Il caso Galileo

Il 26 maggio si apre a Firenze, presso la basilica di Santa Croce, il convegno internazionale “Galileo 2009” organizzato dall’Istituto Stensen.
I lavori proseguiranno dal 27 al 29 maggio nel Palazzo dei Congressi e si concluderanno il giorno 30 nella villa Il Gioiello di Arcetri, l’ultima dimora di Galileo.
Uno dei relatori ha sintetizzato per “L’Osservatore Romano” i temi e il significato del convegno.
Il convegno di Firenze si presenta come uno degli eventi salienti dell’International Year of Astronomy, indetto dall’Onu nel dicembre 2007 a seguito di una proposta dell’Unione astronomica internazionale, fatta propria dall’Unesco.
Il 2009 è stato scelto perché segna il quarto centenario dell’introduzione del telescopio nelle osservazioni astronomiche, avvenuta a Padova da parte di Galileo Galilei.
Così, mentre molte iniziative in corso in una pluralità di Paesi, inclusa l’Italia, stanno riguardando lo stato attuale e le prospettive della ricerca astronomica, alcune, doverosamente, sono dedicate all’esame specifico di quel fatto e alle sue ripercussioni nella storia scientifica e, nel senso più ampio, intellettuale.
Com’è ben noto, l’astronomia di Galileo e il contesto fisico-cosmologico innovativo nel quale egli tese a collocarla, facendone uno strumento di grande portata insieme scientifica e filosofica, fu l’oggetto di un intervento degli organi censori della Chiesa, le Congregazioni del sant’Ufficio dell’Inquisizione e dell’Indice.
In un primo momento (1615-1616) l’intervento ebbe un esito esclusivamente dottrinale, la proibizione della teoria eliocentrica copernicana come quadro della realtà fisica – non come schema di calcolo – e di alcune opere che la esponevano e sostenevano: né Galileo né altri sostenitori dell’eliocentrismo furono oggetto di sentenza.
In seguito (1632-1633) venne invece un processo contro di lui, con l’accusa di aver ottenuto l’imprimatur per il suo Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo dissimulandone il contenuto decisamente copernicano e aggirando quindi la proibizione, resagli nota già nel 1616.
In linea di pura cronologia e strettamente scientifica la ricorrenza centenaria riguarda un fatto estraneo alla successiva vicenda censoria, essendo eminentemente tecnico e in sé religiosamente neutro, in quanto connesso molto parzialmente e indirettamente alle valenze cosmologiche dirompenti dell’eliocentrismo.
La visione di maggior dettaglio di corpi o fenomeni già visibili e la visibilità di altri che prima non lo erano – i satelliti di Giove, le fasi di Venere, le “protuberanze” laterali di Saturno interpretate solo in seguito come un anello, e altro – misero in crisi diversi aspetti della cosmologia aristotelica e mostrarono la falsità del geocentrismo tradizionale ma non, su un piano puramente logico, quella del sistema intermedio – geo-eliocentrico – di Tycho Brahe, che era compatibile con la cosmogonia e l’astronomia della Bibbia: perciò non comportarono intrinsecamente un contrasto con queste.
Di fatto, la Chiesa non pensò mai a interdire l’uso del telescopio in astronomia, che crebbe velocemente nei Paesi cattolici non meno che nei protestanti e trovò anzi nel clero molti dei suoi praticanti più assidui e qualificati.
Tuttavia Galileo, che non ritenne plausibile il sistema di Brahe, considerò i nuovi oggetti e fenomeni come inquadrabili esclusivamente nel sistema eliocentrico e come evidenze a suo favore, e dopo aver pubblicato nel 1610, nel Sidereus nuncius, le sue prime osservazioni, potenziò il telescopio e ne focalizzò l’uso soprattutto in funzione della sua battaglia di idee.
Così, se su un piano strettamente scientifico tra gli eventi del 1609 e quelli del 1615-1616 e 1632-1633 v’è una relativa estraneità, su quello di una storia intellettuale generale v’è una quasi continuità ed un nesso ineludibile.
Questo fatto spiega l’impianto del convegno fiorentino, che non intende proporre una riflessione sulla figura complessiva dello scienziato toscano né su aspetti tecnici molto specifici.
Se per il grande pubblico o per molti studiosi non specialisti Galileo è solo o soprattutto l’astronomo del processo e dello “eppur si muove”, nella storia della scienza ha un titolo di gloria forse più grande: la fondazione della cinematica, con la formulazione della legge del moto uniformemente accelerato e l’individuazione di un principio fondante per l’intera meccanica (detto talora “relatività galileiana”).
Non solo gli organizzatori hanno limitato il convegno al tema astronomico, in conformità al ruolo conferito internazionalmente all’anno 2009, ma da esso hanno escluso l’aspetto tecnico, com’è esplicitato nel titolo: “Il caso Galilei.
Una rilettura storica, filosofica, teologica”.
L’oggetto è dunque la vexata quaestio, dibattuta quasi ininterrottamente dal 1633 alla storiografia attuale, attinente a genesi, fondamento, motivazioni, sviluppi e ripercussioni della vicenda dipanatasi tra 1615 e 1633.
È su tale “caso” che verterà la quasi totalità delle ventisette relazioni previste nei giorni 27, 28 e 29 (il 26 sono previste due lectiones magistrales introduttive; il 30 si avrà una tavola rotonda conclusiva nella villa Il Gioiello, sui colli fiorentini, dove Galileo visse in stato di residenza coatta da poco dopo la condanna fino alla morte nel 1642).
Le valenze molteplici del caso – scientifiche, storiche, giuridiche, teologiche, ideologico-politiche – hanno portato a migliaia di trattazioni, il cui numero negli ultimi anni è piuttosto cresciuto che diminuito, con un correlativo incremento di documentazione, accuratezza, specificazione di aspetti.
Il convegno fiorentino, tuttavia, si ripromette di portare gli studi a un nuovo punto di avanzamento.
Neppure esso potrà portare a risultati definitivi, perché certe lacune nella documentazione, la delicatezza delle implicazioni e le forti connotazioni ideali che hanno sempre segnato la riflessione sul tema probabilmente impediranno per sempre una ricostruzione non ipotetica in alcuna sua parte, condivisa e di valore permanente (nei limiti in cui questi attributi sono riferibili al lavoro storiografico).
Tuttavia la vastità d’impianto, l’ambito internazionale di provenienza dei relatori e, ancor prima, il numero e livello degli enti promotori lo rendono senz’altro un evento che ha pochi analoghi nella pur ricca storia organizzativa degli studi galileiani degli ultimi decenni.
All’organizzazione hanno concorso, con ruoli che vanno da un intervento diretto al patrocinio, diciotto istituzioni italiane di alta cultura, dall’Accademia dei Lincei e da quella Pontificia delle Scienze alle università di Firenze, Padova e Pisa, le tre città e sedi accademiche legate alla vita e alle ricerche di Galileo.
Proponente iniziale e perno logistico è però il fiorentino Istituto Stensen, riuscito non solo nel compito difficile di raccordare istituzioni disparate, sollecitare adesioni internazionali, creare una vasta aspettativa, ma in quello più arduo di costruire una cornice unica di dialogo – pur con la certezza di differenze di giudizio anche vivaci – tra gli specialisti circa uno dei temi che, da più tempo e più intrinsecamente, demarcano posizioni religiose, filosofiche e ideologiche profondamente alternative.
La premessa forse più decisiva per questa nuova atmosfera, il discorso del 31 ottobre 1992 ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze nel quale Giovanni Paolo II qualificò la vicenda censoria come “tragica reciproca incomprensione”, sarà anch’essa oggetto di analisi, perché il programma seguirà le fasi storiche della querelle fino al presente.
Le relazioni del 27 maggio riguarderanno gli eventi del 1615-1616 e 1632-1633.
Il 28 si passerà allo sviluppo dei giudizi e dell’immagine storica del “caso” fino al 1820-1822, quando una decisione di Pio vii – che pose termine al cosiddetto “caso Settele” – autorizzò definitivamente l’insegnamento dell’eliocentrismo come verità fisica, anche nello Stato pontificio.
Il 29 saranno sondati sviluppi e valenze del tema dall’età del risorgimento e del positivismo, quando esso assunse valenze anche fortemente anticattoliche e antireligiose e fu usato come evidenza a supporto di elaborazioni filosofiche e ideologiche radicali, fino a un presente in cui esso appare come l’antecedente di questioni, di portata almeno pari, che oggi si pongono nel rapporto tra scienza e fede.
*Università di Padova Pontificio Comitato di Scienze Storiche (©L’Osservatore Romano – 25-26 maggio 2009)

“Terra Futura per la scuola”:

