L’intento è mostrare alcuni concetti fondamentali che hanno caratterizzato la riflessione sul “culturalmente altro” (molte le sorprese per il lettore non specialista: dal Kant precursore di Hitler nel teorizzare la superiorità delle razze pure a un Voltaire affascinato dalla Sacra Scrittura) per superare lo stallo di una sterile retorica delle differenze, che celebra acriticamente la fine delle identità e un “miscuglio culturale, che, non si capisce per quale motivo, dovrebbe essere per tutti automaticamente liberante”.
“Questo fatto non deve essere equivocato.
Da processo in atto – scrive Gomarasca – il meticciato non può in alcun modo diventare una strategia politica paragonabile a quella peraltro rivelatasi fallimentare del multiculturalismo; oltre tutto, il fenomeno della mescolanza non sempre avviene in modo pacifico.
Ciò che è umanamente decisivo non è che le persone e le culture si mescolino – cosa del tutto contingente – bensì il fatto che tra persone e culture si stabiliscano relazioni di riconoscimento reciproco.
Riconoscimento che, quando manca, disumanizza persone e culture.
Si tratta allora di capire se i luoghi dove concretamente si genera il bene del riconoscimento sono in grado di ospitare processi di meticciato che ne arricchiscono l’intrinseco potenziale relazionale”.
Se le culture sono in contatto (e, storicamente, lo sono sempre state, anche se con diverse modalità di interazione e integrazione) ciò significa che il meticciato è una metafora che tocca un punto antropologico fondamentale: l’essere del soggetto umano non è chiuso in se stesso ma costitutivamente aperto al legame con l’altro.
È a questo punto che l’autore introduce il concetto di “filiazione”, “una questione troppo delicata per essere lasciata totalmente nelle nostre mani”.
Per questo “vale la pena di lasciarsi istruire dal testo biblico, il racconto della torre di Babele”.
Abitualmente citato come metafora della fiera delle differenze culturali, l’episodio biblico di Babele va visto – come spiega bene Derrida – come una questione paterna.
Del resto già Voltaire si chiese, con un certo stupore, come mai nessuno si fosse accorto che Babele non vuole soltanto dire confusione, ma anche padre, più precisamente il nome di Dio come nome di padre.
“Se questo è vero, allora dobbiamo dire che quando Dio punisce gli uomini imponendo a tutti la confusione, impone anche il suo nome di padre”.
Che significa? Derrida sembra cogliere la finezza del racconto e, infatti, si chiede: perché Dio punisce i costruttori della torre? Per aver voluto costruire fino all’altezza dei cieli? È molto probabile, ma anche “per aver voluto “farsi un nome”, scegliersi il proprio nome, costruirlo da sé”.
L'”auto-nominazione” di Derrida assomiglia all’auto-riconoscimento dello spirito assoluto descritto da Hegel; è insomma la pretesa di mettersi al posto dell’origine per non dover dipendere, per non dover riconoscere che esistiamo in relazione agli altri.
“Ciò equivale – continua Gomarasca – al colonialismo: in fondo i costruttori delle terre vogliono riunire tutti gli uomini in un solo nome, in una lingua universale perché univoca, perfettamente trasparente.
Quando Dio impone e oppone loro il proprio nome, rompe la trasparenza razionale, ma interrompe anche la violenza colonialista o l’imperialismo linguistico.
Li destina alla traduzione”.
La proibizione dell’univocità è dunque un gesto paterno di protezione che ci ripara dalla violenza dell’auto-nominazione, senza però lasciarci in balìa dell’equivoco: l’universale c’è, ma, fortunatamente, non è esclusiva proprietà di nessuno.
La traduzione è allora l’unica strada per essere autenticamente figli, eredi di un nome che è proprio per ciascuno solo in quanto è ricevuto.
“È quindi facile immaginare che, traducendosi, i mondi di vita particolari – fatti di persone, lingue, culture – potrebbero anche “meticciarsi” scoprendo inaspettate zone di contatto e di sovrapposizione.
Del resto niente di ciò che è proprio, secondo una dinamica di filiazione, può mai equivalere all’esclusivo, nel senso dell’escludere l’altro”.
L’auspicio, conclude Gomarasca, è che questi possibili esiti “esproprianti” ci ricordino con maggiore evidenza la nostra origine comune e la convenienza umana di continuare a tradurre; con Babele Dio, sembra suggerire l’autore, ha regalato all’uomo la bellezza complessa e dialogica di un mondo polifonico per salvarlo da uno sterile (e alla lunga noioso) ruolo da solista.
(©L’Osservatore Romano – 22-23 maggio 2009) Attenzione al vuoto che si nasconde dietro gli slogan, alla retorica di una tolleranza che, come l’etimologia del termine stesso suggerisce, implica il rischio di tollerare l’altro senza un reale desiderio di incontrarlo; lo scopo del libro Meticciato: convivenza o confusione di Paolo Gomarasca (Venezia, Marcianum press, 2009, pagine 216, euro 20) è ripensare il processo di incontro e fusione di culture diverse – tema centrale del progetto Oasis lanciato nel settembre 2004 dal patriarca di Venezia Angelo Scola – non limitandosi a descrivere a livello storiografico la genesi di un fenomeno che ha cambiato il volto a interi continenti (l’esempio più significativo resta sempre il métissage del Nuovo Mondo) ma individuando le categorie antropologiche che possono contribuire a rivelarne le reali potenzialità.
Ascensione del Signore Gesù Anno B
Il cielo Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in al-to”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezio-namento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il qua-le si muove la fede.
Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappre-senta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.
Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esi-stenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie.
Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico.
Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere del-l’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K.
Rahner, La risurrezione della carne, p.
459).
L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.
In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione.
(Joseph Ratzinger/BENEDETTO XVI, Imparare ad amare.
Il cammino di una famiglia cri-stiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).
L’ascensione di Gesù e la nostra ascensione Quando nel rito liturgico dell’eucaristia siamo invitati a «innalzare i nostri cuori», ri-spondiamo: «Sono rivolti al Signore», a quel Signore che è asceso in alto, a colui che non è più qui, ma che è risorto, è apparso agli apostoli ed è scomparso dalla vista.
