Irc e regolamento della valutazione

L’anno scolastico è ormai in dirittura d’arrivo ma non si vede all’orizzonte il regolamento della valutazione che dovrebbe fornire indispensabili istruzioni per lo svolgimento degli scrutini finali.
Il 13 marzo scorso il Consiglio dei Ministri ha approvato in prima lettura uno schema di regolamento che è stato trasmesso al Consiglio di Stato per il prescritto parere e che deve poi essere approvato definitivamente in seconda lettura dal Consiglio dei Ministri per passare alla firma del Presidente della Repubblica e al visto della Corte dei Conti.
Se siamo ancora fermi alla seconda tappa (il Consiglio di Stato ha dato parere favorevole lo scorso 8 maggio), appare difficile che il sospirato regolamento possa arrivare in tempo per gli scrutini finali.
Per certi aspetti, il regolamento potrebbe anche essere inutile, dato che la legge 169/08 ne ha prevista l’emanazione per il solo «coordinamento delle norme vigenti per la valutazione degli alunni» (art.
3.5): se le norme sono già vigenti, anche senza regolamento potranno e dovranno essere applicate.
Ma la legge attribuisce al regolamento anche il compito di stabilire «eventuali ulteriori modalità applicative del presente articolo».
È in questione, per esempio, la partecipazione del voto di comportamento alla media dei voti.
È in questione anche l’adozione del voto numerico per l’Irc.
Come è noto, rispetto alla prima versione, che dedicava alla valutazione dell’Irc un intero articolo, lo schema attualmente in esame riserva all’Irc solo un comma, ripetuto una volta per il primo e una volta per il secondo ciclo di istruzione (artt.
2.4 e 4.3).
Questo il testo: «La valutazione dell’insegnamento della religione cattolica resta disciplinata dall’articolo 309 del decreto legislativo 16 aprile 1994, n.
297, ed è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche all’intesa di cui al punto 5 del Protocollo addizionale alla legge 25 marzo 1985, n.
121».
Il sintetico testo dice due sole cose: 1) la valutazione dell’Irc non può essere espressa con voto numerico; 2) la situazione potrebbe cambiare con una modifica all’Intesa Cei-Mpi del 1985.
Sul primo punto è ineccepibile che l’art.
309 del Testo Unico di legislazione scolastica sia in vigore e quindi costituisca un riferimento vincolante.
Ma è ugualmente in vigore anche l’art.
304 del Testo Unico, che esclude il voto di educazione fisica dalla media per l’ammissione agli esami, e questo articolo viene espressamente abrogato dallo schema di regolamento, dato che solo ora ci si è accorti della sopravvivenza di una norma contraddetta da una prassi generalizzata e da specifiche disposizioni ministeriali circa il conteggio del voto di educazione fisica nella media per la definizione del credito scolastico negli esami di stato di scuola superiore.
Se il regolamento può abrogare l’art.
304 (la cosa è tecnicamente discutibile, ma il Consiglio di Stato non ha fatto obiezioni), perché allora non abrogare anche l’art.
309? La giustificazione sarebbe fornita dalla ratio della legge 169/08, che prevede l’uso del voto numerico per «la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite», senza alcuna limitazione o esclusione.
Sarebbe perciò coerente intervenire anche sull’art.
309 per evitare una disparità di trattamento che potrebbe essere letta come una di quelle forme di discriminazione, escluse proprio dal Concordato.
La restrizione applicata al solo Irc vorrebbe essere giustificata con la riserva contenuta nella seconda parte del comma citato, che invoca la natura concordataria delle modalità valutative dell’Irc.
Ma proprio l’Intesa, nell’affrontare incidentalmente la materia valutativa (punto 2.7), mantiene «fermo quanto previsto dalla normativa statale in ordine al profitto e alla valutazione per tale insegnamento».
La valutazione dell’Irc non è quindi materia pattizia e il riferimento all’Intesa contenuto nello schema di regolamento è semplicemente un errore o un goffo tentativo di spostare altrove la responsabilità di una decisione probabilmente imbarazzante.
L’iter del regolamento è tale che, se anche dovesse riuscire a completare il suo percorso e comparire in Gazzetta Ufficiale prima degli scrutini di giugno, per l’Irc rimarranno comunque le incomprensibili disposizioni che fin dal 1930 escludono per esso la possibilità di ricorrere al voto numerico.
Ma il caso non può risolversi definitivamente così e la competenza a decidere spetta al Ministero.
Sarebbe assai strano che lo Stato volesse rinunciare ad una sua specifica prerogativa trasformando in pattizio un argomento che è unicamente attribuito alla sua decisione.
C’è chi potrebbe parlare di ferita alla laicità dello Stato.
E proprio il livello concordatario potrebbe rivelarsi un boomerang, dopo che la Cei ha fatto conoscere il proprio gradimento ad una soluzione uniforme che integri la valutazione dell’Irc nelle modalità previste per le altre discipline.
Anche se la sede più propria era il regolamento della valutazione, ancora altri regolamenti attendono di essere emanati: per esempio c’è quello per il secondo ciclo, che è stato momentaneamente accantonato per lo slittamento di un anno nell’attuazione della riforma, ma il 2010 è vicino e questo potrebbe comunque essere l’ultimo anno in cui l’Irc sarà ancora valutato mediante giudizi.
    P.S.: I guai per lo schema di regolamento non finiscono qui.
Sempre in relazione all’Irc c’è la questione della valutazione delle attività alternative, che sono state inopinatamente declassate a contributo di valore solo consultivo in sede di scrutinio, contro le disposizioni ministeriali che fin dal 1987 (CM 136) avevano attribuito all’insegnante che le curava gli stessi diritti e doveri degli Idr «anche ai fini della partecipazione a pieno titolo ai lavori di tutti gli organi collegiali della scuola, ivi comprese le operazioni relative alla valutazione periodica e finale».
Si può obiettare che una circolare non è una legge, ma la disparità di trattamento è evidente e qualche avvocato sta già scrivendo il ricorso.

“Angeli e demoni”: il rapporto fra scienza e fede.

Demoni confusi nel parco giochi di Ron Howard di Luca Pellegrini I santi di travertino che ornano il colonnato di piazza San Pietro ne hanno certamente viste tante, nei secoli.
Questa volta, però, impietriti davvero, non si sarebbero mai immaginati che tra quelle colonne e pilastri si potesse scatenare una frenetica ricerca, senza esclusione di colpi: da qualche parte sul colle Vaticano è pronta a esplodere un’ampolla di ipotetica antimateria a confronto della quale l’atomica assomiglia a un petardo.
Minaccia direttamente il conclave e con questo il futuro della Chiesa, mentre un assassino pazzoide scatena il panico volendosi sbarazzare, con molta fantasia e crudeltà, di alcuni eminenti cardinali in nome della difesa della scienza e della verità scientifica, contro (ancora una volta) il supposto oscurantismo ecclesiastico.
L’eroe senza fede, ma con intelletto fino e intuito da vendere, chiamato di gran fretta in Vaticano per dare una mano, è il professore americano Robert Langdon, imbattibile quando si tratta di decifrare simboli e svelare misteri: si muove agevolmente tra manoscritti e antichi libri, si trasforma in coraggioso avventuriero nell’Urbe – splendidamente fotografata da Salvatore Totino – e in un cauto investigatore tra i Sacri Palazzi, intercetta fantomatiche minacce, decodifica complotti secolari, insegue i cattivi e salva il futuro Papa, preparandosi forse a nuove avventure.
Certamente è un personaggio utile più al cinema che alla Chiesa, il protagonista di Angeli e demoni.
Può rimanere comodamente negli interstizi della storia dello spettacolo, forse sarà a breve dimenticato, così come la scaltra operazione letteraria da cui proviene – ossia il fortunato, sbilenco e inverosimile romanzo di Dan Brown, solo leggermente adattato e limato alle esigenze della pellicola – che non porta certo il sigillo della cultura, semmai quello della gigantesca e furbesca operazione commerciale.
Il grossolano impianto immaginativo serve a Ron Howard per imbastire un film pretenzioso, eppure ben alimentato da una regia dinamica e attraente – l’americano è un artista eclettico di innegabili qualità, soprattutto quando affronta generi più seri e di dimensione cameristica, come il recente Frost/Nixon – che strizza l’occhio ai fumetti, al thriller e al fantasy.
Langdon – ancora Tom Hanks, migliore che nell’irritante e irriverente Codice da Vinci – è un frullato di personaggi stereotipi: Hercules Poirot, James Bond, Indiana Jones, Ethan Hunt, l’agente di Mission impossible, e Ben Gates, l’eroe che svela Il mistero dei templari e Il mistero delle pagine perdute.
Questa volta lascia da parte, fortunatamente, i dogmi della fede cristiana e si cala coraggioso in una realtà sconosciuta e che non gli appartiene: la Santa Sede, della quale sono stati ricostruiti magnificamente in studio e con il computer alcuni ambienti topici come la Basilica Vaticana e la Cappella Sistina, dove avvengono fatti per nulla abituali.
È un addensarsi di secoli di storia e di riti quello che si trova a fronteggiare per oltre due ore di innocuo intrattenimento, che scalfisce ben poco il genio e il mistero del cristianesimo, attenendosi anche questa volta a sbrigativi (e manichei) luoghi comuni.
Il Vaticano con i suoi monumenti, palazzi, uffici e residenze, è rappresentato come un condensato di arte inespugnabile, un’area geografica diversa da tutte le altre e spesso invalicabile ai più.
Viene invaso dalle teorie farneticanti e dalle vendette imminenti di una fantomatica setta segreta (gli Illuminati) mentre sul piano temporale è concentrato sulla storia delle successioni papali: l’inizio del conclave e la scelta del successore di Pietro.
Spazio e tempo collimano generando un immenso – e per Hollywood assai redditizio – parco giochi, un cinema opulento, effimero e accattivante nel quale tutti trovano il loro spazio: sacerdoti e alti prelati, guardie svizzere e gendarmi vaticani, carabinieri e popolo di Roma, figurine di un videogame che accende prima di tutto la curiosità, e poi, forse, diverte anche un po’.
Non vale la pena elencare le incongruenze storiche e le iperboliche cerimonie che si susseguono irreversibili nel film (il camerlengo, i cardinali “preferiti”, l’assassinio di un Papa, i riti e i ruoli), anzi può essere un divertimento aggiuntivo quelle di scoprirle, annotarle e vincere come in un gioco.
Mentre scorrono i titoli di coda, sarebbe però utile riflettere sul perché la cultura cattolica – così vicina al cinema che è stato uno dei suoi strumenti prediletti – sembra oggi quasi avere lasciato alla finzione d’oltreoceano e alla falsità storica il compito di parlare sui grandi media della Chiesa e della sua realtà più profonda.
Nella quale gli angeli le sono vicini.
E i demoni? Sono confusi, come il film ai quali si ispira.
(©L’Osservatore Romano – 7 maggio 2009) Angeli e demoni: il titolo è ben scelto, ma il romanzo è modesto, così come il film, salvato solo dalla presenza di Tom Hanks, attore di consumata bravura.
Il vero problema, allora, è quello di capire le ragioni di tanto successo, ragioni che interessano i cattolici perché le opere di Dan Brown trattano della Chiesa, e più precisamente si inseriscono nel filone del fantavaticano, che però lo scrittore americano ha portato a successi mai visti.
Cosa piace tanto di Dan Brown? Senza dubbio, che tratti di religione e di mistero, cioè di quei temi che la secolarizzata cultura contemporanea, tutta ragione e scienza, evita sempre con cura, ma che rimangono sempre vivi, se pure apparentemente dimenticati, nell’immaginario contemporaneo.
Che la religione affronti il mistero della vita e della morte, e dunque il senso del nostro vivere e morire, è indubbio: proprio per questo una società che sembra felicemente assestata su una cultura materialista e superficiale – fondata su una fede nella possibilità di spiegare ogni cosa con la scienza, e forse anche di vincere la morte – ne è in fondo assetata.
Questo innanzi tutto rivelano i successi di Dan Brown.
Ma allora perché tale successo non arride alla Chiesa, che diffonde il messaggio evangelico con ben altra profondità e levatura? Perché pochi hanno il coraggio di mettere in discussione un’identità così come vuole il politically correct del contesto di oggi, e Dan Brown offre religione e mistero all’interno di questo rassicurante recinto.
Il mistero che inserisce nei suoi intrecci, infatti, evita le questioni profonde, limitandosi a lambirle: è un mondo fantastico di sette segrete e misteriose che combattono all’interno della Chiesa, ridotta in fondo a setta anch’essa.
La tradizione cristiana vi è raffigurata come un patrimonio di simboli e di testi occulti, che la scienza – ben rappresentata dall’eroe, l’agnostico professore americano – sa decifrare, a differenza dei suoi rappresentanti ufficiali, che hanno dimenticato la loro storia per cancellare il sangue di cui sarebbe intrisa.
Quello che si vuole dimenticare è infatti sempre legato a menzogne e a sanguinose repressioni, che svelerebbero il volto nero e crudele della Chiesa, sempre in bilico fra purezza evangelica ed efferato delitto.
Il tema dunque è in fondo sempre lo stesso, nei due romanzi: una setta contro la Chiesa, anche se le parti dei buoni e dei cattivi si distribuiscono diversamente.
Questa volta, con Angeli e demoni, la Chiesa è dalla parte dei buoni, anche se paga il prezzo di immaginarie efferatezze passate.
Nel Codice da Vinci i buoni, invece, erano fuori della Chiesa, e ne minavano, addirittura, la base.
Piuttosto innocuo, dunque, è questo secondo romanzo (e film), che però era stato scritto prima, a dimostrare che il vero successo poteva venire solo dal rovesciamento della tradizione osato nel Codice da Vinci.
In entrambi – con una certa grossolanità ma non senza acutezza – si affrontano questioni chiave per la Chiesa contemporanea: nel Codice la sessualità, in Angeli e demoni il rapporto fra scienza e fede.
Il punto di vista è quello meno problematico possibile: i buoni sono sempre i progressisti a favore del sesso e della scienza, siano essi eretici o Papi, e cattivi quanti si oppongono in nome della fedeltà a una tradizione dura e chiusa, che si sarebbe sempre macchiata di delitti.
Che questa semplicistica e parziale visione della Chiesa abbia tanto successo, tanto da corrispondere – almeno così pare – a un senso comune piuttosto generalizzato, deve fare pensare e riflettere.
Sarebbe probabilmente esagerato considerare i libri di Dan Brown come un campanello di allarme, ma forse sono uno stimolo a rivedere e vivificare le forme e le modalità mediatiche attraverso le quali la Chiesa spiega le sue posizioni sui temi più scottanti di attualità.

