Formazione al sacerdozio, tra secolarismo e modelli di Chiesa

Tra pochi giorni, venerdì 19, festa del Sacro Cuore di Gesù, avrà inizio lo speciale Anno Sacerdotale voluto da Benedetto XVI.
Le finalità sono state indicate da papa Joseph Ratzinger ai cardinali e vescovi che compongono la congregazione per il clero, riuniti lo scorso 16 marzo in assemblea plenaria.
La congregazione per il clero si chiamava fino al 1967 congregazione “del Concilio”.
Era stata costituita infatti dopo il Concilio di Trento per curare l’applicazione delle indicazioni conciliari da parte del clero in cura d’anime.
Il profilo di prete delineato dal Concilio di Trento ha caratterizzato la vita della Chiesa cattolica fino alla metà del Novecento.
Ne è stato un modello il santo Curato d’Ars, Giovanni Maria Vianney, di cui ricorre il 150.mo anniversario della morte.
Negli ultimi decenni, però, l’identità del prete cattolico si è in varia misura mutata, offuscata, sbriciolata, sotto i colpi della secolarizzazione, fuori e dentro la Chiesa.
L’intento dell’Anno Sacerdotale è appunto quello di ricostruire nel prete una forte identità spirituale, fedele alla sua missione originaria.
Ciò comporta anche un’energica opera di eliminazione della “sporcizia” che ha inquinato una parte del clero, quantitativamente limitata ma disastrosa sul piano della sua immagine globale.
A questo proposito va notata una coincidenza.
Con l’inizio dell’Anno Sacerdotale avrà inizio anche la visita apostolica ordinata dalle autorità vaticane dentro la congregazione dei Legionari di Cristo.
Questa congregazione si distingue per l’abbondanza delle vocazioni e il gran numero di nuovi preti.
Nello stesso tempo, però, rischia di crollare così come è già crollata la figura del suo carismatico fondatore, il sacerdote Marcial Maciel, la cui doppia vita gravemente immorale – venuta definitivamente allo scoperto – è diventata oggi un terribile scandalo prima di tutto per quelli che furono i suoi più ferventi discepoli.
Ricostruire l’identità spirituale del clero implica quindi anche una speciale cura della sua formazione.
Come i seminari sono stati una pietra miliare della riforma della Chiesa voluta dal Concilio di Trento, così oggi è nei seminari che si forgia l’identità dei nuovi preti.
La congregazione del clero non si occupa dei seminari.
Prende cura di essi la congregazione per l’educazione cattolica.
Anche quest’ultima, quindi, dovrà operare perché l’Anno Sacerdotale porti frutto.
Qualcosa, anzi, ha già fatto, a giudicare dal discorso tenuto dal suo segretario, Jean-Louis Bruguès, ai rettori dei seminari pontifici convenuti a Roma nei giorni scorsi.
Monsignor Bruguès, 66 anni, domenicano, era fino al 2007 vescovo di Angers.
Oltre che segretario della congregazione per l’educazione cattolica è vicepresidente della pontificia opera delle vocazioni sacerdotali e membro della commissione per la formazione dei candidati al sacerdozio.
È inoltre accademico della pontificia accademia San Tommaso d’Aquino.
Il discorso che ha rivolto ai rettori di seminario non ha nulla del linguaggio curiale.
È di una franchezza non comune.
Descrive e denuncia senza mezzi termini i guasti del dopoconcilio, in particolare in Europa, compresa l’impressionante ignoranza sui punti elementari della dottrina che oggi si riscontra nei giovani che entrano in seminario.
Questa ignoranza è a tal punto che, tra i rimedi, monsignor Bruguès auspica che si dedichi un anno intero di seminario a far apprendere il Catechismo della Chiesa cattolica.
Il Catechismo “ad parochos” fu un’altra delle pietre miliari della riforma tridentina.
Quattro secoli dopo, si è di nuovo lì.
È sempre rischioso spiegare una situazione sociale a partire da una sola interpretazione.
Tuttavia, alcune chiavi aprono più porte di altre.
Da molto tempo sono convinto del fatto che la secolarizzazione sia diventata una parola-chiave per pensare oggi le nostre società, ma anche la nostra Chiesa.
La secolarizzazione rappresenta un processo storico molto antico, poiché è nato in Francia a metà del XVIII secolo, prima di estendersi all’insieme delle società moderne.
Tuttavia, la secolarizzazione della società varia molto da un paese all’altro.
In Francia e in Belgio, per esempio, essa tende a bandire i segni dell’appartenenza religiosa dalla sfera pubblica e a riportare la fede nella sfera privata.
Si osserva la stessa tendenza, ma meno forte, in Spagna, in Portogallo e in Gran Bretagna.
Negli Stati Uniti, invece, la secolarizzazione si armonizza facilmente con l’espressione pubblica delle convinzioni religiose: l’abbiamo visto anche in occasione delle ultime elezioni presidenziali.
Da una decina d’anni a questa parte è emerso tra gli specialisti un dibattito molto interessante.
Sembrava, fino ad allora, che si dovesse dare per scontato che la secolarizzazione all’europea costituisse la regola e il modello, mentre quella di tipo americano costituisse l’eccezione.
Ora invece sono numerosi coloro i quali – Jürgen Habermas per esempio – pensano che è vero l’opposto e che anche nell’Europa post-moderna le religioni svolgeranno un nuovo ruolo sociale.
RICOMINCIARE DAL CATECHISMO Qualunque sia la forma che ha assunto, la secolarizzazione ha provocato nei nostri paesi un crollo della cultura cristiana.
I giovani che si presentano nei nostri seminari non conoscono più niente o quasi della dottrina cattolica, della storia della Chiesa e dei suoi costumi.
Questa incultura generalizzata ci obbliga a effettuare delle revisioni importanti nella pratica seguita fino ad ora.
Ne menzionerò due.
Per prima cosa, mi sembra indispensabile prevedere per questi giovani un periodo – un anno o più – di formazione iniziale, di “ricupero”, di tipo catechetico e culturale al tempo stesso.
I programmi possono essere concepiti in modo diverso, in funzione dei bisogni specifici di ciascun paese.
Personalmente, penso a un intero anno dedicato all’assimilazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, che si presenta come un compendio molto completo.
In secondo luogo occorrerebbe rivedere i nostri programmi di formazione.
I giovani che entrano in seminario sanno di non sapere.
Sono umili e desiderosi di assimilare il messaggio della Chiesa.
Si può lavorare con loro veramente bene.
La loro mancanza di cultura ha questo di positivo: non si portano più dietro i pregiudizi negativi dei loro fratelli maggiori.
È una fortuna.
Ci troviamo quindi a costruire su una “tabula rasa”.
Ecco perché sono a favore di una formazione teologica sintetica, organica e che punta all’essenziale.
Questo implica, da parte degli insegnanti e dei formatori, la rinuncia a una formazione iniziale contrassegnata da uno spirito critico – come era stato il caso della mia generazione, per la quale la scoperta della Bibbia e della dottrina è stata contaminata da uno spirito di critica sistematico – e alla tentazione di una specializzazione troppo precoce: precisamente perché manca a questi giovani il background culturale necessario.
Permettetemi di confidarvi alcune domande che mi sorgono in questo momento.
Si ha mille volte ragione di voler dare ai futuri sacerdoti una formazione completa e d’alto livello.
Come una madre attenta, la Chiesa desidera il meglio per i suoi futuri sacerdoti.
Per questo i corsi si sono moltiplicati, ma al punto di appesantire i programmi in un modo a mio parere esagerato.
Avete probabilmente percepito il rischio dello scoraggiamento in molti dei vostri seminaristi.
Chiedo: una prospettiva enciclopedica è forse adatta per questi giovani che non hanno ricevuto alcuna formazione cristiana di base? Questa prospettiva non ha forse provocato una frammentazione della formazione, un’accumulazione dei corsi e un’impostazione eccessivamente storicizzante? È davvero necessario, per esempio, dare a dei giovani che non hanno mai imparato il catechismo una formazione approfondita nelle scienze umane, o nelle tecniche di comunicazione? Consiglierei di scegliere la profondità piuttosto che l’estensione, la sintesi piuttosto che la dispersione nei dettagli, l’architettura piuttosto che la decorazione.
Altrettante ragioni mi portano a credere che l’apprendimento della metafisica, per quanto impegnativo, rappresenti la fase preliminare assolutamente indispensabile allo studio della teologia.
Quelli che vengono da noi hanno spesso ricevuto una solida formazione scientifica e tecnica – il che è una fortuna – ma la loro mancanza di cultura generale non permette ad essi di entrare con passo deciso nella teologia.
DUE GENERAZIONI, DUE MODELLI DI CHIESA In numerose occasioni ho parlato delle generazioni: della mia, di quella che mi ha preceduto, delle generazioni future.