Sempre, ma specialmente in questo giorno nel quale commemoriamo la sua risurrezione e la sua a-scensione, noi siamo spinti ad ascendere in spirito come il Salvatore, che ha vinto la morte e ha aperto il regno del cielo a tutti i credenti.
Molti uomini però non ascoltano il richiamo della liturgia; essi sono impediti, anzi pos-seduti, assorbiti dal mondo, e non possono elevarsi perché non hanno ali.
La preghiera e il digiuno sono stati definiti le ali dell’anima, e quelli che non pregano e non digiunano, non possono seguire il Cristo.
Non possono innalzare a lui i cuori.
Non hanno il tesoro in alto, ma il loro tesoro, il loro cuore e le loro facoltà sono sulla terra; la terra è la loro eredità e non il cielo.
[…] Al contrario le anime sante prendono una via diversa; esse sono risorte con Cristo e sono come persone salite su una montagna e ora si riposano sulla cima.
Tutto è rumore e frastuono, nebbia e tenebra ai suoi piedi; ma sulla vetta tutto è così calmo, cosi tranquillo e sereno, così puro e chiaro, così luminoso e celeste che per loro è come se il tu-multo della valle non risuonasse al di sotto, e le ombre e le tenebre non ci fossero.
(John Henry Newman).
«Rimanete saldi nella fede» Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!».
L’esortazione rac-chiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cri-sto, è rivolta a ciascuno di noi.
La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni.
Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo.
Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile.
Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza.
Un consenso a ta-le limitazione della ragione non si concede facilmente.
Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affi-darsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo.
È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.
Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8).
Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca.
Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammet-tono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante.
Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini.
È lui ad assegnarci una missione.
Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura…
Allora essi partirono e predicarono dapper-tutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).
[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricolle-gandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qual-siasi altra epoca avete bisogno di questa forza.
Dovete essere forti della forza della speran-za, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dove-te essere forti dell’amore, che è più forte della morte…
Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabili-re…
il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialo-go con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n.
4).
Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esi-stenza.
Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia.
Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di ve-rità e di pace.
Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, te-stimoniate che Dio è amore.
Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come suc-cessore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia.
E ricordatevi an-che di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande pre-decessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo.
Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen! (BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J.
RATZIN-GER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).
Abbiamo creduto in lui e ne aspettiamo il ritorno Fratelli, noi crediamo in quel Gesù che non hanno creduto i nostri occhi.
A noi Gesù lo hanno annunciato coloro che lo hanno veduto, l’hanno stretto con le loro mani, hanno udito le parole uscite dalla sua bocca.
Essi, affinché tutti gli uomini accettassero le sue pa-role, furono inviati da lui; non osarono andare di loro iniziativa.
Dove furono mandati? L’avete sentito dalla lettura del Vangelo: «Andate, predicate il Vangelo a ogni creatura che è sotto il cielo» (Mc 16,15).
I discepoli furono dunque inviati in ogni parte del mondo, con la testimonianza di prodigi e segni miracolosi perché gli uomini credessero che essi riferi-vano cose da loro stessi viste.
Noi abbiamo creduto in colui che non abbiamo visto con i nostri occhi e ne aspettiamo il ritorno.
Chiunque lo aspetta con fede, sarà ripieno di gioia, quando ritornerà.
[…] Restiamo dunque fedeli alla sua parola, perché non proviamo confu-sione quando ritornerà.
Egli infatti nel vangelo a quelli che avevano creduto in lui dice: «Se rimarrete nelle mie parole, sarete veramente miei discepoli» (Gv8,31).
E quasi gli chie-dessero: Con quale vantaggio? «Voi conoscete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,32).
Attualmente la nostra salvezza è oggetto di speranza, perché ancora non è stata realizzata; ancora non possediamo ciò che è stato promesso e tuttavia ne speriamo la futura realizza-zione.
Colui che ha fatto questa promessa è fedele; egli non ti inganna: tocca a te unica-mente non mancargli di fiducia, ma attendere la realizzazione delle sue promesse.
La veri-tà non conosce inganni.
Non voler esser tu il bugiardo, altra cosa professando e altra fa-cendo; conserva la fede e lui manterrà fede alla sua promessa.
Se non avrai conservato la fede, sarai stato tu a defraudarti, non certo chi ti ha fatto la promessa.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento all’epistola di san Giovanni 4,2, NBA XXIV, pp.
1708-1709).
Sii un vero amico Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno.
L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale.
Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio.
L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte.
In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte.
Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami.
È questo il centro del messaggio di Gesù.
Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata.
Al contrario, è cresciuta.
È questo il significato dell’invio dello Spirito.
Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’ami-cizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte.
È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro.
Sai dall’esperienza quanto questo sia reale.
Coloro che hai amato profondamen-te e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze re-ali.
Osa amare ed essere un vero amico.
L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condur-rà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.
(H.J.M.
NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).
«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo»(At 1,11).
[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.
La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste.
Prima la realtà ter-rena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione.
L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla.
E, do-po aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr.
Gn 1,26-27).
Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità.
Sappia-mo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannan-do in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferen-za e la morte.
Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del ge-nere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza.
“Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo.
Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambi-to di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura.
Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolez-za che prima o poi questo cammino giungerà al termine.
Ed è allora che nasce la riflessio-ne: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo? In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?».
Leggiamo che quando gli apo-stoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo».
Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10).
Sta-vano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, croci-fisso e risorto, che veniva sollevato in alto.
Non sappiamo se si resero conto in quel mo-mento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, in-finito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo.
Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo.
Per noi, tuttavia, quell’even-to di duemila anni fa è ben leggibile.
Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio.
Siamo chia-mati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione.
Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita.
(BENEDETTO XVI, Omelia a Cracovia- Blonie, 28 maggio 2006, in J.
RATZIN-GER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).
Preghiera Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore.
Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…
Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre.
Allora potremo fin d’ora gustare la viva spe-ranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.
RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007 – Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 1,1-11 Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e inse-gnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo.
Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio.
Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo».
Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ri-costituirai il regno per Israele?».
Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra».
Detto questo, mentre lo guardava-no, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi.
Essi stavano fissando il cie-lo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».
Se il Vangelo di Marco è molto rapido ed essenziale nel parlarci dell’ascensione di Gesù al cielo, il libro degli Atti tenta di «descrivercela» quasi visivamente nella seconda parte del brano oggi propostoci (At 1,6-11).
Stando al racconto di Luca, sembra che si tratti dell’ultima «cristofania», concessa da Gesù agli Apostoli, i quali peraltro si dimostrano ancora impreparati alla comprensione del mistero di Cristo: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (v.
6).
Pur dopo la risurrezione, essi pensano terrenisticamente! Gesù supera la loro incom-prensione, rimandando alla discesa dello Spirito la piena illuminazione del suo mistero ed anche della loro missione in ordine a quel mistero: «Non spetta a voi conoscere tempi o mo-menti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra» (1,7-8).
Come si vede, anche qui siamo davanti ad un mandato «missionario»,di tipo universali-stico: si parte, com’era ovvio e doveroso, dalla patria stessa di Gesù, per arrivare «fino agli estremi confini della terra».
Il libro degli Atti, conforme a questo comando di Gesù ci illu-strerà successivamente le varie tappe di questa evangelizzazione, che Paolo porterà perfi-no a Roma, nel cuore cioè dell’immenso impero che dominava tutto il mondo allora cono-sciuto.
Anche qui la «forza» per adempiere questo compito immane non viene garantita dalle deboli ed impari risorse umane dei discepoli, ma dalla irruzione e dalla continua assisten-za dello Spirito.
Nel capitolo 2 del libro degli Atti, infatti, Luca ci descriverà la impetuosa discesa dello Spirito e la sua potenza di «trasformazione» dell’anima e dei sentimenti degli Apostoli: da timidi ed impauriti com’erano, diventeranno intrepidi e inarrestabili annun-ciatori e testimoni del Risorto.
È ancora Cristo che «opera insieme a loro»: non direttamen-te, ma mediante lo Spirito che egli invierà da parte del Padre (cf.
At 2,32-33).
Dopo aver dato loro il suo «mandato» missionario, Gesù «fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi» (At 1,9).
Abbiamo già detto della tristezza degli Apostoli nel vedersi «sottrarre» il Risorto.
Quello che conta, però, non è la sua presenza fisica, ma la convinzio-ne di fede che egli sarà sempre con i suoi, con la potenza dello Spirito, sino al momento del suo «ritorno» glorioso, come proclamano i due misteriosi personaggi «in vesti candide»: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11).
In questo intervallo di tempo, che è già durato più da 2000 anni e non sappiamo per niente quanto durerà ancora, tocca ai suoi discepoli, cioè alla sua Chiesa, allargare gli «spazi» della sua signoria, rendergli testimonianza, facendolo conoscere ed amare da tutti gli uomini.
È così che il suo «regno» si stabilisce anche lungo la storia, fra gli uomini, per mezzo di altri uomini.
È a livello di queste considerazioni che possiamo comprendere la «indispensabilità» della Chiesa nel mondo, in attesa del «ritorno» glorioso di Cristo: anzi, proprio per «pre-parare» e predisporre tutti e tutto, anche il convivere sociale, a quell’incontro con il Signo-re dell’universo, essa è destinata! Seconda lettura: Efesini 4,1-13 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera de-gna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sop-portandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la spe-ranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.
Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tut-ti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo.
Per questo è detto: «Asceso in alto, ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini».
Ma cosa significa che ascese, se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose.
Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a com-piere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo.
A proposito della Chiesa, perché compia la sua missione di testimonianza nel mondo, anzi di rappresentanza «vicaria» di Cristo, e in tal modo anticipare addirittura la venuta del «regno», dice delle cose stupende il brano della lettera agli Efesini, oggi proposta alla nostra considerazione.
Due mi sembrano le idee di fondo che guidano il testo, troppo ricco per entrare nei suoi dettagli esegetici.
La prima è quella della «unità» di quel «corpo» meraviglioso che è la Chiesa: in essa, proprio per questa esigenza fondamentale, ci deve essere circolazione di «amore», che si manifesta nell’umiltà e nella capacità di «sopportazione» reciproca, allo scopo di «conserva-re l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace» (Ef 4,3).
Ci sono troppi motivi di «unione» che obbligano i cristiani a fare «comunione» fra di lo-ro.
Una Chiesa «divisa» non rende buona testimonianza né a Cristo, né allo Spirito, che è essenzialmente «Spirito di amore»! E perciò è destinata ad essere fatalmente inerte, se non controproducente.
«Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo…» (4,4-5).
La seconda idea, che viene espressa in questo testo e non è per niente antitetica alla prima, è che nella Chiesa, pur nella più rigorosa «unità», c’è una «molteplicità» di «doni», di «carismi» o di «ministeri» che dir si voglia, che permettono, anzi esigono, che tutti dia-no il loro contributo per la crescita armonica di quell’unico «corpo», di cui tutti siamo «membra».
E la cosa che più sorprende è che proprio il Cristo, «asceso al di sopra di tutti i cieli» (4,10), ha voluto concedere questi «doni» alla sua Chiesa: essi, pertanto, non sono tanto delle acquisizioni nostre, che nascono da «prediposizioni» di natura e perciò da rivendica-re a tutti i costi, quanto «doni» che vengono dall’alto, da esercitare perciò con grande senso di «responsabilità» per il bene di tutti.
«A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secon-do la misura del dono di Cristo» (4,7).
Si noti l’espressione «a ciascuno di noi»: perciò ogni battezzato non può non avere uno spazio nella Chiesa! A modo di esemplificazione, vengono poi ricordati alcuni «ministeri» tra i più fonda-mentali nella Chiesa: «Ed egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad al-tri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e del-la conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo» (4,11-13).
