziano gnostico, noto come il Vangelo di Filippo, si legge: “Se dici: Sono ebreo! nessuno si commuove.
Se dici: Sono romano! nessuno trema.
Se dici: Greco, barbaro, schiavo, libero! Nessuno si agita.
Ma se dico: Sono cristiano! Il mondo trema”.
Un anno fa misero in mostra la Genesi.
L’anno prima l’Apocalisse.
Ed entrambe le volte richiamarono a Illegio, piccolo borgo di montagna sulle Alpi della Carnia, un gran numero di visitatori, incantati dai capolavori d’arte lì raccolti da importanti musei d’Italia e del mondo.
Fu tale il successo che la mostra sull’Apocalisse fu addirittura replicata a Roma, nei Musei Vaticani.
Quest’anno, dal 24 aprile al 4 ottobre, a Illegio sono in mostra gli Apocrifi.
Cioè le memorie e le leggende non scritte nei libri dell’Antico e del Nuovo Testamento ma entrate nella tradizione cristiana, riprese dall’arte e raffigurate anche in tante chiese.
A cominciare dal bue e dall’asinello accanto al neonato Gesù, sono numerosi gli episodi e i personaggi della storia sacra tramandati al di fuori dei testi canonici della Bibbia.
Ad esempio la nascita e l’infanzia di Maria con i suoi genitori Anna e Gioacchino, il suo sposalizio con Giuseppe, i nomi e le vicende dei Magi, i particolari della fuga in Egitto, la “dormizione” della Madonna e la sua assunzione al cielo.
Sono ottanta le opere raccolte ad Illegio con soggetto gli Apocrifi e con autori di prima grandezza, come Bruegel e Guercino, Dürer e Caravaggio.
Di quest’ultimo, nelle prime settimane della mostra, è esposto lo splendido “Riposo nella fuga in Egitto” conservato nella Galleria Doria Pamphili di Roma.
Con Maria e il Bambino dormienti e un angelo che accompagna al violino un mottetto con parole del Cantico dei Cantici.
Giuseppe regge lo spartito musicale e l’asino guarda ed ascolta, estasiato.
Sulla copertina del catalogo della mostra edito da Skira c’è un dipinto del Guercino del 1628 (vedi sopra) con l’incontro tra Gesù risorto e la madre: anche questo non raccontato dai Vangeli.
La scelta di dedicare la mostra agli Apocrifi non è priva di addentellati con l’uso odierno di alcuni testi extrascritturali.
Dal “Codice da Vinci” alla vicenda di Giuda è oggi tutto un pullulare di libri e di film sostanzialmente mirati a invalidare i Vangeli: libri e film che si presentano come portatori di una “verità nascosta”, occultata dagli stessi Vangeli e dalla Chiesa.
Questo della “verità nascosta” è un carattere che già apparteneva ai testi apocrifi di impronta gnostica dei primi secoli.
Non sorprende che oggi ritrovi successo, con il moderno gnosticismo anticristiano.
Le opere d’arte esposte ad Illegio mostrano invece che larga parte degli Apocrifi hanno avuto e possono continuare ad avere tutt’altra funzione: non di contrastare e invalidare i Vangeli canonici, ma di dilatarne il racconto, di arricchirne la comprensione, di nutrire la devozione, in sostanziale continuità con la trama fondante delle Sacre Scritture.
E questa è una ragione in più per esplorare il vasto insieme degli scritti extracanonici.
È ciò che fa qui di seguito in modo avvincente l’arcivescovo Gianfranco Ravasi, studioso di fama mondiale della Bibbia e della letteratura ad essa connessa, presidente del pontificio consiglio della cultura.
Ravasi è tra quelli che hanno presentato ufficialmente al pubblico la mostra di Illegio sugli Apocrifi, lo scorso 23 aprile, a Roma, nel palazzo dell’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede.
Il suo intervento è uscito anche su “L’Osservatore Romano” del 24 aprile 2009, col titolo: “Il canto del gallo arrostito e la conversione di Ponzio Pilato”.
Ravasi si sofferma soprattutto sugli ampliamenti che gli Apocrifi hanno fatto dei racconti della Passione.
La conversione di Ponzio Pilato è uno di questi sviluppi: entrato a tal punto nella tradizione, che la Chiesa etiopica venera come santo il procuratore romano che condannò a morte Gesù.
Il sito della mostra.
con tutte le informazioni: > Apocrifi.
Memorie e leggende oltre i Vangeli Promotore della mostra è il Comitato di San Floriano, animato da don Alessio Geretti, viceparroco della pieve e studioso dell’arte cristiana.
__________ Il servizio dedicato da www.chiesa alla precedente mostra sulla Genesi: > Miracolo a Illegio, piccolo borgo di montagna (30.5.2008)
Secondo biennio – Maggio/Giugno
IX unità di apprendimento: ”Chi sono i missionari?” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * La Chiesa popolo di Dio nel mondo: avvenimenti, persone e strutture.
* Rendersi conto che nella comunità ecclesiale c’è una varietà di doni, che si manifesta in diverse vocazioni e ministeri.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire l’origine derlla missione • Comprendere che ogni cristiano è un “missionario” • Conoscere la vita e le attività di alcuni missionari di ieri e di oggi Suggerimenti operativi • Leggere il brano evangelico dell’invio degli apostoli e poi il brano della conversione di Saulo.
Attraverso la figura di Paolo avvicinarsi all’idea di missionario, l’”apostolo dei gentili”.
• Scoprire che con il sacramento del battesimo ogni cristiano diventa “missionario” nel proprio ambito di vita, anche senza percorrere migliaia di chilometri.