È questo, per me, il nodo cruciale della presente situazione.
Certo, il passaggio da una generazione all’altra ha sempre posto dei problemi d’adattamento, ma quello che viviamo oggi è assolutamente particolare.
Il tema della secolarizzazione dovrebbe aiutarci, anche qui, a comprendere meglio.
Essa ha conosciuto un’accelerazione senza precedenti durante gli anni Sessanta.
Per gli uomini della mia generazione, e ancor di più per coloro che mi hanno preceduto, spesso nati e cresciuti in un ambiente cristiano, essa ha costituito una scoperta essenziale, la grande avventura della loro esistenza.
Sono dunque arrivati a interpretare l'”apertura al mondo” invocata dal Concilio Vaticano II come una conversione alla secolarizzazione.
Così di fatto abbiamo vissuto, o persino favorito, un’autosecolarizzazione estremamente potente nella maggior parte delle Chiese occidentali.
Gli esempi abbondano.
I credenti sono pronti a impegnarsi al servizio della pace, della giustizia e delle cause umanitarie, ma credono alla vita eterna? Le nostre Chiese hanno compiuto un immenso sforzo per rinnovare la catechesi, ma questa stessa catechesi non tende a trascurare le realtà ultime? Le nostre Chiese si sono imbarcate nella maggior parte dei dibattiti etici del momento, sollecitate dall’opinione pubblica, ma quanto parlano del peccato, della grazia e della vita teologale? Le nostre Chiese hanno dispiegato felicemente dei tesori d’ingegno per far meglio partecipare i fedeli alla liturgia, ma quest’ultima non ha perso in gran parte il senso del sacro? Qualcuno può negare che la nostra generazione, forse senza rendersene conto, ha sognato una “Chiesa di puri”, una fede purificata da ogni manifestazione religiosa, mettendo in guardia contro ogni manifestazione di devozione popolare come processioni, pellegrinaggi, eccetera? L’impatto con la secolarizzazione delle nostre società ha trasformato profondamente le nostre Chiese.
Potremmo avanzare l’ipotesi che siamo passati da una Chiesa di “appartenenza”, nella quale la fede era data dal gruppo di nascita, a una Chiesa di “convinzione”, in cui la fede si definisce come una scelta personale e coraggiosa, spesso in opposizione al gruppo di origine.
Questo passaggio è stato accompagnato da variazioni numeriche impressionanti.
Le presenze sono diminuite a vista d’occhio nelle chiese, nei corsi di catechesi, ma anche nei seminari.
Anni fa il cardinale Lustiger aveva tuttavia dimostrato, cifre alla mano, che in Francia il rapporto fra il numero dei sacerdoti e quello dei praticanti effettivi era restato sempre lo stesso.
I nostri seminaristi, così come i nostri giovani sacerdoti, appartengono anch’essi a questa Chiesa di “convinzione”.
Non vengono più tanto dalle campagne, quanto piuttosto dalle città, soprattutto delle città universitarie.
Sono cresciuti spesso in famiglie divise o “scoppiate”, il che lascia in loro tracce di ferite e, talvolta, una sorta d’immaturità affettiva.
L’ambiente sociale di appartenenza non li sostiene più: hanno scelto di essere sacerdoti per convinzione e hanno rinunciato, per questo fatto, ad ogni ambizione sociale (quello che dico non vale dovunque; conosco delle comunità africane in cui la famiglia o il villaggio portano ancora delle vocazioni sbocciate nel loro seno).
Per questo essi offrono un profilo più determinato, individualità più forti e temperamenti più coraggiosi.
A questo titolo, hanno diritto a tutta la nostra stima.
La difficoltà sulla quale vorrei attirare la vostra attenzione supera dunque la cornice di un semplice conflitto generazionale.
La mia generazione, insisto, ha identificato l’apertura al mondo col convertirsi alla secolarizzazione, nei confronti della quale ha sperimentato un certo fascino.
I più giovani, invece, sono sì nati nella secolarizzazione, che rappresenta il loro ambiente naturale, e l’hanno assimilata col latte della nutrice: ma cercano innanzitutto di prendere le distanze da essa, e rivendicano la loro identità e le loro differenze.
ACCOMODAMENTO COL MONDO O CONTESTAZIONE? Esiste ormai nelle Chiese europee, e forse anche nella Chiesa americana, una linea di divisione, talora di frattura, tra una corrente di “composizione” e una corrente di “contestazione”.
La prima ci porta a osservare che esistono nella secolarizzazione dei valori a forte matrice cristiana, come l’uguaglianza, la libertà, la solidarietà, la responsabilità, e che deve essere possibile venire a patti con tale corrente e individuare dei campi di cooperazione.
La seconda corrente, al contrario, invita a prendere le distanze.
Ritiene che le differenze o le opposizioni, soprattutto nel campo etico, diventeranno sempre più marcate.
Propone dunque un modello alternativo al modello dominante, e accetta di sostenere il ruolo di una minoranza contestatrice.
La prima corrente è risultata predominante nel dopoconcilio; ha fornito la matrice ideologica delle interpretazioni del Vaticano II che si sono imposte alla fine degli anni Sessanta e nel decennio successivo.
Le cose si sono invertite a partire dagli anni Ottanta, soprattutto – ma non esclusivamente – sotto l’influenza di Giovanni Paolo II.
La corrente della “composizione” è invecchiata, ma i suoi adepti detengono ancora delle posizioni chiave nella Chiesa.
La corrente del modello alternativo si è rinforzata considerevolmente, ma non è ancora diventata dominante.
Così si spiegherebbero le tensioni del momento in numerose Chiese del nostro continente.
Non mi sarebbe difficile illustrare con degli esempi la contrapposizione che ho appena descritto.
Le università cattoliche si distribuiscono oggi secondo questa linea di divisione.
Alcune giocano la carta dell’adattamento e della cooperazione con la società secolarizzata, a costo di trovarsi costrette a prendere le distanze in senso critico nei confronti di questo o quell’aspetto della dottrina o della morale cattolica.
Altre, d’ispirazione più recente, mettono l’accento sulla confessione della fede e la partecipazione attiva all’evangelizzazione.
Lo stesso vale per le scuole cattoliche.
E lo stesso si potrebbe affermare, per ritornare al tema di questo incontro, nei riguardi della fisionomia tipica di coloro che bussano alla porta dei nostri seminari o delle nostre case religiose.
I candidati della prima tendenza sono diventati sempre più rari, con grande dispiacere dei sacerdoti delle generazioni più anziane.
I candidati della seconda tendenza sono diventati oggi più numerosi dei primi, ma esitano a varcare la soglia dei nostri seminari, perché spesso non vi trovano ciò che cercano.
Essi sono portatori d’una preoccupazione d’identità  (con un certo disprezzo vengono qualificati talvolta come “identitari”): identità cristiana – in che cosa ci dobbiamo distinguere da coloro che non condividono la nostra fede? – e identità del sacerdote, mentre l’identità del monaco e del religioso è più facilmente percepibile.
Come favorire un’armonia tra gli educatori, che appartengono spesso alla prima corrente, e i giovani che si identificano con la seconda? Gli educatori continueranno ad aggrapparsi a criteri d’ammissione e di selezione che risalgono ai loro tempi, ma non corrispondono più alle aspirazioni dei più giovani? Mi è stato raccontato il caso di un seminario francese nel quale le adorazioni del Santissimo Sacramento erano state bandite da una buona ventina d’anni, perché giudicate troppo devozionali: i nuovi seminaristi hanno dovuto battersi per parecchi anni perché fossero ripristinate, mentre alcuni docenti hanno preferito dare le dimissioni davanti a ciò che giudicavano come un “ritorno al passato”; cedendo alle richieste dei più giovani, avevano l’impressione di rinnegare ciò per cui si erano battuti per tutta la vita.
Nella diocesi di cui ero vescovo ho conosciuto difficoltà simili quando dei sacerdoti più anziani – oppure intere comunità parrocchiali – provavano una grande difficoltà a rispondere alle aspirazioni dei giovani sacerdoti che erano stati loro mandati.
Comprendo le difficoltà che incontrate nel vostro ministero di rettori di seminari.
Più che il passaggio da una generazione ad un’altra, dovete assicurare armoniosamente il passaggio da un’interpretazione del Concilio Vaticano II ad un’altra, e forse da un modello ecclesiale a un altro.
La vostra posizione è delicata, ma è assolutamente essenziale per la Chiesa.
 Il discorso del 15 marzo 2009 nel quale Benedetto XVI ha annunciato l’Anno Sacerdotale con inizio il 19 giugno: > Alla plenaria della congregazione per il clero __________ Altra documentazione sull’Anno Sacerdotale: > Congregazione per il clero __________ Sul caso dei Legionari di Cristo: > La Legione è allo sbando.
Tradita dal suo fondatore
(16.2.2009)