Come si vede, i «ministeri» qui ricordati non sono dati per esercitare un «dominio» nel-la Chiesa, come talvolta, da qualcuno si è pensato o si potrebbe pensare, ma un «servizio» di crescita comune.
Il traguardo per tutti, siano essi apostoli, o profeti, o pastori, o qualsia-si altra cosa, è quello di «crescere» e far «crescere» fino a raggiungere «la misura della pie-nezza di Cristo» (4,13).
Il che è tremendamente impegnativo per tutti.
Vangelo: Marco 16,15-20 In quel tempo, [Gesù apparve agli Undici] e disse loro: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato.
Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno demòni, parleranno lingue nuove, prenderan-no in mano serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno; imporran-no le mani ai malati e questi guariranno».
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i se-gni che la accompagnavano.
Esegesi Come è risaputo da tutti, questa parte «conclusiva» del Vangelo di Marco (16,9-20) è stata aggiunta successivamente da qualche autore che non conosciamo.
Non è che Marco ignorasse questi eventi: è che egli ha voluto chiudere il suo Vangelo con lo «stupore» delle donne davanti al sepolcro vuoto e all’annuncio che Gesù è stato risuscitato da morte (Mc 16,6-8).
Ed è proprio questo «stupore» che dovrà accompagnare sempre i credenti nel Si-gnore risorto! Comunque, tutto questo non crea per noi alcun problema, perché siamo davanti ad un testo egualmente «ispirato» e come tale riconosciuto dalla Chiesa.
Cerchiamo perciò di metterne in evidenza il ricco e molteplice contenuto.
Si tratta dell’ultima «cristofania» del Risorto ai suoi Apostoli ai quali viene affidato un mandato «missionario» universale.
Abbiamo detto sopra che l’ascensione al cielo non era l’abbondono di Gesù, ma solo un suo «momentaneo» allontanamento.
Nel frattempo gli Apostoli avrebbero dovuto prolun-garne l’opera di salvezza, annunciando il suo «Vangelo» ad ogni creatura.
Perciò essi ven-gono rivestiti di un compito di rappresentanza «vicaria» del Cristo, da realizzare ed esten-dere per tutto l’arco della storia.
È attraverso degli uomini che Cristo verrà ormai «annun-ciato» ad altri uomini! È questo il suo mandato «testamentario»: «Andate in tutto il mondo e proclamate il Vangelo a ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvato, ma chi non crederà sarà condannato» (16,15-16).
Due cose sono da sottolineare in questo «comando» del Signore.
Prima di tutto la sua «universalità»: è «in tutto il mondo» che vengono inviati gli Apostoli; il Vangelo deve es-sere predicato «ad ogni creatura», senza escludere nessuna razza umana, in qualunque parte della terra essa abiti.
In secondo luogo, si esige l’accoglienza, per «fede», del dono del «Vangelo», congiunto con il rito del «battesimo», che anche simbolicamente significa la rinascita a vita nuova, come un autentico «lavaggio» dalle sozzure della vita precedente.
Dunque «fede» e «battesimo», intimamente congiunti e vissuti dai cristiani, sono le «vie» che portano alla salvezza.
E se così sarà e i cristiani vivranno in tal modo, potranno compiere anche «gesti» stra-ordinari, così come capiterà agli Apostoli che parlano «nuove lingue» il giorno di Penteco-ste, proprio in ordine all’annuncio del Vangelo (At 2,4,11); oppure a Paolo che, morso da una vipera, la getta a terra senza riceverne alcun male (At 28,3-5), e altri fatti simili che si sono verificati, e continuano a verificarsi, lungo la storia.
Ed effettivamente il Vangelo di Marco si chiude con l’affermazione che tutto questo è avvenuto: «Allora essi partirono e pre-dicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano» (16,20).
Ma si tratterà solo di «segni» che possono solo testimoniare che la «salvezza» procurata dal Vangelo è «totale», includente, oltre l’anima, anche il nostro corpo sofferente.
Per l’autore però è importante affermare che tutto ciò avviene come frutto della «perdu-rante» azione di Cristo che, pur salendo al cielo, non ha abbandonato la sua Chiesa e gli annunciatori del suo Vangelo, ma «opera insieme a loro» proprio in virtù del «potere» che gli deriva dall’essersi assiso «alla destra» del Padre: «Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu elevato in cielo e sedette alla destra di Dio» (16,19).
Meditazione Il passo evangelico che la liturgia fa proclamare in questa festa è tratto dalla cosiddetta «conclusione canonica» del racconto di Marco, un epilogo aggiunto da un redattore poste-riore per dare seguito alla finale troppo brusca e insolita dello scritto originario, che termi-nava con il v.
8.
Questo secondo finale ci presenta un rapido sommario dei racconti di ap-parizione del Risorto chiuso dalla breve menzione dell’ascensione al cielo di Gesù e della successiva missione universale dei discepoli.
Dopo l’apparizione a Maria di Magdala (vv.
9-11) e a due discepoli in cammino (vv.
12-13), il Risorto appare agli Undici (v.
14).
Prima però di affidare loro il compito missionario dell’annuncio evangelico «a ogni creatura» (v.
15), è da notare che Gesù li rimprovera severamente «per la loro incredulità e durezza di cuore» (v.
14b).
Ritorna, alla fine, un tema caratteristico della narrazione marciana che at-traversa da cima a fondo tutto il libro: l’incredulità dei discepoli.
E ritorna con insistenza, a più riprese, come un ritornello martellante (cfr.
vv.
11.13.14.16).
Ma è proprio in questo contesto che emerge, per contrasto, tutta l’ostinata fedeltà del Signore che non esita ad affi-dare sua missione a dei discepoli rivelatisi quantomeno inaffidabili.
Il vangelo è messo così in fragili mani di uomini increduli e titubanti affinché compia la sua corsa fino agli estremi confini del mondo.
È singolare il fatto che destinataria della missione evangelizzatrice non è solamente l’u-manità intera ma «tutta la creazione» (così recita letteralmente il v.
15).
