“I loro nomi sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio” di Benedetto XVI “Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Isaia 56, 5).
Questo passo tratto dal libro del profeta Isaia offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato: “yad”, memoriale, “shem”, nome.
Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah.
Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità.
I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente.
Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà.
Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto.
E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano.
La Sacra Scrittura ci insegna l’importanza dei nomi quando viene affidata a qualcuno una missione unica o un dono speciale.
Dio ha chiamato Abram “Abraham” perché doveva diventare il “padre di molti popoli” (Genesi 17, 5).
Giacobbe fu chiamato “Israele” perché aveva “combattuto con Dio e con gli uomini ed aveva vinto” (cfr.
Genesi 32, 29).
I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abraham.
Come avvenne per Abraham, anche la loro fede fu provata.
Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente.
Possano i nomi di queste vittime non perire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa! La Chiesa cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate.
Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione: le loro sofferenze sono le sue e sua è la loro speranza di giustizia.
Come vescovo di Roma e successore dell’apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini.
Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr.
Salmo 85, 9).
Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie.
Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana.
Lui solo governa il mondo con giustizia e giudica con equità ogni popolo (cfr.
Salmo 9, 9).
Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome.
Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini.
Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei? Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbero stati condannati ad un così lacrimevole destino! Mentre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori.
È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza.
È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente.
È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente.
Nel professare la nostra incrollabile fiducia in Dio, diamo voce a quel grido con le parole del libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani: “Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie; Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà.
Mia parte è il Signore – io esclamo –, per questo in lui spero.
Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca.
È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (3, 22-26).
Cari amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare.
__________ Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009 Appena arrivato lunedì in terra d’Israele, Benedetto XVI ha immediatamente preso di petto le questioni più controverse: prima la pace e la sicurezza, poi la Shoah e l’antisemitismo.
Su entrambi i fronti era atteso al varco.
Sottoposto a pressioni incessanti e non sempre leali.
Per molti suoi critici il copione era già scritto, ed essi aspettavano solo di giudicare se e come il papa l’avrebbe osservato.
Invece Benedetto XVI s’è mosso con sorprendente originalità.
In un caso e nell’altro.
L’avvento della pace l’ha legato indissolubilmente a quel “cercare Dio” che era già stato il tema dominante del suo memorabile discorso di Parigi al mondo della cultura: uno dei discorsi capitali del suo pontificato.
Mentre il tema della sicurezza – nevralgico per Israele – l’ha svolto a partire dalla parola biblica “betah”, che vuol dire sì sicurezza ma anche fiducia: e l’una non può stare senza l’altra.
Nella visita allo Yad Vashem – il memoriale delle vittime della Shoah con incisi i loro nomi a milioni – il papa ha poi illuminato il senso di un’altra parola biblica: il “nome”.
I nomi di tutti “sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente”.
E quindi “non si può mai portar via il nome di un altro essere umano”, nemmeno quando gli si vuol toglier tutto.
Il grido degli uccisi sale dalla terra come dai tempi di Abele, contro ogni spargimento di sangue innocente, e Dio tutti ascolta, perché “non sono esaurite le sue misericordie”.
Queste ultime parole, tratte dal libro delle Lamentazioni, il papa le ha scritte firmando il libro d’onore.
Il discorso di Benedetto XVI allo Yad Vashem, e prima di questo l’altro pronunciato su pace e sicurezza durante la visita al presidente Shimon Peres, sono riprodotti qui di seguito.
Entrambi sono di lunedì 11 maggio 2009, primo giorno della sua visita in Israele.
__________ ”Cercate Dio e la pace vi sarà data” di Benedetto XVI Signor presidente, […] oggi desidero assicurare a lei […] come pure a tutti gli abitanti dello Stato di Israele che il mio pellegrinaggio ai Luoghi Santi è un pellegrinaggio di preghiera in favore del dono prezioso dell’unità e della pace per il Medio Oriente e per tutta l’umanità.
In verità, ogni giorno prego affinché la pace che nasce dalla giustizia ritorni in Terra Santa e nell’intera regione, portando sicurezza e rinnovata speranza per tutti.
La pace è prima di tutto un dono divino.
La pace infatti è la promessa dell’Onnipotente all’intero genere umano e custodisce l’unità.
Nel libro del profeta Geremia leggiamo: “Io conosco i progetti che ho fatto a vostro riguardo – oracolo del Signore – progetti di pace e non di sventura, per concedervi un futuro pieno di speranza”.
Il profeta ci ricorda la promessa dell’Onnipotente che “si lascerà trovare”, che “ascolterà”, che “ci radunerà insieme”.
Ma vi è anche una condizione: dobbiamo “cercarlo”, e “cercarlo con tutto il cuore” (Geremia 29, 11-14).
Ai leader religiosi oggi presenti vorrei dire che il contributo particolare delle religioni nella ricerca di pace si fonda primariamente sulla ricerca appassionata e concorde di Dio.
Nostro è il compito di proclamare e testimoniare che l’Onnipotente è presente e conoscibile anche quando sembra nascosto alla nostra vista, che Egli agisce nel nostro mondo per il nostro bene, e che il futuro della società è contrassegnato dalla speranza quando vibra in armonia con l’ordine divino.
È la presenza dinamica di Dio che raduna insieme i cuori ed assicura l’unità.
Di fatto, il fondamento ultimo dell’unità tra le persone sta nella perfetta unicità e universalità di Dio, che ha creato l’uomo e la donna a propria immagine e somiglianza per condurci entro la sua vita divina, così che tutti possano essere una cosa sola.
Pertanto, i leader religiosi devono essere coscienti che qualsiasi divisione o tensione, ogni tendenza all’introversione o al sospetto fra credenti o tra le nostre comunità può facilmente condurre ad una contraddizione che oscura l’unicità dell’Onnipotente, tradisce la nostra unità e contraddice l’Unico che rivela se stesso come “ricco di amore e di fedeltà” (Esodo 34, 6; Salmo 138, 2; Salmo 85, 11).
Cari amici, Gerusalemme, che da lungo tempo è stata un crocevia di popoli di diversa origine, è una città che permette ad ebrei, cristiani e musulmani sia di assumersi il dovere che di godere del privilegio di dare insieme testimonianza della pacifica coesistenza a lungo desiderata dagli adoratori dell’unico Dio; di svelare il piano dell’Onnipotente, annunciato ad Abramo, per l’unità della famiglia umana; e di proclamare la vera natura dell’uomo quale cercatore di Dio.
Impegniamoci dunque ad assicurare che, mediante l’ammaestramento e la guida delle nostre rispettive comunità, le sosterremo nell’essere fedeli a ciò che veramente sono come credenti, sempre consapevoli dell’infinita bontà di Dio, dell’inviolabile dignità di ogni essere umano e dell’unità dell’intera famiglia umana.
La Sacra Scrittura ci offre anche una sua comprensione della sicurezza.
Secondo il linguaggio ebraico, sicurezza – “batah” – deriva da fiducia e non si riferisce soltanto all’assenza di minaccia ma anche al sentimento di calma e di confidenza.
Nel libro del profeta Isaia leggiamo di un tempo di benedizione divina: “Infine in noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva.
Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino.
Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre” (32, 15-17).
Sicurezza, integrità, giustizia e pace: nel disegno di Dio per il mondo esse sono inseparabili.
Lungi dall’essere semplicemente il prodotto dello sforzo umano, esse sono valori che promanano dalla relazione fondamentale di Dio con l’uomo, e risiedono come patrimonio comune nel cuore di ogni individuo.
Vi è una via soltanto per proteggere e promuovere tali valori: esercitarli! viverli! Nessun individuo, nessuna famiglia, nessuna comunità o nazione è esente dal dovere di vivere nella giustizia e di operare per la pace.
Naturalmente, ci si aspetta che i leader civili e politici assicurino una giusta e adeguata sicurezza per il popolo a cui servizio essi sono stati eletti.
Questo obiettivo forma una parte della giusta promozione dei valori comuni all’umanità e pertanto non possono contrastare con l’unità della famiglia umana.
I valori e i fini autentici di una società, che sempre tutelano la dignità umana, sono indivisibili, universali e interdipendenti.
Non si possono pertanto realizzare quando cadono preda di interessi particolari o di politiche frammentarie.
Il vero interesse di una nazione viene sempre servito mediante il perseguimento della giustizia per tutti.
Gentili Signore e Signori, una sicurezza durevole è questione di fiducia, alimentata nella giustizia e nell’integrità, suggellata dalla conversione dei cuori che ci obbliga a guardare l’altro negli occhi e a riconoscere il “tu” come un mio simile, un mio fratello, una mia sorella.
In tale maniera non diventerà forse la società stessa un “giardino ricolmo di frutti” (cfr.
Isaia 32, 15), segnato non da blocchi e ostruzioni, ma dalla coesione e dall’armonia? Non può forse divenire una comunità di nobili aspirazioni, dove a tutti di buon grado viene dato accesso all’educazione, alla dimora familiare, alla possibilità d’impiego, una società pronta ad edificare sulle fondamenta durevoli della speranza? Per concludere, desidero rivolgermi alle comuni famiglie di questa città, di questa terra.
Quali genitori vorrebbero mai violenza, insicurezza o divisione per il loro figlio o per la loro figlia? Quale umano obiettivo politico può mai essere servito attraverso conflitti e violenze? Odo il grido di quanti vivono in questo paese che invocano giustizia, pace, rispetto per la loro dignità, stabile sicurezza, una vita quotidiana libera dalla paura di minacce esterne e di insensata violenza.
So che un numero considerevole di uomini, donne e giovani stanno lavorando per la pace e la solidarietà attraverso programmi culturali e iniziative di sostegno pratico e compassionevole; umili abbastanza per perdonare, essi hanno il coraggio di tener stretto il sogno che è loro diritto.
Signor presidente, la ringrazio per la cortesia dimostratami e la assicuro ancora una volta delle mie preghiere per il governo e per tutti i cittadini di questo Stato.
Possa un’autentica conversione dei cuori di tutti condurre ad un sempre più deciso impegno per la pace e la sicurezza attraverso la giustizia per ciascuno.
Shalom! __________
Cristianesimo & Islam. La necessità del dialogo in Europa
L´incontro è iniziato con una presentazione del Card.
Tauran sullo status quaestionis del dialogo con i musulmani.
Momento importante del dialogo interreligioso è stato la pubblicazione della “Lettera dei 138”.
Da ciò è nata l’idea del primo incontro del Forum cattolico-musulmano che si è riunito nel mese di novembre 2008 a Roma.
In questi mesi il dicastero presieduto dal cardinale Tauran ha lavorato su degli Orientamenti pastorali la cui pubblicazione è prevista dopo la pausa estiva.
Altri punti significativi della presentazione del cardinale è stata l´importanza ma anche la complessità che la questione del dialogo con i musulmani riveste per la Chiesa, anche se a differenza di altri tempi, oggi la presenza musulmana è sostanzialmente pacifica.
Questo dialogo ci offre l´opportunità di approfondire la nostra fede, così da testimoniarla e darne ragioni, solo e vero modo di avere un dialogo sincero, senza cadere nel relativismo.
La riunione è proseguita con la presentazione di rapporti che i delegati hanno preparato circa la situazione del dialogo nei loro paesi.
In sostanza, quanto emerge è la domanda, sempre attuale, di come rapportarci ai musulmani oggi in Europa.
Si nota chiaramente come, nonostante la grande diversità di approcci, la connessione della presenza musulmana in Europa non può più solo essere collegata e affrontata alla stregua della questione del fenomeno migratorio.
Se ci sono ancora alcuni paesi in cui questo è vero, nella maggior parte dei paesi europei, i musulmani appartengono alla seconda, terza, quarta e addirittura quinta generazione, quindi persone nate ed educate in Europa, che sono e si riconoscono pienamente cittadini europei.
Tra le sfide che il dialogo interreligioso mostra vi sono questioni legate al tema dei matrimoni misti, dell´istruzione e dell´integrazione nelle scuole e nei movimenti giovanili cattolici dei giovani musulmani, la questione di tensioni in alcune città europee circa la costruzione di moschee e minareti.
Dall’altra parte si riscontra una certa sintonia su alcuni temi che indicano come questo dialogo può aiutare a elaborare posizioni in comune circa le questioni legate al tema della bioetica o della presenza della religione nello spazio pubblico.
La presentazione di don Andrea Pacini sui giovani musulmani europei ha permesso di evidenziare come, per capire l´identità dei musulmani, si dovrebbe vedere l´intersezione di tre fattori: il rapporto con l´Islam “etnico” delle prime generazioni di immigrati, il rapporto con la società europea e, infine, l´influenza dei flussi transnazionali dei musulmani in Europa.
Inoltre si assiste sempre più ad una differenziazione tra un tipo più tradizionale di esperienze legate all’islam dei paesi di provenienza da altre forme più personalizzate segnate dalla cultura europea, di tendenza a volte più liberale e in altri casi di corrente “neo-ortodossa”.
Si tratta d’altra parte di un nuovo tipo di organizzazione, di tipo associativo, con obbiettivi non esclusivamente religiosi, in dialogo con la cultura europea.
In ogni caso è chiaro che il musulmano si riconosce a livello personale e comunitario come appartenente all´Islam a prescindere della grande varietà di tradizioni.
Dal canto suo Martino Diez ha presentato il progetto Oasis promosso nel 2004 dal cardinale Angelo Scola di Venezia per sostenere il dialogo con i musulmani e con i cristiani che vivono in Paesi a maggioranza musulmana.
Oasis è una Fondazione Internazionale che pubblica una rivista mensile in varie lingue, compreso l´arabo.
Produce anche una newsletter inviata gratuitamente per e-mail e ha due collane di libri.
La sua presentazione è stata incentrata sulla questione della identità dell’interlocutore.
Si è visto come questa sia una questione molto delicata e come sia facile cadere in forme stereotipate non corrispondente alla realtà.
Un punto importante da lui riferito è stato il tema del métissage (incontro fra culture diverse).
Alle volte sembra un problema ma non deve essere visto come una tragedia, ma come un´opportunità per aumentare le possibilità di convivenza di persone con culture diverse.
In una società in cui tutti siano sempre più in grado di riconoscere l’altro e di essere riconosciuti, senza questo riconoscimento reciproco, un vero dialogo sarà impossibile.
Il padre bianco Hans Vöcking, esperto di Islam per il CCEE, ha raccontato la già lunga storia del lavoro che il CCEE insieme alle altre chiese cristiane membri della KEK (Conferenza delle Chiese europee) hanno svolto nell’ambito del dialogo con l’Islam.
Per lui anche la chiesa è chiamata a ripensare il suo approccio.
“Solo fino a 30 anni fa, la presenza dei musulmani in Europa rientrava per le Chiese nella categoria degli aiuti agli immigrati.
Oggi c’è la constatazione che i musulmani fanno parte integrante delle società europee e questa presenza necessita di una riflessione diversa che è al tempo stesso pastorale, sociale, caritativa e religiosa”.
Alla fine della riunione è stato espresso da molti partecipanti il desiderio di continuare questi incontri, perché possano essere occasioni per affrontare una serie di temi comuni e far conoscere ciò che i vari paesi stanno facendo per affrontare le diverse situazioni che, nonostante le caratteristiche specifiche di ciascun paese, sono simili.
P.
Duarte da Cunha Segretario generale CCEE San Gallo, il 29 aprile 2009 ***************** Al Consiglio delle Conferenze Episcopali d’Europa (CCEE) appartengono quali membri le attuali 33 Conferenze episcopali presenti in Europa, rappresentate di diritto dal loro Presidenti, gli Arcivescovi del Lussemburgo e del Principato di Monaco e il vescovo di Chişinău (Moldavia).
Lo presiede il Cardinale Péter Erdő, Arcivescovo di Esztergom-Budapest, Primate d’Ungheria; i Vicepresidenti sono il Cardinale Josip Bozanić, Arcivescovo di Zagabria e il Cardinale Jean-Pierre Ricard, Arcivescovo di Bordeaux.
Segretario generale del CCEE è P.
Duarte da Cunha.
La sede del segretariato è a St.
Gallen (Svizzera).
Per ulteriori informazioni: Thierry Bonaventura, CCEE Media Officer Tel: +41/ 71/227 6040 – Fax: +41/71/227 6041 Mobile: +41/ 78/ 851 6040 thierry.bonaventuraccee.ch Primo Incontro europeo dei delegati delle Conferenze episcopali responsabili per i rapporti con i musulmani in Europa – Bordeaux, Francia, 27-28 aprile 2009 Per 2 giorni delegati delle Conferenze episcopali per i rapporti con i musulmani del Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Svizzera, Bosnia ed Erzegovina, Slovenia, Polonia, Italia, Malta, Scandinavia, Austria e Turchia, insieme al Cardinale Jean Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, si sono incontrati a Bordeaux per condividere quanto ciascun paese sta facendo nel campo del dialogo con i musulmani.