• Su un cartellone compilare insieme “la carta d’identità” di ogni missionario (aiutare, far conoscere Gesù, incontrare…), far riflettere i bambini prima in gruppi piccoli di 4 o 5 e poi ogni gruppetto spiegherà alla classe le proprie idee.
• Svolgere una ricerca su alcuni missionari (madre Teresa, Daniele Comboni, Giuseppe Allamano…) grazie all’aiuto di internet (a scuola o come compito a casa).
Scegliere il materiale a disposizione e costruire un libretto da lasciare in biblioteca con le informazioni raccolte.
• Se possibile, invitare a scuola un missionario per far raccontare la sua esperienza.
I bambini potrebbero preparare una vera e propria intervista.
Evidenziare le differenze/somiglianze fra la vita di un bambino di altri paesi e quella di uno italiano.
Sottolineare che si diventa missionari per seguire Gesù e per farlo conoscere agli altri, riprendere l’idea che ogni cristiano è missionario. Raccordi con altre discipline Italiano, ed.
alla convivenza, ed.
all’immagine, informatica, storia, geografia.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
2: ogni bambino ha dei diritti, non importa il colore della pelle, chi sono i suoi genitori, la religione che professa…
Art.
3: ogni bambino ha il diritto di essere amato.
Art.
14: ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione.
Primo biennio – Maggio/Giugno
IX unità di apprendimento: ”Quante regole!” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * Gesù, il Messia, compimento delle promesse di Dio.
* La Chiesa, il suo credo e la sua missione.
* Ricostruire le principali tappe della storia della salvezza, anche attraverso figure significative. * Cogliere, attraverso alcune pagine evangeliche, come Gesù viene incontro alle attese di perdono e di pace, di giustizia e di vita eterna.
OBIETTIVI FORMATIVI • Riconoscere che in ogni momento della vita sono necessarie delle regole • Comprendere la nuova alleanza fra Dio e il suo popolo attraverso il Decalogo • Scoprire che Gesù ha riassunto i 10 Comandamenti nel “comandamento dell’amore” Suggerimenti operativi • Portare in classe il tabellone di un gioco da tavolo (gioco dell’oca, cluedo, tabù…) e dire ai bambini di iniziare a giocare.
Alcuni proveranno, altri resteranno un po’ stupiti…
alla fine è importante arrivare a scoprire che senza regole condivise non è possibile giocare.
• Scoprire che le regole sono indispensabili nella vita di ogni giorno, in tutti gli ambienti di vita.
Discutere collettivamente sulle regole di un ambiente a scelta: la famiglia, la scuola, lo sport…
• Leggere il racconto di Mosè e il decalogo da una Bibbia per bambini (con un linguaggio semplificato); sottolineare che Dio con i Comandamenti stabilisce una nuova alleanza con il popolo ebraico.
Scoprire che per i cristiani non si tratta di divieti, ma di un patto di amicizia con le persone.
• Attualizzare le parole dei Comandamenti con un linguaggio più semplice, ricercare il messaggio che trasmettono ancora oggi.
• Scrivere al computer un messaggio segreto da decifrare (utilizzare l’alfabeto symbol); alla fine, risolvendo il gioco, i bambini leggeranno la frase: “ama Dio e le altre persone”.
Riflettere su questa frase e sottolineare che riassume tutto il Decalogo.
• Ricercare esempi di cristiani che si impegnano nel mettere in pratica il “comandamento dell’amore” nei vari ambiti della loro vita. Raccordi con altre discipline Italiano, storia, ed.
alla convivenza, informatica.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
14: Ogni bambino ha il diritto di seguire la propria religione. Art.
17: Ogni bambino ha il diritto di ricevere informazioni dai libri.
Classe prima – Maggio/Giugno
IX unità di apprendimento: ”I cristiani: gli amici di Gesù” OBIETTIVI SPECIFICI DI APPRENDIMENTO Conoscenze Abilità * La Chiesa, comunità dei cristiani aperta a tutti i popoli. * Riconoscere la Chiesa come famiglia di Dio che fa memoria di Gesù e del suo messaggio.
OBIETTIVI FORMATIVI • Scoprire che i cristiani sono la comunità di persone riunite nel nome di Gesù • Comprendere che la famiglia dei cristiani si ritrova in una “casa speciale”: la chiesa • Individuare i luoghi di incontro per i credenti di altre religioni Suggerimenti operativi • Riflettere sui luoghi di vita di ogni giorno: la famiglia, la scuola, il gruppo sportivo.
Far comprendere ai bambini che sono “insiemi di persone”, cioè comunità, riunite per un determinato scopo.
Disegnare sul quaderno degli insiemi con le persone che fanno parte delle varie comunità.
• Le comunità in cui si vive la quotidianità hanno un luogo di ritrovo; con una discussione collettiva scoprire in quali luoghi trascorriamo il nostro tempo, sottolineare somiglianze e differenze.
A lato degli insiemi costruiti in precedenza aggiungere il disegno del luogo di ritrovo specifico.
• Far comprendere ai bambini come anche le persone che credono in Gesù, fanno parte di una comunità: i cristiani.
Il luogo di ritrovo degli amici di Gesù è la chiesa, una casa speciale fra le altre casa di una città o di un paese.
Chiedere agli alunni se sanno dove si trova la chiesa vicina alla scuola o alla loro casa.
In una discussione collettiva scoprire se sono già entrati in una chiesa e sottolineare gli elementi che si possono trovare al suo interno.
• Ricercare attraverso internet l’immagine di una chiesa con gli elementi essenziali e darne una fotocopia a ogni bambino, da colorare e incollare sul quaderno.
• Scoprire che le religioni del mondo hanno luoghi diversi in cui le persone si riuniscono per pregare Dio.