“Terra Futura per la scuola” Workshop, laboratori, animazioni e spettacoli dedicati ai più giovani, perché insegnare a “vivere in modo sostenibile” è una delle sfide educative dell’epoca in cui viviamo.
La scuola è il luogo in cui si formano le nuove generazioni, e Terra Futura, la mostra convegno internazionale delle buone pratiche di sostenibilità ambientale, economica e sociale che torna alla Fortezza da Basso di Firenze dal 29 al 31 maggio prossimi, non può che riservare ai giovani un’attenzione tutta particolare perché è fondamentale partire da loro per diffondere una cultura della sostenibilità.
Lo chiede il momento di crisi attuale, che ci ricorda l’urgenza di ripensare anche la “missione educativa”: nasce da qui l’iniziativa speciale “terrafutura per la scuola”, che prevede molte proposte dedicate a studenti e docenti, fra progetti, laboratori, seminari, momenti di orientamento e formazione, ma anche animazione e spettacolo.
“Educarsi al futuro” si intitola il progetto di collaborazione scientifica tra l’Ente per le Nuove tecnologie e l’Ambiente (ENEA) e le scuole, per creare nuovi saperi umanistici, sociali, scientifici e tecnologici da convogliare in materiali e percorsi didattici, oltre che in iniziative per la diffusione di fonti rinnovabili e del risparmio energetico sia territoriali, che di cooperazione fra scuole italiane e africane: allo stand di ENEA, sarà presente un percorso con pannelli illustrativi e kit fotovoltaici dimostrativi, per l’elettrificazione di villaggi e scuole rurali africane.
A Terra Futura parteciperà anche il centro italiano Area Science Park di Trieste con “IUSES” – Intelligente Use of Energy at School – parte del programma comunitario “Intelligent Energy Europe” per imparare fra i banchi di scuola le piccole pratiche quotidiane di risparmio energetico: dalla sveglia che suona alla mattina alla luce che spegniamo prima di andare a dormire.
Torna alla Fortezza da Basso il “Progetto Cellulare Solidale” a cura del Movimento e Azione di Gesuiti Italiani per lo Sviluppo (Magis), che sensibilizza gli studenti al corretto smaltimento dei cellulari, un’attenzione che “si trasforma” in aiuti alla cooperazione: fra gli apparecchi dimessi una società specializzata separa quelli inutilizzabili da quelli ancora funzionanti e, a fronte di ogni cellulare ricevuto, il Magis riceve un corrispettivo per finanziare progetti di sviluppo per l’Africa.
E ancora, fra le numerose iniziative, a Terra Futura avrà luogo “IN-FORUM cittadini crescono, 2009”, evento conclusivo del progetto “Le Chiavi della Città”, a cura del Comune di Firenze, che vedrà duemila ragazzi condividere la documentazione prodotta sinora sui temi della formazione alla cittadinanza e all’impegno civile: una sorta di piccolo villaggio globale per parlare di best practices quotidiane, costituzione, democrazia, legalità, solidarietà.
Fra i numerosi laboratori, tanti i percorsi per sensibilizzare gli alunni alle buone prassi: dall’imparare a fare la spesa con consapevolezza e responsabilità e a risparmiare l’acqua e l’energia, all’apprendere come ricavare jeans, bigiotteria e accessori da materiali di riciclo.
Molte anche le esperienze sensoriali: un bosco allestito in miniatura che si imparerà a conoscere attraverso i cinque sensi, l’ascolto della musica prodotta dalle piante; i colori e i profumi del commercio equo e solidale attraverso percorsi fra spezie di mondi lontani, i “soggiorni” in “fattoria” e nel “villaggio ecologico” fra mille sapori e saperi, e ancora alla scoperta delle erbe officinali, dell’agricoltura e della cucina biologica, dell’accudimento degli animali, dell’arte della lavorazione della terra cruda…
Altre animazioni condurranno i ragazzi in paesi lontani fra racconti popolari, maschere, tradizioni, suoni e musiche, ma anche attraverso la creazione di oggetti tradizionali, da quelli realizzati con le perline colorate dello Swaziland al warry, una sorta di dama africana con semi locali in funzione di pedine.
La conoscenza reciproca, nel rispetto dei diritti e della dignità di ognuno, sarà anche al centro della mostra fotografica contro il razzismo (a cura della Cgil).
E ancora, giochi ideati per far conoscere ai più piccoli cos’è un ecosistema e in cosa consiste la catena alimentare, anche attraverso esperimenti interattivi che fanno comprendere le relazioni fra effetto serra, cambiamenti climatici e fonti di energia, come l’Energy Game della Fondazione Enrico Mattei, il cui scopo per ogni giocatore è quello di arrivare a realizzare un proprio obiettivo “di ottimo equilibro energetico” rispetto al territorio assegnato.
In calendario anche giochi di ruolo che trasferiranno i ragazzi nei paesi del Sud del mondo: qualche minuto “nei panni” di bambini senegalesi che non possono andare a scuola, recitando attimi delle loro vite con vestiti e oggetti tradizionali; in altre simulazioni i ragazzi “diventeranno” produttori di banane e cacao alle prese con sfruttatori senza scrupoli, davanti ai quali dovranno imparare, insieme ai compagni, a rivendicare i propri diritti.
Infine il “diario scolastico della sostenibilità”, proposto dalla Fiba Cisl per trasmettere ai più giovani il messaggio che “dalle piccole azioni e dai piccoli pensieri di ogni giorno nascono i grandi cambiamenti”.
Numerose le iniziative dedicate anche ai piccolissimi con proposte specifiche adatte alla loro età.
“Terra Futura per la scuola” è promossa da Fondazione culturale Responsabilità Etica, Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – Direzione Generale Ufficio Scolastico Regionale per la Toscana, Regione Toscana, Provincia di Firenze, Comune di Firenze – Assessorato alla Pubblica Istruzione, Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c., in collaborazione con Acli, Arci, Caritas italiana, Cisl Toscana, Cospe, Legambiente, ManiTese, Ucodep.
Terra Futura è promossa e organizzata da Fondazione culturale Responsabilità Etica per conto del sistema Banca Etica (Banca Etica, Etica SGR, Rivista “Valori”), Regione Toscana e Adescoop-Agenzia dell’Economia Sociale s.c., in partnership con Acli, Arci, Caritas Italiana, Cisl, Fiera delle Utopie Concrete e Legambiente.
www.terrafutura.it