Alla ri-scoperta della didattica laboratoriale

Il perché di un viaggio: ri-scoprire i laboratori La didattica laboratoriale in ogni ordine di scuola, soprattutto in quella primaria, potrebbe a prima vista apparire come un dato scontato, un punto fermo ed inamovibile della vita scolastica quotidiana.
Tuttavia, a livello nazionale, colpiscono i continui richiami al “Laboratorium” presenti nei documenti della Riforma Moratti, ma anche nelle nuove Indicazioni per il curricolo Se la laboratorialità rappresenta una dimensione strategica della didattica, come si possono spiegare i molti richiami al suo valore ed alla sua applicazione? siamo di fronte… – ad un “evergreen”, cioè ad una modalità didattica sempre attuale? – ad un “revival” di esperienze passate (forse un po’ nostalgico)? – ad un qualcosa di cui non è mai stata sperimentata a pieno l’efficacia ? – ad un valore aggiunto (per efficacia, coerenza con le esigenze di apprendimento degli alunni..) nella didattica? A livello invece maggiormente “locale”, può capitare che un intero Collegio di settore (scuola primaria) si interroghi alla ricerca di linee comuni di azione, di chiarimenti circa dubbi ben circostanziati e didatticamente fondati (es.
modalità di valutazione nei laboratori, modalità di attuazione dei LARSA…) afferenti alla didattica laboratoriale.
Da tutto questo è scaturita una ricerca-azione supportata dalla figura della Funzione strumentale al POF e all’Autovalutazione di Istituto che, analizzata la situazione, ha individuato alcuni possibili obiettivi dell’attività di ricerca stessa: – creare una raccolta ragionata, ordinata e completa di tutti i laboratori attivati nell’Istituto, in vista di una socializzazione e di un confronto sulle esperienze svolte nei diversi plessi (fase della ricerca).
Non sempre tutti i docenti sono al corrente di quanto viene svolto begli altri plessi scolastici, soprattutto nel caso (quale il nostro) di istituzioni scolastiche che operano su un territorio piuttosto esteso e comprendono quindi diverse realtà al suo interno; – creare un’occasione per riflettere sui laboratori, facendo emergere le ricchezze presenti nell’Istituto e le domande irrisolte, dal punto di vista sia pedagogico che didattico (fase dell’azione).
Per la consultazione dell’intero contributo vedi gli allegati

“Bad day” (“Brutto giorno”)

Testo della canzone Traduzione   Where is the moment we needed the most You kick up the leaves and the magic is lost They tell me your blue skies  fade to grey They tell me your passion’s gone away And I don’t need no carryin’ on You stand in the line just to hit a new low You’re faking a smile with the coffee to go You tell me your life’s been way off line You’re falling to pieces everytime And I don’t need no carryin’ on Cause you had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day The camera don’t lie You’re coming back down and you really don’t mind You had a bad day You had a bad day Well you need a blue sky holiday The point is they laugh at what you say And I don’t need no carryin’ on You had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day The camera don’t lie You’re coming back down and you really don’t mind You had a bad day Sometimes the system goes on the blink And the whole thing turns out wrong You might not make it back and you know That you could be well oh that strong And I’m not wrong So where is the passion when you need it the most Oh you and I You kick up the leaves and the magic is lost Cause you had a bad day You’re taking one down You sing a sad song just to turn it around You say you don’t know You tell me don’t lie You work at a smile and you go for a ride You had a bad day You’ve seen what you like And how does it feel for one more time You had a bad day You had a bad day Dov’è il momento di cui più abbiamo bisogno? prendi a calci le foglie e la magia s’è persa dicono che il tuo cielo blu si sia sbiadito nel grigio dicono che la tua passione sia andata via e non ho bisogno di riportartela Sono stato lì in coda solo per evitare un’altra tristezza Stai facendo uno dei tuoi sorrisini falsi mentre prendi il caffè mi dici che la tua vita è stata disconnessa stai cadendo in pezzi ogni volta e io non ho bisogno di portarti avanti perché hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno la macchina fotografica non mente stai tornando indietro e davvero non t’importa Hai avuto un brutto giorno Hai avuto un brutto giorno Beh hai bisogno di una vacanza da cielo blu il punto è che loro ridono di quel che dici ed io non ho bisogno di portare avanti Hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno la macchina fotografica non mente stai tornando indietro e davvero non t’importa Hai avuto un brutto giorno A volte il sistema si guasta e l’intera cosa è sbagliata tu potresti non aggiustarla mai, lo sai che potresti stare bene, oh così forte bene, io non mi sbaglio Quindi dov’è la passione quando ne hai bisogno di più? oh, io e te Hai preso a calci le foglie e la magia s’è persa perché hai avuto un brutto giorno hai passato un giorno “no” canti una canzone triste solo per voltare pagina dici di non sapere niente dici di non dire bugie lavori sorridendo e esci per una passeggiata Hai avuto un brutto giorno hai visto quel che ti piace e come ci si sente per una volta in più Hai avuto un brutto giorno Hai avuto un brutto giorno     Alcuni spunti per la rilettura e per le attività sul video   –          Vediamo il video insieme ai ragazzi: non importa se qualcuno si metterà a canticchiare la canzone durante la proiezione, probabilmente molti di loro già conoscono le scene del videoclip.
–          Consegniamo a ciascun ragazzo un foglio con la riproduzione del cartellone della pubblicità che compare nel video.
Su quel poster c’è scritta la parola “shine”, che, tra le varie traduzioni possibili, significa anche “fatti notare”.
Proponiamo loro di disegnare sopra qualcosa proprio per farsi notare, per richiamare l’attenzione: ognuno dovrà pensare all’ipotetico mittente (o mittenti) del proprio “messaggio in codice” e poi…
lasciar spazio alla creatività! Partendo dal cartellone si potrà esprimere una propria esigenza, un desiderio, una richiesta d’aiuto, l’esternazione di qualche sentimento, la condivisione di un concetto…
Il tutto si deve svolgere in silenzio (oppure con una buona musica di sottofondo, magari proprio “bad day”).
–          Fatto questo, tutti chiuderanno a metà il proprio foglio che verrà raccolto assieme agli altri (in una scatola oppure lasciandoli al centro del tavolo).
–          Ogni ragazzo pescherà poi un foglio a caso e dovrà completare il disegno lasciato da qualcun altro…
E poi rimescolare i fogli e così via.
  Non si direbbe, ma piano piano, filo dopo filo, i ragazzi hanno costruito una rete: ognuno ha completato il disegno di qualcun altro, ognuno ha aggiunto un elemento innovativo al quadro dipinto da uno “sconosciuto”.
Certo, manca il contatto diretto, manca la parola espressa di persona…
manca quell’ombrello che si apre per proteggere l’altro e invitarlo così ad abbracciare e conoscere una parte di se stessi.
  –          Come conclusione si potrebbe proporre un’altra videoclip: “In this world” di Moby.
Il video mostra dei buffi extraterrestri che partono con dei cartelloni in mano per un contatto con gli umani.
Una volta sbarcati sul nostro pianeta, gli alieni si rivelano essere minuscoli e i passanti non si accorgono nemmeno della loro presenza.
La fine del video è simpatica e interessante: gli extraterrestri ripartono sconsolati.
Ma non si abbattono: realizzano un cartellone più grande e si capisce che ritenteranno un contatto! –          Possibili spunti aggiuntivi: o        le distrazioni che ci impediscono di accorgerci delle piccole cose.
o        Non fermarsi alla prima delusione; alle volte basta “un cartellone più grande”.
  Video musicale proposto: “Bad day” di Daniel Powter (titolo tradotto: “Brutto giorno”)   Parole chiave: routine vs.
novità, coraggio di buttarsi, orizzonte nuovo.
  Riassunto del video: è la storia di un ragazzo e una ragazza, entrambi single, che ogni mattina si svegliano per affrontare la consueta routine: si preparano per andare al lavoro, prendono la metropolitana, partecipano ad una riunione, etc…
Lo spettatore segue le loro vite in modo parallelo per tre giorni, anche se, proprio per sottolineare la ripetitività delle loro azioni, non c’è alcuna distinzione tra le giornate.
Il momento che cambierà le loro vite avviene quando cominciano entrambi a lasciare dei disegni (in tempi differenti) su un cartellone pubblicitario della metrò: man mano che i graffiti procedono, i due andranno a completare insieme un cuore.
Il video si conclude con il loro incontro reale: sotto una pioggia scrosciante, mentre la ragazza sta per prendere un taxi, il ragazzo arriva aprendo un ombrello per proteggere lei dalla pioggia, proprio come disegnato sul cartellone.
  Questo è il video di una canzone dell’artista canadese Daniel Powter che ha riscosso un enorme successo nel 2005; sebbene sia passato del tempo è probabile che i ragazzi se la ricordino, dato che è stata trasmessa per svariati mesi su tutte le radio.
Non preoccupiamoci troppo del fatto che il testo è in inglese: a noi interessano principalmente i gesti, i comportamenti, i personaggi narrati attraverso il video.
Ad ogni modo di seguito c’è anche la traduzione della canzone.
   