Procurare immagini di una sinagoga e di una moschea per notare alcune differenze con la chiesa (naturalmente soffermarsi su elementi semplici da cogliere anche per bambini così piccoli).
Se in classe ci sono bambini di altre religioni chiedere a loro di dare informazioni ai compagni e individuare su un planisfero il luogo del mondo di cui sono originari e di cui parlano.
Raccordi con altre discipline Italiano, informatica, ed.
alla convivenza, ed.
all’immagine.
Riferimento al tema “Per i diritti di tutti” “Convenzione sui diritti dell’infanzia”: Art.
14: ogni bambino ha diritto di seguire la propria religione.
Steve K. Ray
Da accanito avversario della Chiesa Cattolica a suo convinto sostenitore e difensore.
Nato e battezzato nella chiesa battista, Steve K.
Ray si è convertito quindici anni fa al cattolicesimo, divenendo nel giro di qualche tempo uno dei più noti apologeti e conferenzieri americani.
Autore di numerosi libri e documentari a sostegno delle verità della Chiesa di Roma, Ray è curatore del sito web www.catholicconvert.com.
La scorsa settimana, dal 20 al 24 aprile, Steve K.
Ray è stato ospite dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA) dove ha tenuto il corso intensivo di apologetica “Le ragioni della fede”, realizzato in collaborazione con il Centro Pascal e l’Istituto Sacerdos.
Intervista allo scrittore e conferenziere Steve K.
Ray Mr.
Ray, quali sono stati i contenuti e le finalità del suo corso? Ray: Sin dal momento della mia conversione mi sono sempre trovato dinnanzi al confronto tra Chiesa cattolica e Chiese protestanti.
Mi rendevo conto della necessità di argomentare, di fornire buone ragioni alla mia scelta.
Quando padre Alfonso Aguilar LC (coordinatore del corso, ndr) mi ha proposto di tenere il corso di apologetica “Le ragioni della fede”, ho accettato con molto entusiasmo.
Il corso, pur aperto a tutti, è indirizzato soprattutto ai seminaristi di nazionalità statunitense e messicana che studiano teologia all’APRA: quando costoro torneranno in patria da sacerdoti dovranno confrontarsi con le argomentazioni e le critiche dei battisti, degli evangelici e delle varie sette.
Chi porta avanti missioni cattoliche in Usa o in Messico corre il rischio inevitabile di essere attaccato per la sua fede.
Quindi l’obiettivo del mio corso è stato quello di parlare a questi uomini, soprattutto in vista del loro futuro apostolato nei loro paesi d’origine.
Rafforzare la fede di un sacerdote è fondamentale poiché la sua predicazione può cambiare la mente e il cuore di centinaia, anche migliaia di fedeli.
I miei corsi e le mie conferenze hanno quindi soprattutto lo scopo di fornire ‘armi e munizioni’ per i futuri sacerdoti e per i cattolici in generale.
Ci vuole raccontare la storia della sua conversione? Ray: Ho sempre creduto in Gesù e nella cristianità e ho sempre letto e amato la Bibbia, tuttavia vedevo il cattolicesimo come fumo negli occhi.
Non riuscivo davvero a trovare nulla di buono nella Chiesa di Roma: per me il Papa era l’Anticristo.
Durante le mie conferenze sono solito dire che la Chiesa Cattolica era per me una splendida quercia coperta da una cortina di fumo, quindi invisibile alla mia vista.
Diventai cattolico quando mi resi conto delle contraddizioni che dilaniavano la stessa comunità protestante: nessuno di loro era d’accordo su come andava interpretata la Bibbia, nessuno era in grado di dire quale fosse l’autentico messaggio delle Sacre Scritture, non c’era nessun vero maestro tra loro, soltanto molte opinioni differenti con relative diatribe e divisioni.
Inoltre nelle Chiese evangeliche c’è solo la predicazione e manca l’Eucaristia.
Non mi ero mai reso conto che l’unica vera interpretazione della Bibbia era patrimonio della Chiesa Cattolica.
L’altro mio dilemma era di carattere morale: ci sono Chiese evangeliche che accettano il divorzio, l’aborto e la contraccezione, per cui se tu accetti questi principi puoi unirti a loro… Tutta questa confusione etica e dottrinale mi rendeva infelice e frustrato.
Fino a quando uno dei miei migliori amici si convertì al cattolicesimo, dopo essere stato a lungo un predicatore protestante, popolare anche al pubblico radiofonico.
Iniziai perciò a polemizzare con lui, argomentando l’erroneità della sua scelta.
“Convertirti al cattolicesimo è la cosa più stupida che potevi fare – gli dissi – sei troppo in gamba per diventare cattolico”.
Tuttavia, più argomentavo e riflettevo, più mi rendevo conto che la Chiesa Cattolica era dalla parte giusta.
Da bambino mi dicevano sempre che la chiesa delle origini era in un certo senso protestante; tuttavia quando ebbi il piacere di leggere le opere dei padri della chiesa (Sant’Ignazio d’Antiochia, San Policarpo e molti altri) mi resi conto che erano davvero cattolici.
Ciò mi rese sbigottito e mi mise in crisi.
Avevo sempre amato e idealizzato la chiesa delle origini, pertanto avvertivo una contraddizione nella mia appartenenza alla chiesa battista.
La mia conversione non fu accettata dai miei amici e con la maggior parte di loro ruppi ogni legame.
Mia moglie Janet, che ha fatto il mio stesso cammino, ha avuto gli stessi problemi.
Sia io che lei abbiamo litigato con le rispettive famiglie e Janet non ha parlato con suo padre per un anno.