Filippo Neri: la predicazione quotidiana

La preziosa eredità filippiana fu codificata negli Instituta della congregazione, approvati da Paolo V nel 1612: “Coloro che sono stati scelti per questo ufficio nutrono l’anima degli ascoltatori con un genere di predicazione veramente fruttuoso, adattando soprattutto le parole, con ordinata successione, alla comprensione del popolo, senza concedere nulla alla vuota pomposità e al vano applauso; e confermano l’insegnamento particolarmente citando gli esempi dei Santi e con fatti storici documentati.
Eviteranno inoltre (…) tutti gli argomenti che si addicono più alle scuole che all’Oratorio”.
Già il primo testo costituzionale (1583) stabiliva che cibo fondamentale nella congregazione oratoriana fosse la Scrittura di cui si chiedeva una conoscenza profonda attraverso un perseverante contatto: percupimus eos qui publicis praedicationibus destinandi erunt Scripturae divinae paginas (…) diurna nocturnaque manu diligentissime pertractare.
E gli scritti dei primi oratoriani, con la loro ricchezza di informazione e la penetrazione della Sacra Scrittura, mostrano quanto tale indicazione fosse diligentemente accolta.
“Padre Filippo – si legge nell’Itinerario spirituale dell’Oratorio – con il suo metodo creò una vera scuola nell’ambiente di Roma, dove i predicatori ecclesiastici rivaleggiavano con i classici pagani.
Il Santo insegnava che per predicare, bisogna prima far molta preghiera, dar molta importanza alla pratica della virtù, avere retta intenzione nello studio e ricorrere frequentemente agli esempi presi dalla vita della Chiesa e dei Santi.
Padre Giuliano Giustiniani era solito dire che un prete di Congregazione doveva morire sopra uno di questi “tre legni”: la predella dell’altare, il confessionale, la sedia dei ragionamenti”.
A questo metodo si ispirarono fin da subito i primi che Filippo Neri chiamò a coadiuvarlo nella tractatio Verbi Dei, poiché, come testimonia padre Pompeo Pateri, Filippo “volle che i suoi discepoli si abituassero allo stesso modo a annunciare la Parola di Dio, per ferire più i cuori degli ascoltatori che le orecchie”.
In qualche caso li educò alla semplicità, alla sincerità e a un rapporto di intima confidenza con gli ascoltatori anche con espedienti curiosi: al padre Agostino Manni, anima poetica e di grande sensibilità artistica, incline a farsi prendere la mano dalla vena letteraria, fece ripetere, ad esempio, per sei volte lo stesso elaborato sermone, tanto che i fedeli pensarono che quel padre non sapesse dir altro; a padre Francesco Maria Tarugi, che in un sermone parlò, con enfasi eccessiva e impeto degno della miglior retorica, sull’utilità della sofferenza, padre Filippo, dopo essersi a lungo agitato sulla sedia per fargli comprendere di rientrare nei giusti confini, disse pubblicamente, al termine, che nessuno di loro aveva ancora versato una goccia di sangue per Gesù Cristo.
Per l’attrattiva che esercitava e per i frutti di sincera conversione che produceva, lo stile della predicazione filippiana si diffuse presto anche al di fuori dell’ambiente oratoriano dando il via al rifiorire della predicazione frequente nelle chiese romane: i domenicani della Minerva furono i primi ad assumerlo, fin dal 1562, per iniziativa del loro priore Vincenzo Ercolani, grande amico di padre Filippo; gli scolopi stabilirono nelle loro costituzioni che si usasse la stessa familiare eloquenza “di cui si servono i RR.
pp.
dell’Oratorio alla Vallicella”; fuori Roma, san Carlo Borromeo lo prescrisse ai padri oblati di Milano e san Vincenzo de Paoli lo raccomandò ai suoi missionari.
Interessante, al riguardo, quanto riportato in una deposizione di padre Francesco Bozzio: “Avendo saputo che alcuni religiosi avevano adottato il tipo di predicazione che si faceva nel nostro Oratorio, e poiché un padre diceva che non era lecito usurpare quello che Padre Filippo aveva istituito, il Beato Padre rispose: oh se tutti fossero profeti…” I testi del processo di canonizzazione di Filippo Neri, editi da Giovanni Incisa della Rocchetta e da Nello Vian – verso i quali l’Oratorio conserva, e non solo per questo, un grato ricordo – sono ricchi di testimonianze sul ministero della predicazione di padre Filippo, il quale, già negli anni della giovinezza, aveva suscitato ammirazione parlando nella chiesa romana di San Salvatore in Campo, negli incontri della confraternita della Santissima Trinità.
Prima di citarne alcune, merita ricordare quella contenuta in una lettera che egli ricevette da Napoli nel 1588, agli inizi di quell’Oratorio, fondato da padri provenienti dalla Casa di Roma: “Oggi – scrisse padre Antonio Talpa – il padre messer Francesco Maria [Tarugi] ha parlato familiarmente, poi ha parlato messer Giovenale [Ancina].
Io ne ho sentita tanta consolazione che non potrei dir di più: mi è sembrato di vedere l’Oratorio in quella purezza e semplicità che aveva a San Girolamo.
(…) Desidererei che Vostra Reverenza non solo gli desse la sua approvazione, ma anche che glielo comandasse (…) Il frutto sarà certamente maggiore e minore la fatica, e, quel che più importa, si conserverà la forma di parlare propria dell’Oratorio e si trasmetterà ai posteri: altrimenti si perderebbe, ed è il bene più grande che la nostra Congregazione possiede”.
Nella risposta di Filippo Neri – diretta al Tarugi e affidata, come spesso accadeva, alla penna di Niccolò Gigli, molto caro al santo per il candore e la profonda sintonia di spirito – si legge una preziosa indicazione: “Le dico che il Padre ed i Deputati e gli altri sacerdoti di Congregazione si sono rallegrati quando hanno saputo che Vostra Reverenza ha parlato sopra il libro, secondo l’antico costume dell’Oratorio, quando in spiritu et veritate et simplicitate cordis si predicava, lasciando che lo Spirito Santo infondesse le sue virtù in bocca a chi parlava”.
Francesco M.
Tarugi, ne era ben convinto: tracciando le linee programmatiche su cui sviluppare il testo delle Costituzioni, egli affermava infatti: “Si cerchi di mantenere l’Oratorio più con la devozione che con gli ornamenti del parlare”; e già qualche anno prima, scrivendo nel 1579 a Carlo Borromeo, aveva ricordato che l’Oratorio consiste “nel trattare ogni giorno il Verbo di Dio in modo familiare” precisando che la “familiarità” non doveva essere separata dalla “dignità dovuta” e la “semplicità” non doveva confondersi con la povertà dei contenuti, dal momento che scopo principale dell’Oratorio è “formare un uomo cristiano e tenerlo, con l’aiuto della Grazia, continuamente in esercizio”.
Nelle deposizioni dei testi al processo è presente il ricordo della predicazione di padre Filippo in chiesa, durante le celebrazioni, caratterizzata da fervore e commozione, ma anche da una speciale capacità di leggere negli animi che gli consentiva di parlare a tutti tenendo presente la situazione di ognuno.
Vigerio Aquilino, che attesta di averlo sentito spesso sermoneggiare nella Chiesa Nuova, depone: “Una volta, mentre il Padre predicava pubblicamente, e credo che fosse l’anno 1583, raccontò dettagliatamente il caso di un conflitto spirituale molto stravagante, che diceva essere capitato ad un sacerdote.
E io, che ero presente ed ero ordinato sacerdote sebbene ancora non avessi celebrato la messa, ho capito che il beato Padre faceva per me questo ragionamento, poiché questo conflitto era quello che si agitava in me, punto per punto, come il Padre lo raccontava.
Donde io ne ricevetti ammirazione per il Padre e giovamento per la mia anima”.
Ciò che ancor più colpiva era però il suo “ragionare” nell’Oratorio: “Chi voglia farsi un’idea del predicare di lui – scrive il cardinale Capecelatro – deve risalire su fino a Gesù Cristo e ricordare la semplicità, la bellezza e la facilità grande delle parabole evangeliche”.
Marcello Ferro, tra gli altri, descrive gli incontri in cui san Filippo, esponendo la Parola di Dio, come un “Socrate cristiano”, coinvolgeva i presenti: “Da quando mi posi nelle sue mani, intorno al 1553, mi sono trovato molte volte presente quando il beato Filippo, cominciava a parlare, o proponeva qualche cosa di spirituale e faceva dire agli astanti il loro parere”.
Era toccante il fervore di Filippo: “Si vedeva – ricorda un teste – che nel parlare delle cose di Dio andava tutto in spirito, e molte volte l’ho visto che tremava e si muoveva facendo tremare anche il letto (…) a volte sembrava che tremasse la camera stessa”.
Il fenomeno era iniziato con la misteriosa effusione di Spirito Santo che Filippo ricevette, ancora laico – sarebbe stato ordinato sacerdote solo nel 1551, a trentasei anni – nell’imminenza della Pentecoste del 1544.
Di quell’avvenimento egli custodì gelosamente il segreto – secretum meum mihi diceva – fin quasi al termine della sua vita, ma non sempre fu in grado di nascondere gli improvvisi calori, i tremiti, le estasi e le impressionanti palpitazioni del cuore di cui l’esame autoptico evidenziò l’enorme dilatazione.
Una prorompente commozione accompagnava spesso il fervore, testimonia, tra i molti, Marcello Vitelleschi – “Io ho visto molte volte il Padre piangere, perché non si poteva trattenere” – e l’abate Marco Antonio Maffa attesta che ciò accadeva anche nella predicazione del Padre in chiesa: “L’ho sentito molte volte predicare (…) e come aveva detto dieci parole incominciava a versare lacrime nel parlare dell’amore di Dio, al punto che doveva interrompersi”.
Fu questo il motivo per cui, negli ultimi anni della vita, non parlò più in pubblico.
L’ultima volta che cercò di predicare è ricordata dai testi con particolare commozione: “Mi ricordo ancora – testimonia Alessandro Illuminati, il 2 settembre 1595 – che, circa sei anni sono, mentre si facevano sermoni nell’oratorio il padre salì su la banca da sermoneggiare con tanto spirito, et venne in tanta dirottura de piangere che non possette dire una parola, et discese giù senza dir altro, et mai più ci è salito”.
Da quel momento Filippo, che viveva della Parola di Dio, in modo ancor più efficace divenne tacito predicatore del Verbo, ripetendo, fin sul letto di morte: “Cristo mio, Signor mio, tutto è vanità.
Chi vuol altro che non sia Cristo non sa quel che si voglia, chi cerca altro che Cristo non sa quel che cerca, chi fa e non per Cristo non sa quel che si faccia”.
Schola beati Patris sarà detto dal Gallonio e dai primi oratoriani il cammino dei discepoli di padre Filippo ed il metodo dell’Oratorio, che nell’ascolto della Parola di Dio, nella preghiera, nella assidua pratica sacramentale, nell’ascetica dell’umiltà come base per l’esercizio delle virtù ha il proprio punto di forza.
Senza proclami ufficiali, in tutta semplicità, l’Oratorio assunse il volto della comunità apostolica descritta dagli Atti, come testimoniano, tra i primi, Cesare Baronio e Francesco M.
Tarugi: “Sembrò riapparire, in relazione al tempo presente, il bel volto della comunità apostolica”, “la rinnovazione dello spirito che ebbero i cristiani della primitiva Chiesa”.
(©L’Osservatore Romano – 25-26 maggio 2009) Nella preghiera litanica che il cardinale John Henry Newman compose delineando il volto e la missione di san Filippo Neri, l’invocazione Sancte Philippe, qui Verbum Dei cotidianum distribuisti esprime l’amore di Filippo per la Parola di Dio, ma anche la novità della predicazione quotidiana in un’epoca in cui essa era piuttosto occasionale, tanto che Antonio Gallonio, autore della prima biografia del santo, poté scrivere che Filippo “fu il primo che introdusse in Roma la parola di Dio cotidiana”.
Ciò che attirava all’Oratorio un numero crescente di persone, era, comunque, la semplicità e il modo familiare con cui egli, con evidente distanza dallo stile ampolloso e pieno di artifici retorici della sua epoca, trasmetteva ogni giorno la Parola di Dio.