Per la valutazione degli alunni

Lo scorso 28 maggio 2009 il Consiglio dei Ministri ha approvato in via definitiva, insieme ai Regolamenti per la nuova Istruzione tecnica e professionale (in prima lettura), l’atteso Regolamento sulla valutazione degli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado.
In attesa che il Regolamento venga promulgato dal Capo dello Stato, registrato dalla Corte dei Conti e infine pubblicato in Gazzetta Ufficiale, Tuttoscuola ha redatto una Guida breve alla valutazione degli alunni, a beneficio di tutti gli operatori scolastici e i soggetti interessati a capire che cosa cambierà a seguito del provvedimento.
E’ bene notare che alcuni degli aspetti contenuti nel Regolamento sono già stati definiti dalla legge 169/2008 e dal decreto ministeriale n.
5/2009 e sono quindi operativi fin da subito, mentre altri per essere applicabili attendono la conclusione dell’iter del Regolamento, e ciò sta alimentando tra operatori scolastici, genitori e studenti molti dubbi.
Per chiarirli, la Guida esamina, in una forma semplice e divulgativa, le vecchie disposizioni normative in tema di valutazione e le nuove, con riferimento a tutti i gradi di scuola (primaria, secondaria di I grado e secondaria di II grado), la certificazione delle competenze e gli strumenti della valutazione.
I voti invece dei giudizi, il cinque in condotta, le nuove modalità di ammissione agli esami di terza media e di maturità, il “sei rosso” per evitare le bocciature in massa, la certificazione delle competenze e tutte le altre novità in materia di valutazione degli alunni sono ora reperibili nella Guida online pubblicata dalla nostra rivista.
Basta cliccare sul banner qui sopra.
Molte di queste novità, come i voti al posto dei giudizi, entrano in vigore già dal corrente anno scolastico 2008-2009 perché sono direttamente contenute nella legge n.
169/2008.
Altre sono state invece inserite in un regolamento di coordinamento di tutte le norme sulla valutazione, varato il 28 maggio 2009, che tuttavia non ha ancora completato il suo iter di approvazione e potrà entrare in vigore solo con il prossimo anno scolastico 2009-2010.
Tra norme già in vigore e norme di prossima attuazione si è venuto a determinare un quadro nel quale si sovrappongono il vecchio con il nuovo ordinamento, il certo con l’incerto, ciò che è rimesso all’autonomia decisionale delle scuole e degli insegnanti e ciò che non lo è.
Tutto ciò ha generato incertezza e disorientamento.
La Guida rapida di Tuttoscuola intende fare chiarezza e dare certezza del diritto agli insegnanti, alle famiglie e a chi ha interesse a conoscere il nuovo sistema di valutazione.
La Guida contiene anche alcuni suggerimenti e criteri applicativi nei casi in cui le disposizioni lasciano alle scuole potere discrezionale di intervento.
La Guida è divisa in due parti: la prima presenta gli aspetti generali delle novità argomento per argomento (i voti invece dei giudizi, l’ammissione alla classe successiva e agli esami, le nuove regole per gli esami di licenza e di maturità, la validità dell’anno scolastico, la certificazione delle competenze e altro); la seconda ripercorre le norme per livello di scuola (primaria, secondaria di I grado e secondaria di II grado), in modo da agevolare la consultazione.
Per la consultazione http://www.tuttoscuola.com/speciali/valutazione_alunni.pdf