La mia conversione ha una data precisa: 1 gennaio 1994.
Quel giorno mi misi a leggere la Bibbia e, dopo averla chiusa, con le lacrime agli occhi mi dissi: “sono un cattolico”.
La cosa incredibile è che fino a quel giorno non ero mai entrato in una chiesa cattolica, né avevo mai conosciuto alcun sacerdote cattolico.
È stata una vera grazia dal Cielo.
La più bella cosa che mi sia capitata nella vita, insieme all’aver sposato Janet.
Che differenze nota tra la fede degli americani e la fede degli europei, in particolare degli italiani? Ray: Le differenze sono notevoli.
Gli Stati Uniti rimangono un paese molto religioso, in cui la spiritualità è sempre molto forte.
La maggioranza della popolazione crede in Dio e in Gesù Cristo, legge la Bibbia, pur essendoci, anche da noi, una buona percentuale di atei, laicisti e intellettuali che rifiutano la fede.
La divisione tra cattolici e protestanti è però altrettanto marcata.
In altre parti del mondo questa divisione è meno accentuata: in Turchia, ad esempio, i cristiani sono una piccolissima minoranza e questo favorisce una maggiore solidarietà tra le diverse chiese.
Negli Usa i cristiani sono numerosissimi ma assai evidenti sono le dispute e le divisioni al loro interno.
In Europa la lacerazione più palese è quella tra laicisti e intellettuali ‘postmoderni’ da un lato e Chiesa Cattolica dall’altro.
Anche tra i cattolici stessi sussistono grosse differenze tra i cattolici ‘liberal’ e i cattolici obbedienti al Papa.
L’Italia va comunque rievangelizzata: un tempo è stata un paese indubbiamente cattolico ma, anche da voi, la miscredenza e il secolarismo hanno preso piede.
C’è chi dice di essere cristiano senza comportarsi come tale.
C’è gente che va ad ascoltare il Papa e ad applaudirlo ma, verosimilmente, dissente dall’insegnamento del Santo Padre, approvando l’aborto e la contraccezione, vivendo per il denaro e per i piaceri del mondo.
Ovviamente questo è un discorso che vale anche per l’America… Ci troviamo a Roma, capitale della cristianità, una città carica di simboli, il cui suolo è stato santificato dal sangue dei martiri.
Cosa rappresenta per lei, americano e cattolico, questa terra? Ray: Venni per la prima volta a Roma da protestante, interessandomi solo della storia e dell’arte.
La Chiesa Cattolica mi era indifferente, non mi interessavano i suoi simboli religiosi, per me erano pura idolatria.
Tutt’altra cosa fu il mio primo pellegrinaggio da cattolico: ogni opera d’arte mi sembrava estremamente ricca, bella ed elegante.
Pensare a Roma, per me, è pensare a tutta l’opera degli apostoli, una linea ininterrotta di tradizioni indissolubilmente legata a ciò che credo.
Quando vengo a Roma penso a San Pietro e San Paolo, qui martirizzati e sepolti, penso al sangue dei martiri che zampilla ovunque e ha dato vita a nuove generazioni di cristiani.
In questa tradizione vedo anche le mie radici.
Le chiese, le statue, gli affreschi, le opere d’arte di questa città sono un segno di quanto bella sia la Chiesa Cattolica.
La Chiesa è una casa per filosofi, artisti, musicisti ma è in fondo la casa di tutti noi.
Ogni volta che vengo qui a Roma ho la sensazione di immergermi in un bagno caldo, di ‘affondare’ nella mia storia personale.
Padre Agostino Gemelli
Un «gran corpo con piccolissima testa»: questa la metafora, incisiva ma alquanto impietosa, con cui padre Agostino Gemelli, qualche tempo dopo la creazione dell’Università Cattolica, definiva il cattolicesimo italiano.
La notizia viene da una lettera di Arturo Carlo Jemolo, che riporta le parole pronunciate dal rettore forse in una conversazione privata.
«Quanto alle masse cattoliche – scriveva Jemolo nel ’49 – ricordo che circa un quarto di secolo fa udii dalle Sue labbra un paragone molto sapido tra cattolicesimo francese ed italiano: il primo una gran testa senza corpo, il secondo un gran corpo con piccolissima testa».
L’Università Cattolica era stata creata da qualche anno: perché, allora, chi più sentiva la responsabilità di guidarla esprimeva un giudizio che faceva trapelare dubbi e perplessità sul grado di maturazione culturale di quel mondo cattolico che l’aveva prodotta? Gemelli metteva a confronto la creatività del cattolicesimo francese e le caratteristiche del movimento generato dall’Opera dei congressi, un tronco solido da cui erano germinati molti polloni, ma anche un ‘corpo’ cui mancavano menti capaci di indirizzarlo nel difficile confronto tra prospettiva religiosa e modernità.
Era questo il compito che si era addossato, non coincidente solo con una sfida privata tra la foggia francescana del saio che lo rivestiva e l’espulsione del cattolicesimo dai domini della ragione laica, comminata da alcuni cultori della modernità nel clima positivista di fine Ottocento, in cui lui stesso si era formato.
I cattolici – sosteneva Gemelli – non devono confutare astrattamente i nemici della fede, bensì contribuire «con la pura indagine scientifica» a formulare nuove conclusioni, per far risaltare l’incompletezza e l’incoerenza del sistema di pensiero degli ‘avversari’.
Ecco perché il rettore, amante delle scienze sperimentali, psicologo, indagatore che si avvaleva di mezzi di osservazione all’avanguardia, persino pilota all’età di sessant’anni, non aveva nulla dell’uomo di altri tempi.