Il benessere scolastico

Il mondo della scuola, ci viene detto da più parti e ce ne accorgiamo più o meno direttamente, sta cambiando e sta diventando più complesso.
Stare bene in classe sembra si stia rivelando sempre più difficile, sia per l’adulto che insegna sia per il giovane che impara.
La promozione di una condizione di benessere è una questione sentita e molto attuale; lavorando nelle scuole ci rendiamo conto della complessità e delle difficoltà che insegnanti ed alunni incontrano nel quotidiano.
In quest’ottica emerge l’esigenza di creare una cultura del benessere all’interno della scuola, che passi attraverso le persone che abitualmente vivono l’ambiente scolastico.
Cosa le fa stare bene? Cosa le fa vivere a disagio? Questi interrogativi non hanno un’unica risposta, non possono essere generalizzati ma devono essere calati in quella specifica realtà che ci interessa osservare.
Occorre dar voce ai soggetti e mettersi in ascolto.
Queste considerazioni hanno portato la nostra equipe di lavoro (composta da pedagogisti e psicologi) a riflettere su tale fenomeno per cercare di definirne meglio i contorni.
In conclusione, dobbiamo far notare che questo contributo si inserisce all’interno della cornice dell’approccio preventivo promozionale, che attua progetti di intervento finalizzati a ridurre i fattori potenziali di disagio o a limitarne i possibili effetti, incrementando i fattori ambientali e le risorse in grado di produrre salute nel singolo e nel gruppo (Becciu e Colasanti, 2003).
La prevenzione, intesa in tal senso, è la ricerca di possibilità di sviluppo e crescita più che una strategia per evitare un problema e/o rispondere a esigenze di controllo e di conservazione: è, quindi, promozione del benessere.
L’attenzione è spostata da una logica dell’”arrivare prima” per “evitare” un pericolo imminente a quella di una cultura e un’educazione che sostengano le risorse che ciascun individuo mette o può mettere in gioco nell’affrontare gli ostacoli e gli stress della vita quotidiana: “L’ottica della promozione (…) persegue obiettivi che effettivamente favoriscono la qualità della vita, le risorse sane e positive.
Non nega il disagio, ma, anche, non si fissa su di esso” (Maggi, 1996, pag.
90).
Dal punto di vista strettamente tecnico e pragmatico, occorre, quindi, spostare l’asse dell’intervento dal fare prevenzione al favorire lo sviluppo di capacità individuali e collettive di autoprotezione dal disagio.
La scuola, in quest’ottica, è responsabile, insieme ad altri attori dello sviluppo della personalità sociale, che matura nello spazio delle relazioni, che avvengono sia nei momenti formali di lavoro che in quelli informali (Girelli, 1999).
La nostra ricerca rileva, infatti, che la maggioranza degli studenti attribuisce la propria percezione di benessere a un contesto favorevole, che fa risaltare le relazioni sociali.
La cura della dimensione socio-affettiva è quindi essenziale non solo per la crescita del benessere dei ragazzi ma anche per lo stesso apprendimento.
In altre parole, quando la scuola si fa accogliente, è più facile che gli studenti acquisiscano conoscenze proprio perché coinvolti attivamente (Girelli, 1999).
Star bene a scuola, come è emerso anche nella ricerca presentata in questo contributo, implica sia per gli alunni che per gli insegnanti una sintesi di benessere soggettivo (avere competenze interne necessarie per vivere in modo soddisfacente nel presente e, soprattutto, nel futuro), relazionale (instaurare gratificanti rapporti con gli altri) e cognitivo (provare piacere nell’apprendere).
Stare bene in classe (con i propri compagni e con i propri insegnanti) è fondamentale non solo per la psiche dell’individuo, ma anche per il suo rendimento scolastico: “In ogni situazione di apprendimento esiste … osmosi tra la sfera affettiva e quella cognitiva”(Montesissa, 2000).
E’ utile, quindi, che nella scuola si propongano percorsi che aiutino gli alunni a conoscere e sviluppare la conoscenza di sé ed a migliorare la loro vita di gruppo favorendo un clima di collaborazione.
In classe bisogna star bene emotivamente per apprendere bene e per insegnare bene! Per la consultazione dell’intero intervento scarica i materiali collegati nella colonna di destra Definire il termine “benessere” non è semplice: per lungo tempo l’attenzione della ricerca si è orientata ad analizzare le situazioni ove il benessere manca, occupandosi dell’infelicità e della sofferenza umana (Myers – Diener, 1995; Ryff, 1989, Argyle, 1987).
La presenza di stati di benessere era infatti definita come “assenza di sintomi di malessere”, cioè emozioni negative e disturbi ad esse collegati, quali depressione, ansia, inquietudine, sintomi fisici di varia entità.
Ryff, nel 1989, mise in evidenza come gran parte delle ricerche si fondassero su concezioni riduttive del benessere in quanto privilegiavano le dimensioni del funzionamento psicologico negativo, trascurando importanti aspetti di quello positivo.
Solo recentemente l’attenzione si è spostata sulla condizione di benessere intesa nelle sue dimensioni positive con particolare riferimento agli indicatori oggettivi; limitandosi a questi ultimi indicatori infatti, il benessere viene interpretato come condizione di vita ottimale ed ideale, derivante dal possesso di qualche qualità desiderabile (la soddisfazione dei bisogni primari, la salute, il successo, la realizzazione professionale ecc.) in relazione ad un sistema valoriale condiviso all’interno di una determinata comunità.
I risultati di alcune ricerche (Diener – Suh – Oishi, 1997; Csikszentmihalyi – Wong, 1991) dimostrano però che il grado di benessere percepito può essere ricondotto solo in minima parte alle condizioni oggettive in cui si vive (si pensi ad alcuni settori specifici quali la salute mentale e la gerontologia) poiché si deve far riferimento anche alla personale attribuzione di significato agli eventi e alle esperienze.
Nasce così un filone di ricerca che si è concentrata sull’analisi dell’esperienza soggettiva del benessere o benessere soggettivo (Andrews – Robinson, 1991); soprattutto negli ultimi anni, negli Stati Uniti, si è sviluppato un ambito di indagine noto come SWB (Subjective Well-Being) che vuole differenziarsi dalla psicologia tradizionale perché va ad esaminare l’”esperienza interna” del benessere e cerca di “comprendere come le persone valutano la loro vita”(Diener, 1994).
Si tratta di un ambito interdisciplinare collegato ma distinto da quello più ampio relativo alla “Qualità della Vita”(Quality of Life: QoL).
Mentre il primo si riferisce all’esperienza del “sentirsi bene”, espressa in termini affettivi, il secondo comprende tutte le componenti che intervengono nella percezione che un individuo ha della propria posizione nella vita, nel contesto di una cultura e di un insieme di valori nel quale egli vive, anche in relazione ai propri obiettivi, aspettative, interessi.
La letteratura sul benessere soggettivo propone una mole di tradizionali studi correlazionali che connettono la “variabile” benessere ad altre variabili: tratti di personalità (Bostic – Ptacek, 2001), reddito (Cummins, 2000), qualità delle relazioni familiari (Sastre – Ferriere, 2000), riferimento ai valori e alla spiritualità (Daaleman, 1999), attività sociali e fisiche (Cooper – Okamura – Gurka, 1992), autostima (Schimmack – Diener, 2003) e adattabilità (Wrosch et al., 2003).
Le ricerche fino ad ora sviluppate hanno preso in considerazione prevalentemente campioni di popolazione di interesse clinico: le minoranze etniche e gli anziani.
Solo recentemente sono stati intensificati gli studi sugli adolescenti: una rassegna delle ricerche sul SWB nella popolazione giovanile si trova in Gilman – Huebner (2003); tali autori si sono anche occupati di una raccolta di strumenti specifici (vedi Gilman – Huebner 2000).
Queste ricerche indagano la relazione tra SWB e: realizzazione dei valori (Rask et al., 2002), soddisfazione scolastica (Katja et al., 2002), relazioni sociali (Hendry – Reid, 2000), dinamiche familiari (Rask et al., 2003), attività (Lowe, 2003), oppure misurano il livello generale di soddisfazione (Light, 2000).
In Italia, mentre le ricerche dedicate alla Qualità della Vita sono ormai diffuse (Inghilleri, 2003), il settore d’indagine sul benessere soggettivo è ancora poco sviluppato.
Anche nel nostro paese i contributi sono stati rivolti soprattutto alle problematiche adolescenziali (Cicognani – Zani, 1999), proprio perché considerata un’età difficile di costruzione della personalità, che coinvolge più agenti di sviluppo e di socializzazione, come la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari (Palmonari, 1997) l’adolescenza è stata individuata come fase evolutiva determinante per la promozione del benessere.
Gli studi si sono concentrati soprattutto sull’importanza che, per gli adolescenti, assumono le relazioni con gli altri significativi: i familiari (Bonino, 1997) e i coetanei (Ardone, 1998).
La famiglia e la scuola vengono di conseguenza identificati come i contesti più appropriati per lo studio e la promozione del benessere giovanile (Bonino – Cattelino, 2002).
Tali studi costituiranno la base teorica della ricerca da noi condotta.