C’è qui una dimen-sione cosmica che non va sottaciuta: tutto l’universo creato è coinvolto in quel dinamismo di salvezza scaturito dalla Pasqua di Gesù e deve anch’esso ricevere la Buona Novella che rinnova e trasfigura ogni cosa.
Paolo non dirà forse che anche la creazione attende con im-pazienza la sua liberazione e redenzione (cfr.
Rm 8,19 ss.)? «Chi crederà…
chi non crederà…» (v.
16).
Tutto si gioca tra fede e incredulità, tra acco-glienza e rifiuto del vangelo, che rimane l’unico oggetto della predicazione apostolica.
Già all’inizio del suo ministero Gesù invitava alla conversione e alla fede dinanzi all’avvicinar-si del Regno (cfr.
Mc 1,15), ora, da Risorto, rilancia il suo appello perché il dono incompa-rabile del vangelo non vada inutilmente sprecato.
I segni che accompagnano «quelli che credono» – e dunque non solo i missionari – sono conferme della Parola annunciata e ac-colta nella fede.
Essi vengono compiuti nel nome di Gesù (cfr.
v.
17), cosicché ciò che mani-festano non è tanto la potenza e la grandezza dei credenti quanto la potenza divina che a-gisce per mezzo dello stesso Signore («e il Signore confermava la Parola con i segni che la accompagnavano»: v.
20).
«Dopo aver parlato loro…» (v.
19).
Gesù ha ormai detto tutto e il Padre lo può «elevare», «assumere» in cielo (il verbo usato, analambáno, esprime un passivo divino) e intronizzarlo alla sua destra.
Un solo versetto basta all’autore per descrivere la scena dell’ascensione: quel «cielo» che si era «squarciato» al momento del battesimo (cfr.
Mc 1,10) ora accoglie di nuovo Colui che era disceso sulla terra per compiere fino in fondo la volontà del Padre.
Se c’è un’elevazione, un’ascesa, è perché prima c’era stata una discesa, un abbassamento (cfr.
Ef 4,9-10, II lettura).
E in questo duplice movimento di discesa e salita si consuma tutta la vi-cenda terrena del Figlio di Dio.
D’ora innanzi non esiste più separazione tra terra e cielo: se la terra è salita al cielo (con il corpo umano glorificato di Gesù), il cielo è disceso sulla terra (con lo Spirito Santo che il Figlio dal Padre ci ha mandato).
«Sulla terra viene sparso un seme celeste e Colui che ritorna presso il Padre stabilisce d’ora in poi, nella sua qualità di Capo di una Chiesa ancora terrena, un vincolo inscindibile tra la terra e il cielo» (H.U.
von Balthasar).
In questa prospettiva il «cielo» non può più essere inteso come simbolo di lon-tananza, di distacco, di estraneità del Signore nei confronti di quanti ancora vivono e lot-tano su questa terra; al contrario: è proprio per essere salito al cielo, cioè presso Dio, che Gesù può essere presente nei suoi discepoli in maniera del tutto nuova e radicalmente più profonda.
Infatti, subito dopo aver detto che Gesù risorto «sedette alla destra di Dio» (v.
19), il testo prosegue: «…
e il Signore agiva insieme con loro (synergoûntos)» (v.
20).
Questa «sinergia», questo «lavoro» divino e insieme umano, è precisamente l’opera dello Spirito Santo, il vero protagonista – non nominato – della missione.
Per concludere ci si può chiedere: se non è la tomba vuota la mèta del nostro cammino («Non è qui»: Mc 16,6), né il cielo il luogo verso cui fissare il nostro sguardo («Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?»: At 1,11), dove cercare allora il Risorto? Perché molti sono ancora il luoghi ‘sbagliati’ in cui si smarrisce la nostra ricerca…
Testimoni del nostro tempo: Giuseppe Lazzati
Lazzati, il mistico della concretezza Si prova sempre una certa emo¬zione quando si incontra una persona importante, di cui per anni si è letto sui quotidiani, una per¬sona vista e rivista in tv, di cui si co¬noscono le opere, una persona che si ammira e che, appunto, si vorreb¬be incontrare un giorno.
E questo incontro alla fine anche per me fu possibile e fu l’occasione gra¬dita e preziosa per vedere innanzi¬tutto in faccia l’uomo — occhi chia¬ri, penetranti, sereni — e quindi sco¬prirne l’indole, lo spirito, le aspira¬zioni di cristiano impegnato.
Era Giuseppe Lazzati, allora rettore del¬l’Università Cattolica.
L’incontro av¬venne durante una cena, in casa di un mio amico scrittore, scomparso nel 1999, Luigi Santucci, al quale spesso ho riconosciuto questo me¬rito. L’argomento della nostra con¬versazione era a prima vista sempli¬cissimo, ma per il mio interlocutore molto appassionato e tormentato: la Chiesa.
Giuseppe Lazzati amava la Chiesa, di un amore — per dirla con Baudelaire — autentico e lacerante.
Quel giorno, vicino a lui, compresi che questo suo amore era drammatico nel senso più elevato del termine, ma anche nel senso quasi di ferita e tensione che il termine stesso contiene in sé.
Rivelava l’«incisione» che ti lascia nella vita l’amore quando diventa esigente; amore che può addirittura artigliarti la coscienza.
In Lazzati io riuscii a scorgere quella che gli antichi greci definivano orghé, ossia «ira», «passione impellente», intesa, però, nel suo senso primario come stato di necessità a parlare, che nasce da un’emozione interiore e dura finché non si coagula nella forza della comunicazione.
E l’amore per la Chiesa in Lazzati era proprio una necessità interiore, che si muoveva di continuo nel groviglio del nodo in¬teriore della persona, della coscien¬za, e poi alla fine riusciva a esplode¬re e a diventare comunicazione e, quindi, a entrare nella storia, nell’esistenza, nella società.
Allora trovava la quiete por¬tando con sé tutte le scaglie di luce e di tenebra che tale amore presenta.