Il medievalismo non gli impediva di dar vita a un’impresa culturale (l’Università) che non doveva aver nulla di arcaico.
Al centro di tale disegno vi era l’auspicio di una metamorfosi politica, sociale e culturale, che l’ateneo avrebbe dovuto favorire formando quadri rinnovati.
N on bastava creare un appartato giardino delle intelligenze cattoliche, per preservarle dai contagi della cultura laica; l’università ‘libera’ si candidava invece a fucina in cui sarebbe stata forgiata una classe dirigente integralmente cattolica e, allo stesso tempo, pienamente nazionale.
E infatti l’ateneo era strutturato per fornire agli studenti i saperi necessari ai compiti civili cui erano destinati: le discipline sociali e le scienze economiche, sostenute da un lato dalle conoscenze psicologiche che il rettore aveva fatto fruttare sul terreno patriottico, e dall’altro dall’ausilio dei filosofi neoscolastici, intenti a definire i criteri edificatori del nuovo Stato, avrebbero dovuto collocare l’ateneo del Sacro Cuore al centro del processo di rifondazione nazionale.
Università, dunque, cattolica ma anche italiana, perché alimentata da un disegno complessivo che mirava a rafforzare il senso di responsabilità civile della cattolicità italiana, per trasformarla, da luogo della contestazione degli assetti liberali, a sorgente di un modo diverso di essere cittadini.
Il fascismo si inserì in questo progetto, alterandone parzialmente le caratteristiche.
L’Università si trovò ben presto ad operare all’interno di un sistema a vocazione totalitaria, che complicava la strategia del rettore.
Finiva allora per polemizzare, non solo con l’agnosticismo moderno, ma con la forzata attrazione dell’individuo nello Stato etico idealista, paventando un inasprimento della temperie autoritaria.
E infatti le autorità fasciste valutavano con preoccupazione l’ancoraggio al modello di Stato cattolico, preteso da Gemelli, e lo stile educativo dell’ateneo, accusato di «non educare fascisticamente » e dunque al centro di lunghi contenziosi, momenti di rottura e faticose ricomposizioni.
La rigidità dimostrata da Gemelli si spiega anche con la necessità di porre un argine nei confronti di aperture pericolose per la collocazione di una libera università in età dittatoriale.
La scelta per la rigorosa ortodossia diveniva, non solo un limite alla ricerca individuale, ma una specie di difesa dal mondo che Gemelli si augurava funzionasse anche nei confronti della dittatura.
L’inamovibilità dottrinale, peraltro, era il sostrato che apriva a una sorta di sperimentalismo in diversi settori.
Quanto al fascismo, si può osservare che, pur fra cedimenti e alterazioni del progetto, Gemelli riuscì a difendere l’intuizione originaria, apprestando, in vista della successione, una porzione notevole della classe dirigente che ha guidato il Paese dopo il ’45.
L’Università Cattolica, che già forniva giovani all’insegnamento, alle carriere universitarie e alle libere professioni, vide molti docenti e laureati entrare nelle istituzioni nazionali, nella pubblica amministrazione, negli enti locali e nei punti nevralgici per la ricostruzione del Paese, contribuendo alla rinascita democratica, alla fondazione della Dc ( i documenti ci dicono che padre Gemelli, d’accordo con Montini e con De Gasperi, ha convinto Pio XII dell’opportunità di sostenere il nascente partito cattolico), all’Assemblea costituente, alla ripresa economica e al ripristino di libere attività sindacali.
Parlare del suo rettore significa insomma riflettere su un intellettuale e su un organizzatore di cultura che non ha esitato a fare i conti con la propria epoca.
Si devono discutere i risultati ottenuti, le luci e le ombre di quella attitudine progettuale, gli esiti teorici e pratici, non ultimo, probabilmente, il fardello ideologico trasmesso ai suoi eredi.
Tali valutazioni, tuttavia, devono riconoscere a padre Gemelli almeno una capacità: quella di incidere sul proprio tempo, una capacità che forse altre volte, in campo cattolico, ha faticato a mostrarsi.
Maria Bocci I rapporti tra Ratti e Gemelli venivano da lontano.
Non è escluso che all’inizio del Novecento l’allora dottore dell’Ambrosiana possa avere avuto qualche influsso sulla conversione del giovane scienziato positivista e socialista.
L’ipotesi è avvalorata da un cenno contenuto nella commemorazione del Papa appena defunto fatta dal rettore il 28 febbraio del 1939, due settimane appena dopo la sua scomparsa.
Riferendosi agli anni in cui Ratti aveva lavorato all’Ambrosiana, disse che “le sue ore di riposo erano dedicate alla lettura e alla amicizia di uomini di profondo senso religioso”.
Ma, aggiunse, egli “coltivava anche altre amicizie, per quell’istinto che il Sacerdote ha di cercare le anime lontane da Dio e che hanno bisogno del Sacerdozio”.
È molto probabile che Gemelli intendesse includere fra quelle anime anche la sua.
Poi il futuro pontefice era passato indenne attraverso la vicenda modernista – “mantenne una posizione di equilibrio”, ricorda Gemelli nella commemorazione appena citata – nonostante l’amicizia che lo legava a Gallarati Scotti, ed era successivamente salito prima al vertice dell’Ambrosiana e poi della Biblioteca Vaticana, non toccato, evidentemente, dai dubbi di Pio x sulle infiltrazioni modernistiche nella diocesi di Milano. Ma da uomo di libri e di cultura, abituato a muoversi nel mondo scientifico, fra gli intellettuali e gli studiosi, non solo in Italia, era ben consapevole della modestia della cultura cattolica del nostro Paese, della sua inferiorità rispetto alla situazione di altri nazioni europee.