V Domenica dopo Pasqua anno A

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 9,26-31 In quei giorni, Saulo, venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi ai discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo che fosse un discepolo.
Allora Bàrnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù.
Così egli poté stare con loro e andava e ve-niva in Gerusalemme, predicando apertamente nel nome del Signore.
Parlava e discuteva con quelli di lingua greca; ma questi tentavano di ucciderlo.
Quando vennero a saperlo, i fratelli lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso.
La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samarìa: si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresce-va di numero.
Il capitolo 9 degli Atti degli Apostoli segna una svolta molto importante nella storia della prima comunità cristiana: con la conversione di Saulo (vv.
1-19), l’inizio della sua predica-zione (vv.
20-31) e l’orientamento di Pietro verso il mondo pagano (vv.
32-43; e.
10), si pre-para il terreno all’espansione della predicazione apostolica verso le nazioni pagane.
La no-stra lettura è un elemento di coesione in questo insieme di fatti, in quanto descrive il difficile e delicato inserimento di Paolo nella comunità degli apostoli.
Anche se in certo contrasto con l’esperienza narrata dallo stesso Paolo in Gal 1,18-24, la presentazione lucana del viaggio di Saulo a Gerusalemme obbedisce ad un preciso intento: sottolineare vigorosamente il contatto di Paolo col collegio apostolico, così da legittimare la predicazione successiva dell’Apostolo.
— Da questo punto di vista è di grande peso esegetico il v.
28: «andava e veniva in Gerusa-lemme» indica la familiarità piena che si è stabilita tra lui, Paolo, e gli altri apostoli; attinge da questa comunione la parrēsía (coraggio di parlare francamente, cf.
il greco: parrēsia = zò-menos, v.
28), discutendo liberamente anche con gli ex-correlegionari, gli ebrei «ellenisti», cioè di lingua e cultura greca.
— «Ma questi tentavano di ucciderlo» (v.
29).
È il secondo complotto tramato dai Giudei per eliminare questo loro correlegionario che ha «tradito» la sua fede, diventando cristiano.
— «La Chiesa era dunque in pace» (v.
31).
Opportuno sommario, per mostrare lo stato di pa-ce interna (accordo e comunione) ed esterna (fine della persecuzione con la conversione di Saulo).
La Chiesa è organismo vivo che cresce e cammina, non per forza naturale, ma per due fattori fondamentali; cammina nel timore di Dio, in obbedienza e docilità al Signore; si moltiplica grazie al «conforto», ossia all’assistenza attiva e fecondante dello Spirito Santo.
Seconda lettura: 1 Giovanni 3,18-24 Figlioli, non amiamo a parole né con la lingua, ma con i fatti e nella verità.
In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri.
Dio è più grande del nostro cuore e conosce o-gni cosa.
Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito.
Questo è il suo coman-damento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato.
Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui.
In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.
Nella I Epistola di Giovanni, che si può considerare come un’enciclica destinata alle chie-se dell’Asia su cui incombe la minaccia di eresie e lacerazioni interne, si discernono alcune parti parenetiche (dove prevalgono le esortazioni) e altre parti dottrinali (dove abbondano indicazioni dogmatiche).
La nostra lettura si colloca di una sezione parenetica, che esorta cioè a «nascere da Dio» compiendo opere di giustizia (2,28-3,24).
Data la struttura circolare, con numerosi ritorni, del nostro brano, basterà chiarire solo alcuni termini-chiave: «verità», «cuore», «comandamento».
a) «Verità», in senso semitico e giovanneo, indica propriamente la salda rivelazione di Dio Amore con fatti e «nella verità» (v.
18); significa pertanto, amare con opere (e non solo a pa-role) e in conformità a quanto Dio in Gesù Cristo ha rivelato di se stesso.
«Siamo dalla veri-tà» (v.
19) vuole dire: veniamo da Dio, rivelato a noi da Gesù Cristo.
b) «Cuore» è sinonimo di coscienza, oltre che centro delle decisioni dell’uomo.
Dire che «il nostro cuore ci rimprovera» o «non ci rimprovera» (vv.
20-21) significa che riceviamo o non riceviamo l’approvazione della nostra coscienza.
Ma il giudizio di Dio è ben al di là di tale approvazione («è più grande del nostro cuore»).
Tale superiorità sottolinea la grandezza imperscrutabile dell’amore di Dio.
c) «Il comandamento», nella letteratura giovannea, è quello per autonomasia dato da Ge-sù ai discepoli: amarsi gli uni gli altri (Gv 15,12) come lui ci ha amati.
Qui il «comandamen-to» (o anche al plurale «i comandamenti») ha un duplice aspetto; a) credere «nel nome», cioè nella persona stessa di Gesù Cristo, Figlio di Dio, e come tale confessarlo; b) amarci gli uni gli altri perché è lui che ci ha dato tale comandamento, e non a motivo di un amore ge-nerico o sentimentale.
Tale comandamento è talmente fondamentale per la nostra vita di credenti, da essere il presupposto necessario perché si realizzi l’inabitazione di Dio nel credente.
Fede, amore, inabitazione di Dio sono tre aspetti indissociabili del comandamen-to di Gesù.
Vangelo: Giovanni 15,1-8 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore.
Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto.
Voi siete già pu-ri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi.
Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me.
Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.
Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fat-to.
In questo è glorificato il Padre mio: che portiate mol-to frutto e diventiate miei discepoli».
Esegesi Siamo nell’ampio contesto dei discorsi di addio ambientati nell’intima cena (Gv 13,1-35).
In forma circolare, tali discorsi, che rappresentano il testamento spirituale del Signore, in-sistono su due fondamentali temi, quello della fede e dell’amore, atteggiamenti essenziali della vita dei discepoli di Gesù.
Il brano odierno rappresenta un significativo sviluppo all’interno dei discorsi di addio.
Esso va collocato nell’insieme del cap.
15, nel quale si cela una forte tensione tra due poli: da una parte, l’amore a Gesù e i suoi frutti (vv.
1-17), dall’altra, l’odio del mondo e la te-stimonianza del Paraclito (vv.
18 ss.).
— «Io sono la vite vera» (vv.
1.5).
Le parole introdotte da Io sono contengono un’autorivela-zione come quando nel libro dell’Esodo JHWH rivela il proprio nome (Es 3,14).
In riferi-mento al mistero di Cristo, la sua identità è caratterizzata dall’aggettivo «vera».
Vite vera, in due sensi: a) in Gesù Cristo si realizzano in misura totale e piena quello che la vite natu-rale esprime; b) Israele, vigna di Dio, aveva tradito le attese di Dio (cf.
Is 5,1-7; Ger 2,21); Gesù invece le realizza in pieno perciò è la vera vite.
— «Il Padre mio è l’agricoltore» (vv.
1-2), l’autorivelazione si estende anche al Padre, al rap-porto di profonda unione che Gesù-vite ha con il Padre da una parte, e al rapporto vitale che lega i tralci (i discepoli) all’azione sovrana e gratuita del Padre, dall’altra.
— Due principalmente, gli aspetti di questa azione del Padre: a) in senso positivo, egli monda, o purifica, quei tralci che già portano frutto, perché — co-me dalla potatura — ne risulti un impulso di vitalità e di fertilità (v.
2); le iniziative del Padre, anche se appaiono dolorose, hanno come fine una crescita ed una promozione e non una mortificazione della vita; b) in senso negativo, il castigo e l’eliminazione dei tralci che, non portando frutto, si oppon-gono alle premure del Padre e alla vita donata da Gesù: questi tralci sono tolti (v.
2), gettati via, raccolti, gettati nel fuoco, bruciati (v.
6).
Dietro queste immagini si intravede la cura e-strema di Dio nel preservare l’opera salvifica del Figlio da ogni ambiguità e compromesso col male.
— Rimanete in me come io in voi (v.
4).
Questa reciproca immanenza non significa che Gesù e i credenti siano sullo stesso piano.
In ogni caso precede l’azione di Gesù-vite (come io in voi), che eleva e rende possibile l’unione dei discepoli con lui («rimanete in me»).
— Sono da precisare due aspetti di questo «rimanere»: da una parte esso indica un rapporto di fede (le mie parole rimangono in voi, chiedete, ecc.); dall’altra, è condizione essenziale per vivere e portare frutto di salvezza (v.
5).
La salvezza non dipende soltanto dalla libera ade-sione dell’uomo e degli apporti — sia pur generosi — della sua azione: procede dalla vita che riceviamo da Dio, come la linfa vitale che nutre i tralci, e li mette in condizione di por-tare frutti.
Meditazione Gli evangeli presentano Gesù come appartenente alla categoria lavorativa degli artigia-ni; professione: falegname.
Eppure, se non altro per la quantità di immagini agricole che ricorrono nella sua predicazione, viene da pensare che il figlio del carpentiere avesse una predilezione per l’attività dei campi.
Anche lui una vocazione ‘costretta’ per ragioni fami-liari? Quale che sia la verità storica, il brano evangelico odierno ci presenta una formidabile similitudine agricola-esistenziale, che riesce a comunicarci moltissimo dell’esperienza spi-rituale di Gesù: la vite.
Nel Primo Testamento l’immagine, associata a quella della vigna, ricorre frequentemente per descrivere il rapporto esistente tra Dio e il suo popolo (cfr.
Os 10,1; Sal 79; Is 5,1-5; Ger 2,21; Ez 19,10-14…), sia nella bellezza di un’armonia e di una cura premurosa che nell’ingratitudine dei vignaioli verso il padrone e nella bassa qualità dei frutti.
Il testo di Giovanni focalizza l’attenzione su di un’unica pianta, quella vite che Gesù sceglie come icona per se stesso.
Malgrado ciò, il ‘mancato contadino’ di Nazareth non atti-ra l’attenzione su di sé ed evidenzia invece il legame con il Padre e i discepoli, indicati ri-spettivamente come il vignaiolo e i tralci (vv.
1.5).
E il primo aspetto che si coglie ed emer-ge con prepotenza dal testo è proprio che Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre: la sua è un’esistenza in comunione.
Il primo pensiero va, con riconoscenza, a chi lo ha inviato, da cui si sente amato, nutrito e custodito profondamente! Ma senza soluzione di continuità, Gesù parla immediatamente anche dei discepoli.
Se è stretto il rapporto tra vite e vignaio-lo, come si potrebbe definire quello tra vite e tralci? Dove inizia uno e dove finiscono gli altri? Sono inscindibili, è impossibile stabilire un confine netto e preciso.
Se è pertanto vero che Gesù non riesce a pensarsi senza il Padre, è ancor più vero per quel che riguarda il rapporto con i discepoli! La vite è pianta estremamente rigogliosa, con una forza vitale esuberante: si potrebbe dire che non può contenere l’energia di cui è portatrice! Non porta frutto immediatamente, a volte chiede anni di attesa perché possa ‘figliare’ grappoli di qualità.
Nello scorrere del tempo ciò che rischia di degenerarsi, di scadere è proprio la circolazione della linfa – fuor di metafora, la parola di Gesù (cfr.
v.
3) – verso le parti più periferiche della pianta.
Non che la vite non ne produca più; no: la Parola mantiene la sua forza inalterata nel succedersi delle stagioni.
Può invece avvenire che i tralci, i discepoli, desiderino splendere di luce propria, distanziarsi dalla fonte originaria, ricercare altre fonti di nutrimento.
I risultati so-no immediati: mancanza dei frutti, dei rigogliosi acini e tristissima morte…
«Chi non rima-ne in me viene gettato via, si secca: lo raccolgono, lo gettano nel fuoco, lo bruciano» (v.
6).
Tutta la parte centrale del nostro brano è quindi un’accorata supplica affinché non venga interrotto il vincolo nutritivo, essenziale proprio come il cibo, tra vite e tralci, tra Gesù e discepoli.
«Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così an-che voi se non rimanete in me» (v.
4).
A una prima impressione, queste parole di Gesù po-trebbero apparire una umiliante forma di autoritarismo, addirittura di schiavismo: «Senza di me non potete far nulla» (v.
5).
In fondo, un modo per mantenere le persone in uno sta-to di dipendenza e infantilismo deprimente.
Invece è sorprendente l’umiltà di questa vite: riceve la vita dal Padre, non la trattiene – questo è l’amore puro: ricevere senza nulla inca-merare! – e comunica questa stessa vita ai tralci, che hanno la possibilità e la gioia di vede-re fiorire la propria esistenza e, ancor più, di nutrire, di dare la vita a loro volta! Il ‘merito’ viene lasciato tutto ai tralci! Accade quel che spesso succede nelle squadre di calcio: se la squadra vince, sono bravi i giocatori, se la squadra perde, la colpa è dell’allenatore…
Que-sto è lo stile di Gesù, che rifugge da ogni ‘glorificazione’ ma non può esimersi dall’attestare il proprio ruolo discreto eppur fondamentale: ne va della vita dei suoi discepoli! Tutt’al più la gloria può essere imputata al vignaiolo, al Padre…
(cfr.
v.
8).
Ma lui è nella gioia quando i suoi figli «rimangono e portano frutto» (v.
5).
Chi rimane, chi non rompe il legame, chi continua ad ascoltare la Parola di vita entrerà in un rapporto così profondo con il Padre da riuscire a penetrare nel mistero della sua vo-lontà e in essa trovare gioia.
Effettivamente, quando si conosce il desiderio dell’amato, lo si riempie di gioia domandandogli di poter collaborare alla realizzazione dei suoi stessi de-sideri: come potrebbe costui rifiutarsi, negare aiuto? «Chiedete quel che volete e vi sarà da-to» (v.
7).
Il desiderio del discepolo coincide con quello del Padre.
Ma per arrivare a tal punto bisogna entrare anche nel mistero della potatura dei tralci, dal momento che per po-tersi rinnovare viene chiesto di recidere quanto si distanzia dal piano di Dio.
Il nostro bra-no, allora, se è un’esortazione alla fedeltà e alla sapienza, se aiuta a visualizzare simboli-camente il compimento felice dell’esistenza dei discepoli, ricorda come la vita passa attra-verso la potatura della Pasqua, sulla scia del cammino di Gesù, per dare «più frutto» (v 2).
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
Io sarò vigna Vorrei che poteste vivere della fragranza della terra, e che la luce vi nutrisse in libertà come una pianta.
Quando uccidete un animale, ditegli nel vostro cuore: «Dallo stesso potere che ti abbat-te io pure sarò colpito e distrutto, poiché la legge che ti consegna nelle mie mani, conse-gnerà me in mani più potenti.
Il tuo sangue e il mio sangue non sono che la linfa che nutre l’albero del cielo».
E quando addentate una mela, ditele nel vostro cuore: «I tuoi semi vivranno nel mio corpo, e i tuoi germogli futuri sbocceranno nel mio cuore, la loro fragranza sarà il mio re-spiro, e insieme gioiremo in tutte le stagioni».
E quando in autunno raccogliete dalle vigne l’uva per il torchio, dite nel vostro cuore: «Io pure sarò vigna, e per il torchio sarà colto il mio frutto, e come vino nuovo sarò custo-dito in vasi eterni ».
E quando d’inverno mescete il vino, per ogni coppa intonate un canto nel vostro cuore, e fate in modo che vi sia in questo canto il ricordo dei giorni dell’autunno, della vigna e del torchio.
(K.
GIBRAN, Il Profeta).
Curare la vigna è come curare la vita Da ragazzo, all’età delle medie e delle superiori, ogni giorno per andare a scuola, al-l’andata come al ritorno, dovevo camminare mezz’ora tra le vigne, unica visione per i miei occhi sotto il cielo, unico scenario per i miei pensieri e le mie apprensioni scolastiche.
Cosi ho imparato a conoscerle, a osservare i loro cambiamenti, ad amarle.
La mia terra è tutta vigne, solo qua e là, ai bordi delle strade, un canneto che forniva i sostegni per le viti in quegli ordinati filari che segnavano i diversi anfiteatri collinari e sembravano sfidare la pendenza dei bricchi: filari disposti come oggetti preziosi in un’esposizione, ciascuno sco-stato dall’altro quel tanto necessario per essere visto e baciato dal sole.
D’inverno le vigne appaiono desolate, solo ceppi che con le loro torsioni sembrano ri-bellarsi all’ordine severo dei filari: le diresti morte, soprattutto quando lo scuro del vitigno si staglia sul bianco della neve, assecondando quel silenzio muto dell’inverno in cui persi-no il sole fatica a imporsi tra le nebbie del mattino.
Eppure, anche in questa stagione mor-ta, i contadini non cessano di visitare la vigna e si dedicano a quel lavoro sapiente di pota-tura che richiede un affinato discernimento.
Si tratta, infatti, di mondarla, tagliando alcuni tralci e lasciando quelli che promettono maggiore fecondità: sacrificarne alcuni, che magari tanto hanno già dato, per il bene della pianta intera, rinunciare a un tutto ipotetico per a-vere il meglio possibile.
Bisogna osservarli i vignaioli quando potano, mentre il freddo ar-rossa il naso e le guance; bisogna vedere come prendono in mano il tralcio, come i loro oc-chi scrutano e contano le gemme, come con le pinze danno un colpo secco che recide il tralcio con un suono che echeggia in tutta la vigna: un taglio che sembra un colpo di grazia spietato al culmine di una sentenza e che invece è colpo di grazia perché apre un futuro fe-condo.
E li, dove la ferita vitale ha colpito la vigna, proprio li, ai primi tepori, la vite «piange», versando lacrime da quel tralcio potato per un bene più grande.
Curare la vigna è come curare la vita, la propria vita, attraverso potature e anche pianti, in attesa della sta-gione della pienezza: per questo la potatura è un’operazione che il contadino fa quasi par-lando alla vite, come se le chiedesse di capire quel gesto che capire ancora non può.
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54).
Senza di me non potete far nulla Il Signore prosegue: «Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non resta nella vite, così neppure voi se non rimanete in me» (Gv 15,4).
[…] Chi si illude di poter por-tare frutto da sé stesso, non è unito alla vite; e chi non è unito alla vite, non è in Cristo; e chi non è in Cristo non è cristiano.
Ecco in quale profondo abisso siete precipitati.
Ma con-siderate ancor più attentamente ciò che aggiunge e afferma la Verità: «Io sono la vite, voi i tralci.
Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla» (Gv 15,5).
Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce «molto frutto», non dice: perché senza di me potete fare poco, ma: «senza di me non potete far nulla».
Tanto il poco che il molto, non si può comunque farlo senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla.
Anche quando il tralcio produce poco frutto, infatti, il viticoltore lo monda affin-ché produca di più; tuttavia se il tralcio non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto.
[…] «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7).
Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i cristiani se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere rimanendo nel Salvatore, se non ciò che tende alla salvezza? […] Le parole del Signore rimangono in noi, quando facciamo tutto quanto egli ha ordinato e desideria-mo quanto ci ha promesso; quando invece le sue parole rimangono nella memoria, ma non si trovano realizzate nella vita, allora il tralcio non fa più parte della vite, perché non attin-ge vita dalla radice.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 81,2-4, NBA XXIV, pp.
1240-1244).
Solo Gesù può liberarmi totalmente Nel Nuovo Testamento la presenza di Gesù con le sue parole e i suoi gesti diviene una fonte inesauribile d’ispirazione per la preghiera: è Gesù che mi si accosta e m’interpella.
Gesù è il Buon Pastore alla ricerca della pecora smarrita, e io lo seguo.
Gesù è la vigna; Dio, il vignaiolo, mi monda dei rami malati perché io possa dare buoni frutti.
Alla moltiplicazione dei pani, è Gesù che m’invita a offrirgli la mia povertà – cinque pani e due pesci – perché egli se ne serva per compiere meraviglie.
Alla pesca miracolosa, è Gesù che mi chiede una fiducia assoluta nella sua parola più che nei miei mezzi umani.
In occasione di numerose guarigioni, Gesù mi rammenta che lui solo può liberarmi totalmente.
(Jean -Jacques Gareau).
Aumenta la nostra fede «Gli apostoli compresero talmente bene che tutto ciò che concerne la salvezza è un do-no elargito dal Signore che gli domandarono anche la fede: Aumenta la nostra fede (Lc 17,5).
Non avevano la presunzione che la pienezza della fede dipendesse dalla loro deci-sione, ma credevano di riceverla in dono da Dio.
Inoltre, lo stesso autore della salvezza degli uomini ci insegna che la nostra stessa fede è incostante, fragile e assolutamente insuf-ficiente se non è fortificata dall’aiuto di Dio, quando dice a Pietro: “Simone, Simone, ecco Satana ha chiesto di vagliarvi come grano, ma io ho pregato il Padre mio affinché non venga meno la tua fede (Lc 22,31-32).
Un altro, sentendo e, per così dire, vedendo dentro di sé la propria fede come sospinta dai flutti dell’incredulità verso gli scogli in un terribile naufragio, chiede al Signore stesso un aiuto alla propria fede; dice: “Signore, aiuta la mia mancanza di fede” (Mc 9,24).
I personaggi del vangelo e gli apostoli a tal punto dunque avevano compreso che tutte le cose buone si realizzano con l’aiuto del Signore e non spe-ravano di custodire integra la loro fede con le loro forze o con la libertà della loro volontà che chiedevano al Signore di aiutare la fede che avevano dentro di sé o di donarla loro.
E se la fede di Pietro aveva bisogno dell’aiuto del Signore per non venir meno, chi sarà così presuntuoso e cieco da credere di poterla custodire senza aver bisogno dell’aiuto quotidia-no del Signore? Tanto più che il Signore stesso nel vangelo dichiara apertamente questo, là dove dice: “Come il tralcio non può portare frutto se non resta unito alla vite, così nessuno può portare frutto se non rimane in me” (Gv 15,4); e ancora: “Senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5).
Quanto sia insensato e sacrilego attribuire qualcosa delle nostre azioni al nostro impegno e non alla grazia di Dio e al suo aiuto, appare provato da una esplicita di-chiarazione del Signore; dice che nessuno, senza la sua ispirazione e il suo aiuto, può por-tare frutti spirituali.
Infatti: “Ogni buon regalo e ogni dono perfetto viene dall’alto e di-scende dal Padre della luce” (Gc 1,17).
(Giovanni Cassiano, Conferenze 3,16, SC 42, pp.
160-161).
Preghiera O Padre, celeste vignaiolo che hai piantato sulla nostra terra la tua vite scelta – il santo germoglio della stirpe di David – e compi il tuo lavoro in ogni stagione.
Fa’ che accettiamo le potature di primavera, anche se, teneri tralci, gemiamo trasudan-do lacrime sotto i colpi decisi delle tue cesoie.
Vieni pure a mondarci nel culmine della stagione estiva, perché i viticci superflui non sottraggano linfa vitale al grappolo che deve maturare.
Frutto della nostra vita sia l’amore, quel «più grande amore» che dal tuo cuore, attraverso il cuore di Cristo, con flusso inesauribile si riversa in noi.
E tutti gli uomini, fratelli nostri nel tuo nome, ne siano ricolmati, con spirito di dolcezza, di gioia e di pace.