La riunione è stata ulteriormente arricchita dalla presenza di don Andrea Pacini, esperto rinomato del dialogo con il mondo musulmano e che nel 2005 ha pubblicato un volume sulla realtà dei giovani musulmani in Europa, da Martino Diez, presidente della Fondazione Oasis di Venezia, da P.
Hans Vöcking dei padri missionari africani e da contributi pervenuti dalle Conferenze episcopali dei Paesi Bassi, dell´Albania e della Conferenza Episcopale SS.
Cirillo e Metodio.
Maggio
1.
Cerca nei Salmi indicati la conferma che la vita, nella concezione ebraica, non è tanto un concetto quanto una relazione con Dio.
2.
Che cosa caratterizza la vita nello Sheol? 3.
Che cosa esprime di nuovo la riflessione del vangelo di Giovanni sulla vita, rispetto ai sinottici? 4.
Cosa vuol dire che Gesù è il “nuovo Adamo”? Praticamente tutte le religioni si sono occupate e si occupano della vita e della morte.
Anzi, questi sono i loro temi centrali, basti pensare all’importanza e alla diffusione che ha il culto dei morti nella quasi totalità delle esperienze religiose, oppure il ruolo che assumono la morte e la resurrezione di Cristo nella comprensione del cristianesimo.
La morte viene percepita dalle religioni come un passaggio, una trasformazione della vita nell’aldilà: così come entriamo nel mondo attraverso la nascita, è attraverso la morte che entriamo nella vita successiva, qualunque sia la sua forma.
La vita e la morte, da un lato, possono apparire dei fenomeni naturali per cui l’uomo nasce, invecchia, muore e scompare: Jean Paul Sartre, nella sua celebre opera L’essere e il nulla, afferma che non solo non si può trovare alcun senso alla morte, ma che questa, per la sua stessa assurdità, impedisce di dare un senso alla vita.
Parallelamente a questa visione vi è però quella che guarda alla morte come a una realtà estranea, una “anomalia” che irrompe nella vita come qualcosa di singolare.
Così si esprime un canto africano: «Il giorno in cui Dio creò tutte le cose, creò il sole.
E il sole sorge, va a dormire e ritorna.
Egli creò la luna.
E la luna sorge, va a dormire e ritorna.
Egli creò le stelle.
E le stelle sorgono, vanno a dormire e ritornano.
Egli creò l’uomo.
E l’uomo appare, va nella terra e non ritorna».
È l’altra faccia della morte: pur essendo cantata come parte della creazione, è sentita come un’irregolarità drammatica di fronte alle apparizioni e sparizioni ritmate della natura.
Il teologo cattolico Karl Rahner esprimeva così questo doppio volto della nostra coscienza della morte: «La morte è ciò che vi è di più comune, e va da sé che ciascuno proclami che è naturale morire.
Eppure, in ciascuno di noi si alza una segreta protesta».
In questa prima parte cercheremo di individuare alcuni punti nodali per la comprensione della vita e della morte nelle religioni ebraica e cristiana, mentre, il mese prossimo, ci occuperemo dell’islam, dell’induismo e del buddismo.
Al centro del modo di intendere la morte da parte dei cristiani vi è la morte di Gesù narrata nei vangeli e definita nel Credo.
L’atteggiamento di Gesù sulla morte dipende fortemente dalla sua radice ebraica: “Non è un Dio dei morti, ma dei viventi!” (Mc 12,27).
In questa linea si spiega l’azione di Cristo che, come avevano fatto i profeti prima di lui, ha richiamato dei morti alla vita.
Dai vangeli si desume che Gesù prevede la propria morte (vd.
la parabola dei vignaioli in Mc 12,1-12; Lc 20,9-16), e ne anticipa l’interpretazione (Mc 14,22-25; Lc 22, 14-20; Mt 26,26-29).
Ecco le parole con cui Gesù, durante l’Ultima Cena, annuncia la propria morte come evento sacrificale.
Quando la comunità celebra l’Eucarestia in sua memoria viene annunciata la morte e risurrezione di Cristo e si attualizza nella comunità l’offerta del suo sacrificio.
15 “Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, 16 perché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio”.
17 E, ricevuto un calice, rese grazie e disse: “Prendetelo e fatelo passare tra voi, 18 perché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non verrà il regno di Dio”.
19 Poi prese il pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: “Questo è il mio corpo, che è dato per voi; fate questo in memoria di me”.
20 E, dopo aver cenato, fece lo stesso con il calice dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi”.
(Lc 22,15-20) Nella visione di San Paolo il fenomeno della morte viene fatto risalire al peccato originale (Rm 5,12; 6,23): il peccato del primo uomo, viene cancellato dal “secondo Adamo” (Gesù) che sconfigge definitivamente la morte (Rm 6,8).
Paolo arriva a dire che «né morte né vita… potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù» (Rm 8,38) e che per lui «il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21).
Inoltre estende la sua concezione della risurrezione dall’individuo all’umanità intera: «Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» (1Cor 15,22).
La riflessione paolina genererà nei cristiani la certezza di non avere più nulla da temere dalla morte, dal momento che la morte “autentica” è quella causata dal peccato.
Ecco come, nella visione di Paolo, viene descritta la condizione di rinascita a vita a nuova di colui che crede in Cristo.
8 Ma se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, 9 sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più; la morte non ha più potere su di lui.
10 Infatti egli morì, e morì per il peccato una volta per tutte; ora invece vive, e vive per Dio.
11 Così anche voi consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù.
(Rm 6,8-11) La risposta cristiana alla morte sta dunque nella speranza della resurrezione; in essa anche il corpo è destinato alla salvezza presente e futura.
È l’uomo nuovo che risorge con Cristo, anche se si ignora la modalità con cui tutto ciò debba avvenire.
Il martirio liberamente scelto come suprema testimonianza della fede fu circondato da ogni onore fin dagli albori della vita della Chiesa: Tertulliano, Padre della Chiesa del II secolo, sostiene che anche il martire, attraverso il suo sacrificio cruento, possiede “l’unica chiave del paradiso” (De resurrectione carnis, 43).
Non così il suicida, condannato sulla scia della miserevole fine toccata a Giuda (Mt 27,5).
Secondo Tertulliano tutti i defunti attendono il giudizio ultimo in uno stato di sonno privo di sensazione e coscienza.
Esso terminerà solo per i santi che entreranno nella dimora celeste.
Le conseguenze cultuali di tale concezione saranno di grande portata: essere interrati ad sanctos, cioè vicino ai santi, determinerà, per tanti cristiani, la speranza di ottenere la loro protezione nell’ultimo giorno , sfuggendo così alla morte eterna.
La geografia cristiana dell’aldilà, invece, si disegnò lentamente.
Dapprima essa era ridotta a due sole nozioni: quella di “Geènna” (luogo di sofferenza per i malvagi) e quella di “Regno”, situato nei cieli, luogo di felicità per gli eletti, in unione con Dio e con gli angeli.
Agli inizi del VII secolo Gregorio Magno imposterà la geografia dell’aldilà secondo la cosmologia tolemaica, distinguendo, cioè, tre luoghi.
Al di là delle stelle fisse, che circondano l’universo, si trova il mondo del divino, il Paradiso degli eletti; al centro dell’universo vi è la terra, ferma, che nasconde nelle sue viscere l’inferno inferiore dove bruciano i dannati; tra le stelle fisse e la terra ruotano i pianeti, e al di là della luna vi è l’inferno superiore dove stanno le anime dei giusti, morti prima della venuta di Cristo.
Questi esseri non potevano né salire in cielo perché la salvezza non era stata operata, né scendere all’inferno inferiore, essendo anime giuste.
Solo con la salvezza operata da Cristo tali anime sono state liberate: dopo tale Redenzione, questo mondo si è svuotato.
I teologi chiameranno poi questo luogo “Purgatorio”, luogo di sofferenze temporanee e purificatrici.
Ecco come il Catechismo della Chiesa Cattolica presenta il Purgatorio nel Paragrafo dedicato alla “Purificazione finale”, corrispondente ai numeri 1030, 1031, 1032.
1030 Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo.
1031 La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati.
La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al Purgatorio soprattutto nei Concili di Firenze.
La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, (1Cor 3,15; 1Pt 1,7) parla di un fuoco purificatore.
Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c’è, prima del Giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità afferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro (Mt 12,31).
Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro [San Gregorio Magno, Dialoghi].
1032 Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: “Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato” (2Mac 12,45).
Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio.
La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti: Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli.
Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, (Gb 1,5) perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere (San Giovanni Crisostomo, Homiliae in primam ad Corinthios).
Per la Bibbia, “vivere” non significa solo “esistere”, non equivale solo a essere fisicamente al mondo come le piante e gli animali che ci circondano.
Anzi, animali e piante non sono di per sé soggetto del verbo “vivere”, perché questo verbo è riservato all’uomo e, naturalmente, a Dio.
La vita biologica umana è nel potere assoluto di Dio, così come si ricava non solo dal Libro della Genesi (Gn 9,4-5), ma anche dal quinto e sesto comandamento (Es 20,13; Dt 5,17).
L’ebraismo biblico esprime un grande amore per la vita concreta e piena, ed è in questa che si realizza la relazione tra Dio e l’uomo.
In questo senso la vita non appare quasi mai come un concetto a sé, ma esprime ciò che si osserva concretamente nei viventi: è il respiro (Gb 11,20), il movimento (l’acqua viva in Ger 17,13; 2,13), il sangue che scorre (Gn 9,4-5).
Ma è nell’uomo e nel suo rapporto con Dio che la parola vita assume il suo significato pieno.
La caratteristica fondamentale della vita umana è infatti il rapporto di scambio con Dio (Sal 72,25) e la capacità di lodarlo è l’espressione più evidente della vitalità umana (Sal 41,6.12; 102).
Con la morte l’uomo viene escluso da questo, dalle azioni provvidenti di Dio e dalla lode a Lui (Sal 87,11-13; Is 38,18); quindi, “morte” è mancanza di rapporto con Dio.
Fin dai primi versetti del Libro della Genesi la Parola di Dio è “viva” e genera “vita”, e Dio appare come il principio della vita.
L’uomo invece è mortale per natura (Gn 3,19) ma aspira all’immortalità, come lascia intendere l’albero della vita del v.
22.
Il Libro del Deuteronomio proclama che Dio dà la vita e la toglie (Dt 32,39); il dono della vita è quindi prezioso anche se instabile (Gb 2,4; Sal 39,6; Qo 6,12; Is 40,6).
Coerentemente con questa idea che lega Dio e la vita, il Libro del Deuteronomio sostiene che “Dio è il vivente” (Dt 5,26; Is 37,4), un’affermazione caratteristica della fede ebraica: essa implica il rigetto di tutti i falsi idoli che sono senza vita, così come le loro immagini (Ger 10, 8-10).
All’idea di vita l’uomo ebreo collega il senso di pace, di prosperità e di felicità (Sal 36,11; 133,3); allo stesso modo, la sapienza, la prudenza e il timore di Dio rappresentano per lui “sorgenti di vita” (Pr 13,14; 16,22).
La vita dopo la morte non era chiaramente raffigurabile per l’uomo ebreo e la rivelazione biblica non scioglieva i suoi dubbi: a ridosso dell’era cristiana il partito dei farisei credeva nella risurrezione dei morti; non così quello dei sadducei.
Si riteneva che gli uomini, sia quelli giusti che gli ingiusti, scendessero nel regno dei morti, dove mantenevano una vita dimezzata, privi della salvezza di Dio (Sal 88), senza poter fare ritorno alla vita (Gb 16,22).
Solo successivamente, sotto l’influsso della filosofia greca, si pensò che Dio avesse potere anche negli inferi e che ci fosse un premio dopo la morte (Sap 3,1; 4,14: Dn 12,2).
Nel Libro di Isaia, al cap.
38, troviamo un cantico che testimonia la convinzione che Jahwèh è il Dio della vita e che con la morte avviene la distruzione dell’uomo; è solo l’uomo vivente che può lodare Dio.
16 Il Signore è su di loro: essi vivranno.
Tutto ciò che è in loro è vita del suo spirito.
Guariscimi e rendimi la vita. 17 Ecco, la mia amarezza si è trasformata in pace! Tu hai preservato la mia vita dalla fossa della distruzione, perché ti sei gettato dietro le spalle tutti i miei peccati. 18 Poiché non sono gli inferi a renderti grazie, né la morte a lodarti; quelli che scendono nella fossa non sperano nella tua fedeltà. 19 Il vivente, il vivente ti rende grazie come io faccio quest’oggi.
Il padre farà conoscere ai figli la tua fedeltà. 20 Signore, vieni a salvarmi, e noi canteremo con le nostre cetre tutti i giorni della nostra vita, nel tempio del Signore.
(Is 38,16-20) L’integrità inviolabile e il valore della persona umana che non possono essere messi in discussione per nessuna ragione, sono alla base dell’atteggiamento cristiano nei confronti della vita.
La coscienza del valore insuperabile di ogni individuo fa sì che la questione della vita (e quindi della morte) pervada tutta l’esistenza e sia collegata all’attesa neotestamentaria della salvezza e alla speranza della resurrezione.
La coscienza di ciò rimanda a Dio, la sorgente prima di tutta la vita, a immagine del quale l’uomo è stato creato e al quale dovrà fare ritorno.
I vangeli sinottici testimoniano le convinzioni sulla vita che erano proprie dell’Antico Testamento, sebbene esprimano chiaramente la fede in una vita dopo la morte.
La vita è messa in relazione con il “Regno di Dio”: “entrare nel Regno di Dio” significa entrare nella vita (Mc 9,43).
I Vangeli di Matteo, Marco e Luca proclamano il raggiungimento della “vita eterna” da parte di coloro che perdono la propria vita per seguire Gesù (Mt 10,39; Mc 10,30; Lc 9,23-34).
Nel Vangelo di Giovanni si elabora il passaggio dal Padre al Figlio: Dio, che è il padrone della vita, trasmette il suo potere al Figlio (Gv 5,21; 10,17-18).
Gesù stesso è, quindi, la vita (Gv 11,25; 14,6) e la dona a coloro che credono in Lui (Gv 1,4.12; 4,14; 5,24).
I credenti possiedono già la vita eterna (Gv 3,36; 5,24), ma questa raggiungerà il suo compimento nella resurrezione (Gv 6,40.54).
Ecco come risponde Gesù a Marta che, annunciando la morte di Lazzaro, aveva dichiarato che, se il Maestro fosse stato lì, suo fratello non sarebbe morto.
23 Gesù le disse: “Tuo fratello risorgerà.
24 Gli rispose Marta: “So che risorgerà nella risurrezione dell’ultimo giorno”.
25 Gesù le disse: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; 26 chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno”.
(Gv 11,23-26).
Negli Atti degli Apostoli Gesù è chiamato “autore della vita” (At 3,15) e la destinazione degli uomini alla vita futura implica la fede in Cristo (At 2,39; 13,48).
Negli Atti troviamo alcune parole di Gesù riportate da Paolo e Barnaba durante la loro missione ad Antiochia di Pisidia: 47 Così infatti ci ha ordinato il Signore: “Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra”.
48 Nell’udir ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero.
49 La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione.
(At 13,47-49).
Nella letteratura paolina si sottolinea, da un lato, che Cristo è la nostra vita (Col 3,4); dall’altro si afferma che la vera vita comincerà solo con la parusìa, cioè con il ritorno di Cristo (Col 3,4).
Come e quando questo avverrà non è dato sapere (Mt 24,27.43); così pure che cosa sia la vita dopo la morte resta un tema di cui gli autori neotestamentari non si occupano.
San Paolo tenta piuttosto di rispondere a chi si meraviglia perché la parusìa non è ancora venuta (1Ts 5,2-10; 2Ts 2,1), dicendo che il giorno del Signore verrà all’improvviso.
Ecco come si esprime San Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi riguardo al ritorno del Cristo.
Riprendendo le affermazioni del Signore sull’incertezza della data della sua ultima venuta ricorda che bisogna attendere vegliando.
Le sue parole risentono dei tono della letteratura apocalittica.
1 Riguardo poi ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; 2 infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte.
3 E quando la gente dirà: “C’è pace e sicurezza!”, allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.
4 Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro.
5 Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.
6 Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.
7 Quelli che dormono, infatti, dormono di notte; e quelli che si ubriacano, di notte si ubriacano.
8 Noi invece, che apparteniamo al giorno, siamo sobri, vestiti con la corazza della fede e della carità, e avendo come elmo la speranza della salvezza.