Nicola Raponi ha opportunamente ricordato la sua partecipazione al Congresso degli scienziati cattolici svoltosi a Friburgo nel mese di agosto del 1897.
In quella sede le critiche rivolte agli studi cattolici italiani furono impietose, fino alla bocciatura dell’idea di tenere a Roma il successivo congresso, motivata dal fatto che da Roma e dall’Italia non venivano né luci di scienza, né pubblicazioni di rilievo, né riviste importanti, né uomini significativi.
La discussione che si svolse dopo l’assise tedesca sulle pagine della “Rassegna nazionale”, della “Cultura sociale” di Romolo Murri e, proprio ad opera di Ratti, della “Rivista Internazionale di Scienze Sociali”, cambiò prospettiva all’idea di istituire una università cattolica in Italia.
Da problema giuridico e antagonistico, come era stato posto fino ad allora in seno all’Opera dei Congressi, divenne problema di sostanza: uomini da formare, attitudini e sensibilità da creare, collegamenti internazionali da promuovere.
Gemelli, che allora stava iniziando i suoi studi accademici, raccoglierà in seguito queste idee e con esse il testimone di un progetto che sarebbe stato insieme di rinnovamento delle forze cattoliche, di scontro con la predominante cultura scientista e anticattolica, ma anche di costruttiva rifondazione della vita nazionale.
La lunga crisi che seguì la Prima guerra mondiale, la strisciante guerra civile che preparò la vittoria del fascismo, dimostrò che l’Italia liberale era giunta al capolinea, cosa che non poteva dispiacere all’anima intransigente di cui erano profondamente nutriti tanto Achille Ratti, che si era formato proprio negli anni della protesta ottocentesca, quanto Agostino Gemelli, a motivo della sua conversione.
Non era crollata l’Italia, esito a lungo sperato dall’intransigenza postrisorgimentale, ma era crollato il regime politico che l’aveva fatta.
Il senso del celebre discorso di Pio XI ai quadri dell’Università Cattolica, tenuto il 13 febbraio del 1929, era in fondo questo.
Non era nata un’Italia migliore, ma almeno era finita quella peggiore, cioè l’Italia “della scuola liberale – disse il Papa – per gli uomini della quale tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o piuttosto disordinamenti, erano altrettanti feticci”.
Subito, infatti, era stato possibile restituire status giuridico e piena dignità di soggetto internazionale alla Santa Sede attraverso i Patti Lateranensi, “grazie ad un uomo” , per citare le esatte parole del pontefice, “come quello che la Provvidenza “Ci ha fatto incontrare””.
Mussolini non era insomma “l’uomo della Provvidenza” di tante semplificazioni, bensì il casuale interlocutore che rese possibile la soluzione dell’annoso conflitto proprio perché era estraneo alle pregiudiziali del liberalismo.
Ora toccava ai cattolici costruire, sui cocci e sulle macerie di quei “disordinamenti”, il futuro del Paese.
E l’Università Cattolica si proponeva come la punta di diamante della ricostruzione.
Ma occorreva che non vi fossero altre istituzioni analoghe per non frammentare un disegno nazionale che solo dall’unicità dell’indirizzo e del riferimento avrebbe tratto senso, come ha ricordato proprio qui in Cattolica qualche anno fa Giuseppe Dalla Torre, rammentando l’opposizione di Gemelli alla costituzione, a Roma, di quella che oggi è la Libera Università Maria Santissima Assunta (Lumsa), cioè di un secondo polo universitario cattolico.
Non erano allora preventivabili i tempi della fine del fascismo né gli sviluppi successivi, con il lungo governo della Democrazia Cristiana, ma alla luce di quanto è poi avvenuto non si può non riconoscere che il disegno del Papa e di Agostino Gemelli guardasse molto lontano.
Questo disegno è prefigurato, più o meno chiaramente, nella lunga lettera che Ratti aveva inviato a Gemelli dalla nunziatura di Varsavia il 28 marzo del 1921, tanto lunga che prima di concluderla sentì il bisogno di scusarsi di avere scritto sopra e oltre le righe.
In quella lettera, esprimendo tutto il suo incontenibile entusiasmo per la fondazione dell’Università, il futuro pontefice si era espresso in termini molto simili a quelli che userà il rettore, come vedremo fra poco, sebbene con il linguaggio sovrabbondante che gli era caratteristico, così diverso dal periodare secco ed essenziale del francescano.
Scriveva il futuro pontefice: “Forse mai come adesso è stato grande e stringente il bisogno di tali aiuti (gli aiuti divini, ndr) mentre la società disfatta e dissanguata alla guerra mondiale e dalle sue conseguenze immediate anela ad una restaurazione, ad una rinascita che non possono venirle se non appunto dalla scienza e dalla sapienza di cui il Cuore divino serba il tesoro e il segreto.
È ben qui dove è dato vedere una particolare utilità e necessità di una Università cattolica in Italia.
Soltanto un istituto di alta cultura scientifica dove il Dio delle scienze e la scienza di Dio tengono il posto che loro serbarono Dante e Manzoni, soltanto una tale Istituzione può procurare alla restaurazione e rinascita cristiana della società i più utili e insieme i più necessari elementi di azione e di reazione, di direzione soprattutto; preparando dei laici di una completa formazione scientifica, insieme e cattolica, che è quanto dire scientificamente e cattolicamente consapevoli e persuasi dei diritti di Dio e della Chiesa, dei bisogni della società e della patria, dei fini da raggiungere e dei mezzi da impiegare per provvedere agli uni e agli altri”.
È in questo quadro, dentro i progetti e le illusioni di poter costruire una nuova Italia, che si situa la battaglia per la libertà della scuola, anch’essa portata avanti congiuntamente e in piena sintonia dal Papa e dal rettore.