I vescovi degli Stati Uniti su ricerca e obiezione di coscienza

Il cardinale George, in una dichiarazione resa pubblica dalla Conferenza episcopale, ha espresso gratitudine per le affermazioni fatte da Obama sulla necessità di “onorare la coscienza di quanti non sono d’accordo con l’aborto” anche attraverso le clausole di coscienza riconosciute agli operatori sanitari.
“Dal 1973 – si legge nella dichiarazione – le leggi federali a protezione del diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari hanno costituito una parte importante della tradizione dei diritti civili in America.
Tali leggi dovrebbero essere pienamente applicate e rinforzate.
Gli operatori e le istituzioni sanitarie cattoliche dovrebbero poter sapere che le loro più profonde convinzioni religiose e morali saranno rispettate nel momento in cui esercitano il loro diritto a servire i pazienti che hanno bisogno di aiuto.
Gli operatori cattolici, in particolare, rendono un grande ed essenziale contributo all’assistenza sanitaria nella nostra società.
Passi essenziali per proteggere i diritti di coscienza rafforzeranno il nostro sistema sanitario e la possibilità per molti pazienti di accedere a un’assistenza orientata alla difesa della vita.
Un Governo – ha aggiunto il cardinale – che vuole ridurre il tragico numero di aborti nella nostra società lavorerà anche per assicurare che nessuno sia costretto a supportare l’aborto o a prendervi parte, attraverso prestazioni dirette o fornendo informazioni sull’aborto o finanziandolo con i dollari delle sue tasse.
Mentre il dibattito continua, attendiamo di poter lavorare con l’amministrazione e i legislatori per raggiungere questo obbiettivo”.
I vescovi degli Stati Uniti, dunque, attraverso il cardinale George, rispondono a quanti hanno visto dietro alle posizioni assunte dai presuli sui temi etici un’opposizione politica alla nuova amministrazione.
Raccogliendo l’invito espresso dal presidente Obama nel suo discorso all’università di Notre Dame, la Conferenza episcopale ha invece ricordato quali sono i termini inderogabili all’interno dei quali, dal punto di vista cattolico, il dialogo, quale che sia il colore dell’amministrazione, può avvenire.
Il contributo a un lavoro comune con l’amministrazione è dimostrato anche dalla raccolta di pareri, avviata dalla stessa Conferenza episcopale, riguardo alle linee guida elaborate dai National Institutes of Health (Nih) per la ricerca sulle cellule staminali embrionali.
Secondo monsignor David Malloy, segretario generale della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, i Nih hanno perso “un’enorme opportunità per mostrare come la scienza e l’etica possano non solo coesistere ma aiutarsi e arricchirsi l’una con l’altra”.
Monsignor Malloy ha citato anche la dignità della vita umana in ogni stadio dell’esistenza e l’innato diritto di ogni uomo a non essere soggetto a sperimentazioni senza il proprio consenso informato ed esplicito.
Leggi che manchino di riconoscere tale diritto – ha aggiunto – finiscono per chiamare in causa “la loro stessa legittimità morale”.
Il segretario generale della conferenza ha messo in evidenza “un fatto scientifico centrale” nella questione della ricerca sulle cellule staminali embrionali: l’embrione che verrà distrutto per ottenere cellule staminali “è un essere umano nelle primissime fasi del suo sviluppo”.
Non si tratta – ha spiegato monsignor Malloy – di un argomento religioso ma di un fatto riconosciuto da molti organismi, compresa la National Bioethics Advisory Commission nominata dal presidente Clinton.
Tale organismo arrivò alla conclusione che dal momento che gli embrioni umani meritano rispetto in quanto forme di vita umana, distruggerli per ottenere cellule staminali è “giustificabile solo se alternative meno problematiche dal punto di vista etico non siano disponibili”.
Tali alternative esistono, ha ricordato monsignor Malloy riferendosi per esempio alla riprogrammazione delle cellule staminali adulte in modo che diventino cellule staminali pluripotenziali senza danno alla vita umana.
Le politiche federali che vietavano la distruzione di embrioni avevano consentito il grande avanzamento di questo tipo di ricerche.
Ora, l’executive order del 9 marzo, presentato dal presidente Obama – ha detto ancora il segretario generale della Conferenza episcopale – non ha solo rimosso tale politica ma anche un analogo provvedimento del 2007 che dava istruzioni ai Nih per poter praticare nuove strade al fine di ottenere la riprogrammazione delle cellule staminali adulte senza distruggere embrioni umani: “Con tale decisione – ha concluso monsignor Malloy – sia la scienza sia l’etica sono state ignorate”.
Il presidente della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, il cardinale Francis Eugene George, arcivescovo di Chicago, esorta il presidente Barack Obama a tradurre in pratica quanto ha affermato recentemente riguardo alla difesa del diritto all’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari.
Obiezione – ricorda il cardinale – nella quale rientra anche il diritto a non finanziare l’aborto con le tasse pagate allo Stato.
Obama, intervenendo presso la University of Notre Dame di South Bend, in Indiana, ha assicurato che il diritto all’obiezione, finora previsto dalla legge, continuerà a essere riconosciuto.
La questione è rilevante, in quanto alla luce dei provvedimenti presi dalla nuova amministrazione in materia etica, molti operatori sanitari si potrebbero trovare di fronte alla necessità di dover prestare servizi moralmente non condivisi.