9 Dio infatti non ci ha destinati alla sua ira, ma ad ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.
10 Egli è morto per noi perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui.
11 Perciò confortatevi a vicenda e siate di aiuto gli uni gli altri, come già fate.
(1 Ts 5,1-11) In questi ultimi decenni, la progressiva minaccia della vita umana sotto varie forme conseguenti a scelte sia di tipo economico e politico (la povertà e la fame nel sud del mondo, le esecuzioni capitali diffuse in molti paesi), sia inerenti la bioetica (aborto, eutanasia, sperimentazione sugli embrioni) ha portato la Chiesa a prendere risolutamente posizione in molte occasioni, a partire dalla celebre Enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, del 1968, fino alle Encicliche di Giovanni Paolo II Veritatis Splendor (1993) ed Evangelium Vitae (1995).
È soprattutto in quest’ultima enciclica che si tratta del valore e dell’inviolabilità della vita umana.
Vi si afferma che la vita dell’uomo non è una vita qualsiasi, ma ha una vocazione molto preziosa e particolare perché è vita che Dio ha donato alla sua creatura prediletta dove risplende un riflesso della stessa realtà di Dio (n.
34).
L’origine divina della vita dell’uomo, creato a immagine di Dio, sta alla base della sua dignità inalienabile, indipendentemente dallo stato in cui egli si trova.
La vita umana è quindi sacra fin dalla sua origine.
Ecco come si è espresso Papa Giovanni Paolo II, nell’enciclica Evangelium vitae (1995), a proposito dell’aborto.
Chi viene soppresso è un essere umano che si affaccia alla vita, ossia quanto di più innocente in assoluto si possa immaginare: mai potrebbe essere considerato un aggressore, meno che mai un ingiusto aggressore! È debole, inerme, al punto di essere privo anche di quella minima forma di difesa che è costituita dalla forza implorante dei gemiti e del pianto del neonato.
È totalmente affidato alla protezione e alle cure di colei che lo porta in grembo.
Eppure, talvolta, è proprio lei, la mamma, a deciderne e a chiederne la soppressione e persino a procurarla.
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.
58) Nell’enciclica Evangelium vitae (1995) Giovanni Paolo II prende una netta posizione anche contro l’eutanasia: la vita va difesa dal suo sbocciare nel grembo materno fino all’ultimo istante.
Anche se non motivata dal rifiuto egoistico di farsi carico dell’esistenza di chi soffre, l’eutanasia deve dirsi una falsa pietà, anzi una preoccupante “perversione” di essa: la vera “compassione”, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.
E tanto più perverso appare il gesto dell’eutanasia se viene compiuto da coloro che – come i parenti – dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o da quanti – come i medici –, per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose.
La scelta dell’eutanasia diventa più grave quando si configura come un omicidio che gli altri praticano su una persona che non l’ha richiesta in nessun modo e che non ha mai dato ad essa alcun consenso.
Si raggiunge poi il colmo dell’arbitrio e dell’ingiustizia quando alcuni, medici o legislatori, si arrogano il potere di decidere chi debba vivere e chi debba morire.
[…] Così la vita del più debole è messa nelle mani del più forte; nella società si perde il senso della giustizia ed è minata alla radice la fiducia reciproca, fondamento di ogni autentico rapporto tra le persone.
(Giovanni Paolo II, Evangelium vitae, n.
66) La morte è vista, nel Libro della Genesi (Gn 83,19) come la conseguenza del peccato: così, mentre la fedeltà alla Legge di Dio, alla Toràh, porta alla vita (Dt 30, 15-16), l’infedeltà alla Legge conduce alla morte.
Il Libro della Genesi afferma una doppia origine dell’uomo, creato dalla polvere del suolo e dal soffio vitale di Dio (Gn 2,7).
Gli antichi ebrei ritenevano che la morte separasse di nuovo questi due elementi: l’anima del defunto si allontana dal corpo come un soffio.
La creazione si trova così rovesciata, come dice il Libro del Qohelet (Qo 12,7): «La polvere ritorna alla terra e il soffio ritorna a Dio che l’aveva dato».
L’anima (o spirito) non designa qui l’uomo tutto intero, né ciò che vi è in lui di più sostanziale.
Lo spirito senza il corpo è solo un’ombra senza vita e l’antico giudaismo mette l’accento sulla realtà di quaggiù: i profeti esortano continuamente a concentrarsi su una vita retta in “questo” mondo.
Dopo la morte lo spirito scende nel regno dei morti, chiamato sheol, situato sotto terra o nelle sue profondità, dentro o sotto il mare, sul quale galleggia il mondo intero (Sal 63,10; Gb 26,5; 38,16).
Lo Sheol è un luogo di tenebra (Sal 143,3), di silenzio, di grigiore, di ombre che non conoscono nessuna gioia (Sir 14,17).
Nello Sheol l’anima non ha alcuna conoscenza di ciò che capita sulla terra (Gb 14,21; 21,21; Qo 9,5-6).
In questo luogo tutte le differenze tra gli esseri umani vengono meno: giusti e ingiusti, re e schiavi, giovani e vecchi, ricchi e poveri… tutti si ritrovano nello stesso luogo (Gb 3, 13-19).
Si tratta di un ebraismo primitivo che non ha né la rappresentazione di un giudizio universale, né quella di un castigo o di una ricompensa nell’aldilà, idee che prenderanno lentamente piede, modificando le precedenti concezioni relative allo Sheol: il Regno dei morti si troverà allora diviso in due parti, una confortevole per i giusti e una inospitale per i malvagi.
S’imporrà sempre più l’idea di un giudizio nell’aldilà e l’importanza di ciò che nell’uomo sopravvive dopo la morte.
Il salmo 87 presenta un uomo afflitto all’estremo, ma fiducioso in Dio nonostante i toni angosciosi della sua preghiera.
Le sue sofferenze sono dovute a una malattia e al disinteresse di quelli che dovrebbero stargli vicino.
Nel salmo è chiara la percezione dello Sheol e, soprattutto negli ultimi versi, si percepisce la condizione di colui che “scende nella fossa” e la lontananza di Dio da questo luogo.
(…) 4 Io sono sazio di sventure, la mia vita è sull’orlo degli inferi. 5 Sono annoverato fra quelli che scendono nella fossa, sono come un uomo ormai senza forze. 6 Sono libero, ma tra i morti, come gli uccisi stesi nel sepolcro, dei quali non conservi più il ricordo, recisi dalla tua mano. 7 Mi hai gettato nella fossa più profonda, negli abissi tenebrosi. 8 Pesa su di me il tuo furore e mi opprimi con tutti i tuoi flutti. 9 Hai allontanato da me i miei compagni, mi hai reso per loro un orrore.
(…) 11 Compi forse prodigi per i morti? O si alzano le ombre a darti lode? 12 Si narra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà nel regno della morte? 13 Si conoscono forse nelle tenebre i tuoi prodigi, la tua giustizia nella terra dell’oblio? (Sal 87,4-9; 11-13)
I luoghi santi di Gerusalemme.
«Se l’adesione alla moralità e alla giustizia impedisce il cammino verso il compromesso, come possiamo aspettarci di raggiungere un compromesso in questioni di credo? A complicare ulteriormente le cose, c’è la consapevolezza che nella Città santa, cara a tutte e tre le religioni monoteiste, nessuno può realmente separare la religione e la politica».
Ecco il punto di partenza della relazione, pronunciata il 6 marzo presso l’Istituto «Enrico Mattei» di Alti studi sul Vicino e Me dio Oriente di Roma dall’ambasciatore d’Israele presso la Santa Se de, Mordechay Lewy.
Attraverso un’ana lisi del conflitto sui Luoghi santi di Gerusalemme, da una prospettiva israeliana, l’ambasciatore presenta le sue riserve sui disegni di pace proposti finora nella Città santa, appunto perché la pace è stata sempre associata «a un’idea di moralità e giustizia», senza cercare il compromesso.
In questo contesto s’inserisce il viaggio di Benedetto XVI in Terra santa, dall’8 al 15 maggio prossimi, con l’intento – come ha detto il papa a una delegazione del Gran rabbinato d’Israele ricevuta in Vaticano il 12 marzo scorso – di contribuire alla pacifica convivenza tra cristiani, ebrei e mu sulmani in Terra santa.
Per la consultazione Riferimento: Regno-doc.
n.9, 2009, p.305
«Star Trek» di J. J. Abrams
Facendo capolino in una libreria antiquaria o in una preziosa biblioteca, l’appassionato e lo studioso sanno bene l’emozione e la meraviglia che è possibile provare quando gli occhi si posano sulle antiche relazioni dei viaggi di esplorazione, sui diari di bordo delle navigazioni intorno al mondo che nel XVI secolo hanno cambiato il volto della geografia, del commercio e della società.
Vi sono documenti di viaggio – ed è un piacere leggerli – altrettanto famosi delle grandi opere letterarie: il Mundus Novus di Amerigo Vespucci, Pigafetta che ricorda le scoperte di Magellano, la straordinaria impresa editoriale di Gian Battista Ramusio.
Risalendo i secoli fino al nostro, lo scaffale si riempie delle memorie scritte da tanti intrepidi avventurieri o intraprendenti scienziati partiti alla scoperta dei nuovi continenti, dei “passaggi” a settentrione e dei due Poli.
Oggi che queste avventure sono esaurite e il loro fascino depositato, appunto, nelle preziose pagine; oggi che ogni angolo del nostro pianeta ha esaurito il suo mistero e gli astronauti sono sbarcati sulla luna e fanno la spola con le stazioni orbitanti nello spazio; oggi che Google Earth ha portato a tutti sullo schermo di casa l’immagine dell’angolo di terra preferito, il fascino e il sapore dell'”ultima frontiera” non è andato perduto.
Lo dobbiamo, soprattutto, alla fantasia di Gene Roddenberry e al “diario di bordo” più famoso del cinema, quello dettato con data astrale al computer della più amata e invincibile nave spaziale a memoria d’uomo, la U.S.S.
Enterprise, nome che ricorda le tante caravelle del passato ed è stato imposto, a furor di popolo, al prototipo dello Space Shuttle della Nasa.
Che fascino insuperabile mantiene ancora l’epopea di Star Trek! È la serie più applaudita e longeva della storia, la prima a strutturare in episodi televisivi la fantascienza, a portare il senso dell’ignoto e dell’avventura spaziale nelle case di milioni di americani e di appassionati nel mondo: iniziata l’8 settembre del 1966 (due anni prima dell’Odissea nello Spazio di Kubrick), proseguita con settantanove episodi fino al 1969, risorta a più intervalli generando ben quattro nuove serie (The Next Generation, Deep Space Nine, The Voyager, Enterprise) e una animata, ha oltrepassato il Nuovo Millennio, toccando il 2005.
Il grande schermo ha cavalcato, naturalmente, questo successo planetario: dal 1979 dieci film (il primo, e fino a oggi il migliore, con la regia di Robert Wise), molto alterni nei risultati, nei successi e negli incassi.
Certo la grande famiglia dei “treccker” non ha mai abbandonato, in oltre quarant’anni di vita, il capitano James T.
Kirk, nervi d’acciaio e coraggio da vendere, il signor Spock, vulcaniano di ferro quasi privo di emozioni con le inconfondibili orecchie a punta e tutti gli ufficiali e sottufficiali in servizio sull’Enterprise, fiore all’occhiello della flotta interstellare della Federazione Unita dei Pianeti: Scotty, McCoy, Sulu, Chekov, Uhura.
Da notare i loro nomi: su quella nave sono rappresentate tutte le etnie (il bianco americano, l’orientale dagli occhi a mandorla, il pallido russo europeo e la longilinea africana di colore).
Ciò che ha fatto, fin dall’inizio, la fortuna di Star Trek è stato, infatti, non solo l’inconfondibile, duraturo ottimismo, ma la sua ibridazione interrazziale.
Soltanto un regista come il newyorkese J.
J.
Abrams – che di talento, a soli quarantadue anni, ne ha parecchio – poteva prendersi il rischio di girare l’undicesimo film e portarlo alle vette del successo e della visibilità, ritornando all’origine dell’Enterprise, agli anni giovanili del suo equipaggio, ai suoi “eroici furori”.
Facciamo conoscenza con i ragazzi e le ragazze, perfetti ed efficienti nelle loro tute colorate diventate, già quarant’anni fa, un fenomeno di moda, e finalmente ci viene svelato perché si sono conosciuti, come partecipano al primo dei loro viaggi stellari, sfrecciando oltre la velocità della luce con la “propulsione a curvatura” (copiata poi da Star Wars).
Anche questa volta fanno abbondante uso del teletrasporto, visitando pianeti più o meno pericolosi ed entrando in contatto con civiltà buone e cattive, le prime da aiutare e le seconde da redimere, prima che da combattere.
Produttore e scrittore di tre intriganti serie televisive di incondizionato successo – Alias, Lost e Fringe – e regista del terzo capitolo di Mission Impossible, Abrams ha preso in mano un soggetto cinematografico che, parlando del futuro, sembrava non averne più e lo ha trasformato in un film rocambolesco, ambizioso, godibilissimo.
Rimanendo, anche nel nuovo, fedele all’originale.
“La mia è una storia ottimistica – afferma il regista americano – come lo era la prima serie televisiva.
Fa riferimento ad alcune paure classiche che troviamo nei racconti di fantascienza, ma tutto il film è segnato da un profondo senso di speranza, connesso alla visione di quale potrebbe essere il nostro futuro”.
Dopo molti guai e molte paure, il giovane Kirk, orfano di padre, scavezzacollo e strafottente, capirà il valore e il senso del bene comune e la responsabilità che lo deve sostenere.
Spock, dal canto suo, interpretato da Zachary Quinto – suscita, inevitabilmente, l’applauso dei fan in sala il cammeo di Leonard Nimoy, il primo a dar volto al vulcaniano – orfano di madre, dovrà scendere a compromessi che stridono con la sua cultura ferrea e superiore, con la sua glaciale logica “vulcaniana”, facendosi “contaminare” dall’amore, dal sentimento e dalla lealtà.
Chris Pine, volto sconosciuto, perfetto per interpretare Kirk, coglie assai bene lo spirito del suo personaggio: “Da giovane è un ragazzo arrabbiato, arrogante, fragile, che cerca di mascherare un’incredibile insicurezza e paura.
Non è sicuro se vuole rimanere all’ombra della memoria del padre, che lo schiaccia.
La parte interessante del suo viaggio è proprio quella di imparare come imbrigliare tutte le emozioni che nascono da questo suo conflitto, passando dall’essere un giovane scriteriato alla maturità di un capitano concentrato e responsabile.
Non è un supereroe, ma un uomo che affronta fin da giovane tremende sfide”.
Se volessimo parlare di fantascienza edificante, Star Trek di Abrams potrebbe dirsi un singolare, avvincente gioiello del genere.
(©L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009)
Benedetto XVI in moschea
“Un papa che ha il coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza” di Ghazi Bin Muhammad Bin Talal “Pax Vobis”.
In occasione di questa storica visita alla moschea Re Hussein Bin Talal, qui ad Amman, le porgo, Santità, papa Benedetto XVI, il benvenuto in quattro modi.
Innanzitutto come musulmano.
Le porgo il benvenuto oggi, Santità, perché so che questa visita è gesto deliberato di buona volontà e di rispetto reciproco da parte del supremo capo spirituale e pontefice della più ampia denominazione della più grande religione del mondo verso la seconda più grande religione del mondo.
Infatti, cristiani e musulmani sono il 55 per cento della popolazione mondiale e, dunque, è particolarmente significativo il fatto che questa sia solo la terza volta nella storia che un papa visita una moschea.
La prima visita è stata compiuta nel 2001 dal suo amatissimo predecessore papa Giovanni Paolo II, presso un monumento della storia, la storica moschea Umayyade di Damasco, che contiene le reliquie di san Giovanni Battista.
La seconda visita l’ha svolta lei, Santità, presso la magnifica Moschea Blu di Istanbul nel 2006.
La bella moschea Re Hussein di Amman è la moschea di Stato della Giordania ed è stata costruita e personalmente supervisionata dal grande re Hussein di Giordania.
Che Dio abbia misericordia della sua anima! Quindi, è la prima volta nella storia che un papa visita questa nuova moschea.
In questa visita vediamo un chiaro messaggio della necessità di armonia interreligiosa e mutuo rispetto nel mondo contemporaneo, e anche la prova visibile della sua volontà, Santità, di assumere personalmente un ruolo guida a questo proposito.