Domenica della SS. Trinità anno B

Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 4,32-34.39-40 Mosè parlò al popolo dicendo: «Interroga pure i tempi antichi, che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da un’estremità all’altra dei cieli, vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco, come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo? O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un’altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso e grandi terrori, come fece per voi il Signore, vostro Dio, in Egitto, sotto i tuoi occhi? Sappi dunque oggi e medita bene nel tuo cuore che il Signore è Dio lassù nei cieli e quaggiù sulla terra: non ve n’è altro.
Osserva dunque le sue leggi e i suoi comandi che oggi ti do, perché sia felice tu e i tuoi figli dopo di te e perché tu resti a lungo nel paese che il Signore, tuo Dio, ti dà per sempre».
La pericope conclude il primo dei tre grandi discorsi di Mosè che costituiscono il libro del Deuteronomio, la «seconda Legge».
Siamo nella pianura di Moab, alle porte della Terra promessa, e Mosè ricapitola per il popolo sempre riottoso la storia meravigliosa della liberazione dall’Egitto, con l’esortazione ripetuta a osservare la Legge, non per paura dei castighi o per sottomissione a un Dio tiranno, ma per risposta d’amore a un’elezione d’amore.
In questi versetti, si ribadisce l’unicità di Dio e del popolo che Egli si è scelto, non per merito degli Israeliti ma per amore gratuito.
Il motivo classico dell’elezione di Israele e della sua particolarità (vv.
32-38) è parallelo a quello dell’unicità del Dio di Israele (v.
39).
vv.
32-34 – Una serie di domande retoriche, che si ricollegano a quelle con cui il discorso di Mosè si era aperto (4, 7-8), riassume le grandi opere di Dio, dalla creazione (v.
32) alla teofania di Sinai (v.
33) fino ai prodigi e ai miracoli dell’Esodo (v.
34).
Nel confronto con gli altri popoli, che seguono altri dèi, è affermata la grandezza del Dio d’Israele; e insieme la familiarità di Dio con il suo popolo, che può ascoltarne la voce e restare in vita (cf.
Es 24,11).
L’espressione «con mano potente e braccio teso» (v.
34), che rappresenta Dio alla guida del popolo nell’attraversamento del mare e del deserto, riprende la tipologia regale egiziana; ve ne è traccia anche nelle lettere di El-Amarna.
vv.
39-40 – Sono espressioni caratteristiche del Deuteronomio.
La proclamazione del monoteismo (v.
39) corrisponde allo Shemà Israel (Deut 6,4: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno»); l’incentivo materiale per incoraggiare l’osservanza della Legge (v.
40 «perché sii felice…») riecheggia i motivi della letteratura sapienziale.
Seconda lettura: Romani 8,14-17 Fratelli, tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!».
Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio.
E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria.
Il brano prosegue nella spiegazione dei frutti dello Spirito, iniziata con Rm 8,1-11: lo Spirito non solo da la vita nuova, ma rende figli adottivi e eredi di Dio.
Appare qui per la prima volta nella lettera il tema dell’adozione.
«Spirito che rende figli adottivi» (pneuma yiothesì as) è un termine sconosciuto alla traduzione dei LXX, e non proviene quindi a Paolo dall’Antico Testamento, ma piuttosto dal linguaggio giuridico del mondo greco-romano.
In Israele infatti l’istituto dell’adozione non era pratica abituale tranne rari casi riguardanti schiavi o mèmbri della famiglia.
Il concetto di figliolanza divina è tuttavia uno sviluppo dell’idea veterotestamentaria dell’elezione di Israele (cf.
Deut 4,34), che viene chiamato più volte «il mio primogenito» (cf.
Es 4,22; Is 1,2; Ger 3.19-22; 31,9; Os 11,1) anche se sempre come entità collettiva di popolo e non come singolo individuo credente.
Per Paolo, il dono dello Spirito inserisce nella famiglia di Dio, è quindi alla base dell’adozione, costituisce propriamente la figliolanza.
v.
14 – «guidati dallo Spirito di Dio»: si tratta di ciò che i teologi chiameranno la «grazia preveniente», l’influenza attiva dello Spirito nella vita cristiana.
vv.
15-16- Introdotti da gar (infatti), questi due versetti spiegano il v 14.
I cristiani non hanno ricevuto uno spirito da schiavi, ma da figli: Paolo gioca sul senso della parola pneuma, che indica sia lo Spirito di Dio sia il nostro spirito.
L’affermazione fondamentale di questo passo è siamo figli di Dio.
Anche l’espressione aramaica Abbà, come modo di rivolgersi a Dio, è assente dall’Antico Testamento, dove la relazione filiale (cf.
Deut 14 1) è sempre corporativa e non individuale, se si eccettua l’invocazione di Sl 89,27 (Sap 2,16 è in un contesto descrittivo).
Qui viene subito tradotta (Abbà ho patèr), in quanto Paolo si rivolge a una comunità di cristiani provenienti dai Gentili.
v.
17 – Vengono ora le conseguenze escatologiche di questa condizione, ovvero l’eredità che assimila al Cristo, partecipi della sua passione e della sua gloria.
Ritornano qui i verbi caratteristici in Paolo composti con la particella syn (con).
Vangelo: Matteo 28,16-20 In quel tempo, gli undici discepoli andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
Quando lo videro, si prostrarono.
Essi però dubitarono.
Gesù si avvicinò e disse loro: «A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.
Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato.
Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo».
Esegesi I versetti conclusivi del Vangelo di Matteo rivolgono lo sguardo alla continuazione dell’opera nella comunità cristiana, rendendo esplicito il mandato missionario all’esterno di Israele, altrove solo accennato.
v.
16 – L’apertura alle genti era già indicata nel v.
7: «vi precede in Galilea».
Il ritorno dei discepoli in Gallica, determinato forse anche dalla necessità di allontanarsi da Gerusalemme per non essere arrestati subito dopo la Crocifissione, assume un significato teologico visto come obbedienza all’invito di Gesù, e un valore simbolico in rapporto alla missione.
La Galilea infatti, abitata in prevalenza da pagani, rappresenta «i popoli» del v.
19.
Già vi si era ritirato Gesù dopo l’arresto di Giovanni, e da lì aveva cominciato la sua predicazione (Mt 4, 12-17; cf.
anche Is 8, 23: «la Galilea delle Nazioni», Gelil haggoîm).
Gli Undici si recano dunque all’appuntamento, su un monte che è difficile identificare: il monte delle Beatitudini? il Tabor? Anche qui prevale il valore simbolico del «monte», collegato spesso nell’Antico come nel Nuovo Testamento a teofanie o rivelazioni.
v.
17 – La prostrazione (prosekynesan, latino adoraverunt) manifesta il riconoscimento della divinità di Gesù, una fede post-pasquale matura, che presuppone una comunità già consapevole e strutturata, e probabilmente un’epoca posteriore.
L’affermazione infatti è subito mitigata dalla seguente: «alcuni però dubitavano», che ci riporta all’esperienza immediata delle apparizioni del Risorto: cfr.
Mc 16, 8.11.13; Lc 24,37; Giov 21,12).
vv.
18-19 – Gesù si identifica con il «Figlio dell’Uomo» del libro di Daniele (Dan 7, 13-14), cui viene attribuito un potere eterno e universale: «tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano».
Da questo potere universale discende la missione universale degli Apostoli: limitata a Israele nei giorni del suo ministero terreno (cf.
15, 24), ora la predicazione della parola di Gesù è estesa a tutti i popoli.
Segue il comando specifico di «battezzare nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo», presente solo qui in forma così definita e completa.
Il battesimo indica l’atto di iniziazione nella comunità cristiana, e presuppone significati presenti anche altrove nel Nuovo Testamento: la purificazione con l’acqua e il pentimento (cf.
il battesimo di Giovanni Battista), ma anche il perdono e la professione di fede in Gesù come Messia e Signore.
Più che una formula liturgica (che si precisa più tardi) si tratta qui di una descrizione di ciò che il battesimo opera nel neofita: l’espressione «nel nome…» descrive l’entrata in comunione con il Padre, il Figlio e lo Spirito.
Il concetto di Dio Trinità è antico quanto la comunità cristiana, quale la conosciamo dagli scritti del Nuovo Testamento: cf.
1Cor 12, 4-6; 2Cor 13,13; 1Pt 1,2; 1Giov 3,23-24.
Questo naturalmente lascia impregiudicata la delicata questione di quanto si possa retroproiettare alla comunità immediatamente post-pasquale una consapevolezza trinitaria formulata secondo la mentalità post-nicena.
v.
20 – Il comando dato già ai discepoli di proclamare l’avvento del Regno (10,7) e guarire gli infermi (10,1.8) è completato, ora che Gesù non svolge più il suo ministero in mezzo a noi, da quello di «insegnare».
Il passo appartiene agli stadi più recenti della tradizione, quando il ritardo della parusia richiedeva anche un’assicurazione e un conforto per i discepoli rimasti in attesa: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (cf.
18,20).
La fine tante volte annunciata (cf.
13,39.49; 24,3) non è evidentemente più sentita così vicina.
Meditazione La Bibbia, pur affermando che Dio è sempre Altro e Oltre il nostro pensiero, si presenta come “rivelazione”, cioè come uno squarcio nel velo di silenzio che nasconde il mistero divino.
La rivelazione cristiana apre ulteriori orizzonti in questa luce invalicabile, che «l’uomo non può vedere continuando a restare in vita», come si ripete spesso nell’Antico Testamento.
Appare, così accanto al Padre, il Figlio inviato nel mondo e lo Spirito vivificatore, e nel nome della Trinità noi apriamo questa e ogni altra liturgia, concludiamo ogni preghiera ed è benedetta ogni persona e cosa.
Due sono i testi dell’odierna liturgia che esaltano questa rivelazione nuova del mistero divino.
Il primo è tratto dal capitolo ottavo della lettera ai Romani, il vertice del pensiero paolino ove con un suggestivo contrappunto l’apostolo presenta due “spiriti”.
C’è innanzitutto lo spirito dell’uomo, cioè il principio del suo esistere, del suo operare, del suo amare e del suo peccare, della sua libertà e della sua schiavitù.
Ma c’è anche uno Spirito di Dio, principio del suo amore e della sua comunicazione all’uomo.
Ebbene, questo Spirito divino penetra nello spirito dell’uomo, lo invade come un vento che tutto avvolge e permea.
La creatura che accoglie e si lascia conquistare da questo Spirito viene trasformata da figlio dell’uomo in figlio di Dio, diventa membro della sua famiglia, è ufficialmente dichiarato coerede del primogenito di Dio, il Cristo.
Paolo, quindi, proclama una vera e propria ammissione dell’uomo all’interno della vita divina.
Questo ingresso avviene attraverso il battesimo, visto come radice dell’intera vicenda cristiana, e attraverso l’ascolto obbediente della Parola.
È ciò che è lapidariamente formulato nella scena finale del Vangelo di Matteo che oggi domina la nostra liturgia.
In Gallica non si danno solo appuntamento il Cristo risorto e gli Undici, ma il mistero di Dio e quello della Chiesa.
Da un lato, infatti, il Cristo glorioso appare nello splendore più puro della sua divinità; egli è per eccellenza “superiore” e trascendente rispetto a tutta la realtà creata: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra».
Davanti a lui l’uomo si prostra in adorazione.
La sua presenza non è come quella di una persona terrena.
È una presenza che dev’essere scoperta attraverso la via della fede, ed è per questo che conosce anche l’esitazione, l’oscurità, il dubbio.
D’altra parte, però, Cristo è vicino, è «con noi tutti i giorni» e in tutte le epoche storiche.
Soprattutto è operante all’interno della Chiesa a cui comunica la sua Parola e la sua grazia salvifica.
Infatti alla Chiesa egli affida il compito di annunziare all’umanità «tutto ciò che egli ha comandato», coinvolgendo ogni uomo nella salvezza: l’«ammaestrate» della versione del Vangelo, che oggi leggiamo, nell’originale suona meglio come un «fare discepoli» i popoli.
Per la Bibbia, quindi, il mistero infinito di Dio non respinge ma accoglie in sé i nostri piccoli misteri, immergendoli nella sua luce infinita.
Non dobbiamo, perciò, considerare Dio solo come oggetto di discussione filosofica e teologica, non dobbiamo solo parlare in modo distaccato e freddo di Dio e della Trinità.
Dobbiamo anche parlare a Dio in un dialogo di intimità e di vita che lui stesso ha inaugurato.