Il tema della libertà della scuola era stata la punta di diamante delle vecchie lotte dell’intransigenza, ma nel clima postbellico e in presenza di un regime politico come quello fascista, in particolare dopo la Conciliazione, la questione entra in una prospettiva nuova, di competizione piuttosto che di contrapposizione, si rivolge al futuro piuttosto che guardare al passato, come ha ricordato con acutezza in un convegno di qualche anno fa Maria Bocci.
Per Gemelli e per Ratti era certamente necessario sottrarre i cattolici ai luoghi di formazione laicisti e anticlericali, ma non era meno importante contribuire al rinnovamento della vita nazionale portando linfa nuova, energie finora inutilizzate quando non apertamente respinte.
La guerra aveva rivelato la fragilità del tessuto nazionale, la debolezza del senso di appartenenza, l’estraneità delle classi dirigenti rispetto all’anima profonda del Paese.
E ora la crisi dello stato liberale portava a conclusione un intero ciclo storico, aprendo alle forze sociali e culturali rimaste fino ad allora escluse spazi che chiedevano soltanto di essere occupati.
“L’università cattolica – disse il rettore nella relazione di apertura dell’anno accademico 1923-24 – nasceva nel dicembre del 1921 come un esperimento fondato soprattutto sulla fiducia che anche noi cattolici abbiamo nel risorgimento della grandezza del nostro Paese e sulla persuasione che da decenni ci anima, e cioè che la scuola potrà contribuire più di ogni altro istituto a questo risorgimento nazionale, solo se essa sarà libera e se potranno, nel promuoverne l’incremento, cimentarsi in nobile gara, mirando solo all’educazione e alla formazione delle nuove generazioni, tutte le energie sane e fattive del Paese”. Per Gemelli, e per gli uomini della sua generazione, era chiarissimo quello che per noi oggi è meno chiaro: che l’Italia non è fondata su armonie sociali prestabilite, ma è un Paese costruito attraverso contrapposizioni, disarmonie, strappi, diversità storiche, ideologiche, culturali, sociali.
Se questa è l’Italia, un Paese lacerato, tutt’altro che compatto, la pretesa di imporre a tutti il medesimo itinerario educativo, neutro e agnostico, era mera illusione.
Molto più realistico era prendere atto di queste eterogeneità e consentire, dentro un comune quadro normativo, la libera competizione di istituti scolastici dichiaratamente orientati, tali da garantire alle famiglie il diritto di scegliere per i figli percorsi educativi coerenti.
Col tempo e con il dispiegarsi del disegno totalitario fascista, cioè dello Stato etico di marca gentiliana, questa idea si caricò di significati nuovi, imprevisti e imprevedibili al momento della nascita dell’Università.
Da rivendicazione di sapore quasi confessionale, come era stata nella vecchia cultura cattolica, divenne difesa della libertà di tutti, benché riferita soprattutto alle prerogative della Chiesa, come scrisse Pio XI nel 1931, nell’enciclica Non abbiamo bisogno.
Il proposito “di monopolizzare interamente la gioventù, dalla primissima fanciullezza fino all’età adulta – affermò il Papa nell’enciclica – a tutto ed esclusivo vantaggio di un partito, di un regime, sulla base di un’ideologia che dichiaratamente si risolve in una vera e propria statolatria pagana”, confligge irrimediabilmente con i “diritti naturali della famiglia e coi diritti soprannaturali della Chiesa”.
La lotta per il riconoscimento della scuola libera diventava, nella prospettiva comune al Papa e a Gemelli, non tanto lotta per la libertà di coscienza, che sarebbe stato andare troppo oltre l’ecclesiologia del tempo, ma lotta strenua per la “libertà delle coscienze”, della quale la famiglia era l’irrinunciabile baluardo, in una concezione del vivere sociale alternativa a quella del fascismo, concezione che intendeva lo Stato come ente sussidiario di istituti preesistenti e non come istituto monopolistico, totalizzante e fondante il diritto.
La famiglia aveva diritti e doveri che precedevano quelli dello Stato, soprattutto in materia di educazione e istruzione dei figli.
Queste erano prerogative che lo Stato non poteva manomettere Sul tema della famiglia intesa come ultimo, estremo bastione difensivo davanti all’avanzata dello stato etico, l’archivio dell’Università Cattolica conserva quattro chiarissimi memoriali inviati da Gemelli al Papa, purtroppo non datati.
L’Ateneo del Sacro Cuore, anello conclusivo di un percorso scolastico che si voleva alternativo a quello della scuola e dell’università statale, divenne così una sorta di bandiera della cattolicità italiana, fermamente difesa dalla Santa Sede e oggetto fino all’ultimo delle trattative concordatarie.
Conservato nell’archivio dell’università c’è un lungo promemoria inviato da Gemelli all’avvocato Francesco Pacelli il 6 febbraio del 1929, solo qualche giorno prima della conclusione dei Patti, volto a fissare i termini giuridici con i quali l’università avrebbe dovuto essere indicata nel concordato.
Non mi soffermo su questo documento.
È importante però precisare che per volontà del Papa, una volontà che in questo caso si sovrappose e si impose a quella del rettore, diversamente orientata, non fu mai messa in dubbio la sua natura di università statale piuttosto che pontificia.
Il Papa era convinto che in questo secondo caso si sarebbe sganciato l’ateneo dal sistema pubblico italiano, compromettendone il carattere nazionale, voluto fin dall’inizio, nonchè il prestigio accumulato nel mondo scientifico e accademico del Paese.