Questo gesto è ancor più degno di nota perché questa sua visita in Giordania è in primo luogo un pellegrinaggio spirituale alla Terra Santa cristiana, e in particolare al sito del battesimo di Gesù Cristo per mano di Giovanni Battista a Betania, sull’altra sponda del fiume Giordano (Giovanni 1, 28 e 3, 26).
Tuttavia, lei, Santità, ha dedicato del tempo, nel suo programma intenso e faticoso, stancante per un uomo di qualunque età, per compiere questa visita alla moschea Re Hussein e onorare così i musulmani.
Devo anche ringraziarla, Santità, per il rincrescimento che ha espresso dopo il discorso di Ratisbona del 13 settembre 2006, per il danno causato ai musulmani.
Di certo, i musulmani sanno che nulla di ciò che si può dire o fare in questo mondo può danneggiare il Profeta, che è, come hanno attestato le sue ultime parole, in Paradiso con il più alto compagno, Dio stesso.
Ciononostante i musulmani si sono offesi per l’amore che provano per il profeta, che è, come Dio dice nel Sacro Corano, più vicino ai credenti di essi stessi.
Quindi, i musulmani hanno anche particolarmente apprezzato il chiarimento del Vaticano secondo il quale quanto detto a Ratisbona non rifletteva la sua opinione, Santità, ma era semplicemente una citazione in una lezione accademica.
È quasi superfluo dire che, fra l’altro, il profeta Maometto – che i musulmani amano, emulano e conoscono come realtà viva e presenza spirituale – è completamente e interamente differente da come lo si descrive storicamente in Occidente, a partire da san Giovanni Damasceno.
Questi ritratti distorti, fatti da chi non conosce né la lingua araba, né il Sacro Corano oppure non comprende i contesti storici e culturali della vita del Profeta e quindi fraintende e interpreta male i motivi e le intenzioni spirituali che sottendono molte sue azioni e parole, sono purtroppo responsabili di tanta tensione storica e culturale fra cristiani e musulmani.
È dunque urgente che i musulmani illustrino l’esempio del profeta, soprattutto, con opere virtuose, carità, pietà e buona volontà, ricordando che il Profeta stesso aveva una natura elevata.
Infatti, nel Corano Dio afferma: “Veramente avete nel messaggero di Dio un esempio di comportamento, per chiunque spera in Dio e nell’ultimo giorno”.
Infine, devo ringraziarla, Santità, per i numerosi suoi altri gesti di amicizia e di cordialità verso i musulmani, fin dalla sua elezione nel 2005, incluse le udienze concesse nel 2005 a Sua Maestà il re Abdullah II Bin Al-Hussein di Giordania e nel 2008 a Sua Maestà il re Abdullah Bin Ad-Al-Haziz dell’Arabia Saudita, il custode dei due luoghi sacri.
La ringrazio anche per l’affettuosa ricezione della storica “parola comune fra noi e voi”, la lettera aperta del 13 ottobre 2007 da parte di 138 esimi studiosi musulmani di tutto il mondo, il cui numero continua ad aumentare.
È stato proprio come risultato di quell’iniziativa, che basandosi sul Sacro Corano e sulla Sacra Bibbia ha riconosciuto il primato dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo sia nel cristianesimo sia nell’islam, che il Vaticano sotto la sua guida personale, Santità, ha svolto il primo seminario del forum internazionale cattolico-musulmano, dal 4 al 6 novembre 2008.
Fra poco verificheremo con il competente cardinale Tauran l’opera avviata da quell’incontro, ma per ora desidero citare e ripetere le sue parole, Santità, tratte dal suo discorso in occasione della chiusura di quel primo seminario: “Il tema che avete scelto per l’incontro – amore di Dio e amore del prossimo: la dignità della persona umana e il rispetto reciproco – è particolarmente significativo.
È stato tratto dalla lettera aperta, che presenta l’amore di Dio e l’amore del prossimo come centro sia dell’Islam sia del Cristianesimo.
Questo tema evidenzia in maniera ancora più chiara le fondamenta teologiche e spirituali di un insegnamento centrale delle nostre rispettive religioni.
[…] Sono ben consapevole che musulmani e cristiani hanno approcci diversi nelle questioni riguardanti Dio.
Tuttavia, possiamo e dobbiamo essere adoratori dell’unico Dio che ci ha creato e che si preoccupa di ogni persona in ogni parte del mondo.
[…] Vi è un grande e vasto campo in cui possiamo agire insieme per difendere e promuovere i valori morali che fanno parte del nostro retaggio comune”.
Ora, non posso non ricordare le parole di Dio nel Sacro Corano: “Non sono tutti uguali”.
Alcune persone delle Scritture formano una comunità giusta, recitano i versetti la notte, prostrandosi.
Credono in Dio e nell’ultimo giorno, amano la decenza e proibiscono l’indecenza, competono gli uni con gli altri per compiere opere buone.
Questi sono i giusti, e qualunque azione buona compiano, non verrà loro negata perché Dio conosce chi ha timore di Lui.
E ricordo anche le seguenti parole di Dio: “E voi troverete, e voi in verità troverete, che i più vicini a quelli che credono sono quelli che dicono: veramente noi siamo cristiani.
Questo poiché alcuni di loro sono preti e monaci”.
Poi le porgo il benvenuto, Santità, come hashemita e discendente del profeta Maometto.
Inoltre, le porgo il benvenuto in questa moschea in Giordania, ricordando che il profeta accolse i suoi vicini cristiani di Nejran a Medina e li invitò a pregare nella propria moschea, cosa che fecero in armonia, senza compromettere gli uni il credo religioso degli altri.
Anche questa è una lezione di inestimabile valore che il mondo deve ricordare assolutamente.
Le porgo inoltre il benvenuto come arabo e diretto discendente di Ishmael Ali-Salaam, dal quale, secondo la Bibbia, Dio avrebbe fatto scaturire una grande nazione, rimanendogli accanto (Genesi 21, 18-20).
Una delle virtù cardinali degli arabi, che tradizionalmente sono sopravvissuti in alcuni dei climi più caldi e inospitali del mondo, è l’ospitalità.
L’ospitalità scaturisce dalla generosità, riconosce le necessità degli altri, considera quanti sono lontani o vengono da lontano come amici e di fatto questa virtù è confermata da Dio nel Sacro Corano con le parole: “E adorate Dio e associate l’uomo a lui, siate buoni con il padre, la madre, con i parenti, gli orfani, i poveri, i vostri vicini imparentati e quelli estranei, gli amici di ogni giorno e i viaggiatori”.
Ospitalità araba non significa soltanto amare, dare e aiutare, ma anche essere generosi di spirito e quindi saper apprezzare.
Nel 2000, durante la visita del compianto papa Giovanni Paolo II in Giordania, lavoravo con le tribù giordane e alcuni membri dissero di apprezzare veramente il papa.
Interrogati sul perché piacesse loro visto che lui era un cristiano mentre loro erano musulmani, risposero sorridendo: “Perché ci ha fatto visita”.
Di certo Giovanni Paolo II come lei stesso, Santo Padre, avreste potuto immediatamente andare in Palestina e in Israele, ma invece avete scelto di cominciare il pellegrinaggio con una visita a noi, in Giordania, cosa che noi apprezziamo.
Infine, le porgo il benvenuto come giordano.
In Giordania, tutti sono uguali davanti alla legge, indipendentemente dalla religione, dalla razza, dall’origine o dal genere, e chi lavora nel governo deve fare tutto il possibile per tutelare tutti nel paese, con compassione e giustizia.
È stato questo l’esempio personale e il messaggio del compianto re Hussein, che nel corso del suo regno durato 47 anni provò per tutti nel paese ciò che provava per i propri figli.
È anche il messaggio di suo figlio, Sua Maestà il re Abdullah II, che ha scelto come singolare obiettivo del suo regno e della sua vita quello di rendere la vita di ogni abitante della Giordania, e di fatto di ogni persona del mondo che può raggiungere, decorosa, degna e felice, per quanto può con le scarse risorse della Giordania.
Oggi, i cristiani in Giordania hanno diritto all’8 per cento dei seggi in parlamento e a quote simili a ogni livello di governo e società, sebbene in realtà il loro numero sia inferiore a quello previsto.
I cristiani, oltre ad avere leggi relative al proprio status e corti ecclesiali, godono della tutela dello Stato sui loro luoghi sacri, sulle loro scuole.
Lei, Santità, ha già potuto constatare questo di persona, presso la nuova università cattolica di Madaba.
A Dio piacendo presto vedrà sorgere la nuova cattedrale cattolica e la nuova chiesa melchita sul sito del battesimo.
Quindi, oggi, in Giordania, i cristiani prosperano, come del resto hanno fatto negli ultimi duecento anni, in pace e armonia, con buona volontà e relazioni autenticamente fraterne fra loro e con i musulmani.
Questo avviene, in parte, perché i cristiani in precedenza erano in percentuale più numerosi rispetto a oggi.
Con il calo demografico fra i cristiani e i più elevati livelli di istruzione e di prosperità che li hanno portati a essere molto richiesti in Occidente, il loro numero è diminuito.
Ciò avviene anche perchè i musulmani apprezzano il fatto che i cristiani erano già qui 600 anni prima di loro.
Infatti, i cristiani giordani formano forse la più antica comunità cristiana del mondo, e per la maggior parte sono sempre stati ortodossi, aderenti al patriarcato ortodosso di Gerusalemme in Terra Santa, che, come lei, Santità, sa meglio di me, è la Chiesa di san Giacomo, fondata durante la vita di Gesù.
Molti di loro discendono da antiche tribù arabe e, nel corso della storia, hanno condiviso la sorte e le lotte dei musulmani.
Infatti, nel 630, durante la vita del Profeta, entrarono a far parte del suo esercito, condotto dal figlio adottivo e da suo cugino, e combatterono contro l’esercito bizantino degli ortodossi nella battaglia di Mechtar.
È da questa battaglia che presero il loro nome tribale che significa “i rinforzi” e lo stesso patriarca latino Fouad Twal discende da queste tribù.
Poi, nel 1099, durante la caduta di Gerusalemme, furono massacrati dai crociati cattolici accanto ai loro commilitoni.
In seguito, dal 1916 al 1918, durante la grande rivolta araba, combatterono contro i musulmani turchi, accanto ai loro amici musulmani, sotto mandato coloniale protestante, e nelle guerre arabo-israeliane del 1948, del 1967 e del 1972 combatterono con i musulmani arabi contro gli ebrei.
I giordani cristiani non solo hanno sempre difeso la Giordania, ma hanno anche contribuito instancabilmente e patriotticamente alla sua edificazione, svolgendo ruoli importanti nei campi dell’educazione, della sanità, del commercio, del turismo, dell’agricoltura, della scienza, della cultura e in molti altri settori.
Tutto questo per dire che mentre Lei, Santità, li considera suoi compagni cristiani, noi li consideriamo nostri compagni giordani e fanno parte di questa terra come la terra stessa.
Spero che questo spirito unitario giordano di armonia interreligiosa, benevolenza e rispetto reciproco, sarà da esempio a tutto il mondo e che Lei, Santità, lo porti in luoghi come Mindanao e alcune parti dell’Africa sub-sahariana, in cui le minoranze musulmane subiscono forti pressioni da parte di maggioranze cristiane, e anche in altri luoghi dove accade l’opposto.
Oggi, proprio come la ho accolta in quattro modi, la ricevo in quattro modi, Santità.
La ricevo come leader spirituale, supremo pontefice e successore di Pietro per l’1,1 miliardi di cattolici che vivono accanto ai musulmani ovunque, e che saluto, ricevendola.
La ricevo come papa Benedetto XVI, il cui pontificato è caratterizzato dal coraggio morale di fare e parlare secondo la propria coscienza, indipendentemente dalle mode del momento, e che è anche un maestro teologo cristiano, autore di encicliche storiche sulle belle virtù cardinali dell’amore e della speranza, che ha reintrodotto la tradizionale messa in latino per chi la sceglie, e ha contemporaneamente fatto del dialogo interreligioso e intrareligioso la priorità del suo pontificato, per diffondere buona volontà e comprensione fra tutte le popolazioni della terra.
La ricevo come capo di Stato, che è anche un leader mondiale e globale su questioni vitali di morale, etica, ambiente, pace, dignità umana, alleviamento della povertà e della sofferenza e persino crisi finanziaria globale.
La ricevo, infine, come un semplice pellegrino di pace che giunge con umiltà e gentilezza a pregare laddove Gesù Cristo, il Messia – la pace sia con lui! – è stato battezzato e ha cominciato la sua missione 2000 anni fa.
Quindi, benvenuto in Giordania, Santo Padre, papa Benedetto XVI! Dio dice nel Sacro Corano al profeta Maometto: “Sia gloria al tuo Signore, il Signore della potenza…
E la pace sia con i messaggeri, e si renda lode a Dio, il Signore dei mondi”.
Il programma, i discorsi, le omelie del viaggio di Benedetto XVI: > Pellegrinaggio in Terra Santa, 8-15 maggio 2009 Benedetto XVI ha dedicato alla Giordania i primi tre giorni del suo viaggio in Terra Santa.
Nei precedenti viaggi papali la sosta in questo regno musulmano era stata più fuggevole, e così i riferimenti all’islam.
Con papa Joseph Ratzinger, invece, si è registrata questa novità.
Il rapporto con l’islam è stato visibilmente al centro della prima parte del suo viaggio.
E avrà ulteriore visibilità a Gerusalemme con la visita alla Cupola della Roccia, riconosciuta dai musulmani come il luogo da cui Maometto salì al cielo.
Naturalmente, l’impronta complessiva che Benedetto XVI ha dato fin dall’inizio al suo viaggio è stata quella del pellegrinaggio cristiano, attentissimo alle radici ebraiche.
In Giordania, ha cominciato salendo sul Monte Nebo e da lì, come Mosé, guardando alla Terra Promessa.
Lì ha ricordato “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo”.
E ha terminato recandosi a Betania “oltre il Giordano” nel luogo dove l’ultimo dei profeti, Giovanni il Battista, battezzò Gesù.
In ogni tappa ha incontrato e rincuorato i cristiani che vivono in quella terra, piccole comunità molto minoritarie, dalla vita non facile.
Con essi ha celebrato ad Amman la prima messa pubblica del viaggio, domenica 10 maggio.
Nell’omelia, ha subito ribadito loro ciò che era stato proclamato poco prima: che cioè veramente, all’infuori di Gesù, “non vi è sotto il cielo altro nome dato agli uomini, nel quale è stabilito che noi siamo salvati” (Atti 4, 12).
Li ha esortati a testimoniare il riconoscimento della piena dignità della donna e a “sacrificare” la propria vita nel servizio agli altri, all’opposto di “modi di pensare che giustificano lo ‘stroncare’ vite innocenti”.
Ma è in rapporto all’islam che Benedetto XVI ha detto in Giordania le cose più argomentate, soprattutto in due momenti: quando ha benedetto la prima pietra di una nuova università cattolica a Madaba per studenti che saranno in gran parte musulmani, e quando ha visitato la moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman.
A Madaba, sabato 9 maggio, il papa ha detto tra l’altro: “La fede in Dio non sopprime la ricerca della verità; al contrario l’incoraggia.
San Paolo esortava i primi cristiani ad aprire le proprie menti a tutto ‘quello che è vero, quello che è nobile, quello che è giusto, quello che è puro, quello che è amabile, quello che è onorato, ciò che è virtù e ciò che merita lode’ (Filippesi 4, 8).
Ovviamente la religione, come la scienza e la tecnologia, come la filosofia ed ogni espressione della nostra ricerca della verità, possono corrompersi.
La religione viene sfigurata quando viene costretta a servire l’ignoranza e il pregiudizio, il disprezzo, la violenza e l’abuso.
Qui non vediamo soltanto la perversione della religione, ma anche la corruzione della libertà umana, il restringersi e l’obnubilarsi della mente.
Evidentemente, un simile risultato non è inevitabile.
Senza dubbio, quando promuoviamo l’educazione proclamiamo la nostra fiducia nel dono della libertà.
Il cuore umano può essere indurito da un ambiente ristretto, da interessi e da passioni.
Ma ogni persona è anche chiamata alla saggezza e all’integrità, alla scelta basilare e più importante di tutte del bene sul male, della verità sulla disonestà, e può essere sostenuta in tale compito.
“La chiamata all’integrità morale viene percepita dalla persona genuinamente religiosa dato che il Dio della verità, dell’amore e della bellezza non può essere servito in alcun altro modo.
La fede matura in Dio serve grandemente per guidare l’acquisizione e la giusta applicazione della conoscenza.
La scienza e la tecnologia offrono benefici straordinari alla società ed hanno migliorato grandemente la qualità della vita di molti esseri umani.