“Il caso Galileo. Una rilettura storica, filosofica, teologica”

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parteciperà all’inaugurazione del convegno internazionale di studi “Il caso Galileo.
Una rilettura storica, filosofica, teologica”, in programma a Firenze dal 26 al 30 maggio e organizzato dall’Istituto Stensen dei gesuiti di Firenze, diretto da Padre Ennio Brovedani sj, ideatore dell’iniziativa.    Il convegno verrà inaugurato martedì 26 maggio nella basilica di Santa Croce – mausoleo dei sommi italiani, dove si trova la tomba di Galileo – con le lectiones magistrales di Nicola Cabibbo (presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) e Paolo Rossi (Professore emerito di Storia della Scienza dell’Università degli Studi di Firenze).
Oltre al Presidente della Repubblica, saranno presenti numerose autorità del mondo istituzionale italiano.
  “Ritengo che, visti gli ampi strumenti che verranno messi sul tavolo, il convegno potrebbe portare realmente ad una svolta storica della complessa questione galileiana, una delle più scottanti della storia – ha detto Paolo Rossi – Il convegno affronta, con un’ampiezza finora intentata, tutti i temi essenziali: la condanna della dottrina di Copernico nel 1616 e il processo a Galileo del 1633; la genesi del “caso Galilei” nell’Italia, Francia e Inghilterra del Seicento; la storia di quel caso prima nell’Illuminismo e poi nell’Ottocento (nell’età del positivismo e del Risorgimento) e infine nel Novecento, fino a questi nostri giorni”.
  “La partecipazione del Presidente della Repubblica – sottolinea P.
Brovedani  – rivela che il Quirinale ha colto non solo l’evidente valore culturale del Convegno, ma anche e soprattutto la sua alta valenza politica.
La memoria del passato e la corretta contestualizzazione della ‘vicenda galileiana’ contribuirà sicuramente a favorire le condizioni per un rapporto di collaborazione e serenità tra la Chiesa e le istituzioni di ricerca, soprattutto nella prospettiva delle complesse e, a volte,  inedite problematiche filosofiche ed etiche sollevate dalle prospettive della ricerca bio-tecno-scientifica contemporanea.”   Il convegno fiorentino ha ottenuto l’adesione e la partecipazione di 18 autorevoli Istituzioni, che si ritrovano per la prima volta insieme dopo 400 anni.
Queste istituzioni, rappresentative di importanti settori della vita culturale e scientifica, sono storicamente coinvolte in una vicenda e in un evento che hanno fortemente caratterizzato l’intelligenza e la creatività italiane, innescando tuttavia tensioni mai completamente risolte nei rapporti tra la Chiesa e diversi ambiti della produzione intellettuale.
  Al convegno interverranno i massimi esperti e studiosi mondiali del tema (teologi, storici, filosofi): tra gli altri, George Coyne, Evandro Agazzi, Nicola Cabibbo, Claus Arnold, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Annibale Fantoli, Jean-Robert Armogathe, Horst Bredekamp, Michele Ciliberto, Paolo Rossi e Paolo Galluzzi.
In allegato il programma

“Secondo le Scritture”.