Galileo 2009

Il congresso potrebbe portare ad una svolta storica della questione: coinvolti i massimi studiosi mondiali Galileo, Napolitano al convegno internazionale di Firenze Il Presidente della Repubblica inaugurerà ‘Il caso Galileo’ il 26 maggio Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parteciperà all’inaugurazione del convegno internazionale di studi “Il caso Galileo.
Una rilettura storica, filosofica, teologica”, in programma a Firenze dal 26 al 30 maggio e organizzato dall’Istituto Stensen dei gesuiti di Firenze, diretto da Padre Ennio Brovedani sj, ideatore dell’iniziativa.
Il convegno verrà inaugurato martedì 26 maggio nella basilica di Santa Croce – mausoleo dei sommi italiani, dove si trova la tomba di Galileo – con le lectiones magistrales di Nicola Cabibbo (presidente della Pontificia Accademia delle Scienze) e Paolo Rossi (Professore emerito di Storia della Scienza dell’Università degli Studi di Firenze).
Oltre al Presidente della Repubblica, saranno presenti numerose autorità del mondo istituzionale italiano.
“Ritengo che, visti gli ampi strumenti che verranno messi sul tavolo, il convegno potrebbe portare realmente ad una svolta storica della complessa questione galileiana, una delle più scottanti della storia – ha detto Paolo Rossi – Il convegno affronta, con un’ampiezza finora intentata, tutti i temi essenziali: la condanna della dottrina di Copernico nel 1616 e il processo a Galileo del 1633; la genesi del “caso Galilei” nell’Italia, Francia e Inghilterra del Seicento; la storia di quel caso prima nell’Illuminismo e poi nell’Ottocento (nell’età del positivismo e del Risorgimento) e infine nel Novecento, fino a questi nostri giorni”.
“La partecipazione del Presidente della Repubblica – sottolinea P.
Brovedani – rivela che il Quirinale ha colto non solo l’evidente valore culturale del Convegno, ma anche e soprattutto la sua alta valenza politica.
La memoria del passato e la corretta contestualizzazione della ‘vicenda galileiana’ contribuirà sicuramente a favorire le condizioni per un rapporto di collaborazione e serenità tra la Chiesa e le istituzioni di ricerca, soprattutto nella prospettiva delle complesse e, a volte, inedite problematiche filosofiche ed etiche sollevate dalle prospettive della ricerca bio-tecno-scientifica contemporanea.” Il convegno fiorentino ha ottenuto l’adesione e la partecipazione di 18 autorevoli Istituzioni, che si ritrovano per la prima volta insieme dopo 400 anni.
Queste istituzioni, rappresentative di importanti settori della vita culturale e scientifica, sono storicamente coinvolte in una vicenda e in un evento che hanno fortemente caratterizzato l’intelligenza e la creatività italiane, innescando tuttavia tensioni mai completamente risolte nei rapporti tra la Chiesa e diversi ambiti della produzione intellettuale.
Al convegno interverranno i massimi esperti e studiosi mondiali del tema (teologi, storici, filosofi): tra gli altri, George Coyne, Evandro Agazzi, Nicola Cabibbo, Claus Arnold, Paolo Prodi, Adriano Prosperi, Annibale Fantoli, Jean-Robert Armogathe, Horst Bredekamp, Michele Ciliberto, Paolo Rossi e Paolo Galluzzi.
Per informazioni: WWW.GALILEO2009.ORG MERCOLEDÌ 27 MAGGIO PRIMA GIORNATA PALAZZO DEI CONGRESSI ore 8.30 registrazione  a sessione: Cosmologia e teologia: la condanna del 1616 Presiede Cesare Vasoli 09.15 Apertura dei lavori 09.30 Censura ecclesiastica e filosofia naturale negli anni di Galileo Vittorio Frajese 10.00 Il copernicanesimo e la teologia Mauro Pesce 10.30 Coffee-break 11.00 Des nouveautés célestes aux textes sacrés Maurice Clavelin 11.30 Teologie a confronto: Bellarmino, Campanella, Foscarini Paolo Ponzio 12.00 The Jesuits: Transmitters of Galilean Science Rivka Feldhay 12.30 Discussione 13.00 Pausa pranzo II a sessione: I due processi: premesse e contesti Presiede Isabelle Pantin 15.00 Natura e Scrittura Pietro Redondi 15.30 Il processo del 1633 Annibale Fantoli 16.00 I meccanismi di controllo sociale e il sistema di protezione: i Farnese di Roma e Galileo Federica Favino 16.30 Coffee-break 17.00 “Mirabile e veramente angelica dottrina”: Galileo e l’argomento di Urbano VIII Luca Bianchi 17.30 Discussione 18.30 Chiusura dei lavori GIOVEDÌ 28 MAGGIO SECONDA GIORNATA PALAZZO DEI CONGRESSI ore 8.30 registrazione I a sessione: La genesi del “caso Galileo” I Presiede Maurice Clavelin 09.15 Apertura dei lavori 09.30 Il “caso Galileo” nella cultura italiana del ‘600 Franco Motta 10.00 Il “caso Galileo” nella cultura inglese del ‘600 Franco Giudice 10.30 Coffee-break 11.00 Les premiers effets de l’“affaire Galilée” chez les libertins et philosophes français Isabelle Pantin 11.30 Galileo as the unpunished artist.
Peiresc’s argument Horst Bredekamp 12.00 Galileo e l’“accomodatio” copernicana Michele Camerota 12.30 Discussione 13.00 Pausa pranzo II a sessione: La genesi del “caso Galileo” II Presiede Michele Ciliberto 15.00 Il “caso Galileo” e la riflessione teologica Jean-Robert Armogathe 15.30 L’attività scientifica nell’ottica dei censori ecclesiastici, dalla “Licet ab initio” (1542) alla “Sollicita ac provida” (1753) Ugo Baldini 16.00 L’Illuminismo e il “caso Galileo” Vincenzo Ferrone 16.30 Coffee-break 17.00 Il “caso Galileo” e il Sant’Uffizio 1820-1822: fine della controversia? Francesco Beretta 17.30 Discussione 18.30 Chiusura dei lavori VENERDÌ 29 MAGGIO TERZA GIORNATA PALAZZO DEI CONGRESSI 8.30 registrazione I a sessione: Il “caso Galileo”: l’Ottocento Presiede Sergio Givone 09.15 Apertura dei lavori 09.30 Galileo e Bruno “martiri del libero pensiero” Michele Ciliberto 10.00 Galileo e le passioni del Risorgimento Massimo Bucciantini 10.30 Coffee-break 11.00 Il “caso Galileo” ed i neotomisti dell’Ottocento Luciano Malusa 11.30 The “Galileo Affair” and the “question biblique” Claus Arnold 12.00 La représentation de Galilée dans la peinture du XIXe siècle François de Vergnette 12.30 Discussione 13.00 Pausa pranzo II a sessione: Il “caso Galileo”: Il Novecento Presiede Jean-Robert Armogathe 15.00 Galilée et Bellarmin entre Duhem et Feyerabend Jean-François Stoffel 15.30 Galileo during the Nazi Time Volker R.
Remmert 16.00 Il Vaticano II, Paschini e Galileo Alberto Melloni 16.30 Coffee-break 17.00 Galileo judged: Urban VIII to John Paul II George Coyne 17.30 Discussione 18.30 Chiusura dei lavori                

Laicità della ragione, razionalità della fede?

A.A.V.V.
, Laicita’ della ragione razionalita’ della fede? la lezione di Ratisbona, CLAUDIANA, 2008, EAN : 9788870167469, € 15,00 A partire dalla cosiddetta “lezione di Ratisbona” del pontefice Benedetto XVI e dalla risposta del vescovo luterano di Berlino Huber, giuristi, politologi, teologi e filosofi si confrontano da posizioni diverse sul rapporto tra fede e ragione, interrogandosi sull’influenza della religione sulla sfera pubblica.
Dalla quarta di copertina: Dalla “lezione di Ratisbona” di Benedetto XVI alla replica del vescovo evangelico di Berlino, Wolfgang Huber: un problema che ha segnato la storia del cristianesimo occidentale si trova nuovamente al centro di un’accesa disputa sui criteri etici e politici della convivenza civile.
Fede e ragione oggi: non solo una riflessione sui fondamenti del cristianesimo e sui rapporti con la cultura religiosa e scientifica occidentale, ma una discussione sul rapporto tra religione e modernità, sul ruolo pubblico della religione e sulla laicità.
La crisi del pluralismo liberale, il “ritorno” del religioso sulla scena pubblica e il risorgere dei fondamentalismi ripropongono il nodo filosofico del rapporto tra fede e ragione.
Un testo dove giuristi e politologi, filosofi e teologi si confrontano e si incontrano nel tentativo di disegnare uno spazio di discussione tra credenti, protestanti e cattolici, e laici.

Vincere

La trama La storia tragica di Ida Dalser, prima moglie di Mussolini, che da lui ebbe un figlio, Benito Albino Mussolini, che morì con la madre in un ospedale psichiatrico di Milano dove il Duce li aveva fatti internare.  Cast tecnico Regia: Marco Bellocchio Sceneggiatura: Marco Bellocchio Musiche: Carlo Crivelli Fotografia: Daniele Ciprì Montaggio: Francesca Calvelli Scenografia: Marco Dentici Costumi: Sergio Ballo Cast Riccardo Paicher: Fausto Russo Alesi Benito Mussolini: Filippo Timi Ida Dalser: Giovanna Mezzogiorno Rachele Guidi: Michela Cescon Pietro Fedele: Pier Giorgio Bellocchio  Dati Anno: 2009 Nazione: Italia Distribuzione: 01 Distribution Durata: 128 min Data uscita in Italia: 20 maggio 2009 Genere: biografico,drammatico,storico Mussolini si affaccia al balcone e una folla immensa lo applaude: è una fantasia, o una premonizione, o una personale certezza, perché in quel momento la piazza è vuota e il futuro duce è completamente nudo, visto da dietro anche con un bel sedere, e ha appena fatto l´amore, a lungo, con molti gemiti, i celebri occhi di fuoco sempre scomodamente spalancati nell´amplesso, la mascella volitiva già protesa verso l´avvenire, con la sua bella amante, anche lei molto gemente, una delle tante, quella Ida Dalser che avrebbe poi sposato (forse) con matrimonio religioso nel settembre 1914.
Ma quanto è periglioso rievocare il dittatore Mussolini, tanto amato quanto odiato, quello che ci tramandano la storia e i tanti cinegiornali che oggi ci fanno ridere, al massimo del potere e dell´istrionismo, nei suoi anni giovani, quando passava dal socialismo al fascismo, dall´Avanti al Popolo d´Italia, dal pacifismo all´interventismo, e in più faceva con Rachele una piccina, Edda, e cinque anni dopo un piccino, Benito Albino, con Ida.
Vincere, l´unico film italiano invitato in concorso a Cannes, diretto da uno dei nostri registi più degni e amati, Marco Bellocchio, soprattutto nella prima metà non convince e quasi provoca un disagio che non si riesce a decifrare.
Forse perché la parte storica ovviamente frettolosa, evocata attraverso troppi filmati e titoli d´epoca e con un voluto ritmo “futurista”, soffoca il fulcro del film, che è la storia di una donna che pagò per tutta la vita un amore sbagliato e mai rinnegato, che osò opporsi sola e inerme a un uomo cui la maggior parte degli italiani credeva e ubbidiva e contro cui si mosse un crudele apparato di giudici, medici, spie, giornalisti preti, politici, poliziotti, funzionari, per dimostrarne l´inesistenza e la pazzia: e distruggerla.
Qualche aggancio col presente, con il muro mediatico che si è alzato contro una moglie che ha detto basta al matrimonio con l´uomo che oggi in Italia è il più amato, il più ricco, il più ubbidito, il più potente? Sarebbe un´esagerazione, anche perché la storia, tutta la storia, è piena di donne che la ragion di Stato ha sacrificato alla vanità e ai capricci del principe ma anche di donne che sul principe e la sua corte hanno finito col prevalere.
Il Mussolini gagà di Filippo Timi è un po´ caricaturale, anche se volutamente i baci appassionati paiono quelle dei film con Rodolfo Valentino, la Ida di Giovanna Mezzogiorno è commovente.
Ida morirà di dolore e torture mediche nel 1937, a 57 anni, Benito Albino nel 1942, a 26 anni; Mussolini finirà peggio e solo pochi anni dopo.
  Le altre recensioni Mariarosa Mancuso (Il Foglio) Lietta Tornabuoni (La Stampa) Carlos Boyero (El Pais) Jean-Luc Douin (Le Monde) Luca Pellegrini (Osservatore Romano) Natasha Senjanovic (Hollywood Reporter) Paolo Mereghetti (Il corriere della sera) Lee Marshall (Screen International) Jay Weissberg (Variety)  Gabriella Gallozzi (l’Unità) Maurizio Cabona (il Giornale)