Senza dubbio questa è una delle speranze di quanti promuovono questa università, il cui motto è ‘Sapientia et Scientia’.
Allo stesso tempo, la scienza ha i suoi limiti.
Non può dar risposta a tutte le questioni riguardanti l’uomo e la sua esistenza.
In realtà, la persona umana, il suo posto e il suo scopo nell’universo non può essere contenuto all’interno dei confini della scienza.
‘La natura intellettuale della persona umana si completa e deve completarsi per mezzo della sapienza, che attira dolcemente la mente dell’uomo a cercare ed amare le cose vere e buone’ (cfr.
Gaudium et spes, 15).
L’uso della conoscenza scientifica abbisogna della luce orientatrice della sapienza etica.
Tale sapienza ha ispirato il giuramento di Ippocrate, la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, la convenzione di Ginevra ed altri lodevoli codici internazionali di comportamento.
Pertanto, la sapienza religiosa ed etica, rispondendo alle questioni sul senso e sul valore, giocano un ruolo centrale nella formazione professionale.
Conseguentemente, quelle università dove la ricerca della verità va di pari passo con la ricerca di quanto è buono e nobile offrono un servizio indispensabile alla società”.
Ma è stato ad Amman, visitando la moschea Al-Hussein Bin Talal, che Benedetto XVI è entrato più direttamente nel cuore della questione.
Il luogo e gli interlocutori erano ricchi di implicazioni.
A far gli onori di casa al papa è stato il principe Ghazi Bin Muhammad Bin Talal, 42 anni, cugino dell’attuale re di Giordania Abdullah II, a sua volta figlio del defunto re Hussein al quale è intitolata la moschea.
Il principe Ghazi è il più autorevole ispiratore della lettera aperta “Una parola comune tra noi e voi”, indirizzata al papa e ai capi delle altre confessioni cristiane nell’ottobre del 2007 da 138 esponenti musulmani di numerosi paesi.
Quella lettera è stato il seguito più importante, in campo musulmano, dell’apertura di dialogo compiuta da Benedetto XVI con la sua memorabile lezione all’università di Ratisbona dell’11 settembre 2006.
Dalla lettera dei 138 ha preso origine un forum permanente di dialogo cattolico-musulmano la cui prima sessione si è svolta a Roma dal 4 al 6 novembre 2008, conclusa da un incontro col papa.
Ad Amman, sabato 9 maggio, il principe Ghazi ha prima accompagnato Benedetto XVI nella visita alla moschea – dove entrambi hanno avuto un “momento di raccoglimento” – e poi, all’esterno dell’edificio, ha rivolto a lui un ampio discorso, al quale è seguito l’intervento del papa.
Qui di seguito sono riportati i testi integrali dei due discorsi.
Quello del principe Ghazi, pronunciato in inglese e fin qui inedito, è stato trascritto a cura de “L’Osservatore Romano”, che però ne ha pubblicato solo un breve riassunto.
Il discorso del papa riprende temi e argomenti da lui già sviluppati in precedenti interventi, mentre più inusuale appare quello del principe Ghazi, specie in un mondo musulmano che nella sua quasi totalità è stato fin qui all’oscuro dei passi di dialogo in corso con la Chiesa cattolica.
Anche sotto questo profilo, infatti, la tappa di Benedetto XVI in Giordania ha segnato una novità.
Grazie all’impatto pubblico mondiale del viaggio e allo scambio di discorsi tra il papa e il principe Ghazi, una “comune parola” di dialogo tra la Chiesa cattolica e l’islam ha raggiunto per la prima volta anche una parte dell’opinione pubblica musulmana, in una misura che non ha precedenti.
__________ ”Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto” di Benedetto XVI Altezza Reale, eccellenze, illustri signore e signori, è motivo per me di grande gioia incontrarvi questa mattina in questo splendido ambiente.
Desidero ringraziare il principe Ghazi Bin Muhammed Bin Talal per le sue gentili parole di benvenuto.
Le numerose iniziative di Vostra Altezza Reale per promuovere il dialogo e lo scambio interreligioso ed interculturale sono apprezzate dai cittadini del regno hashemita ed ampiamente rispettate dalla comunità internazionale.
Sono al corrente che tali sforzi ricevono il sostegno attivo di altri membri della famiglia reale come pure del governo della nazione e trovano vasta risonanza nelle molte iniziative di collaborazione fra i giordani.
Per tutto questo desidero manifestare la mia sincera ammirazione.
Luoghi di culto, come questa stupenda moschea di Al-Hussein Bin Talal intitolata al venerato re defunto, si innalzano come gioielli sulla superficie della terra.
Dall’antico al moderno, dallo splendido all’umile, tutti rimandano al divino, all’Unico trascendente, all’Onnipotente.
Ed attraverso i secoli questi santuari hanno attirato uomini e donne all’interno del loro spazio sacro per fare una pausa, per pregare e prender atto della presenza dell’Onnipotente, come pure per riconoscere che noi tutti siamo sue creature.
Per questa ragione non possiamo non essere preoccupati per il fatto che oggi, con insistenza crescente, alcuni ritengono che la religione fallisca nella sua pretesa di essere, per sua natura, costruttrice di unità e di armonia, un’espressione di comunione fra persone e con Dio.
Di fatto, alcuni asseriscono che la religione è necessariamente una causa di divisione nel nostro mondo; e per tale ragione affermano che quanto minor attenzione vien data alla religione nella sfera pubblica, tanto meglio è.
Certamente, il contrasto di tensioni e divisioni fra seguaci di differenti tradizioni religiose, purtroppo, non può essere negato.
Tuttavia, non si dà anche il caso che spesso sia la manipolazione ideologica della religione, talvolta a scopi politici, il catalizzatore reale delle tensioni e delle divisioni e non di rado anche delle violenze nella società? A fronte di tale situazione, in cui gli oppositori della religione cercano non semplicemente di tacitarne la voce ma di sostituirla con la loro, il bisogno che i credenti siano fedeli ai loro principi e alle loro credenze è sentito in modo quanto mai acuto.
Musulmani e cristiani, proprio a causa del peso della nostra storia comune così spesso segnata da incomprensioni, devono oggi impegnarsi per essere individuati e riconosciuti come adoratori di Dio fedeli alla preghiera, desiderosi di comportarsi e vivere secondo le disposizioni dell’Onnipotente, misericordiosi e compassionevoli, coerenti nel dare testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono, sempre memori della comune origine e dignità di ogni persona umana, che resta al vertice del disegno creatore di Dio per il mondo e per la storia.
La decisione degli educatori giordani come pure dei leader religiosi e civili di far sì che il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura è degna di plauso.
L’esempio di individui e comunità, insieme con la provvista di corsi e programmi, manifestano il contributo costruttivo della religione ai settori educativo, culturale, sociale e ad altri settori caritativi della vostra società civile.
Ho avuto anch’io la possibilità di constatare personalmente qualcosa di questo spirito.
Ieri ho potuto prender contatto con la rinomata opera educativa e di riabilitazione presso il centro Nostra Signora della Pace, dove cristiani e musulmani stanno trasformando le vite di intere famiglie, assistendole al fine di far sì che i loro figli disabili possano avere il posto che loro spetta nella società.
All’inizio dell’odierna mattinata ho benedetto la prima pietra dell’università di Madaba, dove giovani musulmani e cristiani, gli uni accanto agli altri, riceveranno i benefici di un’educazione superiore, che li abiliterà a contribuire validamente allo sviluppo sociale ed economico della loro nazione.
Di gran merito sono pure le numerose iniziative di dialogo interreligioso sostenute dalla famiglia reale e dalla comunità diplomatica, talvolta intraprese in collegamento col pontificio consiglio per il dialogo interreligioso.
Queste comprendono il continuo lavoro degli Istituti Reali per gli Studi Interreligiosi e per il Pensiero Islamico, l’Amman Message del 2004, l’Amman Interfaith Message del 2005, e la più recente lettera “Common Word”, che faceva eco ad un tema simile a quello da me trattato nella mia prima enciclica: il vincolo indistruttibile fra l’amore di Dio e l’amore del prossimo, come pure la contraddizione fondamentale del ricorrere, nel nome di Dio, alla violenza o all’esclusione (cfr.
Deus caritas est, 16).
Chiaramente queste iniziative conducono ad una maggiore conoscenza reciproca e promuovono un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente.
Pertanto, esse dovrebbero indurre cristiani e musulmani a sondare ancor più profondamente l’essenziale rapporto fra Dio ed il suo mondo, così che insieme possiamo darci da fare perché la società si accordi armoniosamente con l’ordine divino.
A tale riguardo, la collaborazione realizzata qui in Giordania costituisce un esempio incoraggiante e persuasivo per la regione, in realtà anzi per il mondo, del contributo positivo e creativo che la religione può e deve dare alla società civile.
Distinti amici, oggi desidero far menzione di un compito che ho indicato in diverse occasioni e che credo fermamente cristiani e musulmani possano assumersi, in particolare attraverso il loro contributo all’insegnamento e alla ricerca scientifica, come pure al servizio alla società.
Tale compito costituisce la sfida a coltivare per il bene, nel contesto della fede e della verità, il vasto potenziale della ragione umana.
I cristiani in effetti descrivono Dio, fra gli altri modi, come Ragione creatrice, che ordina e guida il mondo.
E Dio ci dota della capacità a partecipare a questa Ragione e così ad agire in accordo con ciò che è bene.
I musulmani adorano Dio, Creatore del cielo e della terra, che ha parlato all’umanità.
E quali credenti nell’unico Dio, sappiamo che la ragione umana è in se stessa dono di Dio, e si eleva al piano più alto quando viene illuminata dalla luce della verità di Dio.
In realtà, quando la ragione umana umilmente consente ad essere purificata dalla fede non è per nulla indebolita; anzi, è rafforzata nel resistere alla presunzione di andare oltre ai propri limiti.
In tal modo, la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità, dando espressione alle nostre comuni aspirazioni più intime, ampliando, piuttosto che manipolarlo o restringerlo, il pubblico dibattito.
Pertanto l’adesione genuina alla religione – lungi dal restringere le nostre menti – amplia gli orizzonti della comprensione umana.
Ciò protegge la società civile dagli eccessi di un ego ingovernabile, che tende ad assolutizzare il finito e ad eclissare l’infinito; fa sì che la libertà sia esercitata in sinergia con la verità, ed arricchisce la cultura con la conoscenza di ciò che riguarda tutto ciò che è vero, buono e bello.
Una simile comprensione della ragione, che spinge continuamente la mente umana oltre se stessa nella ricerca dell’Assoluto, pone una sfida: contiene un senso sia di speranza sia di prudenza.
Insieme, cristiani e musulmani sono sospinti a cercare tutto ciò che è giusto e retto.
Siamo impegnati ad oltrepassare i nostri interessi particolari e ad incoraggiare gli altri, particolarmente gli amministratori e i leader sociali, a fare lo stesso al fine di assaporare la soddisfazione profonda di servire il bene comune, anche a spese personali.
Ci viene ricordato che proprio perché è la nostra dignità umana che dà origine ai diritti umani universali, essi valgono ugualmente per ogni uomo e donna, senza distinzione di gruppi religiosi, sociali o etnici ai quali appartengano.
Sotto tale aspetto, dobbiamo notare che il diritto di libertà religiosa va oltre la questione del culto ed include il diritto – specie per le minoranze – di equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile.
Questa mattina prima di lasciarvi, vorrei in special modo sottolineare la presenza tra noi di Sua Beatitudine Emmanuel III Delly, patriarca di Baghdad, che io saluto molto calorosamente.
La sua presenza richiama alla mente i cittadini del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato cordiale accoglienza qui in Giordania.
Gli sforzi della comunità internazionale nel promuovere la pace e la riconciliazione, insieme con quelli dei leader locali, devono continuare in vista di portare frutto nella vita degli iracheni.
Esprimo il mio apprezzamento per tutti coloro che sostengono gli sforzi volti ad approfondire la fiducia e a ricostruire le istituzioni e le infrastrutture essenziali al benessere di quella società.
Ancora una volta, chiedo con insistenza ai diplomatici ed alla comunità internazionale da essi rappresentata, come anche ai leader politici e religiosi locali, di compiere tutto ciò che è possibile per assicurare all’antica comunità cristiana di quella nobile terra il fondamentale diritto di pacifica coesistenza con i propri concittadini.
Distinti amici, confido che i sentimenti da me espressi oggi ci lascino con una rinnovata speranza per il futuro.
L’amore e il dovere davanti all’Onnipotente non si manifestano soltanto nel culto ma anche nell’amore e nella preoccupazione per i bambini e i giovani – le vostre famiglie – e per tutti i cittadini della Giordania.
È per loro che faticate e sono loro che vi motivano a porre al cuore delle istituzioni, delle leggi e delle funzioni della società il bene di ogni persona umana.
Possa la ragione, nobilitata e resa umile dalla grandezza della verità di Dio, continuare a plasmare le vita e le istituzioni di questa Nazione, così che le famiglie possano fiorire e tutti possano vivere in pace, contribuendo e al tempo stesso attingendo alla cultura che unifica questo grande regno! __________
Papa e Islam: un dialogo senza ambiguità
Sul Monte Nebo, in Giordania, Benedetto XVI ha colto l’occasione per ribadire con solennità quanto ha peraltro già detto e scritto in molte occasioni.
Ha affermato con enfasi quanto speciale sia il rapporto fra cristianesimo e ebraismo, quanto «inseparabile» sia il vincolo che li unisce.
Forse non tutte le incomprensioni spariranno di colpo ma sono state poste le basi per un loro superamento.
Benedetto XVI ha parlato così agli ebrei ma anche, contestualmente, ai cristiani.
Ha voluto dire agli uni e agli altri che anche gli ultimi detriti sopravvissuti dell’antico antigiudaismo cristiano devono essere spazzati via senza indugio dalle coscienze.
Inoltre, la sua presenza in Israele oggi, nella condizione presente, vale più di mille riconoscimenti diplomatici.
E’ un’implicita affermazione del diritto all’esistenza dello Stato di Israele contro coloro che vorrebbero cancellarlo.
Altrettanto delicato, e forse anche più delicato, è il rapporto con l’islam.
E non solo a causa degli eventi che seguirono il discorso di Ratisbona.
E’ più delicato anche perché il Papa è impegnato in una assai difficile e complessa operazione che investe, al tempo stesso, la sfera religiosa e quella mondana.
Una operazione complessa che nasce dal riconoscimento, più volte ribadito da Benedetto XVI, che il rapporto fra il cristianesimo e l’islam è di natura diversa da quello che lega il cristianesimo e l’ebraismo.
Quella relazione speciale che c’è, e va riconosciuta, fra cristianesimo ed ebraismo, non c’è, non ci può essere, fra cristianesimo e islam.
Ciò che il Papa sta cercando di fare (un aspetto che era rimasto non chiarito, irrisolto, all’epoca del pontificato di Giovanni Paolo II, e anche in occasione del viaggio che quel Papa fece in Terra santa) è di togliere ogni ambiguità al dialogo con il mondo musulmano, in modo da renderlo davvero proficuo sgombrando il campo dai malintesi.
Ciò che il Papa vuol fare è di chiarire che fra cristianesimo e islam non ci può essere dialogo religioso (le due fedi sono, su questo terreno, inconciliabili) ma ci deve essere invece, fra cristiani e musulmani, un incontro inter-culturale e civile (un dialogo che potremmo anche definire laico).
Anche per ribadire questo il Pontefice è rimasto in meditazione ma non ha pregato durante la sua visita alla moschea Hussein.
E’ un modo, l’unico modo, per spazzare via equivoci e ipocrisie rendendo possibile il rispetto reciproco e un dialogo forse foriero di buone conseguenze per le persone, cristiani e musulmani, coinvolte.
In Giordania, per lo meno, il senso della presenza del Papa sembra essere stato compreso dagli islamici che lo hanno accolto.
Così come sono state comprese le parole che il Papa ha dedicato alla condanna della violenza ammantata di motivi religiosi.
Benedetto XVI, naturalmente, è stato attento a non mettere a carico del solo mondo islamico (oltre a tutto, ciò non sarebbe stato nemmeno veritiero) la tentazione e la pratica della violenza.
Ma è certo che le sue parole sulla violenza (così come quelle rivolte ai cristiani del Medio Oriente sul ruolo delle donne) rappresentano una sponda che il capo della cristianità ha offerto a quella parte del mondo islamico che patisce la violenza dei fondamentalisti ancor più di quanto la patiscano gli occidentali.
La presenza del Papa, e i suoi atti e le sue parole, sono assai dispiaciute ai fondamentalisti, nonché a quei personaggi ambigui, di confine (il più celebre dei quali è Tariq Ramadan), che circolano e predicano in Occidente.