“Per aprire i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi” di Benedetto XVI Cari fratelli e sorelle, il lavoro per il mio libro su Gesù offre ampiamente l’occasione per vedere tutto il bene che ci viene dall’esegesi moderna, ma anche per riconoscerne i problemi e i rischi.
La [costituzione conciliare] “Dei Verbum” 12 offre due indicazioni metodologiche per un adeguato lavoro esegetico.
In primo luogo, conferma la necessità dell’uso del metodo storico-critico, di cui descrive brevemente gli elementi essenziali.
Questa necessità è la conseguenza del principio cristiano formulato in Giovanni 1, 14: “Verbum caro factum est”.
Il fatto storico è una dimensione costitutiva della fede cristiana.
La storia della salvezza non è una mitologia, ma una vera storia ed è perciò da studiare con i metodi della seria ricerca storica.
Tuttavia, questa storia ha un’altra dimensione, quella dell’azione divina.
Di conseguenza la “Dei Verbum” parla di un secondo livello metodologico necessario per una interpretazione giusta delle parole, che sono nello stesso tempo parole umane e Parola divina.
Il Concilio dice, seguendo una regola fondamentale di ogni interpretazione di un testo letterario, che la Scrittura è da interpretare nello stesso spirito nel quale è stata scritta ed indica di conseguenza tre elementi metodologici fondamentali al fine di tener conto della dimensione divina, pneumatologica della Bibbia.
Si deve cioè: 1) interpretare il testo tenendo presente l’unità di tutta la Scrittura; questo oggi si chiama esegesi canonica; al tempo del Concilio questo termine non era stato ancora creato, ma il Concilio dice la stessa cosa: occorre tener presente l’unità di tutta la Scrittura; 2) si deve poi tener presente la viva tradizione di tutta la Chiesa, e finalmente 3) bisogna osservare l’analogia della fede.
Solo dove i due livelli metodologici, quello storico-critico e quello teologico, sono osservati, si può parlare di una esegesi teologica, di una esegesi adeguata a questo Libro.
Mentre circa il primo livello l’attuale esegesi accademica lavora ad un altissimo livello e ci dona realmente aiuto, la stessa cosa non si può dire circa l’altro livello.
Spesso questo secondo livello, il livello costituito dai tre elementi teologici indicati dalla “Dei Verbum”, appare quasi assente.
E questo ha conseguenze piuttosto gravi.
La prima conseguenza dell’assenza di questo secondo livello metodologico è che la Bibbia diventa un libro solo del passato.
Si possono trarre da esso conseguenze morali, si può imparare la storia, ma il Libro come tale parla solo del passato e l’esegesi non è più realmente teologica, ma diventa pura storiografia, storia della letteratura.
Questa è la prima conseguenza: la Bibbia resta nel passato, parla solo del passato.
C’è anche una seconda conseguenza ancora più grave: dove scompare l’ermeneutica della fede indicata dalla “Dei Verbum”, appare necessariamente un altro tipo di ermeneutica, un’ermeneutica secolarizzata, positivista, la cui chiave fondamentale è la convinzione che il Divino non appare nella storia umana.
Secondo tale ermeneutica, quando sembra che vi sia un elemento divino, si deve spiegare da dove viene tale impressione e ridurre tutto all’elemento umano.
Di conseguenza, si propongono interpretazioni che negano la storicità degli elementi divini.
Oggi il cosiddetto “mainstream” dell’esegesi in Germania nega, per esempio, che il Signore abbia istituito la Santa Eucaristia e dice che la salma di Gesù sarebbe rimasta nella tomba.
La Resurrezione non sarebbe un avvenimento storico, ma una visione teologica.
Questo avviene perché manca un’ermeneutica della fede: si afferma allora un’ermeneutica filosofica profana, che nega la possibilità dell’ingresso e della presenza reale del Divino nella storia.
La conseguenza dell’assenza del secondo livello metodologico è che si è creato un profondo fossato tra esegesi scientifica e “Lectio divina”.
Proprio di qui scaturisce a volte una forma di perplessità anche nella preparazione delle omelie.
Dove l’esegesi non è teologia, la Scrittura non può essere l’anima della teologia e, viceversa, dove la teologia non è essenzialmente interpretazione della Scrittura nella Chiesa, questa teologia non ha più fondamento.
Perciò per la vita e per la missione della Chiesa, per il futuro della fede, è assolutamente necessario superare questo dualismo tra esegesi e teologia.
La teologia biblica e la teologia sistematica sono due dimensioni di un’unica realtà, che chiamiamo teologia.
Di conseguenza, mi sembra auspicabile che in una delle proposizioni [del sinodo] si parli della necessità di tener presenti nell’esegesi i due livelli metodologici indicati dalla “Dei Verbum” 12, dove si parla della necessità di sviluppare una esegesi non solo storica, ma anche teologica.
Sarà quindi necessario allargare la formazione dei futuri esegeti in questo senso, per aprire realmente i tesori della Scrittura al mondo di oggi e a tutti noi.
 Il 23 aprile 2009 Benedetto XVI ha incontrato la pontificia commissione biblica, riunita per preparare un documento su “Ispirazione e verità nella Bibbia”.
E nell’occasione ha tracciato le linee maestre per la lettura della Sacra Scrittura “nel contesto della tradizione vivente di tutta la Chiesa”.
Il testo integrale del discorso è nel sito del Vaticano: > “La Scrittura si comprende all’interno della Chiesa” Tra pochi giorni il quotidiano “la Repubblica” e il settimanale “L’espresso” offriranno al pubblico italiano, in centinaia di migliaia di copie e a un prezzo di favore, l’intera Bibbia cristiana, nella nuova traduzione curata dalla conferenza episcopale, con un ampio corredo di note e illustrata con i capolavori dell’arte di tutti i tempi.
L’opera sarà in tre volumi: il primo con il Pentateuco e i libri storici; il secondo con i libri sapienziali e i profeti; il terzo con i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le lettere e l’Apocalisse.
L’iniziativa è tanto più sigjnificativa in quanto “la Repubblica” e “L’espresso” sono testate leader dell’opinione laica in Italia, spesso critiche nei confronti della Chiesa cattolica e della stessa fede cristiana.
Ma questo non toglie che, nell’offrire al pubblico i tre volumi, i due giornali presentino la Bibbia come “un libro da avere, da leggere e da vivere”, con in più la “garanzia di autorevolezza” della traduzione ufficiale della Chiesa.
I tre volumi sono introdotti dal cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della CEI, e da Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze e coordinatore dell’impresa della nuova traduzione, durata quasi vent’anni ad opera di insigni studiosi.
Nel risvolto di copertina è citata la celebre frase di san Gregorio Magno: “Le divine parole crescono con chi le legge”.
Qui di seguito, ecco l’articolo con cui “L’espresso” presenta la Bibbia ai suoi lettori e suggerisce come leggerla a chi l’accosta per la prima volta.
Non tutta di seguito ma cominciando dalla Genesi, poi passando subito al Nuovo Testamento con il Vangelo di Marco, poi tornando all’Antico con il libro di Giona, poi…
Questa guida alla lettura è naturalmente opinabile, ma riflette lo stile con cui la Chiesa legge le Scritture nelle sue liturgie.
Subito dopo, in questa stessa pagina, è riportato l’intervento di Benedetto XVI al sinodo dei vescovi su “La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa”, la mattina di martedì 14 ottobre 2008.
In quell’occasione papa Joseph Ratzinger, parlando a braccio, spiegò come lui desidera che le Sacre Scritture siano lette, per gustarne il senso autentico e pieno, in un’epoca in cui “si propongono interpretazioni che negano la presenza reale di Dio nella storia”.
”Le divine parole crescono con chi le legge” Per Marc Chagall la Bibbia era l’alfabeto di colori a cui ha attinto tutta l’arte occidentale.
Verissimo.
Secolo dopo secolo, la fortuna artistica delle Sacre Scritture è stata così smisurata che oggi sono molti di più quelli che hanno appreso la storia sacra dalla pittura, dalla scultura, dall’architettura, di quelli che ne hanno letto il testo.
La Bibbia è il libro più venduto al mondo.
Ma che l’abbiano letta per intero sono pochi.
Paul Claudel, poeta francese convertito, diceva che “i cattolici mostrano un così grande rispetto per la Bibbia che se ne stanno il più lontano possibile”.
Errore imperdonabile.
Perché se è vero che Raffaello insegna tante cose, è ancor più vero che le stanze vaticane da lui affrescate restano indecifrabili se non si conosce la trama biblica che le sostanzia, se non si vede ad esempio che i filosofi della “Scuola di Atene” sono in cammino verso la liturgia celeste e terrena della “Disputa del Santissimo Sacramento” dipinta sulla parete di fronte.
La Bibbia è il “grande codice” della cultura occidentale.
Su questo i maggiori critici letterari sono ormai concordi.
Erich Auerbach, in un capitolo memorabile di “Mimesis”, mostrò che la Genesi e i Vangeli, ancor più dell’Odissea di Omero, sono la matrice del realismo della letteratura moderna: “Fu la storia di Cristo, con la sua spregiudicata mescolanza di realtà quotidiana e d’altissima e sublime tragedia, a sopraffare le antiche leggi stilistiche”.
Certo, pochi sanno leggere la Bibbia nel testo originale, ebraico per l’Antico Testamento e greco per il Nuovo.
Ma ora che la conferenza episcopale italiana ha sfornato dopo quasi vent’anni di lavoro da parte di biblisti e letterati la più accurata traduzione italiana della Bibbia di sempre, un motivo in più per leggerla c’è.
Questa nuova traduzione della Bibbia, che “L’espresso” e “la Repubblica” propongono ai loro lettori, è la stessa che si legge ogni domenica a messa.
È fatta quindi anche per essere proclamata, cantata, musicata, illustrata: come la Vulgata di san Girolamo, l’antica traduzione latina delle Scritture che per secoli ha fatto tutt’uno con la grande arte occidentale e, nello stesso tempo, con la vita e il linguaggio quotidiani di miriadi di uomini e donne.
Ma attenzione, la Bibbia cristiana può punire chi vi si avventura alla cieca.
È un libro specialissimo, anzi, un insieme di libri, settantatre in tutto, prodotti in un migliaio d’anni e ripartiti in due grandi collezioni, l’Antico e il Nuovo Testamento, che è vietatissimo separare, pena il non capire più nulla.
La messa insegna.
Non vi si legge mai una pagina del Vangelo senza che prima non si legga una pagina dell’Antico Testamento che l’anticipa “in figura”.
Gesù è incomprensibile senza i profeti.
Se è risorto dai morti, come i Vangeli attestano e il “Credo” proclama, ciò è accaduto “secondo le Scritture”.
Se dal fianco squarciato di Gesù zampillano sangue ed acqua, con Maria e Giovanni ai piedi della croce, è impossibile non pensare al secondo capitolo della Genesi, ad Adamo dormiente dal cui fianco Dio trae Eva, la madre dei viventi.
La croce è il nuovo albero della vita del paradiso, come la magnifica croce fiorita del mosaico della basilica romana di San Clemente.
È la sorgente della Chiesa, è l’inizio della nuova creazione.
Dell’Antico Testamento, per cominciare, si legga la Genesi.
Non ci si stupisca se i racconti della creazione non sono uno ma due, l’uno di seguito all’altro e così diversi di stile e di contenuto.
La Bibbia non vuole dire come il mondo è nato, ma perché.
E anche perché, in un mondo che pure è benedetto da Dio come “buono”, si sprigiona tanto male, non per destino ma per libera scelta volontaria, travolgendo con l’uomo anche la natura.
Da Caino a Lamech, dalla torre di Babele al diluvio, la malvagità invade la terra.
Ma c’è Noè il giusto, nell’arca salvata dalle acque.
Poi c’è la chiamata di un altro giusto, Abramo.
E c’è una giustizia anche al di là del popolo eletto, nel misterioso Melchisedech “senza padre, senza madre, senza genealogia”, come scriverà nel Nuovo Testamento l’autore della lettera agli Ebrei.
E c’è Dio che visita Abramo nella persona dei tre ospiti anonimi che Rublev nel XV secolo dipingerà come icona della Trinità.
E ancora Dio che lotta con Giacobbe sulle rive del torrente Yabbok.
Dio? La Bibbia non lo scrive.
Lo fa intuire.
Forse.
In questo la Bibbia è davvero modernissima.
Non dice mai tutto.
Anzi.
Obbliga il lettore a entrare nella trama e a decidere.
“Le divine parole crescono con chi le legge”, disse papa Gregorio Magno in un’omelia su Ezechiele profeta.
È come se le Scritture dormano, prima che il lettore arrivi a destarle dal sonno.
Sono state scritte così, piene di enigmi, ellissi, salti, penombre.
E l’esegesi rabbinica è così da sempre: il “midrash” è un inesauribile accumulo di letture e riletture, rimontaggi e reinterpretazioni, realtà e visione.
Un dipinto di Chagall ne è illustrazione perfetta.
E così la liturgia cristiana: lì la Parola di Dio non è una lettura libresca, ma diventa realtà vivente nei simboli sacramentali.
Il Verbo di Dio prende corpo e sangue.
C’è un’antifona, nella messa dell’Epifania secondo il rito ambrosiano che si celebra a Milano, che è un inno alla creatività, nell’accostare la Bibbia.
Essa canta: “Oggi al celeste Sposo s’è congiunta la Chiesa, poiché nel Giordano egli ha lavato i suoi peccati.
Accorrono i Magi con doni alle nozze regali e s’allietano i convitati dell’acqua mutata in vino.
Alleluia!”.
Qui i rimandi ai Vangeli sono almeno tre: alla visita dei Magi con i doni al Bambino, al battesimo di Gesù adulto nel Giordano, al miracolo delle nozze di Cana.
Ma l’ordine cronologico è del tutto saltato e la narrazione è stata scomposta e ricomposta.
Le nozze diventano quelle tra Gesù e la Chiesa, le acque battesimali purificano la sposa, i Magi portano i doni alla festa e gli invitati si comunicano bevendo il miracoloso vino procurato dallo stesso Gesù, qui ed ora.
Letta la Genesi, si salti al Nuovo Testamento e si legga Marco, il più antico, il più breve e il più folgorante dei quattro Vangeli.
Tutto imperniato sul “segreto messianico” come trama narrativa, un segreto che fa balenare solo a tratti, dalla penombra, la vera identità di Gesù, e solo alla fine la svela con le parole del centurione romano davanti alla croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.
Altro elemento modernissimo del Vangelo di Marco è il suo finale tronco, in sospeso.
A riconoscere Gesù nella fede è stato un ufficiale pagano, i discepoli sono tutti fuggiti, e le donne che vedono la tomba vuota non dicono niente a nessuno “perché impaurite”.
Punto.
Col leggere un simile finale, come sfuggire dal prendere posizione? Come resistere dall’entrare in scena anche noi? Dispiace che della “Marcus-Passion” di Johann Sebastian Bach sia andata perduta la musica, visti quei capolavori sublimi che egli ha tratto dalla più solenne, ieratica, passione di Matteo, e da quella mistica di Giovanni.
E poi di nuovo si torni all’Antico Testamento.
Si legga il brevissimo libro di Giona, il profeta mandato da Dio a convertire e perdonare la Ninive pagana, ingoiato dal pesce e vomitato vivo il terzo giorno, scintillante racconto tutto intessuto di fine ironia: e allora si capirà perché Gesù si sia identificato nel “segno di Giona” e perché Michelangelo abbia dipinto proprio questo profeta, in forme grandiose, alla sommità della parete d’altare della Cappella Sistina, tra la Creazione e il Giudizio, tra l’inizio e la fine dei tempi.
E poi si legga il libro di Giobbe, grande teologia e poesia altissima.
E il Cantico dei Cantici, incantevole carme d’amore.
E poi di nuovo si apra il Nuovo Testamento, col dittico del Vangelo di Luca e degli Atti degli Apostoli, con le avventure di Paolo che fa naufragio a Malta e infine arriva a Roma.
Non diremo mai più che la Bibbia è noiosa.
Da “L’espresso” n.
18 del 2009