Ebbi ancora modo di incon¬trare l’allora rettore all’ere¬mo di San Salvatore, sopra Erba (Co), dove vidi nel vol¬to di Lazzati un altro tratto fondamentale, che possono testimoniare coloro che l’hanno co¬nosciuto.
Ero lì per un ritiro ai gio¬vani di Azione cattolica e la sera Laz¬zati aveva partecipato alla messa da me celebrata; l’avevo proprio di fronte.
Mentre celebravo, di lui qualcosa mi catturava e addirittura mi distraeva: il suo particolare modo di essere in comunione con l’Infinito e con l’Eterno.
E provo soddisfazione al pensiero che egli sia ora sulla strada della beatificazione, in quanto, avendolo conosciuto, posso affermare di aver avuto — soprattutto in quel momento liturgico — un’impressio¬ne diretta della sua santità.
In lui si realizzavano pienamente le parole di sant’Agostino: Nolite quae¬rere a Deo nisi Deum («Non chiede¬te nulla a Dio se non Dio stesso»).
In quegli istanti, vedendolo tutto concentrato e preso dal divino, Lazzati rappresentava la definizione della preghiera formulata da Kierkegaard, secondo la quale pregare è come respirare: «È sciocco cercare un perché.
Perché respiro? Perché altrimenti morirei.
Lo stesso discorso vale per la preghiera».
E in Lazzati la preghiera era respiro, un respiro spontaneo.
E qui vorrei mettere in particolare risalto quest’aspetto, che rientra nell’area interiore, mistica dell’uomo, uno di quegli aspetti che spesso si preferisce trascurare parlando di persone illustri di cui amia¬mo soprattutto sottolineare, se non solo ricordare, l’attività pubblica.
Un altro tratto caratteristico, il più personale e il più diretto, ebbi la ventura di coglierlo poco tempo prima della sua morte.
Era il febbraio 1986 e ci eravamo trovati insieme a una tavola rotonda televisiva.
Alla fine lo accompagnai a casa e lì rimanemmo a parlare fino a tarda notte.
Il discorso cadde su La Pira, sul loro sodalizio, sulla loro visione utopica.
«È l’utopia che salva, non l’ordinaria amministrazione! – esclamava Lazzati –.
L’unica visione veramente feconda».
Ciò che notai in particolare fu la sua fiducia e speranza nel dialogo, nel dialogo con le culture e con gli orizzonti diversi.
Era un tema tanto caro a quel grande cristiano laico.
In quell’occasione gli citai alcune battute di un testo orientale che, secondo me, rappresentava bene il cammino del dialogo.
Lazzati ne rimase conquistato.
Un uomo, nel deserto di Giuda, se ne va per una valle pietrosa, ed ecco vede in lontananza un essere che si arrampica su una montagna, forse un animale.
L’uomo, dato il posto in cui si trova, pensa subito a qualcosa di pericoloso.
Tuttavia, avanza per riuscire a individuarlo meglio.
Intanto si accorge che anche l’altro si è avvicinato un poco e così scopre che non si tratta di un animale, bensì di un uomo.
Allora il cuore comincia ad allargarsi, anche se rimane un certo sospetto, perché questo è il deserto: un luogo di rischi e di insidie.
Alla fine i due si incontrano e si guardano e scoprono di essere fratelli, da tempo separati e lontani.
Un’ultima e conclusiva considerazione.
Soprattutto alla luce del Vaticano II — si ricordi il decreto sull’apostolato dei laici ( Apostolicam actuositatem — oggi si parla tanto di presenza, contributo, azione dei laici nella Chiesa.
Non si può, allora, tacere l’apporto fondamentale di Lazzati nel laicato cattolico italiano.
Egli resta un esempio di cristiano che, in tempi difficili — in particolare negli «anni di piombo» —, ha donato e messo in causa la sua vita per la Chiesa, in un servizio generoso, ma al tempo stesso umile, senza enfasi di circostanza, in un lento, quotidiano travaglio, all’ascolto di ogni voce e nell’accoglienza di ogni i¬stanza, anche diversa e problematica, per sottoporla a un dialogo.
Sono trascorsi vent’anni dalla promulgazione, da parte di Giovanni Paolo II, dell’esortazione apostolica Christifideles laici, sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa e nel mondo.
Ripercorrendo questo testo per giungere poi all’appello finale dove si rinnova l’invito del «padrone di casa» di cui parla il Vangelo: «Andate anche voi nella mia vigna», un invito rivolto a tutti i laici, uomini e donne, si deve ben dire che Giuseppe Lazzati ha veramente incarnato il modello di laico che la Chiesa, nel suo magistero, propone e ripropone perché si mantenga sempre viva quella coscienza ecclesiale, la coscienza cioè di essere membri della Chiesa di Cristo con dignità, nella partecipazione alla vita della Chiesa in piena corresponsabilità.
Pertanto, è giusto e doveroso collocare la figura di Lazzati tra i grandi laici impegnati del Novecento.
Ma direi non tanto per cercarvi un «maestro » (titolo che egli avrebbe certamente respinto), quanto un «testimone ».
Una testimonianza che poteva essere definita — per usare le parole di un grande amico di Lazzati, Paolo VI, nell’esortazione apostolica Evangelii nuntiandi — come «il primo mezzo di evangelizzazione», poiché «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni».
Questa fu la testimonianza di Lazzati, uomo immerso nel mondo e totalmente presente nell’impegno secolare, senza mai rinunciare a una profonda vita interiore: continuo contatto col mondo, con l’uomo, con la terra nell’azione, ma, nello stesso tempo, continuo contatto con Dio nella preghiera, nella vita sacramentale e liturgica e nella contemplazione.
Gianfranco Ravasi
La certificazione delle competenze
Le disposizioni legislative (legge 169/2008 e decreto legislativo 59/2004) prevedono che al termine della scuola primaria e della scuola secondaria di I grado sia rilasciata allo studente la certificazione delle competenze.
Una certificazione che riguarda più di un milione e 200 mila ragazzi.
Finora questo non è ancora avvenuto, soprattutto per il fatto che deve essere predisposto un modello nazionale di certificazione, definito da un decreto del ministro dell’istruzione.