Ed è un bene che sia così.
Il viaggio del Papa può aiutare l’azione degli uomini, musulmani, ebrei o cristiani, alla ricerca di una pacifica convivenza proprio perché ricorda a tutti quanta mistificazione ci sia nell’uso a scopi politici della religione e nella violenza che quell’uso porta sempre con sé.
Angelo Panebianco 11 maggio 2009 Non è la religione all’origine della divisione nel mondo, ma la sua “manipolazione ideologica, talvolta a scopi politici”.
Il Papa lo denuncia chiaramente durante l’incontro di sabato mattina, 9 maggio, all’esterno della moschea Al-Hussein Bin Talal di Amman, invitando tutti i credenti a “essere fedeli ai loro principi” per dare pubblica “testimonianza di tutto ciò che è giusto e buono”.
Benedetto XVI si rivolge in particolare a cristiani e musulmani: li esorta a liberarsi dal peso delle incomprensioni che hanno segnato secoli di “storia comune” e a riconoscere “la comune origine e dignità di ogni persona umana”.
Ma ricorda anche “l’inseparabile vincolo che unisce la Chiesa al popolo ebreo”.
E manifesta – durante il pellegrinaggio sul monte Nebo col quale si apre la seconda giornata della sua visita in Terra Santa – “il desiderio di superare ogni ostacolo che si frappone alla riconciliazione fra cristiani ed ebrei, nel rispetto reciproco e nella cooperazione al servizio della pace”.
Nelle parole del Pontefice si delinea così quel “dialogo trilaterale” tra le grandi religione monoteiste evocato venerdì mattina durante la conferenza stampa in volo verso Amman.
Un dialogo – aveva puntualizzato il Papa – che “deve andare avanti”, perché “è importantissimo per la pace e anche per vivere bene ciascuno la propria religione”.
Benedetto XVI loda perciò gli sforzi del regno hascemita per far sì che “il volto pubblico della religione rifletta la sua vera natura”, dando “un contributo positivo e creativo” a settori cruciali della vita civile, culturale, sociale.
E chiama cristiani e musulmani a promuovere “una maggiore conoscenza reciproca” e “un crescente rispetto sia per quanto abbiamo in comune sia per ciò che comprendiamo in maniera differente”.
Solo andando all'”essenziale del rapporto fra Dio e il suo mondo”, infatti, è possibile rispondere alla sfida di “coltivare il vasto potenziale della ragione” per il bene dell’intera umanità.
Così il Papa rilancia il discorso a lui caro della possibilità di un incontro fecondo tra fede e ragione.
In realtà – assicura – la prima non indebolisce ma purifica la seconda; anzi, le consente di “resistere alla presunzione di andare oltre i propri limiti”.
In questo modo “la ragione umana viene rinvigorita nell’impegno di perseguire il suo nobile scopo di servire l’umanità”.
E gli orizzonti della comprensione si allargano, permettendo alla libertà di esprimersi in sintonia con la verità.
Tutto ciò richiede speranza e, al tempo stesso, prudenza.
Cristiani e musulmani – dice Benedetto XVI – devono impegnarsi a “oltrepassare gli interessi particolari” per “servire il bene comune, anche a spese personali”.
Il Pontefice rimette sul tappeto la questione dei diritti umani fondamentali e avverte, in particolare, che il diritto alla libertà religiosa va oltre la questione del culto e include anche quello di un “equo accesso al mercato dell’impiego e alle altre sfere della vita civile”.
Di questi temi il Papa aveva fatto cenno anche nel precedente incontro all’università del Patriarcato latino a Madaba, sottolineando in particolare che “la fede in Dio non sopprime la ricerca della verità, al contrario l’incoraggia” e rafforza “la fiducia nel dono della libertà”.
Benedetto XVI aveva messo in guardia contro la tentazione di sfigurare la religione, mettendola al servizio di ignoranza, pregiudizi, violenza o abusi.
E aveva sottolineato la centralità della “sapienza religiosa ed etica” nella formazione dei giovani.
In questo senso – aveva affermato – le università devono garantire la “giusta formazione professionale e morale” per dare una solida base ai “costruttori di una società giusta e pacifica, composta di genti di varia estrazione religiosa ed etnica”.
Al termine della mattinata il pensiero del Papa va agli abitanti del vicino Iraq, molti dei quali hanno trovato accoglienza proprio in Giordania.
L’appello alla pace e alla riconciliazione si unisce, nelle sue parole, alla richiesta del “fondamentale diritto alla pacifica convivenza” per i cristiani.
Nel Paese vanno rimesse in piedi istituzioni e infrastrutture – ricorda – ma soprattutto va ricostruita la fiducia delle persone per il bene della società irachena.
(©L’Osservatore Romano – 10 maggio 2009) Benedetto XVI è giunto oggi a Tel Aviv dopo la sua prima tappa in Giordania.
Questo lungo viaggio in Terra santa del Papa avrà certamente ancora molti momenti salienti ma un primo bilancio è reso possibile dall’accoglienza che gli è stata fin qui riservata e dalle parole, forti e inequivocabili, che egli ha già pronunciato sui rapporti fra il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam.
Il viaggio del Papa è di estrema delicatezza.
Non solo perché si svolge nei luoghi che sono, oggi come mille anni fa, il terreno di incontro/scontro fra le tre religioni monoteiste.
E non solo perché è proprio lì, in Medio Oriente, che si addensano, si sovrappongono e si intrecciano i più gravi elementi di conflitto che minaccino oggi la stabilità mondiale.
E’ di estrema delicatezza anche perché il Papa vi è giunto preceduto da una lunga scia di polemiche e incomprensioni che hanno fin qui segnato i suoi rapporti sia con l’ebraismo che con l’islam.
VI domenica di Pasqua
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 10,25-27.34-35.44-48 Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare [nella casa di Cornelio], questi gli andò incontro e si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio.
Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anche io sono un uomo!».
Poi prese la parola e disse: «In verità sto rendendomi conto che Dio non fa pre-ferenze di persone, ma accoglie chi lo teme e pratica la giustizia, a qualunque nazione appartenga».
Pietro stava ancora dicendo queste cose, quando lo Spirito Santo discese sopra tutti coloro che ascoltavano la Parola.
E i fedeli circoncisi, che erano venuti con Pietro, si stupirono che anche sui pagani si fosse effuso il dono dello Spirito San-to; li sentivano infatti parlare in altre lingue e glorifi-care Dio.
Allora Pietro disse: «Chi può impedire che siano battez-zati nell’acqua questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo?».
E ordinò che fossero battezzati nel nome di Gesù Cristo.
Quindi lo pregarono di fermarsi alcuni giorni.
Il brano che leggiamo risulta da tre piccoli ritagli di quel grande affresco che è il cap.
10 degli Atti.
Consigliamo di rileggere tutto il cap.
10 nella sua interezza.
Siamo ad un mo-mento decisivo del cammino missionario della Chiesa primitiva: la conversione di Corne-lio assume dimensione emblematica dell’apertura della predicazione al mondo pagano.
— «Si gettò ai suoi piedi per rendergli omaggio» (v.
25).
Di fronte ai prodigi e ad un essere su-periore che si ritiene celeste, il mondo pagano reagisce con atteggiamento di adorazione.
Così capita anche a Paolo e Barnaba, a seguito di un miracolo, a Listra (At 14,11-15).
— «Alzati…» (v.
26).
La predicazione cristiana è sempre attenta ad evitare l’equivoco che si può creare sulla persona degli apostoli, chiarendo che non sono esseri celesti e superiori, ma uomini come gli altri.
Coerente con tale chiarimento, Pietro conversa con il centurione con familiarità, allargando l’incontro con le molte persone che sono in quella casa (v.
27).
— «Dio non fa preferenze di persone» (vv.
34-35).
È l’inizio del discorso di Pietro: non è sol-tanto citazione dell’AT (vedi Dt 10,17; Sp 6,8; Sir 35,5), ma ammirata constatazione che tro-va riscontro nei fatti che Pietro sta vivendo: il privilegio di ricevere la parola di Dio non appartiene più esclusivamente al popolo ebraico.
È l’inizio del cammino universale della predicazione cristiana, dell’annuncio della salvezza.
— «Accoglie chi lo teme e pratica la giustizia» (v.
35).
Allargata a tutti i popoli, la misericor-dia di Dio non esige che due disposizioni negli uomini ai quali si rivolge: a) timore e ri-spetto intimo di Dio riconosciuto come unico e onorato nella propria coscienza; b) pratica della giustizia, ossia di una profonda onestà nei doveri naturali.
— «Lo Spirito Santo discese sopra tutti…» (vv.
44-48).
Il racconto che segue è indicato come la «pentecoste dei pagani».
Lo stesso Pietro sottolinea che «questi che hanno ricevuto, come noi, lo Spirito Santo» (v.
47).
Questi pagani, senza seguire le usanze giudaiche, e senza alcuna particolare preparazione, ricevono lo Spirito Santo: ciò dimostra — come rileva l’apostolo Pietro — che sono già pronti per ricevere il battesimo (v.
47).
L’effetto carismatico, prodotto nei pagani dalla discesa dello Spirito Santo, è simile a quello ricevuto dagli apostoli nella prima pentecoste: consiste nel fatto di esprimersi in lingue nuove e nel lodare Dio in modo e-statico (v.
46).
In entrambi gli aspetti è da vedere la unificazione della famiglia umana nel dono delle lingue e della preghiera, questa volta anche nel mondo pagano.
Seconda lettura: 1Giovanni 4,7-10 Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore.
In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha man-dato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui.
In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha man-dato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
In uno sviluppo parenetico (cioè di carattere prevalentemente esortativo) pressocché parallelo a quello della II Lett.
di domenica scorsa, la Prima Epistola di Giovanni insiste sulla necessità, per i cristiani, di avere una fede autentica ed un vero amore (4,7;5,4), con la probabile intenzione di stigmatizzare l’insorgere di alcune eresie nella chiesa primitiva.
Senza vero amore non c’è vera fede, e viceversa.
Il brano di oggi si colloca esattamente al-l’inizio di tale sviluppo.
Tre le affermazioni fondamentali contenute nella nostra lettura: — Prima: Dio non è conoscibile se non attraverso la via dell’amore (vv.
7-8).
Perché? Dio è amore, in senso operativo, cioè ogni sua attività è mossa da amore.
Ne derivano due con-seguenze che si possono esprimere in termini positivi e negativi: solo chi ama è nato da Dio (v.
7), solo chi ama i fratelli «conosce», cioè mostra di avere un’esperienza vera e pro-fonda di Dio.
Di fatto, l’assenza di amore rende impossibile ogni comunicazione e comu-nione con Dio (v.
8).
Per S.
Agostino la conoscenza dello stesso mistero trinitario non av-viene se non attraverso un movimento di amore.
— Seconda: non c’è prova più evidente che Dio è mosso da amore, che il fatto della ve-nuta del Figlio Unigenito nel mondo, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui (v.
9).
«Unigenito»: questo titolo attribuito al Figlio ha due valenze: a) è sinonimo di amato, dilet-to, oggetto di amore unico, e in tal caso sottolinea la grandezza del dono di Dio, mandan-dolo nel mondo; b) sottolinea l’unicità del Figlio di Dio come rivelatore del Padre; egli è l’unico che veramente possa rivelarci il volto del Padre: «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio…» (Mt 11,27).
— Terza: caratteristica dell’amore divino è che previene l’amore dell’uomo; non aspetta di essere amato per amore.
Non siamo stati noi ad amare Dio, (v.
10) anzi noi abbiamo tradito il suo amore col peccato.
Ma egli ha preso per prima l’iniziativa e ha mandato il suo Figlio in funzione di espiare, cioè offrire il sacrificio, per i nostri peccati.
Vangelo: Giovanni 15,9-17 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Pa-dre ha amato me, anche io ho amato voi.
Rimanete nel mio amore.
Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.
Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli al-tri come io ho amato voi.
Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici.
Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando.
Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda.
Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri».
Esegesi Il brano evangelico odierno costituisce l’immediato seguito del vangelo di domenica scorsa (vv.
1-8), ed in certo senso ne è l’illustrazione in termini parenetici.
Il brano è costi-tuito grosso modo da due sezioni che fanno capo a due parole-chiave: la parola «amore» e la parola «amici».
Chiariamo il senso di queste due parole fondamentali su cui il nostro brano è costruito: «amore» e «amico»: — amore (in gr.
agapō) a differenza di altri verbi che implicano reciprocità e scambio, se si appli-ca a Dio, indica un movimento di amore assolutamente gratuito e illimitato (vedi II Lettura).
La fonte è divina e eterna: come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi (v.
9), comunicandosi agli uomini nel tempo.
Abbiamo così una serie di anelli che costituiscono tutti essenzial-mente il senso dell’agape cristiano: Padre-Figlio-discepoli e discepoli tra loro.
La compara-zione: rimanete nel mio amore, come io rimango nell’amore del Padre (cf.
v.
10) non indica solo un rapporto esemplare o di imitazione.
Il come indica la natura e il fondamento stesso dell’amore cristiano, che sgorga ed è alimentato dall’amore trinitario.
Perciò l’espressione «nel mio amore», pur potendosi intendere nel senso dell’amore dei discepoli per Gesù, è pe-rò più coerente intenderlo come amore di Gesù per i discepoli.
Concepito così, tale amore va fino al sacrificio di sé, come lo è stato per quello di Gesù (v.
13); — amicizia, amico (in gr.
philos).
Nei rapporti umani, l’amicizia si stabilisce tra due per-sone che sono sullo stesso piano.
Questo è vero per l’amicizia di Gesù per i discepoli, se si tiene però conto che è lui ad elevarci dal livello di schiavi (doulos) a quello di amici.
La dif-ferenza, come spiega il Signore, va capita nella prospettiva della comunicazione: tra servo e padrone non c’è comunicazione, perché abitualmente il padrone non fa sapere, e quindi non comunica al servo quello che fa e perché lo fa (v.
15).
Gesù invece comunica e rivela ai discepoli quello che ha «udito» dal Padre, cioè li rende partecipi della sua relazione intima e filiale col Padre (v.
15).
Inoltre, sul piano dell’amicizia umana, ognuno è e si sente autore delle scelte che fa, e non stabilisce le finalità che l’altro deve raggiungere.
Nell’amicizia con Gesù non è così: non i discepoli hanno scelto lui, ma lui ha scelto loro — elevandoli al suo livello — con iniziati-va gratuita e sovrana (v.
16), e li ha scelti con un preciso scopo: assegnare loro una missio-ne (portare frutto) stabile e duratura (v.
16).
Meditazione Nei cosiddetti «Discorsi di addio» (Gv 13-17), che la liturgia ci fa leggere in queste do-meniche del tempo pasquale, Gesù con insistenza invita i discepoli a rimanere in lui, nella sua Parola, nel suo amore.
Sembra che nell’imminenza della sua passione, la ragione del turbamento di Gesù non sia tanto il destino che lo attende, e che peraltro egli vive nella prospettiva del ritorno al Padre (cfr.
ad esempio Gv 13,1; 16,28), quanto il turbamento stes-so che gli eventi produrranno sui suoi discepoli.
«Ecco, viene l’ora, anzi è già venuta, in cui vi disperderete ciascuno per conto suo e mi lascerete solo; ma io non sono solo, perché il Pa-dre è con me» (Gv 16,32).
Il rischio a cui i discepoli vengono esposti dall’ora di Gesù è la dispersione; Gesù vivrà la sua ora per trasformare la dispersione in una nuova e più stabi-le comunione.
«Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32), come il chicco di grano che muore per non rimanere solo, ma per produrre molto frutto (cfr.
12,24).
Uno dei frutti che nella sua morte il chicco produce è proprio il comandamento nuovo del quale Gesù parla nel brano evangelico di oggi, e che è al centro anche della se-conda lettura tratta dalla prima lettera di san Giovanni apostolo.
«Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12).
Che l’amore sia un comandamento probabilmente ci sorprende non poco.
Sia-mo ormai abituati a una concezione dell’amore alla stregua del «va’ dove ti porta il cuore», dimenticando che l’amore non è solo movimento spontaneo del desiderio, ma insepara-bilmente un impegno consapevole e responsabile della libertà.
C’è poi una seconda diffi-coltà, forse più grave della prima, che non ci consente di capire bene la parola di Gesù: in-tendere il comandamento solo alla stregua di un ordine da eseguire, di una parola da os-servare esteriormente.
Più ampia e vitale è la prospettiva del Signore e per comprenderla appieno non dobbiamo dimenticare il suo orizzonte pasquale.