VI Domenica di Pasqua Anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 4,8-12 In quei giorni, Pietro, colmato di Spirito Santo, disse loro: «Capi del popolo e anziani, visto che oggi veniamo interrogati sul beneficio recato a un uomo infermo, e cioè per mezzo di chi egli sia stato salvato, sia noto a tutti voi e a tutto il popolo d’Israele: nel nome di Gesù Cristo il Nazareno, che voi avete crocifisso e che Dio ha risusci-tato dai morti, costui vi sta innanzi risanato.
Questo Ge-sù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata la pietra d’angolo.
In nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati».
Il testo è il terzo discorso cristologico «di» Pietro negli Atti (cf.
2,14-36; 3,12-26).
Egli sta parlando proprio negli atri del Tempio (portico di Salomone) dopo aver ridato, «nel nome di Gesù il Nazareno» la salute a uno storpio.
Nonostante la sua fine ignominiosa sulla croce, Gesù è risuscitato dai morti.
Pietro e Giovanni si arrogavano un diritto, quello di parlare dentro il recinto sacro, che non avevano, facendo pure affermazioni false, almeno dubbie, sulla risurrezione di un condannato a morte.
Per questo le autorità intervengono: «i sacerdoti, il capitano del tem-pio, i sadducei» (4,1).
Questi ultimi fanno parte del partito dominante, ma intervengono soprattutto perché offesi nelle loro convinzioni dottrinali.
Essi non ammettevano la risur-rezione dei morti (cf.
At 23,8; Mt 22,23).
I due apostoli sono messi in prigione e il processo è rimandato al giorno dopo, debbono rispondere del loro potere taumaturgico.
In genere i prodigi si operavano in nome di Dio, ma ci si poteva avvalere anche di forze avverse a lui.
Gesù era stato accusato di compiere i miracoli in virtù di Beelzebub; potevano essere im-postori anche i suoi discepoli.
La risposta di Pietro, forse meglio la prima apologetica cristiana, è apodittica; il loro po-tere viene da Gesù.
Il «nome» è un ebraismo che sta per la persona.
«Quell’uomo» (2,22) pertanto che essi avevano crocifisso è in grado di operare ancora; vuol dire che è tuttora vivo; è uscito dal regno dei morti; è passato nel mondo della vita, ossia di Dio.
È infatti alla «sua destra» ed è «stato costituito Signore e Cristo», aveva affermato poco prima davanti al popolo (2,24,33,36).
Pietro e Giovanni sono, a detta delle stesse autorità, dei semplici «illetterati», non pos-sono conoscere segrete arti magiche, perciò la guarigione del paralitico non può non essere attribuita che a una potenza superiore che parte sempre da Dio.
Questa era quindi una ri-prova delle rivendicazioni di Gesù.
La sua sconfitta era stata solo apparente.
Egli opera ancora nella storia anche se solo tramite i suoi discepoli.
Il coraggio dei due illetterati che polemizzano con le stesse autorità giudaiche è al di sopra di ogni supposizione.
Occorre che gli interlocutori cambino il loro giudizio su Gesù di Nazaret: invece che un malfattore debbono considerarlo il loro salvatore.
Egli solo è la pietra angolare su cui grava la nuova comunità dei credenti.
Se non si accetta questo rife-rimento e questa subordinazione non si arriva a Dio.
Seconda lettura: 1 Giovanni 3,1-2 Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui.
Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato.
Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è.
L’autore della I lettera di Giovanni richiama un aspetto essenziale dell’identità cristiana, la filiazione da Dio.
Egli non è un teologo e ancor meno un filosofo bensì una guida spiri-tuale che deduce la «filiazione divina» del cristiano dalla comunione di vita e dall’identità di comportamento che riesce ad avere con il Signore.
La «conoscenza» di Dio, è detto al cap.
2,1, quindi il rapporto intimo con lui (senso bi-blico di conoscere), non dipende dalla comprensione della sua realtà ultima, ma dall’ade-guazione dei propri comportamenti con i suoi.
È l’agire come Dio agisce — cioè con quella stessa rettitudine, santità, perfezione — che rivela la somiglianza, la «connaturalità» con lui.
«Da questo sappiamo di conoscerlo (di amarlo), se osserviamo i suoi comandamenti» (2,3).
E aggiunge: «Da ciò conosciamo di essere in lui» (2,5).
Concludendo ribadisce: «Chi dice di dimorare in lui (in Dio) deve comportarsi come lui (Gesù Cristo) si è comportato» (2,5-6).
In fondo vivere cristianamente è ripercorrere fino alla perfezione il cammino di Gesù il quale in tutto ha cercato di attuare il volere del Padre.
Ma il cristiano deve rimanere in comunione con Dio e in unione con Cristo non solo intenzionalmente ma realmente, fa-cendo propria la testimonianza di Cristo che è l’esplicitazione ultima della volontà di Dio.
«Se voi conoscete che egli è giusto anche chi opera la giustizia è da lui (Dio) generato» (2,29).
È l’agire che rivela l’intima natura dell’uomo, in questo caso del cristiano.
Se ci si com-porta come Dio che sa compiere solo il bene a tutti anche a quelli che non lo meritano, si da non solo a vedere ma realmente si dimostra che si hanno i suoi stessi sentimenti, la sua stessa bontà e santità.
«Figlio di Dio» è un appellativo onorifico ma anche oneroso, poiché comporta una scelta operativa che deve mantenersi sulla stessa linea di quella di Dio.
La filiazione è un dono di Dio ma è anche risposta dell’uomo che ha saputo accogliere le mo-zioni dello Spirito e si è lasciato guidare da esse nella sua vita.
Il cristiano che sa fare il bene a chi ne ha bisogno, sino ad amare pure chi lo odia, è vero figlio di Dio perché compie ciò che Dio stesso realizza nel corso del tempo e della storia.
Vangelo: Giovanni 10,11-18 In quel tempo, Gesù disse: «Io sono il buon pastore.
Il buon pastore dà la propria vita per le pecore.
Il mercena-rio – che non è pastore e al quale le pecore non apparten-gono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore.
Io sono il buon pastore, co-nosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.
E ho altre pecore che non provengono da que-sto recinto: anche quelle io devo guidare.
Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore.
Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo.
Nessuno me la toglie: io la do da me stesso.
Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo.
Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».
Esegesi La pericope (Gv 10,11-18) illustra il comportamento di Gesù verso gli uomini.
Esso si contrappone a quello delle guide giudaiche, ma l’evangelista pensa anche a quelle di certe comunità cristiane.
Il confronto che compare altre volte nel libro (cf.
2,13ss; 8,31 ss) inizia al termine del capitolo IX.
Gesù sta parlando con un gruppo di farisei definiti ciechi non per nascita, ma volontari, perché, pur vedendo le opere che il Cristo compie, rifiutano di comprenderne la portata, come dimostra la reazione davanti al miracolo dell’uomo a cui è stata ridonata la vista (9,14).
Non solo non vogliono vedere ma pretendono di imporre come verità la loro men-zogna.
Ritorna il detto: gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce (3,19).
I dirigenti d’Israele sono guide cieche, ma più ancora sono «briganti e ladri» (10,1).
Essi si sono introdotti nell’«atrio», (aulè), il recinto sacro, il tempio, non attraverso la porta, le-gittimamente quindi, ma fraudolentemente, peggio, rubando e uccidendo le persone giu-ste e innocenti che vi si frapponevano.
I ladri sono chiamati tali perché saltano i muri; il vero pastore passa attraverso la porta: è noto al portiere e alle pecore, può chiamarle e condurle al pascolo.
Affinché non ci siano equivoci, l’evangelista scopre l’identità del pastore: «Io sono», proclama solennemente Gesù; ma non uno qualunque, bensì «il pastore per eccellenza» (ho kalòs).
L’espressione dice di più di «buon pastore».
Egli solo realizza l’oracolo di Ez 34,23 («Susciterò per loro un pastore che li pascerà, David mio servo; egli li condurrà al pascolo; sarà il loro pastore»).
Il re-pastore che Israele attende è, nonostante le apparenze e la sua provenienza da un oscuro villaggio della Galilea (Gv 1,42), Gesù il nazareno.
Nella storia d’Israele si sono susseguiti molti pastori, forse anche buoni, ma nessuno merita tale appellativo quanto Gesù, perché nessuno ha svolto compiti pari ai suoi e so-prattutto con la dedizione eguale alla sua.
La specificità del vero pastore è vivere e operare per il bene del gregge, non per la propria esaltazione o per interesse.
In realtà il vero pa-store è a servizio delle pecore e non permette che queste siano a servizio della sua persona (cf.
Ez 34,10).
Il suo contrario è il mandriano che lavora per la mercede, senza affezione e nemmeno tanta attenzione alla sicurezza delle pecore, che pure ha in custodia.
Quelli che prima erano «guide cieche», «briganti e ladri», sono ora designati come «mercenari».
Essi che uccidevano e distruggevano ora lasciano sbranare le pecore dai «lu-pi» che sono in fondo i loro alleati poiché compiono le loro stesse operazioni, disperdere le pecore invece che proteggerle.
Il ragionamento giovanneo avanza, com’è risaputo, per «circoli concentrici».
L’evangeli-sta ha detto il suo pensiero fin dall’inizio del capitolo, ne ha enunciato il tema al v.
11 ; ma vi torna sopra ripetutamente aggiungendovi ulteriori precisazioni.
Gesù è il pastore vero, ideale, perché assolve il suo mandato non tanto per dovere, quanto con dedizione e amore.
Egli infatti ama le pecore che gli sono state affidate.
Il verbo «conoscere» nel linguaggio biblico non è semplice percezione mentale, ma relazione affettiva e fattiva.
È sinonimo di volontà di bene; è amare.
«Nessuno conosce il padre se non il figlio», afferma Gesù nel comma giovanneo di Mt 11,27; nessuno cioè lo ama quanto lui ed è da lui riamato.
Allo stesso modo Gesù dedica le sue energie, e alla fine la sua stessa vita, per le persone alle quali è stato inviato.
Il rapporto che lo lega a Dio è lo stesso che lo porta agli uomini, per questo si tratta di un riferimento autentico, sincero, vero.
«Quel giorno conoscerete, cioè sperimenterete, che io sono nel padre mio; voi in me ed io in voi», affermerà più avanti e-gli stesso (Gv 14,20).
Con Dio non si può fingere quindi non ci può essere inganno nell’a-more di Gesù per l’uomo.
Esso è senza limiti, senza restrizioni, totale, poiché non si arresta neanche davanti al pericolo della vita.
Gesù infatti ha sostenuto la causa dei suoi «fratelli» (cf.
Gv 20,17) contro il potere delle guide cieche, affrontando ladri e banditi con il rischio di rimanere vittima delle loro aggressioni.
Non solo.
Il pericolo né l’ha fatto recedere dai suoi compiti, né ha ristretto l’ambito delle sue operazioni.
Egli più che fermarsi alle pecore perdute della casa d’Israele (Mt 10,6), ri-volge i suoi messaggi e le sue attenzioni a tutti coloro che incontra nel suo cammino, den-tro e fuori i confini della Palestina.
La sua luce si irradia su «ogni uomo» (Gv 1,6), non solo sugli israeliti.
La comunità cristiana è senza frontiere, universale.
I privilegi d’Israele sono caduti una volta per sempre.
Il velo del tempio, direbbe Matteo, è stato strappato da capo a fondo e non può essere più ricucito (27,51).
I seguaci di Gesù, i nuovi credenti, provengono dalle fila del giudaismo, dall’interno del recinto sacro (atrio), ma anche dalle nazioni, poiché pure ad esse appartiene la salvezza.
L’unità di tutti i credenti non sarà più fondata sulla dipendenza a istituti o istituzioni sa-cre, ma dalla comunione che gli uomini avranno tra di loro e con Cristo.
La «voce» di Gesù che tutti egualmente ascolteranno si identifica innanzitutto con le sue proposte, ma anche con il calore con cui le comunica, l’amore con cui le accompagna.
Coloro che l’ascoltano ne rimarranno per questo conquistati e coinvolti, diventando suoi discepoli.
L’ultima ripresa del discorso, il «circolo» conclusivo, allarga ancora una volta il tema i-niziale.
Gesù è stato investito dallo Spirito di Dio per una missione tra gli uomini (Gv 1,32), in concreto ha avvertito in sé i riflessi che l’amore di Dio ha per le sue creature predi-lette e gli ha dato piena accoglienza, non tanto per la sua realizzazione o glorificazione, quanto per il loro bene.
Il dare se stesso è perdere la propria vita, ma non è perdersi, poi-ché la vita data per amore diventa un guadagno (cf.
Fil 1,21; 3,7), un ricupero centuplicato di quanto si è dato (Mt 19,29).
L’amore è libera donazione.
Per questo ciò che Gesù ha compiuto è frutto di una sua personale decisione; nessuno l’ha obbligato, tanto meno costretto; ha fatto solo quello che lo Spirito gli ha suggerito e quello che lui ha «liberamente» voluto.
L’amore di Dio è stato liberamente accolto e liberamente sono state accettate le sue richieste.
Per questo l’opera di Gesù è stata una risposta di amore.
 Solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo «Ascoltiamo ancora una volta la frase decisiva: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, come il Padre conosce me e io conosco il Padre; e of-fro la vita per le pecore» (10,14s).
In questa frase c’è ancora una seconda interrelazione di cui dobbiamo tenere conto.
La conoscenza reciproca tra il Padre e il Figlio si intreccia con la conoscenza reciproca tra il pastore e le pecore.
La conoscenza che lega Gesù ai suoi si trova all’interno della sua unione conoscitiva con il Padre.
I suoi sono intessuti nel dialogo trinitario; lo vedremo di nuovo riflettendo sulla preghiera sacerdotale di Gesù.
Allora po-tremo capire che la Chiesa e la Trinità sono intrecciate tra loro.
Questa compenetrazione di due livelli del conoscere è molto importante per capire la natura della «conoscenza» di cui parla il Vangelo di Giovanni.
Applicando tutto al nostro orizzonte di vita, possiamo dire: solo in Dio e solo a partire da Dio si conosce veramente l’uomo.
Un conoscersi che limita l’uomo alla dimensione em-pirica e afferrabile non raggiunge affatto la vera profondità dell’uomo.
L’uomo conosce se stesso soltanto se impara a capirsi partendo da Dio, e conosce l’altro soltanto se scorge in lui il mistero di Dio.
Per il pastore al servizio di Gesù ciò significa che egli non deve legare gli uomini a sé, al suo piccolo io.
La conoscenza reciproca che lo lega alle «pecore» a lui affidate deve mirare a introdursi a vicenda in Dio, a dirigersi verso di Lui; deve pertanto essere un ritrovarsi nella comu-nione della conoscenza e dell’amore di Dio.
Il pastore al servizio di Gesù deve sempre condurre al di là di se stesso affinché l’altro trovi tutta la sua libertà; per questo anche egli stesso deve sempre andare al di là di se stesso verso l’unione con Gesù e con il Dio trinita-rio.
L’Io proprio di Gesù è sempre aperto al Padre, in intima comunione con Lui; Egli non è mai solo, ma esiste nel riceversi e ridonarsi al Padre.
«La mia dottrina non è mia», il suo Io è l’Io aperto verso la Trinità.
Chi lo conosce «vede» il Padre, entra in questa sua comunione con il Padre.
Proprio questo superamento dialogico presente nell’incontro con Gesù ci mostra di nuovo il vero pastore, che non si impossessa di noi, bensì ci conduce verso la libertà del nostro essere portandoci dentro la comunione con Dio e dando Egli stesso la sua vita».
(Joseph RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Città del Vaticano/Milano, Libreria Editrice Vaticana/Rizzoli, 2007, 326-328).
Gesù, il buon pastore Chi è Gesù? Gesù è il buon pastore.
Siamo invitati dallo stesso Signore a pensarlo così: una figura estremamente amabile, dolce, vicina.
E noi possiamo attribuire soltanto al Si-gnore l’esprimersi con bontà infinita.
Presentandosi in tale aspetto, egli ripete l’invito del pastore: disegna cioè un rapporto che sa di tenerezza e di prodigio.
Conosce le sue peco-relle, e le chiama per nome.
Poiché noi siamo del suo gregge, è agevole la possibilità di corrispondenza che antecede il nostro stesso ricorso a lui.
Egli ci conosce e ci nomina; si avvicina a ciascuno di noi e desidera farci pervenire a una relazione affettuosa, filiale con lui.
La bontà del Signore si palesa qui in maniera su-blime, ineffabile […].
Il Cristo che portiamo all’umanità è il «Figlio dell’uomo», come lui stesso si è chiamato.
È il primogenito, il prototipo della nuova umanità, è il Fratello, il Compagno, l’Amico per eccellenza.
Solo di lui si può dire con piena verità che «conosceva tutto quanto c’è nell’uo-mo» (Gv 2,25).
È l’inviato da Dio, non per condannare il mondo, ma per salvarlo.
È il buon pastore dell’umanità.
Non c’è valore umano che non abbia rispettato, innalzato e riscattato.
Non c’è sofferenza umana che non abbia compresa, condivisa e valorizzata.
Non c’è biso-gno umano – fatta eccezione delle imperfezioni umane – che non abbia assunto e provato lui stesso e proposto alla inventiva e alla generosità degli altri uomini come oggetto della loro sollecitudine e del loro amore, per così dire come condizione della loro salvezza.
(PAOLO VI, Discorso del 28 aprile 1968).
Il Pastore ucciso come pecora Volgiamo gli occhi al nostro pastore, il Cristo.
Vediamo il suo amore che con la sua mi-tezza vince l’indolenza delle pecore.
Gioisce delle pecore che lo circondano, cerca quelle che si smarriscono.
Non rifiuta di percorrere monti e foreste, attraversa precipizi, è accanto a quella che vagabonda e se la trova affaticata, non la odia a motivo del suo comportamen-to, ma è mosso a compassione dal suo patire e, presala sulle spalle, cura la fatica della pe-cora con la propria fatica.
E gioisce della propria fatica, perché ha trovato le pecore e gua-risce le loro fatiche.
«Chi se ha cento pecore e ne ha perduta una, non lascia le novantano-ve nel deserto e non va a cercare la perduta finché la trova?» (Lc 15,4).
La perdita di una sola pecora turba la gioia di quelle al sicuro, e la tristezza di una sola minaccia la gioia di tutte.
[…] Ma se il pastore «la trova, la prende sulle sue spalle con gioia» (Gv 10,11) «ed, en-trato nella casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta” (Lc 15,6)».
[…] «Io sono il buon pastore.
Il buon pastore depone la propria vita per le pecore» (Gv 10,11).
Pilato ha visto questo pastore, gli ebrei lo hanno visto, condotto alla croce per il suo gregge, come annunciava il coro dei profeti: «Come un agnello è condotto al macello, co-me pecora muta davanti ai tosatori, non ha aperto la sua bocca» (Is 53,7).
Il Pastore è ucciso come pecora per le pecore, non oppone resistenza al patire, non fugge il giudizio, non re-spinge quelli che lo mettono in croce.
Non ha subito la passione, ma volontariamente ha accolto la morte per le pecore.
«Ho il potere di dare la mia vita e di riprenderla di nuovo» (Gv 10,18).
Distrugge la passione con la sua passione, la morte con la sua morte; con la sua tomba apre le tombe, smuove i chiavistelli degli inferi.
La morte ha potere fino a quando Cristo ha accolto la morte; fino ad allora i sepolcri sono chiusi pesantemente e la prigionia non ha soluzione, fino a quando il Pastore scende e annuncia alle pecore in potere della morte la liberazione.
Appare agli inferi e dà l’ordine di uscire.
Appare e rinnova l’appello alla vita.
«Il buon pastore dà la vita per le pecore»; così cerca di essere amato dalle pecore.
Ama Cristo chi ascolta attentamente la sua voce.
(BASILIO DI SELEUCIA, Omelia 26, PG 85,304A-308A).
Il prete piccolo e grande Un prete dev’essere contemporaneamente piccolo e grande, nobile di spirito come di sangue reale, semplice e naturale come di ceppo contadino, una sorgente di santificazione, un peccatore che Dio ha perdonato, un servitore per i timidi e i deboli, che non s’abbassa davanti ai potenti ma si curva davanti ai poveri, discepolo del suo Signore, capo del suo gregge, un mendicante dalle mani largamente aperte, una madre per confortare i malati, con la saggezza dell’età e la fiducia d’un bambino, teso verso l’alto, i piedi sulla terra, fatto per la gioia, esperto del soffrire, lontano da ogni invidia, lungimirante, che parla con franchezza, un amico della pace, un nemico dell’inerzia, fedele per sempre…
Così differente da me! (Anonimo).
Salmo 23 O Dio, che hai regalato al mondo e alle chiese tanti buoni pastori, tante donne e tanti uomini che vivono la loro funzione come servizio di amore, noi Ti ringraziamo per la testimonian-za che ci hai dato mediante Gesù, il buon pastore.
Ma, soprattutto, noi ci rivolgiamo a Te sapendo che le Scritture fanno di Te non solo il pastore buono ed amorevole, ma l’unico pastore a cui possiamo affidare le nostre esisten-ze.
Così ti preghiamo: Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.
Grande è il tuo amore, o Dio! Tu vuoi aver bisogno di uomini per farti conoscere agli uomini, e così leghi la tua azione e la tua parola divine all’agire e al parlare di persone né perfette né migliori degli altri.
Grande è il tuo amore, o Dio! Non hai timore della nostra fragilità e neppure del nostro peccato: l’hai fatto tuo, perché fosse nostra la tua vita che guarisce ogni male.
Grande è il tuo amore, o Dio! Ancora rinnovi la tua alleanza grazie a chi tra noi spezza il Pane di vita, a chi pronuncia le parole del perdono, a chi fa risuonare annunci di vangelo, a chi si fa servo dei fratelli, testimoni del tuo amore infinito che rendono visibile il Regno.
Ti preghiamo, o Dio: fa’ che queste persone non vengano mai meno!  Tra le similitudini presenti nel quarto vangelo e attraverso le quali ci viene rivelato il mistero di Cristo, certamente quella del pastore buono (alla lettera o kalòs, «quello bello») comunica una ricchezza di sfumature sorprendenti.
È una immagine che si radica su di una lunga tradizione biblica e, nello stesso tempo, si muove all’interno di un contesto fa-miliare, quotidiano, almeno per una società nomade come era quella ebraica.
Collocata nel periodo pasquale (la quarta domenica è detta appunto del Buon Pastore), la pericope di Gv 10,1-18 ci offre una sintesi illuminante del mistero di morte e resurrezione di Cristo: Gesù è il pastore buono perché «da la propria vita per le pecore» (10,11); lui «ha il potere di dar-la e il potere di riprenderla di nuovo» (10,18).
Concludendo il suo scritto, l’autore della let-tera agli Ebrei riprende questa immagine in prospettiva pasquale: «il Dio della pace, che ha ricondotto dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di una alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene» (Eb 13,20).
Anzitutto, ciò che desta stupore nella modalità con cui Gesù si autopresenta attraverso l’immagine del pastore, è l’esclusività di questo ruolo: io sono (espressione che introduce altre immagini giovannee).
Gesù è l’unico pastore veramente buono, anzi è il pastore, colui che annunciavano i profeti.
Infatti nei testi di Is 40,11, Ez 34,1-18, Ger 23,1-4, il Pastore è il Dio provvidente che guida la storia umana, che è attento alle sorti dell’uomo per trarlo fuori da un regno di tenebre e condurlo in un luogo di luce e di pace (cfr.
anche il Sal23); è il Dio che guida il suo popolo, che non sopporta pastori che pascono se stessi, non si cu-rano del gregge e lo disperdono; è il Dio che raduna con il suo braccio il gregge e che «por-ta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11).
Queste stupen-de immagini usate dai profeti per esprimere la grandezza e la tenerezza dell’amore di Dio, la conoscenza reciproca e la comunione di vita tra Dio e il suo popolo, trovano il loro com-pimento in colui che si definisce il pastore bello.
Parlando davanti al sinedrio, Pietro, defi-nendo Gesù la pietra d’angolo, potrà dire: «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12).
Notiamo inoltre che l’aggettivo kalòs, «bello», esprime proprio la qualità di questo pastore, qualità che risponde pienamente alla sua funzione.
E dove sta la bellezza di questo pasto-re? Dove sta la sua bontà? Potremmo dire, semplicemente, nel dono di sé.
Giovanni svi-luppa questa caratteristica del pastore attraverso varie sfumature e tutte mettono il pastore in relazione con le pecore: la comunione di vita e la conoscenza reciproca, il dono della vi-ta, l’unità del gregge.
Anzitutto Gesù è il pastore che «dona la vita per le pecore» (10,11; alla lettera: pone la vita, la mette a repentaglio per qualcun altro).
E questo l’impegno radicale del pastore buono, il gesto della sua dedizione incondizionata, potremmo quasi dire il livello dell’agape di Dio.
«Gesù – come nota Léon-Dufour – non si aggrappa alla sua propria vita, egli non la riduce a una cosa posseduta, ma se ne espropria incessantemente.
La morte non è soltanto di fronte a lui, essa è dentro, è familiare».
Ed è un dono che è insieme libertà e obbedienza: «io la do da me stesso…
questo comando l’ho ricevuto dal Padre mio» (10,18).
Apparente-mente paradossale, questo rapporto tra libertà e obbedienza esprime in profondità la per-fetta unità di azione tra il Padre e il Figlio, la piena comunione (è la stessa prospettiva che domina l’intero racconto della passione, sino al «tutto è compiuto» pronunciato sulla cro-ce).
Ma Gesù è il pastore che «conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui» (10,14).
Il dono di sé del pastore bello esprime e attua quella profonda relazione di conoscenza che esiste tra lui e le sue pecore.
È una conoscenza di amore, personale, irrepetibile; essa permette di penetrare il mistero di ognuno (cfr.
10,3), di riconoscersi reciprocamente attraverso il tim-bro della voce (cfr.
10,4).
Ma questa conoscenza ha un modello e una fonte: è la comunione di vita, quel rapporto di totale appartenenza tra Gesù e il Padre (cfr.
10,19).
E infine Gesù è il pastore buono perché il suo amore non è selettivo e discriminante.
Anzi è sen-za confini: «ho altre pecore che non provengono da questo recinto; anche quelle io devo guidare» (10,16).
Il gregge che il pastore buono guida non ha un numero chiuso: è aperto, in esso non ci sono distinzioni.
Nel cuore di questo pastore buono abita un’unica preoccu-pazione: salvare ogni pecora, ricondurla all’unità dal luogo della dispersione.
Il dono della vita di Gesù ha dunque come obbiettivo e risultato effettivo la raccolta nell’unità dei di-spersi (cfr.
Gv 11,52): «diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (10,16).
Contemplando questa icona giovannea, viene quasi spontaneo reagire con le parole di 1Gv 3,1: «vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per esser chiamati figli di Dio e lo siamo realmente».
Questa intima relazione tra il pastore bello – Gesù, il Figlio – e le pecore – noi, i discepoli – è la via che ci conduce nel cuore stesso di Dio: ci rende figli nel Figlio.
Ora sta a noi seguire questo pastore buono, accorgersi, nei momenti di smarrimento, del suo sguardo pieno di compassione che ci raccoglie nell’unità; sta a noi imparare a ricono-scere la sua voce, ascoltando ogni giorno la sua parola che chiama alla vita; sta a noi la-sciarci docilmente condurre per il giusto cammino (cfr.
Sal 23) lì dove è preparata una mensa, lì dove c’è il pane e il vino della condivisione.
La sua voce chiama alla vita, cioè ci chiama a uscire da ogni luogo di morte.
Colui che «ci guida per il giusto cammino» ci con-duce fuori, cioè ci fa crescere, ci educa, ci apre orizzonti sempre nuovi; ci strappa a ogni si-tuazione che rischia di chiuderci in noi stessi, in un luogo infecondo e sterile; ci porta al luogo della vita e di una vita data in abbondanza.