Sia il ministro Moratti che il ministro Fioroni hanno rinviato l’emanazione di questo decreto in considerazione del fatto che la materia è molto complessa e ingarbugliata, a cominciare dalla mancanza di una definizione condivisa di competenza.
Da un paio d’anni le scuole sperimentano in proprio la certificazione delle competenze ispirandosi ad un modello suggerito da una circolare ministeriale.
Quest’anno la legge 169/2008 non solo ha ribadito che la certificazione va rilasciata al termine della scuola elementare e della scuola media, ma ha anche disposto che sia accompagnata da un voto in decimi.
Una decisione che, anziché chiarire, ha complicato ancor di più la questione.
Il ministero, in attesa di dipanare la matassa, ha pensato bene di rinviare anche per quest’anno il varo ufficiale del modello di certificazione, prolungando la fase sperimentale precedente.
La domanda delle scuole, a questo punto, è diventata questa: vi è obbligo o facoltà di sperimentare? La circolare n.
50 prevede che “le istituzioni scolastiche dispongono in modo autonomo forme e modalità della certificazione”: una formula un po’ criptica che può fare intendere che la sperimentazione è dovuta.
Ma la circolare successiva, la n.
51 dà, in proposito, una interpretazione autentica della precedente, affermando, infatti, che “le istituzioni scolastiche potranno procedere alla sperimentazione di propri modelli sulla base delle esperienze condotte negli anni precedenti.” Si dice potranno anziché dovranno, un termine che non lascia dubbi interpretativi sulla facoltà delle scuole di procedere alla certificazione delle competenze per quest’anno.
tuttoscuola.com
Scuola primaria – Giugno
Ormai si avvicina la fine della scuola ed è bene ripercorrere velocemente le varie tappe del percorso “Per i diritti di tutti” che è stato il filo conduttore per la programmazione di quest’anno scolastico.
Gli insegnanti potranno riguardare la sintesi della programmazione mensile e i riferimenti al tema che si trovano al fondo di ogni unità di apprendimento.
Sarebbe opportuno riprendere anche i momenti principali del percorso svolto con i bambini per renderli maggiormente consapevoli degli argomenti trattati.
Si può realizzare quest’attività oralmente o costruendo un semplice cartellone. In una delle ultime lezioni ricordarsi di consegnare a ogni bambino il diploma “I diritti dei bambini” che contiene i diritti dell’infanzia riassunti con alcune frasi e scritti in un linguaggio semplice.
In fondo al foglio del diploma, ogni insegnante porrà la propria firma per “certificare” il percorso fatto.
Sarebbe significativo organizzare una festa per la consegna dei diplomi, in ogni singola classe, o una cerimonia collettiva di tutte le classi coinvolte nella scuola.
Il cardinale John Henry Newman
Parlando di Newman, Leone XIII lo chiamava “il mio cardinale”, e aggiungeva “non è stato facile, non è stato facile.
Dicevano che fosse troppo liberale, ma io avevo deciso di onorare la Chiesa onorando Newman.
Ho sempre avuto un culto per lui.
Ho dato prova che ero capace di onorare un tale uomo”.
Il Papa lo diceva a Lord Selborne che, in una udienza del 26 gennaio 1888, gli consegnava un messaggio da parte di Newman.
Infatti già da nunzio in Belgio (dagli inizi del 1843 agli inizi del 1846), Pecci era ben informato sul movimento di Oxford.
Ed è interessante che l’affermazione: “Ho sempre avuto un culto per lui” venga dal Papa dell’Aeterni Patris e della rinascita del tomismo.
Quella nomina, auspicata particolarmente dal laicato cattolico inglese e di cui già si vociferava, era stata piuttosto laboriosa per il fraintendimento della sua difficoltà a lasciare l’oratorio di Birmingham: intenderlo e presentarlo al Papa come un rifiuto non era dispiaciuto troppo al cardinale Manning, nel quale la porpora di Newman non suscitava un eccessivo entusiasmo.
Newman poi precisò che non si trattava di un rifiuto, e il Papa stesso era disposto a una deroga. Il duca di Norfolk, che sosteneva fortemente quella nomina, già nel dicembre del 1878 l’aveva prospettata a Leone XIII, trovando che il Papa non aveva nessun pregiudizio contro Newman e nessuna avversione nei confronti dei suoi scritti.
La questione venne risolta con la lettera del Segretario di Stato, il cardinale Lorenzo Nina, che il 15 marzo 1879 comunicava ufficialmente a Newman la decisione di Leone XIII di conferirgli la porpora.
Newman giunse a Roma il 24 aprile e vi rimase fino al 4 giugno, presso l’Hotel Bristol, in via Sistina 48, in uno stato di salute estremamente precario.
Scrivendo al suo vescovo Ullathorne, il 3 luglio, mentre ricordava la “simpatia” e “gli onori” smisurati di cui era stato fatto oggetto, e in particolare la “tenerezza”, l'”affettuosa tenerezza” del Papa, lo informava di non aver potuto celebrare l’Eucaristia più di tre volte, e del resto alcune sue lettere le aveva dettate dal letto.
Durante quelle settimane venne ricevuto due volte da Leone XIII, che si informava continuamente della salute del “suo” cardinale.
La prima udienza avvenne il 27 aprile.
Ricordandola in una lettera del 2 maggio all’oratoriano Henry Bittleston, Newman scrive: “Il Santo Padre mi ha ricevuto molto affettuosamente, stringendo la mia mano nella sua.
Mi ha chiesto: “Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?”.
Risposi: “Dipende dal Santo Padre”.
Egli riprese: “Bene.
Desidero che continuiate a dirigerla”, e parlò a lungo di questo”.
Il Papa gli rivolge ancora “diverse domande” sulla casa di Birmingham, se fosse bella, sulla chiesa, sul numero dei religiosi, sulla loro età, su dove avesse studiato teologia.