Meticciato e dialogo tra culture

L’intento è mostrare alcuni concetti fondamentali che hanno caratterizzato la riflessione sul “culturalmente altro” (molte le sorprese per il lettore non specialista: dal Kant precursore di Hitler nel teorizzare la superiorità delle razze pure a un Voltaire affascinato dalla Sacra Scrittura) per superare lo stallo di una sterile retorica delle differenze, che celebra acriticamente la fine delle identità e un “miscuglio culturale, che, non si capisce per quale motivo, dovrebbe essere per tutti automaticamente liberante”.
“Questo fatto non deve essere equivocato.
Da processo in atto – scrive Gomarasca – il meticciato non può in alcun modo diventare una strategia politica paragonabile a quella peraltro rivelatasi fallimentare del multiculturalismo; oltre tutto, il fenomeno della mescolanza non sempre avviene in modo pacifico.
Ciò che è umanamente decisivo non è che le persone e le culture si mescolino – cosa del tutto contingente – bensì il fatto che tra persone e culture si stabiliscano relazioni di riconoscimento reciproco.
Riconoscimento che, quando manca, disumanizza persone e culture.
Si tratta allora di capire se i luoghi dove concretamente si genera il bene del riconoscimento sono in grado di ospitare processi di meticciato che ne arricchiscono l’intrinseco potenziale relazionale”.
Se le culture sono in contatto (e, storicamente, lo sono sempre state, anche se con diverse modalità di interazione e integrazione) ciò significa che il meticciato è una metafora che tocca un punto antropologico fondamentale: l’essere del soggetto umano non è chiuso in se stesso ma costitutivamente aperto al legame con l’altro.
È a questo punto che l’autore introduce il concetto di “filiazione”, “una questione troppo delicata per essere lasciata totalmente nelle nostre mani”.
Per questo “vale la pena di lasciarsi istruire dal testo biblico, il racconto della torre di Babele”.
Abitualmente citato come metafora della fiera delle differenze culturali, l’episodio biblico di Babele va visto – come spiega bene Derrida – come una questione paterna.
Del resto già Voltaire si chiese, con un certo stupore, come mai nessuno si fosse accorto che Babele non vuole soltanto dire confusione, ma anche padre, più precisamente il nome di Dio come nome di padre.
“Se questo è vero, allora dobbiamo dire che quando Dio punisce gli uomini imponendo a tutti la confusione, impone anche il suo nome di padre”.
Che significa? Derrida sembra cogliere la finezza del racconto e, infatti, si chiede: perché Dio punisce i costruttori della torre? Per aver voluto costruire fino all’altezza dei cieli? È molto probabile, ma anche “per aver voluto “farsi un nome”, scegliersi il proprio nome, costruirlo da sé”.
L'”auto-nominazione” di Derrida assomiglia all’auto-riconoscimento dello spirito assoluto descritto da Hegel; è insomma la pretesa di mettersi al posto dell’origine per non dover dipendere, per non dover riconoscere che esistiamo in relazione agli altri.
“Ciò equivale – continua Gomarasca – al colonialismo: in fondo i costruttori delle terre vogliono riunire tutti gli uomini in un solo nome, in una lingua universale perché univoca, perfettamente trasparente.
Quando Dio impone e oppone loro il proprio nome, rompe la trasparenza razionale, ma interrompe anche la violenza colonialista o l’imperialismo linguistico.
Li destina alla traduzione”.
La proibizione dell’univocità è dunque un gesto paterno di protezione che ci ripara dalla violenza dell’auto-nominazione, senza però lasciarci in balìa dell’equivoco: l’universale c’è, ma, fortunatamente, non è esclusiva proprietà di nessuno.
La traduzione è allora l’unica strada per essere autenticamente figli, eredi di un nome che è proprio per ciascuno solo in quanto è ricevuto.
“È quindi facile immaginare che, traducendosi, i mondi di vita particolari – fatti di persone, lingue, culture – potrebbero anche “meticciarsi” scoprendo inaspettate zone di contatto e di sovrapposizione.
Del resto niente di ciò che è proprio, secondo una dinamica di filiazione, può mai equivalere all’esclusivo, nel senso dell’escludere l’altro”.
L’auspicio, conclude Gomarasca, è che questi possibili esiti “esproprianti” ci ricordino con maggiore evidenza la nostra origine comune e la convenienza umana di continuare a tradurre; con Babele Dio, sembra suggerire l’autore, ha regalato all’uomo la bellezza complessa e dialogica di un mondo polifonico per salvarlo da uno sterile (e alla lunga noioso) ruolo da solista.
(©L’Osservatore Romano – 22-23 maggio 2009) Attenzione al vuoto che si nasconde dietro gli slogan, alla retorica di una tolleranza che, come l’etimologia del termine stesso suggerisce, implica il rischio di tollerare l’altro senza un reale desiderio di incontrarlo; lo scopo del libro Meticciato: convivenza o confusione di Paolo Gomarasca (Venezia, Marcianum press, 2009, pagine 216, euro 20) è ripensare il processo di incontro e fusione di culture diverse – tema centrale del progetto Oasis lanciato nel settembre 2004 dal patriarca di Venezia Angelo Scola – non limitandosi a descrivere a livello storiografico la genesi di un fenomeno che ha cambiato il volto a interi continenti (l’esempio più significativo resta sempre il métissage del Nuovo Mondo) ma individuando le categorie antropologiche che possono contribuire a rivelarne le reali potenzialità.