Storia della Mariologia: Dal modello biblico al modello letterario.

Pubblichiamo uno stralcio dell’introduzione del preside della Pontificia Facoltà Teologica Marianum, direttore generale dell’opera.
Se è vero che una Storia della mariologia deve contribuire anche allo studio mariologico e mariano, il progresso e gli approfondimenti epistemologici e metodologici che questo studio ha registrato prima e soprattutto dopo l’evento del concilio Vaticano ii, hanno indubbiamente qualificato l’orizzonte dei criteri guida per fare una storia della mariologia, per orientare e delineare le sue caratteristiche, per porre quelle domande di fondo che pur soggettivizzando il fare storia, siano tali da non relativizzare una “oggettività” del passato.
Continuo è stato il confronto con quelle testimonianze, quelle fonti in nostro possesso che significano e costituiscono il tramite basilare della nostra conoscenza di una realtà in sé non più percepibile, ma per molti aspetti comunicabile e interpretabile.
Un primo orientamento è suggerito dal riconosciuto intrinseco legame che la Madre di Gesù ha con la storia della salvezza, tanto che alcuni teologi ritengono la figura della Vergine “chiave del mistero cristiano”, “icona del Mistero”, “microstoria della salvezza”, “modello rivelatore”.
Il riferimento costitutivo a Cristo di Maria di Nazaret, rinvia il raccontare e l’interpretare di come di lei si è raccontato e vissuto, alle fonti della rivelazione attestata nelle Scritture e alla crescente comprensione della relativa Tradizione, “tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro (cfr.
Luca, 2, 19-51), sia con l’esperienza data da una più profonda intelligenza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità” (Dei Verbum, 8).
Un secondo orientamento, consequenziale al primo, si fonda sulla consapevolezza di dover considerare il “detto” su Maria e il vissuto che a lei si riferisce, nella contestualità del mistero di Cristo e della Chiesa, cosicché il fare storia mariologica non sia un ripiegamento a-temporale e disincarnato sulla figura di Maria, ma una lettura interpretativa calata nelle varie epoche e nei singoli momenti storici in cui maturano e si esplicitano, a opera degli autori, i contenuti mariologici e più ampiamente le forme e le pratiche della pietà mariana.
Senza tralasciare sia le concezioni antropologiche soggiacenti, sia gli schemi rappresentativi, sia il sistema dei valori e dei significati, a cui si fa riferimento.
L’approccio culturale è approccio necessario e disincantato.
Necessario perché facilita la comprensione di quanto Maria e la sua immagine sia riconducibile alla invariabilità dei contenuti di fede e quanto sia frutto di una elaborazione teologica influenzata da tempi e contesti di variabili culturali.
Disincantato, perché non teme, oltre la fede e le pratiche della fede in atto, di componenti o aspetti compositi di arcaicità culturale, di influenza espressiva non pertinente, non esclusi aspetti fantasiosi.
La stessa Esortazione apostolica Marialis cultus (2-2-1994) di Papa Paolo VI indirizza efficacemente all’approccio culturale per comprendere la figura e la missione di Maria anche per superare quelle difficoltà di comprensione dovute a trasmissioni letterarie o popolari segnate da categorie e raffigurazioni troppo condizionate dalla cultura in cui sono emerse.
In essa si afferma che: “La Chiesa, quando considera la lunga storia della pietà mariana, si rallegra constatando la continuità del fatto culturale, ma non si lega agli schemi rappresentativi delle varie epoche culturali né alle particolari concezioni antropologiche che stanno alla loro base, e comprende come talune espressioni di culto, perfettamente valide in se stesse, siano meno adatte a uomini che appartengono a epoche e civiltà diverse” (n.
36).
Alla luce di questi orientamenti si comprendono i consequenziali criteri che emergono dalla organicità dei contributi dei volumi.
Se Maria è comprensibile come luogo in cui il nexus mysteriorum si evidenzia peculiarmente e se a questo concorrono molteplici e vari fattori culturali, soltanto col dare ampi orizzonti, anche geograficamente intesi, alla raccolta e descrizione e interpretazione del “teologare” su Maria, è possibile offrire una visione di comprensione plausibile.
Così si transita dall’Oriente all’Occidente, con particolare attenzione all’Occidente europeo; dai luoghi segnati dalla presenza della Chiesa cattolica a quelli della Chiesa ortodossa, della Comunione anglicana e della Riforma; ai vari continenti dove è possibile mettere insieme fonti e documentazione pertinenti.
Il transitare geografico, edotti dall’approfondimento dello studio sulle mentalità che si sviluppano in quei luoghi, ha impegnato a rapportarsi in modo appropriato alla storia della Chiesa, alla storia della politica e degli Stati, anche se, non sempre i risultati acquisiti sono di spessore o esaurienti.
La lettura spazio-temporale impegna o coinvolge anche quelle discipline che concorrono a configurare una riflessione teologica, non soltanto basata sulla reperibilità delle fonti classiche del teologare.
Da qui risulta necessario ricorrere alla teologia liturgica e alla storia della liturgia e della pietà, ma anche alla spiritualità propria dei movimenti spirituali che qualificano più luoghi e più epoche, alla letteratura, all’iconografia e all’arte nelle sue manifestazioni più diverse.
La Storia della mariologia è opera interdisciplinare che ha voluto correre il rischio della frammentazione e della parcellizzazione dei saperi.
D’altra parte la compresenza di diversi livelli nella realtà spazio-temporale obbliga a tenere dialetticamente la lettura dinamica e quella sincronica, una storia quantitativa e quella qualitativa, una macro-storia e una micro-storia pur intese in senso lato.
di Silvano M.
Maggiani (©L’Osservatore Romano – 23 gennaio 2009) E.
DAL COVOLO – A.
SERRA, Storia della Mariologia 1.
Dal modello biblico al modello letterario.  Città Nuova, Roma, 2009, pp. 1032, EAN : 9788831192934, Euro 90 È appena uscito il primo volume di Storia della Mariologia (Roma, Città Nuova, 2008, pagine 1032, euro 90) curato da Enrico dal Covolo e Aristide Serra che ha come titolo Dal modello biblico al modello letterario.
Seguiranno il secondo: Dal modello letterario europe0 al modello manualistico a cura di Emanuele Boaga e Luigi Gambero; e il terzo: Dal modello neo-ortodosso al modello africano a cura di Stefano De Fiores e Fabrizio M.
Bosin.
Il primo volume si caratterizza per l’amplissimo materiale documentaristico e interpretativo che spazia geograficamente dal Medio Oriente ai Paesi di più antica cristianità orientale e occidentale, dalle origini al xv secolo.
Storia della mariologia intende offrire una panoramica storica della riflessione fondamentalmente teologica sulla missione e la persona di Maria di Nazaret.
Si tratta di una prospettiva teologica profondamente calata nelle varie epoche e nei singoli momenti storici.
L’intento, infatti, è quello di descrivere e interpretare la mariologia e la pietà mariana delle varie epoche e dei vari autori illustrandone sia le concezioni antropologiche sia gli schemi rappresentativi sia il sistema di valori e significati a cui fanno riferimento.
A tal fine l’approccio dell’opera è interdisciplinare, per cui, pur essendo di natura essenzialmente teologica, si arricchisce del contributo di altre discipline quali l’iconografia, lo studio dei movimenti spirituali, la letteratura, la liturgia, la pastorale… Un’opera di ampi orizzonti, che tiene conto cioè del “teologare” su Maria in Oriente e in Occidente; nella Chiesa cattolica, nella Chiesa ortodossa, nella Comunione anglicana, nelle Chiese della Riforma, nei vari continenti.
Elaborata prevalentemente da studiosi italiani, la Storia della mariologia si avvale del contributo di studiosi di altre aree geografiche e linguistiche.