L’Irc negli scrutini finali

Gli scrutini finali di questo anno scolastico si presentano come un gran pasticcio.
Il susseguirsi di annunci e smentite, regolamenti e circolari, ha creato un’incertezza tale che ne trarranno vantaggio solo gli avvocati per il gran numero di ricorsi che potranno promuovere.
Il regolamento della valutazione, che sarebbe dovuto uscire già da tempo, ha avuto un iter più lento del previsto e potrà entrare in vigore solo a scrutini ultimati.
Si sono quindi rese necessarie le CCMM 50 e 51 del 20-5-2009, che hanno riepilogato la normativa vigente nella fase transitoria in cui è già in vigore la legge 169/08 (che ha reintrodotto il voto numerico nel primo ciclo e ha inserito la valutazione del comportamento tra i fattori determinanti per la promozione) ma non è ancora in vigore il regolamento che doveva stabilire ulteriori modalità applicative della nuova normativa.
In questa fase di transizione, per esempio, nell’esame di primo ciclo non potrà far media il voto di idoneità con cui lo studente è ammesso all’esame, ma farà media per l’ammissione il voto di comportamento.
Sull’Irc le circolari citate tacciono nella maniera più assoluta, e questo silenzio può solo accrescere l’incertezza maturata nel corso dell’anno.
L’ultimo riferimento normativo è la CM 10 del 23-1-2009, che in maniera un po’ criptica si limitava a ricordare l’applicazione delle «specifiche norme vigenti» per l’Irc.
Il nodo è, come sempre, l’uso del voto numerico, ma si è posto da più parti anche il caso del peso complessivo che deve avere l’Irc nel determinare l’ammissione alla classe successiva o all’esame.
Nella confusione generale sono infatti venuti meno anche quei pochi punti di riferimento che finora erano dati dalle «specifiche norme vigenti».
Vediamo allora di riepilogare il quadro normativo.
La CM 50/09 ricorda come dalla legge 169/08 discenda la promozione solo in presenza di un voto non inferiore a sei decimi in ogni disciplina di studio.
Deve rientrare tra queste anche l’Irc o l’Irc non è una disciplina di studio? È chiaro che, dovendosi applicare la normativa previgente, l’Irc deve esprimersi con un giudizio che, quand’anche di insufficienza, non può essere immediatamente considerato «inferiore a sei decimi».
Ma ciò non vuol dire che l’Irc sia stato escluso dal novero delle discipline di studio o che la sua valutazione sia del tutto ininfluente in sede di scrutinio finale (anche se il fatto di non poter essere compreso nella “media” lo rende irrilevante agli occhi di molti studenti e anche di qualche insegnante).
Per capire come stanno le cose occorre distinguere tra l’insegnamento e l’insegnante: il primo è oggetto di specifiche restrizioni, il secondo fa «parte della componente docente negli organi scolastici con gli stessi diritti e doveri degli altri insegnanti» (Intesa, 2.7).
Se è vero che l’Irc non partecipa alla media dei voti e viene valutato mediante giudizi verbali, è tuttavia altrettanto vero che l’Idr partecipa agli scrutini periodici e finali, come ricorda anche la CM 51/09 per quanto riguarda l’ammissione all’esame di primo ciclo (assicurando peraltro un’identica posizione agli insegnanti di attività alternative, invece esclusi dal regolamento non ancora in vigore).
Vale qui il controverso testo dell’Intesa-bis del 1990, che aveva introdotto specifiche disposizioni proprio relative allo scrutinio finale, quando, «nel caso in cui la normativa statale richieda una deliberazione da adottarsi a maggioranza, il voto espresso dall’insegnante di religione cattolica, se determinante, diviene un giudizio motivato iscritto a verbale».
A seguito di numerosi ricorsi amministrativi che avevano tentato di negare valore determinante al voto dell’Idr nello scrutinio finale, si è affermato un orientamento giurisprudenziale che invece riconosce all’Idr piena partecipazione alla determinazione della maggioranza deliberante, con l’unico onere di dover motivare il proprio voto nel verbale.
La prima sentenza in tal senso è del 1994 da parte del Tar di Puglia (sez.
Lecce); dieci anni dopo si è pronunciato definitivamente anche il Consiglio di Stato (sez.
VI, ord.
5822 del 3-12-2004), riconoscendo che il voto dell’Idr non può perdere la sua rilevanza ai fini della valutazione finale.
Quindi ormai è chiaro che il voto dell’Idr non va scorporato, pena l’invalidazione dello scrutinio e delle sue decisioni.
In un certo senso possiamo dire che, mentre l’Irc è diverso dalle altre materie in sede di valutazione finale, l’Idr è uguale agli altri docenti ed è pienamente determinante per l’esito dello scrutinio, a prescindere dal fatto che la sua valutazione sia espressa con un voto o un giudizio.
L’equivoco sta tutto nell’uso dei numeri al posto dei giudizi: con i numeri si possono fare operazioni che con i giudizi non sono possibili.
È stato enfatizzato a sproposito il valore della “media”, riducendo un’operazione complessa come la valutazione a un semplice calcolo aritmetico.
Ma l’esito di un anno scolastico non è il risultato di un calcolo aritmetico; è l’effetto di una decisione collegiale che precede la traduzione numerica del profitto.
L’uso dei voti favorisce questi equivoci, ma almeno gli Idr dovrebbero essere consapevoli del proprio ruolo in sede valutativa e non accettare semplificazioni improprie.

La storia censurata della Russia del Novecento

Il libro Lo zar e il patriarca.
I rapporti tra trono e altare in Russia dalle origini ai giorni nostri, di Giovanni Codevilla (Milano, La Casa di Matriona, 2008, pagine 520, euro 25) è stato presentato al Centro Russia ecumenica di Roma.
Riportiamo ampi stralci dell’intervento di uno dei relatori.
Lo studio della storia religiosa ha conosciuto una marginalizzazione nel quadro degli studi sulla Russia novecentesca.
Durante il periodo sovietico, il dogma di un Paese che aveva fatto sua l’opzione dell’ateismo, insita nella cifra ideologica dello Stato bolscevico, si è come riflesso nella storiografia.
La religione, pere itok proslogo (“sopravvivenza residuale del passato”) come si ripeteva frequentemente nel discorso sovietico, non appariva come uno snodo significativo per la comprensione di quelle vicende storiche che sembravano centrate su dimensioni di altra natura.
In una qualche misura la vita religiosa ha continuato anche dopo la fine dell’Unione Sovietica a restare ai margini della riflessione storiografica sulla Russia del Novecento.
Le vicende religiose nella storia sovietica potevano essere al massimo oggetto di indagini per studiosi specializzati.
A uno sguardo più avvertito alle vicende della Russia novecentesca non dovrebbe però sfuggire come sia eccessivamente sbrigativo il giudizio bolscevico, tanto più in una prospettiva storiografica.
Infatti, la società, la cultura, la stessa politica russe nel lungo periodo appaiono profondamente permeate di contenuti e di senso religiosi, come il nostro libro mette ben in luce.
Basta solo rileggere le pagine dedicate al mondo delle campagne e alla sua distruzione con la collettivizzazione.
Gli esiti del censimento del 1937, con la sua storia misteriosa e tragica, quando più della metà della popolazione sovietica si dichiarò credente, in modo lampante mostrarono come la fede religiosa non fosse stata estirpata dalla società.
Le dinamiche sociali della realtà sovietica possono essere comprese solo in modo parziale se si espunge dal campo di ricerca la dimensione religiosa.
Analogamente occorre considerare che per il potere comunista, nonostante le dichiarazioni sul carattere residuale della fede religiosa, tale questione non era affatto secondaria.
La realtà di un rapporto intimo fra Russia e ortodossia non ha cessato di esistere anche nel periodo sovietico, sebbene abbia operato negli strati profondi del fluire della storia.
L’identità russa ha nella tradizione ortodossa un elemento fondante.
“Non è possibile separare la storia della Chiesa russa dalla storia della Russia (…) Come l’ortodossia è uno dei fattori più importanti nella storia della Russia, così anche i destini della Russia determinano il destino dell’ortodossia russa” ha scritto un fine teologo e profondo conoscitore della cultura russa, Aleksandr Smeman.
Cristianesimo ortodosso e Russia costituiscono un binomio indivisibile.
Vasilij Rozanov, pensatore tormentato e contraddittorio, ma di acuta capacità di giudizio, ha scritto: “Colui che ama il popolo russo non può non amare la Chiesa.
E questo perché il popolo e la sua Chiesa sono uno solo.
E solo presso i russi questi due elementi ne formano uno solo”.
Eppure la vicenda novecentesca sembra contraddire questa affermazione.
È stata infatti la vicenda di una esplosione violenta di odio e di persecuzione proprio nei confronti della Chiesa e dei credenti.
Codevilla ne ripercorre le pagine, ne riporta i dati, secondo quelle che sono le acquisizioni più recenti e documentate della storiografia.
La vicenda della Chiesa russa nel Novecento si è caratterizzata per una particolare drammaticità.
Una grande Chiesa, quale era quella radicata nella Russia zarista, è stata investita da un’ondata persecutoria di intensità e di durata per molti versi inedita.
Le repressioni hanno provocato tra gli ortodossi russi, secondo stime attendibili, almeno un milione di vittime solo per motivi di fede.
Le persecuzioni furono sanguinose e distruttive, soprattutto negli anni Venti e Trenta.
La storia della Chiesa russa nel periodo sovietico è stata vicenda di persecuzione e martirio, di repressione e forme di resistenza, di oppressione e tecniche di sopravvivenza.
Lo scontro con il regime totalitario fu lacerante.
Il pericolo di una disgregazione della Chiesa a causa delle molteplici scissioni al suo interno non fu fittizio.
Si trattò di una minaccia reale con cui i vertici ecclesiastici furono costretti a misurarsi dagli anni della guerra civile.
La divisione, d’altronde, risvegliava nella coscienza della Chiesa il dolore per una ferita mai sanata della storia dell’ortodossia russa, quella del raskol, cioè dello scisma consumatosi alla metà del XVIi secolo con la nascita dei “vecchi credenti”.
L’unità della Chiesa era stata intaccata e con essa s’era incrinata l’unità della stessa Russia.
Quali le priorità per la Chiesa russa in una condizione di estrema precarietà come quella consentitale dal regime bolscevico? Le scelte compiute da coloro che avevano in mano il governo della Chiesa sono state controverse.
Hanno suscitato conflitti e aspri dibattiti tra i protagonisti, con riflessi inevitabili sulla storiografia.
Resistenza e compromesso, martirio e trattativa, intransigenza e flessibilità, denuncia e silenzio sono apparsi come alternative irriducibili.
Da un punto di vista storiografico si va delineando un quadro nel quale tutti questi diversi e a volte contrastanti atteggiamenti si collocano non solo e non sempre come alternative così stringenti, ma anche e sovente come aspetti diversi della vita complicata e drammatica di una Chiesa nelle strette di un regime totalitario.
Si trattava di opzioni che attraversavano la vita, la coscienza, le scelte di ogni singolo ecclesiastico e credente.
All’interno della Chiesa ortodossa russa molteplici erano i punti di osservazione, da cui si avevano visuali diverse della realtà ecclesiale.
Ne risultavano prospettive differenti, sulla base delle quali si stabilivano priorità e orientamenti.
Multiformi erano le sensibilità culturali e spirituali.
Diversificate erano le esigenze che attraversavano la vita ecclesiale.
Un conto era stabilire cosa volesse dire resistere al regime bolscevico per una comunità ecclesiale su scala locale, altro era determinarlo per chi aveva il compito di sovrintendere al governo di tutto il corpo ecclesiale.
I vertici della Chiesa dovettero necessariamente elaborare una visione di sintesi in condizioni di stringente difficoltà.
Si dovevano individuare, senza esitazioni paralizzanti, le priorità sulle basi delle quali compiere scelte di portata generale per tutta la Chiesa.
Ha scritto a questo proposito Nikolaj Berdjaev, a commento della dichiarazione del metropolita Sergij del 1927: “Il patriarca Tichon e il metropolita Sergij non sono singoli individui isolati, che possono pensare solo a loro stessi.
È sempre davanti a loro non il proprio destino personale, ma il destino della Chiesa e del popolo ecclesiale nella sua interezza.
Essi possono e debbono dimenticarsi di loro stessi, della propria purezza e bellezza, e dire solo ciò che è di salvezza per la Chiesa.
Ciò è un enorme sacrificio personale”.
Sono itinerari sofferti, contraddittori.
L’unità della Chiesa attorno a una direzione ecclesiastica canonicamente legittima è stata una preoccupazione preminente e una finalità costante nell’azione dei vertici ecclesiastici durante tutto il periodo sovietico.
Il conseguimento di un tale obiettivo è stato considerato come il pegno della salvezza della presenza visibile della Chiesa in Russia.
Da qui le varie scelte di compromesso con il potere sovietico.
Opzioni discutibili, per chi considerava prioritarie altre esigenze; opzioni contestabili, per i modi in cui erano attuate.
Tuttavia allo studioso di storia spetta collocare tali scelte nelle condizioni storiche in cui sono state prese, per comprenderne il profilo e la valenza.
È il travaglio di una grande Chiesa nella condizione, a volte insostenibile, sempre difficile, della società sovietica a emergere dallo studio della storia dell’ortodossia russa nel Novecento.
La Chiesa russa si è confrontata con un progetto che voleva soppiantarla e ha dovuto elaborare strategie di sopravvivenza e resistenza di non facile individuazione e attuazione.
In questa storia contraddittoria opera una forza profonda, che percorre le pagine, e le note, del nostro lavoro.
La rinascita liturgica costituisce un elemento fondamentale della vicenda della Chiesa russa nel Novecento, tanto da rappresentare una chiave di lettura di tutta la sua storia in questo secolo tormentato.
La liturgia è diventata il centro della vita della Chiesa in epoca sovietica, non solo per necessità, perché era l’unica attività permessa dallo Stato.
La vita liturgica è il cuore della Chiesa ortodossa, particolarmente di quella russa.
E la concentrazione sulla liturgia non è stata un rifugio, ma una strategia di resistenza alla persecuzione sovietica.
Un discepolo di padre Ioann di Kronstadt, che con la sua “teologia eucaristica” è all’origine di questo movimento di rinascita liturgica, il metropolita di Leningrado Serafim (Cicagov), alla fine degli anni Venti, rivolgendosi ai suoi preti aveva affermato: “I vescovi invitano i fedeli in modo del tutto particolare a venire alla liturgia, a comunicare ai santi doni, è quella l’arma più sicura ed efficace per far fronte al male spirituale e alla corsa all’ateismo della nostra patria.
Finché si celebrerà la divina liturgia, finché i credenti si accosteranno alla santa comunione, possiamo essere certi che la Chiesa ortodossa saprà resistere e trionfare, che il popolo russo non verrà inghiottito nel male del peccato, dell’incredulità, della malvagità, del materialismo, dell’orgoglio e dell’impurità, che essa rinascerà e la nostra patria sarà salva.
Clero e laici sono quindi chiamati d’urgenza a custodire la liturgia, a celebrarla incessantemente, ogni giorno, su tutti gli altari.
Dove c’è la liturgia, là c’è la Chiesa, c’è la Russia”.
(©L’Osservatore Romano – 3 giugno 2009)