Ascensione del Signore Gesù Anno B

Il cielo Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in al-to”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezio-namento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il qua-le si muove la fede.
Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappre-senta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.
Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esi-stenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie.
Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico.
Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere del-l’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K.
Rahner, La risurrezione della carne, p.
459).
L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.
In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.
(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare.
Il cammino di una famiglia cri-stiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).
L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», ri-spondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista.
Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua a-scensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.
Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi pos-seduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali.
La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo.
Non possono innalzare a lui i cuori.
Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo.
[…] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima.
Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tu-multo della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.
(John Henry Newman).
«Rimanete saldi nella fede» Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!».
L’esortazione rac-chiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cri-sto, è rivolta a ciascuno di noi.
La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni.
Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo.
Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile.
Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza.
Un consenso a ta-le limitazione della ragione non si concede facilmente.
Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affi-darsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo.
È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.
Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8).
Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca.
Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammet-tono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante.
Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini.
È lui ad assegnarci una missione.
Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura…
Allora essi partirono e predicarono dapper-tutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).
[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricolle-gandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qual-siasi altra epoca avete bisogno di questa forza.
Dovete essere forti della forza della speran-za, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dove-te essere forti dell’amore, che è più forte della morte…
Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabili-re…
il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialo-go con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n.
4).
Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esi-stenza.
Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia.
Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di ve-rità e di pace.
Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, te-stimoniate che Dio è amore.
Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come suc-cessore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia.
E ricordatevi an-che di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande pre-decessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo.
Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen! (BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J.
RATZIN-GER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).
Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi.
A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca.
Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue pa-role, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa.
Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15).
I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferi-vano cose da loro stessi viste.
Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno.
Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà.
[…] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confu-sione quando ritornerà.
Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31).
E quasi gli chie-dessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione.
Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unica-mente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse.
La veri-tà non conosce inganni.
Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra fa-cendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa.
Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp.
1708-1709).
Sii un vero amico Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno.
L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale.
Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio.
L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte.
In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte.
Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami.
È questo il centro del messaggio di Gesù.
Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata.
Al contrario, è cresciuta.
È questo il significato dell’invio dello Spirito.
Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’ami-cizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte.
È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro.
Sai dall’esperienza quanto questo sia reale.
Coloro che hai amato profondamen-te e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze re-ali.
Osa amare ed essere un vero amico.
L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condur-rà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.
(H.J.M.
NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).
«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo»(At 1,11).
[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.
La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste.
Prima la realtà ter-rena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione.
L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla.
E, do-po aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr.
Gn 1,26-27).
Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità.
Sappia-mo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannan-do in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferen-za e la morte.
Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del ge-nere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza.
“Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo.
Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambi-to di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura.
Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolez-za che prima o poi questo cammino giungerà al termine.
Ed è allora che nasce la riflessio-ne: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo? In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?».
Leggiamo che quando gli apo-stoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo».
Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10).
Sta-vano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, croci-fisso e risorto, che veniva sollevato in alto.
Non sappiamo se si resero conto in quel mo-mento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, in-finito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo.
Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo.
Per noi, tuttavia, quell’even-to di duemila anni fa è ben leggibile.
Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio.
Siamo chia-mati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione.
Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.
(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J.
RATZIN-GER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).
Preghiera Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore.
Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…
Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre.
Allora potremo fin d’ora gustare la viva spe-ranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:   – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.
RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007 – Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 1,1-11 Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e inse-gnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio.
Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ri-costituirai il regno per Israele?».
Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardava-no, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.
Essi stavano fissando il cie-lo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).
Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v.
6).
Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incom-prensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o mo-menti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).
Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universali-stico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra».
Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illu-strerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfi-no a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora cono-sciuto.
Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assisten-za dello Spirito.
Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annun-ciatori e testimoni del Risorto.
È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamen-te, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf.
At 2,32-33).
Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9).
Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto.
Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzio-ne di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.
È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.
È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «pre-parare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signo-re dell’universo, essa è destinata! Seconda lettura: Efesini 4,1-13 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera de-gna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sop-portandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la spe-ranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.
Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tut-ti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo.
Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini».
Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.
Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a com-piere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.
Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.
La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conserva-re l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).
Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di lo-ro.
Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente.
«Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo…» (4,4-5).
La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti dia-no il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».
E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «prediposizioni» di natura e perciò da rivendica-re a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti.
«A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secon-do la misura del dono di Cristo» (4,7).
Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa! A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fonda-mentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad al-tri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e del-la conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).
Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nel-la Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune.
Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsia-si altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pie-nezza di Cristo» (4,13).
Il che è tremendamente impegnativo per tutti.
Vangelo: Marco 16,15-20 In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato.
Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderan-no in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporran-no le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i se-gni che la accompagnavano.
Esegesi Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo.
Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8).
Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Si-gnore risorto! Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa.
Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.
Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.
Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento.
Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolun-garne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura.
Perciò essi ven-gono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed esten-dere per tutto l’arco della storia.
È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annun-ciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).
Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore.
Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve es-sere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti.
In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente.
Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.
E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» stra-ordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Penteco-ste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia.
Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e pre-dicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).
Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.
Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdu-rante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).
Meditazione Il passo evangelico che la liturgia fa proclamare in questa festa è tratto dalla cosiddetta «conclusione canonica» del racconto di Marco, un epilogo aggiunto da un redattore poste-riore per dare seguito alla finale troppo brusca e insolita dello scritto originario, che termi-nava con il v.
8.
Questo secondo finale ci presenta un rapido sommario dei racconti di ap-parizione del Risorto chiuso dalla breve menzione dell’ascensione al cielo di Gesù e della successiva missione universale dei discepoli.
Dopo l’apparizione a Maria di Magdala (vv.
9-11) e a due discepoli in cammino (vv.
12-13), il Risorto appare agli Undici (v.
14).
Prima però di affidare loro il compito missionario dell’annuncio evangelico «a ogni creatura» (v.
15), è da notare che Gesù li rimprovera severamente «per la loro incredulità e durezza di cuore» (v.
14b).
Ritorna, alla fine, un tema caratteristico della narrazione marciana che at-traversa da cima a fondo tutto il libro: l’incredulità dei discepoli.
E ritorna con insistenza, a più riprese, come un ritornello martellante (cfr.
vv.
11.13.14.16).
Ma è proprio in questo contesto che emerge, per contrasto, tutta l’ostinata fedeltà del Signore che non esita ad affi-dare sua missione a dei discepoli rivelatisi quantomeno inaffidabili.
Il vangelo è messo così in fragili mani di uomini increduli e titubanti affinché compia la sua corsa fino agli estremi confini del mondo.
È singolare il fatto che destinataria della missione evangelizzatrice non è solamente l’u-manità intera ma «tutta la creazione» (così recita letteralmente il v.
15).
C’è qui una dimen-sione cosmica che non va sottaciuta: tutto l’universo creato è coinvolto in quel dinamismo di salvezza scaturito dalla Pasqua di Gesù e deve anch’esso ricevere la Buona Novella che rinnova e trasfigura ogni cosa.
Paolo non dirà forse che anche la creazione attende con im-pazienza la sua liberazione e redenzione (cfr.
Rm 8,19 ss.)? «Chi crederà…
chi non crederà…» (v.
16).
Tutto si gioca tra fede e incredulità, tra acco-glienza e rifiuto del vangelo, che rimane l’unico oggetto della predicazione apostolica.
Già all’inizio del suo ministero Gesù invitava alla conversione e alla fede dinanzi all’avvicinar-si del Regno (cfr.
Mc 1,15), ora, da Risorto, rilancia il suo appello perché il dono incompa-rabile del vangelo non vada inutilmente sprecato.
I segni che accompagnano «quelli che credono» – e dunque non solo i missionari – sono conferme della Parola annunciata e ac-colta nella fede.
Essi vengono compiuti nel nome di Gesù (cfr.
v.
17), cosicché ciò che mani-festano non è tanto la potenza e la grandezza dei credenti quanto la potenza divina che a-gisce per mezzo dello stesso Signore («e il Signore confermava la Parola con i segni che la accompagnavano»: v.
20).
«Dopo aver parlato loro…» (v.
19).
Gesù ha ormai detto tutto e il Padre lo può «elevare», «assumere» in cielo (il verbo usato, analambáno, esprime un passivo divino) e intronizzarlo alla sua destra.
Un solo versetto basta all’autore per descrivere la scena dell’ascensione: quel «cielo» che si era «squarciato» al momento del battesimo (cfr.
Mc 1,10) ora accoglie di nuovo Colui che era disceso sulla terra per compiere fino in fondo la volontà del Padre.
Se c’è un’elevazione, un’ascesa, è perché prima c’era stata una discesa, un abbassamento (cfr.
Ef 4,9-10, II lettura).
E in questo duplice movimento di discesa e salita si consuma tutta la vi-cenda terrena del Figlio di Dio.
D’ora innanzi non esiste più separazione tra terra e cielo: se la terra è salita al cielo (con il corpo umano glorificato di Gesù), il cielo è disceso sulla terra (con lo Spirito Santo che il Figlio dal Padre ci ha mandato).
«Sulla terra viene sparso un seme celeste e Colui che ritorna presso il Padre stabilisce d’ora in poi, nella sua qualità di Capo di una Chiesa ancora terrena, un vincolo inscindibile tra la terra e il cielo» (H.U.
von Balthasar).
In questa prospettiva il «cielo» non può più essere inteso come simbolo di lon-tananza, di distacco, di estraneità del Signore nei confronti di quanti ancora vivono e lot-tano su questa terra; al contrario: è proprio per essere salito al cielo, cioè presso Dio, che Gesù può essere presente nei suoi discepoli in maniera del tutto nuova e radicalmente più profonda.
Infatti, subito dopo aver detto che Gesù risorto «sedette alla destra di Dio» (v.
19), il testo prosegue: «…
e il Signore agiva insieme con loro (synergoûntos)» (v.
20).
Questa «sinergia», questo «lavoro» divino e insieme umano, è precisamente l’opera dello Spirito Santo, il vero protagonista – non nominato – della missione.
Per concludere ci si può chiedere: se non è la tomba vuota la mèta del nostro cammino («Non è qui»: Mc 16,6), né il cielo il luogo verso cui fissare il nostro sguardo («Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?»: At 1,11), dove cercare allora il Risorto? Perché molti sono ancora il luoghi ‘sbagliati’ in cui si smarrisce la nostra ricerca…