La martire Perpetua

Il primo elemento che colpisce è il fatto che l’autrice sia una donna, una giovane donna di 22 anni, sposata e con un bambino ancora lattante: si tratta di un elemento che non ha paralleli nelle letterature greca e romana e che trova solo analogie parziali con esempi moderni – Perpetua è stata accostata ad Anna Frank e a Sophie Scholl.
Si è talora dubitato che il testo sia stato effettivamente scritto da lei e che non abbia subito interventi redazionali, ma è difficile negare credito alle ripetute e solenni affermazioni del redattore, il quale sottolinea come avesse narrato lei le vicende del suo martirio nel documento che aveva lasciato – dice – “scritto di suo pugno e secondo il suo modo di sentire” (2, 3; cfr.
14).
L’autenticità viene confermata dalle differenze linguistiche e stilistiche delle sezioni autobiografiche rispetto alla parte redazionale nel testo latino della Passio, che secondo l’opinione comune è quello originale (esiste anche una versione greca).
Del resto la martire aveva tutte le capacità di elaborare uno scritto, avendo ricevuto una buona istruzione in conformità con le condizioni elevate della famiglia.
Un altro elemento che rende singolare questo scritto è il contenuto stesso: come nota Auerbach, nel racconto di Perpetua “vengono rappresentate cose che nella letteratura antica non si trovano”, e che raramente sono state descritte in prima persona: le sensazioni di orrore e disagio provate nell’ambiente del carcere, le emozioni contrastanti, di tormento oppure di sollievo e gioia, prodotte dagli incontri con i famigliari, in particolare il rapporto travagliato con il padre rimasto pagano, la pena per il bambino, le confidenze con il fratello.
Osserva ancora Auerbach: “nella letteratura antica c’era Antigone; ma qualche cosa di simile non c’era e non ci poteva essere; non c’era un genus letterario per questa realtà in tanta dignità e sublimità”.
Perpetua non solo racconta di ambienti e circostanze umili e quotidiane, di esperienze personali intime e concrete, ma lo fa con grande semplicità di linguaggio e di stile e insieme con eccezionale capacità espressiva, che raggiunge toni elevati, talora tragici, e non è affatto priva di effetti retorici.
Guardato nel suo complesso, lo scritto di Perpetua non si riesce a classificare in modo soddisfacente.
È stato definito dagli studiosi “memoria” o “autobiografia spirituale” o “diario”.
Ma solo impropriamente si può parlare di “diario” (così come si può parlare di diario di Anna Frank): nella forma in cui ci è pervenuto, non appare compilato giorno per giorno e l’autrice si mostra pienamente consapevole della sorte che la attende, avendone ricevuta una sorta di rivelazione attraverso un sogno, o visione notturna, già nei primi tempi della carcerazione (4, 10).
Inoltre, non scrive soltanto per se stessa, ma per lasciare un messaggio di fede ai fratelli della comunità cristiana.
Indizi di una composizione elaborata e intenzionale sono l’accurata alternanza e i nessi tra i fatti e le visioni, la struttura speculare e concentrica delle visioni, lo sviluppo progressivo della narrazione, che è di segno negativo per quanto riguarda i rapporti col padre e le prospettive della propria esistenza terrena, di segno positivo per quanto riguarda la comprensione del proprio destino sul piano della salvezza spirituale.
Si potrebbe supporre che Perpetua abbia, in una fase di revisione finale, selezionato e ordinato i materiali del suo diario avendo in mente una sorta di progetto.
In particolare hanno un rilievo strategico le visioni, o sogni, che costituiscono la componente più rilevante del testo e sono state oggetto di molta attenzione, ma sono anche state e sono tuttora molto discusse a proposito del loro carattere e del loro significato.
Si tratta di esperienze reali o di artifici letterari? Sono manifestazioni oniriche da interpretare coi metodi della psicologia dell’inconscio o sono costruzioni narrative i cui simboli vanno compresi sulla base del patrimonio religioso di Perpetua? E quale? La tradizione pagana ancora radicata nel profondo o l’immaginario biblico assimilato nella catechesi? Una soluzione equilibrata può essere quella di ammettere che alla base ci siano stati fenomeni effettivi (si possono notare riferimenti alle concrete vicende vissute) e che alcuni particolari apparentemente assurdi si spieghino come tratti onirici, e non va neppure negata a priori la possibilità di una plurivalenza delle immagini.
Ma i sogni, o visioni, che conosciamo sono frutto di una trascrizione effettuata in stato di veglia, in base a un ripensamento intervenuto a posteriori che ne ha colto un significato: non a caso ogni volta i racconti delle visioni si concludono con la formula “e compresi” (intellexi o cognovi) o “comprendemmo” (intelleximus).
Inoltre la volontà di lasciare il documento alla comunità indica un intento comunicativo che non può non aver influenzato la scrittura.
L’ambito di riferimento più chiaro e significativo sono la Bibbia e la fede cristiana.
È evidente un buon numero di allusioni bibliche, che rinviano in particolare alla Genesi, all’Apocalisse, a Paolo; in alcuni casi si tratta di vere e proprie citazioni, come è la frase “gli calcai il capo”, che rinvia a Genesi, 3, 15 e ricorre sia nella prima sia nella quarta visione e viene applicata al dragone (4, 7) e all’avversario egizio (10, 11), entrambi immagini del diavolo.
Ma sono anche riconoscibili in tutte le visioni allusioni di tipo sacramentale.
Anche da questo punto di vista si coglie una progressione, una sorta di via perfectionis.
Del resto anche i racconti di episodi fanno trapelare allusioni simboliche, spesso bibliche, e riferimenti metafisici: ad esempio, nella descrizione del primo incontro col padre, Perpetua assimilando se stessa, come cristiana, a un recipiente che si trova nella cella (3, 1-2) verosimilmente riutilizza un’immagine paolina e alla fine dell’incontro associa i ragionamenti del padre a quelli del diavolo (3, 3).
Si può dire che il diario, nella pluralità e nell’intreccio degli elementi che lo compongono, assolva a diversi obiettivi, personali e comunitari: mira al superamento delle disarmonie e delle ansie dolorose del vissuto presente per ricomporle su di un livello della realtà altro e più vero; addita a sé e agli altri un progetto divino del tutto positivo, già rivelato nella Sacra Scrittura, mostrando che si realizza pienamente al di fuori della storia ma già trova occasioni di compimento nella vita cristiana e nella comunione coi fratelli di fede.
(©L’Osservatore Romano – 1 maggio 2009) Il diario di Perpetua testimonia, insieme a un buon numero di altri scritti, antecedenti e posteriori, quanto il cristianesimo abbia favorito il parlare e raccontare di sé, in misura maggiore e in modalità originali rispetto alla tradizione classica.
Per lo più questo fenomeno è stato riconosciuto a partire dalle Confessioni di Agostino, che si collocano alla fine del iv secolo e sono state considerate il vero inizio dell’autobiografia in senso moderno.
In realtà una produzione di tipo autobiografico compare fin dall’inizio della letteratura cristiana in varie forme e contesti: pensiamo a molte pagine dell’apostolo Paolo, ma anche, per limitarci ad autori del ii secolo precedenti a Perpetua, a Ignazio di Antiochia, a Erma, a Giustino.
Però il suo diario mostra caratteri del tutto eccezionali e si può dire unici per il mondo antico.

nasce la biblioteca digitale online

Le ricchezze culturali del mondo raccolte in un solo sito, alla portata di tutti.
È questo l’obiettivo principale che ha portato alla nascita della World Digital Library.
La neonata biblioteca digitale online è un progetto portato avanti dalla statunitense Library of Congress con il supporto dell’Unesco.
Raccoglie contributi da tutto il mondo, significativi per ricchezza e varietà culturale.
Il materiale disponibile comprende manoscritti, mappe, libri rari, registrazioni, film, stampe, fotografie e disegni architettonici.
I documenti sono disponibili gratuitamente e possono essere ricercati a partire da riferimenti di luogo o tempo, per argomento e tipologia di contributo o inserendo l’istituzione che ha reso il singolo apporto disponibile online.
Gli strumenti di navigazione e le descrizioni dei contenuti presenti possono essere visualizzati nelle lingue dell’Unesco (arabo, cinese, inglese, francese, russo, spagnolo) e in portoghese, dato il grande contributo del Brasile nella fase di realizzazione del progetto.
È stata presa in considerazione la possibilità di fornire anche altre lingue, ma, quanto meno per il momento, non è tra le priorità del progetto.
I singoli contenuti, invece, non sono stati tradotti e sono quindi accessibili solo nella lingua originale.
Per rendere possibile la digitalizzazione di materiale proveniente da tutto il mondo, sono stati creati dei centri appositi dotati delle tecnologie necessarie a disposizione delle istituzioni, come nel caso di Brasile, Egitto, Iraq e Russia.
L’inaugurazione del sito web è un passo importante, ma non segna la conclusione del progetto.
Ci si sta infatti muovendo per continuare ad estendere la quantità di materiale digitalizzato e disponibile online, in modo da comprendere un giorno materiali di tutti i paesi in tutte le lingue.
World Digital Library http://www.wdl.org/en/