L’amore di cui qui si parla è infatti l’amore più grande di chi dona la vita per i propri amici.
Ed è proprio questo amore più grande che consente di vivere il comandamento più grande, quello dell’amore per Dio e per il prossimo (cfr.
Mt 22,33-40 e par.).
Gesù dona la vita ai suoi amici non semplicemente perché lo sono già, ma per renderli tali.
Ancora una volta ribadisce che il suo è l’amore di chi muore per non rimanere solo, ma per farci passare dall’inimicizia all’amicizia, dalla so-litudine alla comunione.
«Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fat-to conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (15,15-16).
Proprio donando la sua vita per noi Gesù ci sceglie, ci trasforma donandoci un nome nuovo, quello di ‘amici’, e ci con-sente di portare frutto: un frutto analogo a quello che lui stesso produce attraverso il suo morire nella terra, il frutto cioè di chi sa rimanere in questo amore che gratuitamente ha ri-cevuto (non voi avete scelto me, mai io ho scelto voi) e lo rende fecondo nella reciprocità delle relazioni (che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati).
Gesù ci rende amici non chiamandoci più servi perché ci fa conoscere tutto ciò che ha udito dal Padre, ci fa conoscere Dio e il suo mistero, diversamente dal servo che «non sa quello che fa il suo padrone» (v.
15).
Come ascoltiamo nella seconda lettura, «chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio.
Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,7- 8).
Ciò che ci consente di passare dalla servitù all’amicizia, dalla schiavitù alla figliolanza, è proprio conoscere il Padre e il suo amore.
Gesù ci rende parte-cipi di quanto lui stesso ha udito dal Padre, in altri termini della relazione che sussiste tra lui e il Padre: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi.
Rimanete nel mio amo-re.
Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,9-10).
L’amore gratuito di Dio, che ci precede e che Gesù ci fa conoscere donando la sua vita per noi, fonda la nostra possibilità di amarci, vincendo in noi il male e il peccato.
«In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (lGv 4,10).
Questa è la particolarità del comandamento di Gesù: è ‘nuovo’ non solo a motivo del suo contenuto, ma della sua stessa dinamica.
Non è un ordine da eseguire o una parola cui obbedire.
Piuttosto è una parola cui prestare fede.
È un comandamento come consegna di sé: non comanda di fare qualcosa, ma di accogliere ciò che Gesù ha fatto per noi, donando la vita per i suoi amici.
Gesù muore nell’amore e il comandamento viene dato perché i di-scepoli possano rimanere in questo amore, accogliendo e custodendo nella loro vita la sua efficacia.
«Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (v.
10).
Osserva-re il comandamento non esige di fare qualcosa, ma di accogliere, custodire e rimanere in ciò che Gesù ha già fatto per noi: rimanete nel mio amore, egli ci dice, in quell’amore in cui io ho consegnato la mia vita perché anche voi possiate consegnarvi gli uni gli altri, vincen-do la vostra solitudine e dispersione, il vostro turbamento e la vostra paura.
La missione del discepolo consisterà allora anzitutto nel rimanere in questo amore e nel testimoniarlo: tale infatti è il frutto che egli, andando, deve portare (v.
16).
In questa luce diviene allora eloquente la conclusione della prima lettura, da Atti 10.
Pietro, dopo aver annunciato Gesù Cristo e impartito il battesimo, accetta l’invito di rimanere alcuni giorni nella casa di Cornelio, un pagano, superando così le rigide norme di purità della Legge mosaica.
Questo rimanere nella stessa casa è il sigillo dell’opera evangelizzatrice: rivela in-fatti che il vangelo donato e accolto crea relazioni nuove, consentendo di rimanere nel co-mandamento nuovo, frutto della Pasqua di Gesù.
Abitare nella casa dell’amore Questa è una singolare metafora dell’amore.
L’amore non è soltanto un sentimento passeggero.
È uno spazio in cui si può rimanere.
Gesù, tuttavia, indica anche la condizione per rimanere nell’amore: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore» (Gv 15,10).
Non possiamo godere da soli dell’amore di Dio.
Dobbiamo continuare a farlo scorrere verso gli altri.
Altrimenti ristagna.
E allora lo spazio d’amore, in cui si può abitare tanto bene, crolla.
L’amore di Gesù non prende, come fa spesso il nostro, ma dà.
È puro dono.
A un amo-re del genere, che lascia liberi e si dona, che muore per noi e scorre senza confini per noi, aneliamo nel profondo del nostro cuore.
Di fronte al Cristo crocifisso percepiamo che siamo incapaci di vero amore.
Il nostro amore si mescola spesso al desiderio di avere l’altro tutto per noi, di riuscire a possederlo.
Vogliamo tenerlo stretto, in modo che non ci lasci mai più.
E non ci accorgiamo di come gli togliamo la possibilità di evolversi, di diventare interamente se stesso.
Spesso vogliamo essere noi a plasmare la persona amata e comprimerla nella forma che ci sembra amabile.
Il gesto della croce esprime il contrario: ci lascia liberi, ci invita a farci abbracciare, ma ci lascia anche andare, affinché possiamo percorrere in libertà il nostro cammino.
(Anselm Grün, Apri il tuo cuore all’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 19-20).
Rimanete nel mio amore «Rimanete nel mio amore» (Gv 15,10).
In che modo ci rimarremo? Ascolta quanto segue: «Se osservate i miei comandamenti», dice il Signore, «rimarrete nel mio amore» (i-bi).
È l’amore che ci fa osservare i comandamenti, oppure è l’osservare i comandamenti che fa nascere l’amore? Ma chi può mettere in dubbio che l’amore precede l’osservare i coman-damenti? Chi non ama non ha motivo di osservare i comandamenti.
Dicendo: «Se osserve-rete i miei comandamenti rimarrete nel mio amore», il Signore non vuole indicare l’origine dell’amore, ma la prova.
Come se dicesse: Non crediate di poter rimanere nel mio amore se non osservate i miei comandamenti; potrete rimanervi solo se li osserverete.
Questa sarà la prova che rimanete nel mio amore, se osserverete i miei comandamenti.
Nessuno quindi si illuda di amare il Signore, se non osserva i suoi comandamenti, perché lo amiamo in quan-to osserviamo i suoi comandamenti, e quanto meno li osserviamo tanto meno lo amiamo.
Anche se dalle parole: «Rimanete nel mio amore» non appare chiaro di quale amore egli stia parlando, se di quello con cui amiamo lui o di quello con cui egli ama noi, possiamo però dedurlo dalla frase precedente.
Egli aveva detto: «Anch’io ho amato voi», e subito dopo ha aggiunto: «Rimanete nel mio amore».
Si tratta dunque dell’amore che egli nutre per noi.
E allora che cosa significa: «Rimanete nel mio amore», se non: rimanete nella mia grazia? E che cosa significa: «Se osserverete i miei comandamenti rimarrete nel mio amo-re», se non che voi potete avere la certezza di essere nel mio amore, cioè nell’amore che io vi porto, se osserverete i miei comandamenti? Non siamo dunque noi che prima osservia-mo i comandamenti di modo che egli venga ad amarci, ma il contrario: se egli non ci a-masse, noi non potremmo osservare i suoi comandamenti.
Questa è la grazia che è stata rivelata agli umili, mentre è rimasta nascosta ai superbi.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 82,3, NBA XXIV, p.
1248).
Credo Credo in un Dio che non si nasconde dentro ad un mistero che non mi seduce con un miracolo e che non mi opprime con la sua autorità.
Credo in un Dio che non mi chiede di rinunciare alla mia libertà, che mi pone di fronte alla scelta del bene e del male, che non accetta compromessi, ma che benedice la follia di chi lo segue.
Credo in un Dio che non fa della sua potenza persuasione, che non rimette a posto le cose dall’alto, che non esercita la giustizia degli uomini.
Credo in un Dio che si lascia tradire, che al mio no risponde con un bacio silenzioso, credo in un Dio sconfitto, crocifisso e poi Risorto.
Credo in un Dio che non ho inventato io, che non soddisfa i miei bisogni, che non dice e fa quello che voglio io, un Dio scomodo che non si può né vendere, né comprare.
Credo in un Dio vero, che si fa uomo, amico, fratello della mia umanità, che si fa piccolo, debole indifeso perché non debba salire troppo in alto per poterlo incontrare.
Credo in un Dio che gioca a nascondino perché possa scoprirlo nel cuore di ogni uomo, credo in un Dio che mi si fa vicino, che mi viene incontro e mi dice : “ti amo”.
Si, io credo in Dio, in un Dio che si può soltanto amare.
(Ester Battista).
Da’ gratuitamente «Il tuo amore, in quanto viene da Dio, è permanente.
Puoi reclamare il carattere per-manente del tuo amore come un dono di Dio.
E puoi dare questo amore permanente agli altri.
Quando gli altri cessano di amarti, non devi cessare di amarli.
A livello umano, i cambiamenti possono essere necessari, ma a livello del divino tu puoi rimanere fedele al tuo amore.
Un giorno sarai libero di dare un amore gratuito, un amore che non chiede niente in cambio.
Un giorno sarai anche libero di ricevere un amore gratuito.
Spesso l’amore ti viene offerto, ma tu non lo riconosci.
Lo metti da parte perché rimani fissato nell’idea di ricever-lo dalla medesima persona alla quale l’hai dato.
Il grande paradosso dell’amore è che proprio quando hai rivendicato il fatto che sei il diletto figlio di Dio, hai posto dei confini al tuo amore, e quindi hai contenuto i tuoi biso-gni, è allora che cominci a crescere nella libertà di dare gratuitamente».
(H.J.M.
NOUWEN, La voce dell’amore, Queriniana, Brescia.
2005, 27-28).
L’amore Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere amato da noi.
Non pensiamo che l’amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consu-ma; pensiamo che fare tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compie-re grandi azioni.
D’altra parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti.
Non sappiamo che due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande.
Questo ci rende tranquilli di fronte all’azione.
Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo.
Non c’è niente di difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire.
Poiché troviamo nell’amo-re un’occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare gli atti in pre-ghiere e in azioni.
Troviamo che la preghiera è un’azione e l’azione una preghiera; ci sem-bra che l’azione veramente amorosa è tutta piena di luce.
Ci sembra che di fronte ad essa l’anima è come una notte tutta protesa verso la luce che sta per venire.
E quando la luce si fa – il volere di Dio chiaramente compreso – ecco l’anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in essa.
Ci sembra che l’azione sia anche una preghiera d’implorazione.
Non ci sembra che l’azione c’inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita.
Al contrario, ci sembra che l’azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in essa.
I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero.
E’ per questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera, uniscono così perfettamente l’amore di Dio e l’amore dei nostri fratelli.
Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di grazia.
Ciascun at-to docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande libertà di spi-rito.
Allora la vita è una festa.
Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso.
Non importa che cosa dobbia-mo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica.
Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina.
Tutto ciò non è che la scorza della realtà splendida, l’incontro dell’anima con Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella per il suo Dio.
Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci.
Un’informazione? …eccola: è Dio che viene ad amarci.
E’ l’ora di metterci a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci.
Lasciamolo fare.
(Madeleine Delbrêl).
Parlami d’Amore Amore supera l’amore, mio caro.
L’amore è volo d’uccello nel cielo infinito.
Ma il volo dell’uccello è più che il volteggiare in aria di un esserino di carne, più che le sue ali inna-morate, corteggiate dal vento, è più che l’indicibile gioia quando muoiono i battiti delle ali e il corpo in pace plana nella luce.
L’amore è canto di violino che canta il canto del mondo.
Ma il canto del violino è più che il legno e l’archetto, inerti e solitari, più che le note in abi-to da sera che danzano sulla partitura, e più che le dita dell’artista che corrono sulle corde.
L’amore è luce, per le strade umane.
Ma la luce che si dà è più che carezza mattutina che apre gli occhi notturni, più che raggi di fuoco che riscaldano i corpi, e più che mille pen-nelli d seta che colorano i volti.
L’amore è fiume d’argento che scorre verso il mare.
Ma il fiume vivo, che indugia o che si affretta, è più che il suo letto accogliente, scrigno che non trattiene, più che l’acqua che si arrossa allo sguardo del tramonto, e più che l’uomo sulla riva che getta l’esca e ne estrae i frutti.
L’amore è veliero che sulle acque fende le onde.
Ma la corsa del veliero è più che la prora sedotta che penetra il mare, che si offre o i dibatte, più che le vele frementi sotto il tocco della brezza o gli schiaffi del vento, è più che le mani del marinaio afferrate al timone, mentre instancabile insegue la sua selvaggina.
…l’Amore supera l’amore.
L’Amore è soffio infinito, che viene da un altrove e vola verso l’altrove.
L’amore è mente d’uomo che conosce e riconosce il soffio, è libertà d’uomo che tutto si volge verso di Lui.
L’amore è consenso dell’uomo al soffio che invita, è cuore dell’uomo che si apre per accoglierlo e donarLo, è corpo dell’uomo che si raccoglie, disponibile, per-ché da Lui abitato, da Lui invaso prenda il volo verso gli altri, verso…
l’altro, e perché infi-ne ciò che era lontano si ricongiunga e si accordi ciò che era separato diventi uno e che dal-l’uno sgorghi una nuova vita.
(Michel Quoist).
La mia vocazione Nell’eccesso della mia gioia delirante ho esclamato: O Gesù mio Amore…
la mia voca-zione l’ho trovata finalmente! La mia vocazione è l’Amore.
( Santa Teresa di Gesù Bambino).
Una luce splende alla mia anima Che ti amo Signore, non ho alcun dubbio; ne sono certo.
Con la tua parola hai toccato il mio cuore, e io ho cominciato ad amarti.
Ma che cosa amo amandoti? Non una bellezza corporea né una grazia transitoria; non lo splendore di una luce così cara a questi miei occhi; non dolci melodie di svariate cantilene; non un profumo di fiori, di unguenti e di aromi; non manna né miele, non membra invitanti ad amplessi carnali.
Amando il mio Dio, non amo queste cose.
E tuttavia nell’amare lui amo una certa luce, una voce, un profumo, un cibo ed un amplesso che sono la luce, la voce, il profumo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, dove splende alla mia anima una luce che nessun fluire di secoli può portar via, dove si espande un profumo che nessuna ventata può disperdere, dove si gusta un sapore che nessuna voracità può sminuire, dove si intreccia un rapporto che nessuna sazietà può spezzare.
Tutto questo io amo quando amo il mio Dio.
(S.
Agostino)
L’Imperatore d’Austria che Papa Wojtyla tanto ammirava
A Roma, intanto, l’avvocato Andrea Ambrosi, postulatore della causa di beatificazione dell’imperatore Carlo I d’Austria, sta lavorando per l’ultima tappa del processo: la “canonizzazione”, cioè la proclamazione della santità.
Per raggiungere questo traguardo, la Chiesa richiede l’approvazione di un nuovo miracolo, avvenuto dopo che il soggetto era stato proclamato beato.
E questo miracolo per l’imperatore d’Austria Carlo I c’è già.
Riguarda una signora americana, Tamara Staggs, di Orlando, in Florida.
Nel 2002 fu colpita da tumore maligno alla mammella.
Fu operata e sottoposta a chemioterapia, ma nel 2004 il male si ripresentò più grave, con metastasi anche al fegato.
Medicine e terapie risultarono inutili.
La situazione precipitava.
I medici dissero che all’ammalata restavano pochi mesi di vita.
I coniugi Melancon, amici della signora Tamara, ma amici anche della famiglia del beato Carlo, dalla quale avevano ricevuto in dono una reliquia, cominciarono a pregare l’imperatore per la guarigione della signora Tamara.
La cosa sembrava un po’ “difficile” perchè la signora Tamara non era di religione cattolica, ma riuscirono egualmente a coinvolgerla nelle preghiere e, all’improvviso, arrivò la guarigione.
Il 19 gennaio 2005, una TAC evidenziava, in modo del tutto inatteso, la completa scomparsa delle metastasi epatiche.
Successivi controlli, ripetuti periodicamente – l’ultimo nell’ottobre 2008 – hanno dimostrato che del male non c’è più alcuna traccia.
A Orlando è già stato fatto il processo diocesano per questa guarigione con le deposizioni giurate di tutti i testimoni e dei medici.
L’incartamento è già a Roma.
<<Sono trascorsi tre anni dalla guarigione, quindi va ritenuta inconfutabile>>, dice il postulatore avvocato Ambrosi.
<<Ho già fatto esaminare il caso anche a un famoso oncologo dell’Università “La Sapienza” di Roma, che lo ha ritenuto validissimo.
Però, per avere la certezza assoluta, ho deciso di aspettare fino al 2010, cioè cinque anni dopo la guarigione.