“Il Signore è grande e non si può disegnare, perché nel foglio non ci sta”.

PEIRCE GUALTIERO, Il signore è grande e non si può disegnare (perché nel foglio non ci sta), Einaudi Torino 2008, ISBN: 8806193082, pp.
132, € 12.50 Per la prima volta bambini ebrei, cristiani e musulmani raccontano come vedono Dio e ci parlano della paura, del perdono, della colpa e dell’eternità…
Peirce ha trascorso molto tempo ad ascoltare gli alunni di tre scuole confessionali di Roma.
Ne è nato un reportage in cui i bambini ci regalano momenti di candore e stralunata saggezza, definizioni buffe, visioni e concetti che ci riportano alle origini del pensiero religioso.
Peirce ha trascorso molto tempo ad ascoltare gli alunni di tre scuole confessionali di Roma.
Ne è nato un magnifico reportage in cui i bambini ci regalano momenti di candore e stralunata saggezza, definizioni buffe, visioni e concetti che ci riportano alle origini del pensiero religioso.
Prima C, scuola elementare ebraica.
Gaia punta al cuore del problema: «Maestra, ma Dio come è nato?» «Secondo voi? Chi ha un’idea?».
«Con la mamma!» «Con il vento!» «Con le nuvole!» «Ma bambini, questa è una storia difficile da capire, per ora…» Invece no.
C’è un bimbo di 6 anni che lo sa: «Maestra…
Dio è nato con le parole».
Seconda B, scuola elementare cattolica: «Ditemi un po’, a chi somiglia Dio?» Un paio di alunni si mettono subito al sicuro: «Alla maestra!», «Ai genitori!» Poi alza la mano Sofia, guardando dritto dritto dietro gli occhiali rossi: «Dio assomiglia a Giulio!» E con l’indice benedice il compagno che le sta di fronte, tutto rosso di imbarazzo.
Moschea, scuola integrativa per bimbi musulmani.
«Noi siamo tutti figli di Adamo…», racconta l’imam.
Tasnim, il velo intorno al viso, si fa due conti: «Tutti? Ma proprio tutti? Madonna, quanti figli!»