State of Play

L’intervista a Kevin Macdonald La paura:  dell’imprevedibilità, del nemico, della follia, della violenza, dell’inganno, del potere, della falsità, della corruzione, della morte.
Nei suoi film la paura, in queste diverse declinazioni, è una protagonista non secondaria. C’è qualche ragione particolare? Sarebbe facile rispondere confessando di essere una persona che spesso ha paura.
Ma credo di essere anche un classico storyteller, ossia mi piacciono le storie – leggerle, immaginarle, raccontarle – e la paura ne fa sempre parte.
Oggi il cinema si è dimenticato di quanto è importante e piacevole raccontare storie e raccontarle bene.
Sempre, in ogni buona storia, l’eroe – in tutti i miei documentari e film c’è sempre un eroe, il più delle volte personaggio ambiguo e complesso – deve confrontarsi con alcune difficoltà reali e con fatti che lo terrorizzano.
Accade anche a noi di avere spesso paura, pur se non siamo eroi.
La paura fa parte della vita e può essere dovuta all’inganno, al tradimento, all’abbandono.
Le storie che ho raccontato nei miei film preparano ad affrontare queste brutte esperienze, spesso inevitabili.
L’Uganda di Idi Amin, come molti altri Paesi del continente africano, nasce dalle ceneri, ancora calde, degli imperi coloniali.
Nell’Ultimo re di Scozia desiderava anche ricordare come in quelle ceneri covano, forse ancora oggi, mostri imprevedibili? Quello che ho cercato di raccontare in quel film è una versione originale del mito di Faust.
Infatti, la storia è quella di un giovane dottore, innocente e ingenuo, trasportato soltanto dal suo interesse egoistico, che tenta di farsi amico il dittatore ugandese, un vero maniaco dell’egoismo, soltanto perché questo lo fa sentire più vicino al potere, dunque più importante e degno di attenzione.
Ma, nel momento in cui si accorge che per essere qualcuno, sta vendendo la sua anima, capisce di essere in trappola, di non poter più scappare.
È ciò che accade oggi a molti giovani dell’Occidente, che vanno nel cosiddetto Terzo mondo, in India o Thailandia o in Africa, usando quei Paesi come un campo giochi per i loro abusi di potere, per le loro nefandezze, per un egocentrismo che non pensa alle conseguenze, su se stessi e sugli altri, delle azioni che si compiono.
Sembra quasi affascinato dalla figura di questo odioso dittatore, come del resto lo è stato di altri mostri della storia, come Klaus Barbie, il feroce nazista francese raccontato nel documentario Il nemico del mio nemico – Cia, nazisti e guerra fredda.
È difficile spiegare perché ci affascinano certi personaggi.
Io ho cercato razionalmente di esaminarlo perché volevo capire bene le motivazioni che mi hanno portato a scrivere e dirigere questi film.
Penso di essere interessato a umanizzare quei personaggi che sono stati interpretati soltanto in modo unidimensionale, etichettandoli facilmente come dei mostri.
Idi Amin e Klaus Barbie sono stati elevati a personificazione del male, ma, come è accaduto con il bellissimo film tedesco La caduta sugli ultimi giorni di Hitler nel bunker di Berlino, la gente si sente offesa e sconvolta da questa umanizzazione.
È un grande errore:  le persone diaboliche e maligne non sono state, all’inizio della loro vita, diverse da noi.
Sono stati bambini come tutti noi, hanno giocato come bambini, hanno amato.
Mi sembra importante vedere il lato umano anche nelle peggiori persone dell’umanità, per conoscerle meglio, identificarle ed evitare, per quanto possibile, che ne nascano ancora nel futuro.  Il gioco tra impegno della verità e potere nella falsità sembra predominante in State of Play, ove tutti, nel bene o nel male, sono responsabili di una società che sembra non funzionare a pieno regime, che soltanto a parole si dice la migliore possibile, ma poi nei fatti…
Tutti abbiamo in testa un’utopia, l’idea di una società perfetta, il desiderio di circondarci soltanto di persone buone.
Ma nessuno, ed è la condizione umana, è soltanto buono o soltanto cattivo.
I personaggi per me più interessanti, nella letteratura e nel cinema, sono quelli più ambigui, che hanno una moralità incerta e spesso devono lottare contro il male che alberga dentro di loro, fare guerra ai propri impulsi cattivi.
In State of Play abbiamo a che fare con due personaggi centrali, quello del giornalista interpretato da Russell Crowe e quello del politico da Ben Affleck, ambedue ambivalenti.
Il primo impersona un giornalista che va ben al di là di quelli che sono i limiti imposti dall’etica professionale:  lui minaccia molti dei suoi interlocutori, registra conversazioni illegalmente, ricatta per avere la storia che insegue a tutti i costi.
Ma, cosa più importante, vuole aiutare il suo amico politico e, facendolo, questa amicizia si scontra con la sua integrità giornalistica.
Penso che questa battaglia tra i propri interessi personali e ciò che, invece, dovremmo fare e scegliere nella nostra carriera, sia un’esperienza abbastanza comune a tutti.
Anche Ben Affleck è un personaggio interessante:  mi è sempre piaciuta l’idea di una persona cattiva, responsabile di alcuni delitti, ma politicamente mossa da una causa giusta, avendo deciso di bloccare la privatizzazione, avviata per questione di soldi e guadagni, dei sistemi di difesa americani, appaltati a gruppi di mercenari reduci dalla guerra in Iraq.
I suoi propositi sono giusti, ma il suo ragionamento è totalmente sbagliato quando afferma che vale la pena uccidere tre o quattro persone, ossia scegliere il male minore, per non permettere che accada qualche cosa di molto peggio.
Alla fine pagherà per queste sue scelte immorali.
Oggi i giornali possono ancora essere lo specchio del declino etico e culturale che attanaglia e svuota di valori molte delle società e fungere, con le loro denunce, a diga per questo declino? Io amo i giornali, ma questo amore è frutto di nostalgia.
L’idea di un giornale di cultura è ancora molto attraente, ma è un rimpianto.
Il problema non è tanto dei giornali che lentamente scompaiono.
Ciò che veramente importa è che non muoia il giornalismo.
Se la carta stampata è sostituita da internet – ed è uno scontro che viviamo nel film con il personaggio della giovane apprendista interpretata da Rachel McAdams, che puntualmente dimentica la penna perché abituata ormai alla tastiera – la cosa mi preoccupa fino a un certo punto, anche se stiamo vivendo un progressivo cambiamento del sistema dell’informazione.
Quello che mi preoccupa veramente è che la gente legge sempre meno, anzi alcuni non leggono più.
Vogliono la notizia scritta in due righe perché non hanno più tempo e pazienza per arrivare alla terza.
Seriamente ritengo che i giornalisti svolgano una funzione importantissima nelle società democratiche, quando fanno domande difficili a coloro che sono al potere.
C’è un vecchio motto che dice:  “La notizia vera è quello che non vogliono esca e sia stampata, tutto il resto è operazione cosmetica”.
Il suo prossimo impegno cinematografico la fa tornare indietro nel tempo, al ii secolo dell’era cristiana, anche questa volta per una lontana e remota storia di colonialismo e di eroi.
Il libro da cui è tratto il film che comincerò a girare in settembre in Ungheria e poi, per i due mesi successivi, nel nord della Scozia, è tratto dal romanzo The Eagle of the Ninth scritto nel 1954 da Rosemary Sutcliff.
È stato il mio libro preferito quando avevo tredici anni e lo ricordo vividamente perché la storia ha avuto un potere “mitico” su di me.
Narra del giovane soldato Marcus Aquila, che vive soltanto dei sogni e degli ideali dettati dalla sua condizione di legionario romano.
Ma il nome della sua famiglia è stato infangato quando quindici anni prima il padre, a capo della nona legione, sparì con tutti i suoi soldati nella Britannia appena conquistata.
Vuole rivendicare l’onore perduto.
Parte alla ricerca dell’aquila d’oro della legione scomparsa per riportarla a Roma.
Gli capita, però, un terribile incidente che lo rende invalido all’esercito e così tutti i suoi sogni si infrangono, perché servire l’Impero nella legione era tutto ciò che desiderava.
Cresciuto e educato in modo monolitico ai valori della romanità, è un uomo disperato.
Si fa amico lo schiavo celtico Esca, comincia a crescere e a capire che ci sono altre culture, comincia a guardare al di là dei confini.
Oltrepassa il Vallo di Adriano, si addentra in un mondo sconosciuto, come accadeva in Vietnam ai soldati americani di Apocalypse Now.
È un film sullo scontro delle culture, sulla occupazione di nazioni da parte di altre e sulle ragioni della fine di un impero, che per me inizia quando si comincia a dubitare della certezza assoluta della propria superiorità culturale.
Trama del film State of Play – scopri la verità: Crowe interpreta il reporter Cal McCaffrey che, grazie alla sua scaltrezza, si ritrova a risolvere un mistero di delitti e collusione nel quale sono coinvolti alcuni dei politici e degli uomini d’affari più promettenti del paese.
Il membro del congresso degli Stati Uniti Stephen Collins (Ben Affleck), bello e imperturbabile, è il futuro del suo partito politico: onorevole eletto, è il presidente di un comitato che supervisiona la spesa della difesa.
Tutti gli occhi sono puntati su questo astro nascente che dovrebbe rappresentare il suo partito nella prossima corsa alla Casa Bianca.
Tutto questo finché la sua assistente/addetta alle ricerche ed amante viene brutalmente assassinata e segreti seppelliti da tempo cominciano a tornare alla luce.
State of Play – la recensione State of Play è uno di quei film che riescono a mediare al meglio le esigenze della spettacolarità e dell’intrattenimento legate a certo tipo di cinema con la necessità di raccontare qualcosa di un po’ più spesso e sensato della storiellina che si guarda e passa di troppi titoli hollywoodiani e non solo.
Ci riesce grazie alla solidità del suo impianto e alla mancanza di ogni forma di pedanteria nell’affrontare le tematiche che propone.
Kevin Macdonald aveva già fatto vedere di che pasta fosse fatto, e questa volta si può appoggiare ad una sceneggiatura – basata su un serial omonimo della BBC – sulla quale hanno messo le mani gente come Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy e Billy Ray.
Che poi Brad Pitt, inizialmente scelto per il ruolo del protagonista, abbia abbandonato il progetto e sia stato sostituito da Russell Crowe è stata solo una fortuna (altro discorso è quel Ben Affleck finito al posto che era di Ed Norton): ché l’australiano è in gran forma – attorialmente parlando – ed è perfetto nella sua indolente ed energica gigioneria sovrappeso nei panni del reporter Cal McCaffrey.
E lo stile recitativo e la fisicità di Crowe, specchio di quanto il suo personaggio è deputato a simboleggiare,sono fondamentali in un film che – tolti gli intelligenti richiami a certi conspiracy thriller degli anni Settanta o quelli, più contemporanei, al neonato filone dei finance thriller – è fondamentalmente e principalmente un affettuoso e nostalgico canto del cigno della carta stampata e del giornalismo “di una volta”.
Perché è evidente che al di la della trama gialla, della lotta interiore di McCaffrey tra il rispetto per il ruolo di amico e quello di giornalismo, del rapporto sfumato e complesso tra il giornalista e la moglie del politico, della ricostruizone dei meccanismi occulti e non di Washington (tutti elementi tratteggiati comunque con grande attenzione ed efficacia), il cuore di State of Play sta tutto nel (non) dualismo tra il personaggio di Crowe e quello di Rachel McAdams, una blogger dell’edizione online del quotidiano per il quale entrambi lavorano, il Washington Globe.
McCaffrey è una vecchia volpe della carta stampata, di quelli che sanno trattare e mettere al loro posto tanto le fonti quanto i direttori, ruvido, sporco, ma affascinante proprio come la carta di un giornale fresco di stampa.
Della Frye è invece apparentemente asettica e pulitina, ma in realtà pungente e agguerrita, come certe pagine da leggere online.
Certo, le manca forse un po’ d’esperienza e di malizia, ed è per questo che diventerà l’ombra di un Cal destinato a diventare mentore.
In un film che esce in un periodo come questo, dove realmente i quotidiani chiudono per mancanza di fondi, dove sono i blogger ufficiali e non a fare soldi e informazione, dove la stampa pare sempre di più aver abdicato al ruolo di watchdog dei poteri forti per appiattirsi su un velinismo più o meno mascherato, State of Play è un film a suo modo importante.
Cal e Della sono le incarnazioni di due culture solo apparentemente antitetiche, poiché solo nella reciproca accettazione e nel loro imbastardirsi costruttivo e propositivo, quel mondo comune alle quale entrambe appartengono potrà continuare a ribadire ruolo e importanza.
Per questo, nonostante in apparenza le posizioni del film riguardo il giornalismo e la sua evoluzione possono sembrare eccessivamente conservatrici e nostalgiche, è evidente che Macdonald non vuole restaurare né accusare: vuole solo rendere omaggio a quello che è stato, invitare a non dimenticarlo, a perpetrarlo, anche se in forme nuove, non analogiche ma digitali.
E il simbolico passaggio di consegne del finale, seguito da titoli di coda quasi commoventi nella loro nostalgica sincerità, sta lì a dimostrarlo.
Federico Gironi State of Play – scopri la verità Regia: Kevin Macdonald Sceneggiatura: Matthew Michael Carnahan, Tony Gilroy, Billy Ray Attori: Russell Crowe, Ben Affleck, Robin Wright Penn, Helen Mirren, Rachel McAdams, Wendy Makkena, Katy Mixon, Jeff Daniels, Maria Thayer, Viola Davis, Jason Bateman Ruoli ed Interpreti Fotografia: Rodrigo Prieto Montaggio: Justine Wright Produzione: Andell Entertainment, Universal Pictures, Working Title Films Distribuzione: Universal Pictures Paese: USA 2008 Uscita Cinema: 30/04/2009 Genere: Drammatico, Thriller Durata: 127 Min Formato: Colore 35MM – 2.35 : 1 Sito Italiano  Raccontare fa parte dei cromosomi di famiglia.
Il nonno, Emmerich Pressburger, di origini ebraiche, nato nell’impero austro-ungarico all’inizio del secolo, errabondo in Europa e rifugiatosi nella campagna inglese allo scoppiare della guerra, scrittore divenuto poi sceneggiatore – vinse un Oscar nel 1943 per 49° parallelo – infine regista, rilasciava negli anni Ottanta questa confessione:  “Credo che un film debba avere una buona storia, una storia chiara e debba anche avere, se possibile, qualche cosa, forse la più difficile di tutte, un poco di magia…
Proprio perché è intoccabile, perché è molto difficile affidarle una parte, la magia non è qualche cosa con cui trattare.
Puoi soltanto tentare di preparare alcuni nidi, sperando che un pochino di quella magia possa scivolarvi dentro”.
Il nipote, oggi regista, l’ha raccolta assai bene, questa bella eredità di famiglia:  Kevin Macdonald ha 41 anni, è nato a Glasgow e vive a Londra.
È un serio documentarista – anche lui ha conquistato il suo Oscar, vincendolo nel 2000 con A day in September, in cui ricostruiva l’attacco terroristico agli atleti israeliani durante le tragiche Olimpiadi di Monaco del 1972 – e un abile, scrupoloso regista, che è riuscito a intessere, con le sue preziose pellicole, alcuni “nidi” assolutamente non trascurabili nella storia del cinema.
Nel 2003, con La morte sospesa, racconta un’altra drammatica vicenda, anch’essa realmente accaduta:  due scalatori sulle Ande peruviane alle prese con il sacrificio, la morte e la sopravvivenza; nel 2006 ancora morte e paura (e premi) nell’Uganda marchiata a sangue dalla follia del dittatore Idi Amin, L’ultimo re di Scozia, film cui arride un nuovo successo internazionale; infine, in questi giorni sugli schermi europei e nord-americani e a fine settimana su quelli italiani, State of Play, versione aggiornata, intrigante e molto ben diretta, delle tradizionali, poco pulite e pericolose connessioni e interdipendenze tra giornalismo e potere politico, tra il dovere della verità che dovrebbe sottostare al primo e quello dell’onestà che dovrebbe orientare il secondo.
Fiction e documentario sono, per Kevin Macdonald, due mondi complementari.
Realtà e finzione, per il regista, sembrano inseparabili.
“Nei miei documentari per il grande schermo ho sempre cercato di inserire alcune caratteristiche del cinema di fiction, ad esempio il modo col quale raccontare una storia anche realmente accaduta, oppure come creare la suspence.
Quando poi ho affrontato film di fiction, ho semplicemente cercato di fare il contrario, ossia portare alcune istanze del documentario, come l’esattezza e la verità, in una storia inventata.
Nel caso dell’Ultimo re di Scozia, ad esempio, ho voluto girare nelle località ugandesi che sono state realmente teatro delle follie di Idi Amin, rimanendo aderente al massimo alla realtà dei posti, degli edifici, delle facce.
Anche per State of Play una delle mie preoccupazioni è stata come essere originale:  ci sono tantissimi film ambientati a Washington D.C., ma io volevo rendere la mia storia di giornalismo e corruzione il più possibile vera, dandole una prospettiva realistica sia negli interni dove lavorano i giornalisti e i politici sia negli esterni dove si svolgono le scene di azione.
Allora sono andato a cercare la versione della città che viene vissuta ogni giorno, più che creare il palcoscenico del potere e dell’informazione normalmente allestito per questo genere di film”.