E sono certo che questo miracolo farà diventare presto Santo l’imperatore d’Austria>>.
Quando, nel 2004, venne diffusa la notizia che l’Imperatore Carlo I° d’Austria sarebbe stato beatificato, molti, anche in ambito cattolico, si meravigliarono.
Trovavano strano che un imperatore, cioè un uomo appartenente al mondo dei nobili, dei ricchi, dei potenti della terra potesse diventare santo.
I giornali ricordarono figure del passato: Re Stefano d’Ungheria, Sant’Agnese di Praga, Sant’Elisabetta d’Ungheria, Sant’Enrico II imperatore, Santa Brigida di Svezia, San Luigi IX re di Francia, San Ferdinando re del Portogallo eccetera, sottolineando, però, che si trattava di “regnanti” vissuti in tempi molto lontani, quando i processi di beatificazione non erano rigorosi come lo sono ora, mentre Carlo I d’Austria era morto nel 1922, all’inizio del secolo scorso, meno di cento anni prima.
Era un uomo giovane, intelligente, colto, bello, marito di una principessa bellissima, Zita dei Borboni Parma, dalla quale aveva avuto otto figli.
Per la mentalità moderna, sembrava impossibile che una persona del genere avesse esercitato le virtù evangeliche in maniera eroica al punto da meritare la gloria degli altari.
Su di lui inoltre circolavano molti pregiudizi.
Gli storici laici lo avevano sempre definito “un debole e un incapace”.
Salito al trono nel 1916, quando era in pieno svolgimento la Prima guerra mondiale, lo incolpavano di non essere stato capace di vincere la guerra.
Per questo, dopo il conflitto era stato esiliato dal suo Paese.
Ma, poi, alla luce di una grande mole di documenti emersi al processo di beatificazione e di altri studi pubblicati dopo quel processo, si è scoperto invece che l’imperatore Carlo I fu un politico lungimirante, che voleva il “bene vero” dei suoi sudditi, che aveva grandi idee d’avanguardia per l’Europa.
<<Sì, il processo di beatificazione ha molto contribuito a cambiare il giudizio che gli storici avevano sempre dato su mio nonno>>, dice l’Arciduchessa Catharina d’Austria, figlia dell’arciduca Rodolfo.
<<Finalmente, molti studiosi hanno cominciato a mettere da parte i pregiudizi derivanti dal fatto che mio padre era un cattolico praticante, e hanno iniziato a valutarne obbiettivamente le idee politiche, costatando che erano geniali>>.
Trentasei anni, Laureata in Giurisprudenza e specializzata in Scienze politiche, Catharina d’Austria è autrice di vari saggi storici sui personaggi della propria famiglia e, naturalmente, anche lei grande appassionata della storia del suo illustre nonno.
<<Oggi per fortuna, molti riconoscono che mio nonno fu un illuminato pacifista, uno dei primi convinti sostenitori di una Grande Europa Unita, basata non sui conflitti armati ma sulla cooperazione, sul rispetto delle minoranze, delle autonomie, delle culture e delle singole persone.
Se fosse stato ascoltato, l’Europa unita sarebbe nata molto prima, e certamente non ci sarebbero stati gli orrori della terribile Seconda guerra mondiale>>.
L’arciduchessa Catharina d’Austria, che ha sposato un italiano, il conte Massimiliano Secco d’Aragona, cittadino bresciano, è promotrice di varie iniziative a favore della conoscenza vera dell’Imperatore Carlo I d’Austria.
A Brescia, dove spesso vive con il marito e i due figli, Costantino, 8 anni, e Nicolò, 6, ha patrocinato un centro culturale e religioso che ha lo scopo di far conoscere ed apprezzare la vita, l’opera e la santità del Beato Imperatore Carlo d’Austria.
Questo centro ha sede nella parrocchia di San Gottardo, dove si conservano alcune reliquie dell’Imperatore.
Al movimento hanno aderito importanti personalità del mondo cattolico, uomini politici, professori universitari, vescovi e prelati illustri.
In quel centro, gestito dal parroco monsignor Arnaldo Morandi, si tengono convegni, conferenze, dibattiti per approfondire la conoscenza della politica cristiana di Carlo I Imperatore.
<<Io sono la più piccola dei nipoti dell’Imperatore Carlo I>>, dice l’arciduchessa Catharina.
<<Ho imparato a conoscerlo soprattutto attraverso i racconti di mia nonna, l’Imperatrice Zita dei Borboni Parma.
Passava molto tempo nella nostra casa a Bruxelles e io, essendo la più piccola, ero un po’ la sua coccola.
Era religiosissima.
Fu lei a insegnarmi il catechismo e a prepararmi per la Prima Comunione.
Parlava sempre del nonno.
Ne parlava con tale trasporto che era impossibile non rimanere affascinati.
E, dai suoi racconti, mi sono fatta l’idea che il nonno non fu un santo solo da adulto, da imperatore, ma da sempre, da ragazzo, da giovane, da fidanzato.
Un grande santo>>.
A Roma, intanto, l’avvocato Andrea Ambrosi, postulatore della causa di beatificazione dell’imperatore Carlo I d’Austria, sta lavorando per l’ultima tappa del processo: la “canonizzazione”, cioè la proclamazione della santità.
Per raggiungere questo traguardo, la Chiesa richiede l’approvazione di un nuovo miracolo, avvenuto dopo che il soggetto era stato proclamato beato.
E questo miracolo per l’imperatore d’Austria Carlo I c’è già.
Riguarda una signora americana, Tamara Staggs, di Orlando, in Florida.
Nel 2002 fu colpita da tumore maligno alla mammella.
Fu operata e sottoposta a chemioterapia, ma nel 2004 il male si ripresentò più grave, con metastasi anche al fegato.
Medicine e terapie risultarono inutili.
La situazione precipitava.
I medici dissero che all’ammalata restavano pochi mesi di vita.
I coniugi Melancon, amici della signora Tamara, ma amici anche della famiglia del beato Carlo, dalla quale avevano ricevuto in dono una reliquia, cominciarono a pregare l’imperatore per la guarigione della signora Tamara.
La cosa sembrava un po’ “difficile” perchè la signora Tamara non era di religione cattolica, ma riuscirono egualmente a coinvolgerla nelle preghiere e, all’improvviso, arrivò la guarigione.
Il 19 gennaio 2005, una TAC evidenziava, in modo del tutto inatteso, la completa scomparsa delle metastasi epatiche.
Successivi controlli, ripetuti periodicamente – l’ultimo nell’ottobre 2008 – hanno dimostrato che del male non c’è più alcuna traccia.
A Orlando è già stato fatto il processo diocesano per questa guarigione con le deposizioni giurate di tutti i testimoni e dei medici.
L’incartamento è già a Roma.
<<Sono trascorsi tre anni dalla guarigione, quindi va ritenuta inconfutabile>>, dice il postulatore avvocato Ambrosi.
<<Ho già fatto esaminare il caso anche a un famoso oncologo dell’Università “La Sapienza” di Roma, che lo ha ritenuto validissimo.
Però, per avere la certezza assoluta, ho deciso di aspettare fino al 2010, cioè cinque anni dopo la guarigione.
E sono certo che questo miracolo farà diventare presto Santo l’imperatore d’Austria>>.
Renzo Allegri Il primo di aprile di 87 anni fa moriva Carlo d’Asburgo Lorena, ultimo imperatore d’Austria proclamato beato nell’ottobre del 2004.
Alla morte aveva soltanto 34 anni ed era in esilio a Madeira, cacciato dal trono dalle nuove forze politiche che si erano rafforzate nel Paese dopo la prima guerra mondiale e che si opponevano a Carlo perché cattolico osservante e rappresentante di quell’antico Sacro romano impero che difendeva la Chiesa.
Il 2 aprile, invece, ricorre il quarto anniversario della morte di un altro grande, grandissimo uomo: Carlo Wojtyla e cioè Papa Giovanni Paolo II.
In due giorni si ricordano gli anniversari di un imperatore già beato e di un Papa, che dovrebbe essere proclamato beato a breve.
Austriaco il primo, polacco il secondo.
Due eccezionali protagonisti della storia del secolo Ventesimo.
Due persone che non si sono mai conosciute su questa terra, ma che erano legate dalla fede cristiana, dalla pratica eroica delle virtù evangeliche nella vita quotidiana e anche da un sottile e misterioso dettaglio affettivo: avevano avuto al battesimo lo stesso nome, Carlo.
In genere, nei libri biografici di Papa Giovanni Paolo II non si trova alcun cenno a questo dettaglio.
Dai registri parrocchiali si sa che venne battezzato con due nomi: Karol Jozef (Carlo Giuseppe).
Tutti i biografi hanno sempre scritto che il primo nome ricordava il padre del futuro Papa, che si chiamava appunto Karol (Carlo), mentre il secondo, Jozef, gli era stato dato in omaggio al generale Pilsudski, l’eroe fondatore della Repubblica Polacca.
Ma recentemente su questo argomento ho raccolto una testimonianza nuova e inedita.
Uno dei tre figli viventi dell’Imperatore Carlo I Suoi altezza imperiale reale Arciduca Rodolfo, mi ha raccontato che lo stesso Giovanni Paolo II gli ha rivelato perché al battesimo fu chiamato Carlo.
<<Fu durante un’udienza privata che Papa Wojtyla concesse alla mia famiglia>>, mi ha raccontato l’Arciduca Rodolfo.
<<C’erano i miei figli, con le loro famiglie e c’era anche mia madre, l’Imperatrice Zita.
Il Papa ci accolse con grande cordialità.
Parlò con grande entusiasmo di mio padre, l’imperatore Carlo.
E rivolgendosi a mia madre, la chiamava “la mia Imperatrice” e ogni volta si inchinava verso di lei.
Ad un certo momento disse: “Sapete perché al battesimo io fui chiamato Carlo? Proprio perché mio padre aveva una grande ammirazione per l’Imperatore Carlo I, di cui è stato un soldato>>.
Testimonianza molto significativa che spiega la costante ammirazione manifestata sempre da Giovanni Paolo II per l’Imperatore austriaco.
Aveva imparato a conoscerlo dal proprio genitore, Karol Wojtyla senior, che era stato sottufficiale del 56° reggimento di fanteria dell’esercito austroungarico, quindi soldato dell’Imperatore Carlo I°.
Fin da allora, Karol Wojtyla senior aveva intuito la grandezza morale e spirituale del suo imperatore e se ne era entusiasmato al punto da dare al proprio figlio quel nome.
E, mano a mano che il figlio cresceva, gli trasmetteva la vera storia di quell’imperatore, confutando le dicerie e le calunnie diffuse da coloro che lo avevano cacciato dal trono.
Così, anche il futuro Papa imparò ad apprezzare il giovane e sfortunato imperatore austriaco, vedendo in lui una rara e fulgida figura di sovrano giusto e leale, generoso e amorevole, pronto a qualsiasi sacrificio personale per il bene del popolo.
Per questo, da Papa, ne sostenne apertamente e con entusiasmo il processo di beatificazione e quando potè celebrare la solenne cerimonia lo fece con gioia, indicando il sovrano austriaco come modello per tutti gli uomini politici.
Quei ragazzi privi di educatori
Isabella Bossi Fedrigotti, editorialista del Corriere e nota scrittrice, traccia un quadro preoccupante dei ragazzi d’oggi e, in particolare, di quella parte di loro (e non sono pochi) che con freddezza, cinismo e indifferenza salgono quotidianamente agli onori delle cronache per fatti criminosi, segnati da incredibile violenza.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, – osserva la giornalista – si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa – compreso il carcere – fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge.
La giornalista svolge una lunga analisi sui comportamenti di tanti giovani, sul loro ambiguo conformismo, sulla loro vita priva di progetti e di speranze per il futuro; poi si chiede: Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? La risposta è disarmante: Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene.
Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
I ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, la famiglia non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci.
Poveri ragazzi – conclude l’editorialista – però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
I RAGAZZI E I SILENZI DEGLI ADULTI I nostri figli senza maestri di Isabella Bossi Fedrigotti Della politica, di ogni suo minimo sussulto, controversia o screzio, si discute per giorni, si ragiona, si polemizza.
Dei giovani e giovanissimi, dei loro problemi, dei loro allarmi, della loro violenza, dei terrificanti crimini che riescono a commettere quando ancora, almeno in teoria, devono rispettare l’orario di rientro dettato dai genitori, dopo un momentaneo commento incredulo e sbigottito, si tende, invece, a tacere.
E così gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini per opera di adolescenti o poco più transitano veloci, giorno dopo giorno, negli spazi delle cronache nere senza che ci prendiamo la briga di riflettere davvero su cosa sta succedendo nella nostra società.
Di loro, dei ragazzi, quando li arrestano, si coglie per lo più la freddezza e l’indifferenza, non solo per le vittime ma anche per i propri cari e il proprio destino, quasi che qualsiasi cosa—compreso il carcere — fosse preferibile all’insopportabile noia che li affligge.
E sembra specchiarsi, quest’indifferenza, nel loro abbigliamento, sempre uguale, jeans, scarpe sportive e felpa, del tutto indifferente a diversi luoghi e occasioni: casa, scuola, lavoro, pub, sport oppure discoteca.
Vanno e rubano, vanno e accoltellano, vanno e dan fuoco a un barbone, vanno e uccidono un compagno di scorribande, quasi sempre in gruppo, per farsi forza, naturalmente, perché da soli forse non oserebbero; e noi ce la sbrighiamo parlando di «fenomeno delle baby gang», come se il termine straniero minimizzasse la tragicità dei fatti.
Ma da dove vengono e chi sono questi alieni crudeli e indifferenti? Da case normali per lo più; anche dal degrado, dalla miseria e dall’emarginazione, ma altrettanto, da case belle, quartieri buoni e famiglie per bene.
Potrebbero essere figli di tutti noi, incappati per insicurezza, per solitudine, per noia nell’amico più forte, nel gruppo sbagliato; e si sa che il gruppo ormai conta più della famiglia, per il semplice fatto che la famiglia, nonostante il gran parlare che se ne fa, è oggi più debole che mai.
Oltre a essere spesso dimezzata, per cui i ragazzi sono privi della costante ed equilibrante presenza di entrambi i genitori, non è più come un tempo affiancata e sostenuta nel suo magistero dagli insegnanti e da altre figure di educatori come, per esempio, i parroci, per ragioni che a volte risalgono paradossalmente proprio alla famiglia.
Se, infatti, padri e madri—come spesso succede — prendono sistematicamente le parti dei figli contro maestri e professori, è difficile che si crei quell’alleanza di intenti preziosa per l’educazione.
E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente.
Moltissimi sono naturalmente i padri e le madri forti abbastanza per farcela da soli a insegnare ai figli cos’è bene e cos’è male, ma molti sono anche quelli che, invece, non ce la fanno.
Ma c’è dell’altro, ed è la profondissima infelicità dei giovani.
Perché è certo che sono infelici, lo gridano dietro i loro indecifrabili silenzi, che non sempre riflettono soltanto il comodo, rilassante oppure stanco silenzio degli adulti.
È un’infelicità chiusa e senza desideri, peraltro, secondo il geniale titolo del romanzo di Peter Handke, perché non può esserci desiderio dove non c’è speranza.
Ecco, quel che atterra i nostri figli, quel che toglie loro qualsiasi energia positiva, quel che li rende tetri e annoiati e, dunque, disponibili alle trasgressioni più atroci, è la mancanza di speranze condivise.
Speranze che molto prima di essere di natura economica sono di natura ideale, nutrimento e carburante indispensabile per i giovani.
Anche per noi adulti, ovviamente, perché l’uomo non può vivere senza aspettarsi per domani una sia pur minuscola luce, ma in modo molto meno assoluto e radicale, perché abbiamo ormai imparato bene a difenderci dal vuoto.
Speranze —condivise — che una volta riguardavano la politica, per esempio, oppure la religione o la cultura e che adesso, mediamente, s’innalzano fino ai successi della squadra di calcio del cuore o al sogno di finire in tv oppure alla conquista di un certo tipo di abbigliamento firmato e uniforme.
Poveri ragazzi, viene da dire, però è questo il piatto che abbiamo preparato per loro, gli esempi che abbiamo fornito, i modelli che abbiamo fabbricato.
Ed è un serpente che si morde la coda perché se famiglia, scuola e istituzioni varie oggi si rivelano così deboli, così inascoltate e incapaci di educare è anche perché per prime sembrano aver smarrito nel tempo le ragioni forti del loro essere.
I maestri, insomma, i tanto invocati maestri grandemente scarseggiano perché non credono più al loro magistero.
Corriere della sera 30 aprile 2009