Monte Athos

Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell’Athos.
Perchè lì sono cose d’altri tempi.
Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo.
Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole.
E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l’Athos più vive e più palpita.
Di canti, di luci, di misteri.
Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio.
Non è per tutti.
Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani.
L’ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa.
Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata.
A nulla le valse d’esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli.
Entrata in un monastero dell’Athos, un’icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna.
Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna.
Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.
URANÚPOLIS Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo.
Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all’ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi.
La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia.
Il quale è sempre severo nel tutelare l’extraterritorialità dell’Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.
Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d’un lasciapassare.
Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo.
E pochissimi sono i visti d’ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine.
Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d’imbarco.
Perché nell’Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.
Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo.
Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo.
Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell’Athos, sede dalla sacra epistassìa.
KARIÈS A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d’incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell’autobus e una trattoria.
C’è anche un telefono pubblico, che ha tutta l’aria d’essere il primo e l’ultimo.
Kariès è uno strano paesetto senza abitanti.
Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti.
Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz’ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao.
Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori.
Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.
Ma sempre con grande supplizio corporeo.
L’Athos è per tempre forti, ascetiche.
Da subito vi torchia.
Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c’è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l’uno e l’altro ci sono ore di cammino.
Il pellegrinare è d’obbligo.
GRANDE LAVRA Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso.
La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna.
Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto.
Ricompare come l’angelo dell’Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz’ora, ristorandovi con un bicchier d’acqua fresca, un bicchierino di liquor d’anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato.
È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti.
Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l’asciugamano.
Da lì in avanti farete vita da monaci.
Ossia farete come vi pare.
I monasteri dell’Athos non sono come quelli d’Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva.
Sull’Athos c’è di tutto e per tutti.
C’è l’eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta.
Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna.
Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti.
Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno.
Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po’ a ritmo suo.
La Grande Lavra è uno di questi.
Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini.
Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale.
Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese.
Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s’avviano al katholikón, la chiesa centrale.
Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella.
Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche.
Al vespero accorre impaziente.
Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno.
Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.
O inebriato? C’è profumo d’Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra.
C’è aroma di cipresso e d’incenso, fragranza di cera d’api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime.
Perchè i monaci dell’Athos non patiscono il tempo.
Vi parlano dei loro santi, di quel sant’Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell’anno 1000 ma appena ieri, come se l’avessero incontrato di persona e da poco.
Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza.
Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d’oro e d’argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo.
La luce del tramonto li accende, li fa vibrare.
E s’accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell’iconostasi, del leggio, della cattedra.
Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch’esso l’architettura di una chiesa ed è anch’esso tutto affrescato dal grande Teofane.
È la stessa liturgia che continua.
L’igúmeno prende posto al centro dell’abside.
Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi.
Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria.
Anche l’uscita avviene in processione.
Un monaco porge a ciascuno del pane santificato.
Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.
VATOPÉDI Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi.
Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane.
Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio.
E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall’Athos.
Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato.
E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente.
Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell’Athos.
Ma poi è venuta la sferza purificatrice d’un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica.
Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti.
Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.
Vatopédi è l’aristocrazia dell’Athos.
Dice solenne l’igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: “L’Athos è unico.
È il solo Stato monastico al mondo”.
Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev’essere sublime.
Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero.
Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste.
Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.
Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell’Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un’iconostasi fulgentissima d’ori e d’icone.
Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.
I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi.
E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose.
Sembra volare, come le note.
E poi le luci.
C’è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa.
Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch’esso parte del rito.
In ogni katholikón dell’Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa.
La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione.
Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all’iconostasi che delimita il sancta sanctorum.
Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
Ebbene, nelle liturgie solenni c’è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse.
Almeno un’ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi.
Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l’onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell’Athos.
Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.
Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d’iniziare a simili misteri e d’infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d’oggi.
All’Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza d’umanizzare Dio, le Chiese d’Occidente lo fanno sparire.
“Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale”, sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu.
“Un Dio che non deifichi l’uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno.
È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell’ondata di ateismo in Occidente”.
Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell’altro monastero di Ivíron: “In Occidente comanda l’azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla.
Rispondo: cosa fa l’embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce.
Così il monaco.
Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio.
È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora.
Siamo nel cuore della comunione dei santi”.
SIMONOS PETRA Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita.
Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell’Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio.
Eliseo, l’igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia.
Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano.
Ma giudica la Chiesa occidentale troppo “prigioniera di un sistema”, troppo “istituzionale”.
L’Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici.
All’Athos “il logos si sposa alla praxis”, la parola ai fatti.
“Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà.
Vivere il Vangelo in modo perfetto.
Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo.
Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci”.
Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell’Athos.
Ha dato vita a un monastero per monache, un’ottantina, nel cuore della penisola Calcidica.
Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria.
E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia.
È un monastero colto, dotato d’una ricca biblioteca.
A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.
Athos insonne.
Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche.
Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato.
A Dafne si risale sul traghetto.
Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani.
La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un’apparizione.
Con la folgorante bellezza d’una Nike di Samotracia.

God Is Back

JOHN MICKLETHWAIT – ADRIAN WOOLDRIDGE, God Is Back: Come la rinascita globale della Fede sta cambiando il mondo,   Penguin Press HC, 2009, ISBN-10: 1594202133, pp.416, $ 18,45.
Lingua: Inglese Contrariamente a quello che si riteneva in Europa, Dio non è morto, anzi sta benissimo, e anche il capitalismo sta meglio di quello che pensavamo.
Infatti, dato che sarà il mercato globale a decidere dove Dio tornerà, e soprattutto quale Dio tornerà, sarà un Dio cristiano, occidentale e americano.
Questa è, in estrema sintesi, la tesi di fondo dell’ultimo libro di John Micklethwait e Adrian Wooldridge, God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World (Penguin Press, 2009, 416 pagine).
Già autori di vari reportage, tra cui un volume sui vari volti della destra americana, la “right nation” (tradotto da Mondadori nel 2005, La destra giusta.
Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra), i due giornalisti di punta dell’Economist dipingono un interessante panorama della “rivincita di Dio” in corso nel mondo post-11 settembre.
Di recente alcuni libri hanno annunciato una controffensiva in difesa di Dio da parte di una generazione di neo-apologisti (tra i più recenti usciti in America: Robert Wright, The Evolution of God; Karen Armstrong, The Case for God; Nicholas Wade, The Faith Instinct) che hanno lanciato una reazione al proselitismo antireligioso e populista della triade Dawkins-Harris-Hitchens.
L’appassionante God Is Back parte da una prospettiva di geopolitica delle fedi.
Micklethwait e Wooldridge non sono avvocati della tesi dello “scontro di civiltà” interpretato dai teocon americani, ma fanno propria la lezione di Samuel Huntington circa la necessità di comprendere la dimensione religiosa della politica internazionale e di elaborare una lettura politica (ed economica) delle relazioni interreligiose nel mondo globalizzato.
La prima parte del libro dipinge due vie alternative verso la modernità: la via europea e la via americana.
Di fronte ad un’Europa laicista in cui l’ateismo pubblico è la condizione richiesta ai personaggi pubblici, la storia degli Stati Uniti rappresenta l’esatto contrario, cioè una democrazia che si regge su un pilastro religioso e trascendente, cioè sulla religione, «e non mi importa quale essa sia» (per citare le parole del presidente Eisenhower).
La maggiore differenza rispetto all’Europa è che l’America si divide sull’interpretazione della religione nello spazio pubblico, più che sull’opportunità di dare alla religione uno spazio pubblico.
Ma lo scenario è in mutamento su entrambi i lati dell’Atlantico.
Se in America, dagli anni Ottanta in poi, il cristianesimo evangelical è passato da mera lobby culturale a forza politica organizzata, secondo gli autori anche in Europa si comincerà presto a sentire l’effettorimbalzo causato da una spinta migratoria in gran parte proveniente da paesi arabi e/o a maggioranza musulmana.
Ma tra Europa e America vi è ancora un evidente “God gap”, una fondamentale differenza nella percezione del ruolo della religione in politica: questa differenza è impersonata dal tentativo di alfabetizzazione teologica del neo-cattolico Tony Blair, un tentativo finora malriuscito e incompreso da entrambe le parti dell’Atlantico (il suo corso su “fede e globalizzazione” a Yale ha sollevato critiche per l’ignoranza dell’ex premier inglese circa concetti-base della “teologia pubblica” che avrebbe dovuto insegnare).
La storia recente degli Stati Uniti è testimone del gap.
La lunga campagna elettorale per le presidenziali del 2008 si era risolta a favore di Obama anche grazie alle sua capacità di “outgodding”, cioè di articolare meglio la questione religiosa rispetto agli altri candidati: meglio sia di Hillary Clinton (che tentò di usare in modo cinico il caso del reverendo Wright), sia di John McCain (che, intervistato, non era certo di sapere a quale chiesa appartenesse).
Però la vittoria di Obama non significa la fine delle “culture wars” attorno alla questione religiosa in America: ne è testimone il caso di Sarah Palin, «la più radicata nella subcultura evangelical di qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca» (p.
124).
Quanto a “cultural warrior”, per gli autori di God Is Back «quello con la maggiore esperienza nel campo conservatore è la Chiesa cattolica (…) il cui appetito per la battaglia culturale è aumentato in modo visibile sotto Giovanni Paolo II» (p.
347).
Ma se la lotta all’aborto sembra essere il campo di battaglia preferito dei cattolici, il nuovo evangelicalismo americano (quello del pastore Rick Warren) si è aperto alle questioni della povertà, dell’immigrazione, della solidarietà internazionale, dell’ambientalismo.
Grazie alla formidabile spinta missionaria del cristianesimo di matrice evangelicale e pentecostale in tutti i continenti, il cristianesimo è in ripresa, e gli autori riconoscono l’esistenza di diverse aree di tensione politico-religiosa sull’atlante mondiale: l’Africa centrale, India e Pakistan, la Cina.
Tuttavia è tra Europa, America e islam che si deciderà la lotta.
Per i due autori è assai più verosimile che l’Europa si avvicini al modello americano piuttosto che una secolarizzazione della politica americana.
Tuttavia, è la maggiore capacità degli americani di gestire il “God business”, il marketing di Dio, che spinge Micklethwait e Wooldridge a vedere l’America come il mercato trainante nella concorrenza tra cristianesimo e islam: «L’America contribuisce al revival religioso globale da due lati: come maggior esportatore mondiale di religione e come maggior fornitore mondiale di quel capitalismo che aumenta la domanda di religione.
Gli americani stanno esportando oppio e allo stesso tempo stimolando la domanda di oppiacei» (p.
244).
Al contrario della cultura politica europea, l’Economist non ha dimenticato né la lunga durata della “politica di Dio” né la lezione di Marx sui rapporti tra economia, politica e religione.
Tocca agli europei decidere se è ragionevole lasciare che di “religione e politica” si occupino i chierici e i manager.
Il marketing delle religioni Massimo Faggioli in “Europa” del 16 dicembre 2009