Gianpaolo Romanato (©L’Osservatore Romano – 27-28 aprile 2009)
La pari dignità degli insegnanti di religione.
Le dichiarazioni del ministro Gelmini al meeting degli insegnanti di religione cattolica promosso a Roma dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI), secondo cui “l’insegnamento della religione deve avere la stessa dignità delle altre materie”, possono avere anche un valore concreto che travalica le questioni di principio.
Di valutazione dell’insegnamento della religione cattolica non si è parlato, ma potrebbe essere una delle conseguenze di quelle dichiarazioni.
Prima dell’emanazione della legge 169/2008 che ha reintrodotto la valutazione con voto in decimi, la religione, per esplicita previsione normativa (art.
309 del Testo Unico sulle norme per l’istruzione) era valutata con un giudizio sintetico.
Ma dopo sono sorti dubbi: voto o giudizio? In occasione dell’espressione di parere sullo schema di regolamento per il coordinamento delle norme sulla valutazione, il Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (CNPI) nel dicembre scorso è intervenuto nel merito della valutazione delle diverse discipline di studio affermando che “Il CNPI rivendica, altresì, la necessità di garantire la pari dignità di tutti gli insegnanti, concorrendo ciascuno alla crescita dello studente nel rispetto delle sue vocazioni ed attitudini , in modo da evitare inaccettabili differenziazioni, tra gli insegnanti di educazione fisica e religione e gli altri insegnanti”.
Nello schema definitivo di regolamento sulla valutazione – attualmente al vaglio del Consiglio di Stato – la questione del voto in decimi per l’insegnamento della religione cattolica è rinviato ad apposita intesa, a meno che il ministro Gelmini, in coerenza con quanto affermato, non ne voglia anticipare l’applicazione correggendo subito il testo del regolamento.
TuttoscuolaFOCUS lunedì 27 aprile 2009
Islam in Europa / Islam in Italia tra diritto e società
A.
FERRARI (a cura di), Islam in Europa / Islam in Italia tra diritto e società, Il Mulino, Bologna, 2008, ISBN: 978-88-15-12489-0, pp.
376, € 28,00 L’islam ha cambiato la geografia religiosa dell’Europa occidentale.
Tuttavia, benché irreversibile, l’integrazione delle comunità musulmane nel “Vecchio continente” conosce tutte le difficoltà e le contraddizioni tipiche dei grandi processi sociali, che coinvolgono nel profondo sia le pubbliche istituzioni sia i vissuti quotidiani dei singoli.
Di qui la tensione tra “antichi” e “nuovi” costumi; fra la “tradizione delle radici” e le sfide del presente cui essa è confrontata.
Ma qual è, oggi, il volto dell’islam europeo ed italiano? Quale la situazione dell’islam nella scuola; delle moschee; degli imam? A che punto si trova la prospettiva di un’intesa con lo Stato? Quali sono le esperienze europee che potrebbero rivelarsi più utili nell’affrontare queste ed altre questioni, a cominciare da quelle poste dalle famiglie musulmane? Con un approccio interdisciplinare, i saggi raccolti in questo volume intendono fare il punto della situazione e offrire alcune indicazioni operative per il futuro.
Indice: Nota introduttiva, di A.
Ferrari – p.
7 PARTE PRIMA: LA SITUAZIONE.
L'”islam europeo” e i suoi volti, di F.
Dassetto.
– p.
13 Islam italiano e società nazionale, di S.
Allievi.
– p.
43 Le questioni normative, di S.
Ferrari.
– p.
77 PARTE SECONDA: FAMIGLIA E MATRIMONIO.
Famiglie musulmane in Italia.
Dinamiche sociali e questioni giuridiche, di L.
Mancini.
– p.
91 Il matrimonio: conflitti di leggi o di culture?, di G.
Conetti.
– p.
111 A proposito del matrimonio islamico in Italia, di A.
Albisetti.
– p.
121 Diritto matrimoniale inglese e legge musulmana, di W.
Menski.
– p.
129 PARTE TERZA: LA SCUOLA.
Studenti musulmani e prospettive dell’educazione interculturale, di M.
Santerini.
– p.
149 La scuola italiana di fronte al paradigma musulmano, di A.
Ferrari.
– p.
171 L’islam nel sistema scolastico inglese, di B.
Gates.
– p.
199 PARTE QUARTA: IMAM E MOSCHEE.
Quali imam per quale islam?, di P.
Branca.
– p.
219 Moschee e formazione degli imam in Francia, di B.
Basdevant Gaudemet.
– p.
233 Moschee e formazione degli imam in Austria, di W.
Wieshaider.
– p.
249 PARTE QUINTA: VERSO UN’INTESA TRA STATO ITALIANO E ISLAM? L’ente di culto e gli statuti nell’islam, di N.
Colaianni.
– p.
259 La rappresentanza e l’intesa, di G.
Casuscelli.
– p.
285 PARTE SESTA: REALTÀ E PROSPETTIVE.
Tariq Ramadan, p.
325 Maurice Borrmans, p.
335 Francesco Margiotta Broglio, p.
343 (pdf) Alessandro Ferrari insegna Diritto canonico e Diritto ecclesiastico nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università dell’Insubria.
Tra le sue pubblicazioni, “Libertà scolastiche e laicità dello Stato in Italia e Francia” (Giappichelli, 2002) e, con R.
Aluffi Beck-Peccoz e A.M.
Rabello, “Il matrimonio.
Diritto ebraico, canonico e islamico: un commento alle fonti” (Giappichelli, 2006).
Per il Mulino ha curato, con E.
Dieni e V.
Pacillo, “Symbolon/Diabolon.
Simboli, religioni, diritti nell’Europa multiculturale” (2005).
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