Prima di congedarsi, Newman fece omaggio a Leone XIII di una copia dell’edizione romana delle sue quattro Dissertazioni Latine, e aggiunge, nella stessa lettera a Bittleston, d’aver rilevato la larga bocca del Papa, il suo ampio e gradevole sorriso, la sua “carnagione molto chiara” e il suo “parlare lento e nitido all’italiana”.
La seconda udienza, di congedo, avvenne il 2 giugno, nell’imminenza del ritorno in Inghilterra.
Newman sottopose al Papa varie richieste, e il 4 lasciò Roma per Livorno, dove rimase, malato, fino al 20 giugno, per arrivare a Birmingham il primo luglio.
Aveva ricevuto il Biglietto, recatogli da monsignor Romagnoli, la mattina del lunedì 12 maggio, presso il Palazzo della Pigna.
Il giorno dopo il Papa gli avrebbe imposto la berretta cardinalizia, e nel concistoro pubblico del 15 seguente il galero.
Insieme, tra gli altri, con Giuseppe Pecci, fratello del Papa, Tommaso Maria Zigliara, domenicano – tutt’e due eminenti studiosi di filosofia e teologia tomista – e il celebre storico Joseph Hergenröther.
Come cardinale diacono gli era stato assegnato il titolo di San Giorgio al Velabro.
Il motto dello stemma, attinto a san Francesco di Sales, era suggestivo ed eloquente, Cor ad cor loquitur, e rendeva perfettamente lo spirito di Newman, per il quale la parola non si comunica per pura ed esclusiva via astratta ma per i rapporti concretamente creati da una interiore affinità; d’altra parte, si conosce non solo con la mente, ma con tutta la persona, e quindi con l’affectus, secondo l’affermazione di Gregorio Magno: Amor ipse notitia, l’amore è in se stesso fonte e principio di conoscenza, ossia amare è conoscere.
I testimoni di quel concistoro pubblico hanno riportato l’impressione e il commento che la figura diafana di Newman, dai capelli bianchi e dal marcato profilo, avvolta nella porpora, suscitava nelle dame di Roma: “Che bel vecchio! Che figura! Pallido sì, ma bellissimo!” (cfr.
Sheridan Gilley, Newman and his age, p.
402).
Un oratoriano della comunità, parlando di Newman, tornato a Birmingham e presente alle celebrazioni nella chiesa di Edgbaston, osservava: “Il suo aspetto era magnifico, mentre stava seduto di fronte ai fedeli che riempivano il tempio.
Il suo volto sembrava quello di un angelo, con i suoi lineamenti, ormai familiari per noi, addolciti e spiritualizzati adesso dalla salute fragile, e con la sua delicata costituzione e i capelli argentei, che contrastavano con le sfumature rosse dei suoi splendidi e insoliti vestiti” (citato da José Morales Marín, John Henry Newman.
La vita).
Il cardinalato e l’accoglienza di Leone XIII, oltre che una riparazione per la diffidenza che per anni aveva circondato la vita e l’opera di Newman, erano soprattutto il riconoscimento del valore del suo ampio e lungo magistero.
Ed è molto significativo che “L’Osservatore Romano” del 14 maggio, la vigilia del concistoro pubblico, pubblicasse in prima pagina il discorso pronunziato da Newman dopo la consegna del Biglietto di nomina, il 12 maggio, dove faceva un rapido bilancio della sua vita e dove trattava di un tema che appare ancora di impressionante attualità: quello del liberalismo religioso.
Newman, dopo aver iniziato a parlare “nell’armoniosa lingua” italiana, continuando in inglese, manifestava la sua “meraviglia e gratitudine profonda” per la sua nomina, dichiarando di sentirsi sopraffatto dall'”indulgenza e dall’amore del Santo Padre” nell’eleggerlo a un “onore tanto smisurato”: “È stata una grande sorpresa.
Siffatta esaltazione non mi era mai venuta in mente e pareva non avere attinenza alcuna con il mio passato.
Avevo incontrato molte traversie, ma erano finite, e ormai era quasi giunto per me il termine di ogni cosa.
Stavo in pace”.
“Il Santo Padre ebbe simpatia per me, e mi disse perché mi sollevava a sì alto posto.
Egli giudicava questo atto un riconoscimento del mio zelo e del mio servizio per tanti anni nella Chiesa cattolica; riteneva inoltre che qualche attestato del suo favore avrebbe fatto piacere ai cattolici inglesi e anche all’Inghilterra protestante”.
Aggiungeva il neoeletto cardinale: “In un lungo corso di anni ho fatto molti sbagli.
Sono lontano da quell’alta perfezione che è propria degli scritti dei santi (…) ma ciò che confido di potermi attribuire in quanto ho scritto è questo: la retta intenzione, l’immunità da interessi privati, la disposizione all’obbedienza, la prontezza a essere corretto, il grande timore di sbagliare, la brama di servire la Santa Chiesa, e, per divina misericordia, sufficiente buon successo”.
E proseguiva: “Godo nel dire che a un gran male mi sono opposto fin dal principio.
Per trenta, quaranta, cinquant’anni anni ho resistito, con tutte le mie forze, allo spirito del liberalismo religioso, e mai la Chiesa ebbe come oggi più urgentemente bisogno di oppositori contro di esso, mentre, ahimé, questo errore si stende come una rete su tutta la terra”.
“Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore.
Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera.
Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione.
La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo (…) Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo (…) Si può andare nelle chiese protestanti e in quelle cattoliche; si può ristorare lo spirito in ambedue e non appartenere a nessuna.
Si può fraternizzare insieme in pensieri e affari spirituali, senza avere dottrina comune o vederne la necessità.
Poiché la religione è un fatto personale e un bene esclusivamente privato, la dobbiamo ignorare nei rapporti reciproci”.
Newman aggiungeva: “La bella struttura della società che è l’opera del cristianesimo, sta ripudiando il cristianesimo”; “Filosofi e politici vorrebbero surrogare anzitutto un’educazione universale, affatto secolare (…
che) provvede le ampie verità etiche fondamentali di giustizia, benevolenza, veracità e simili”; sennonché – osserva Newman – un tale progetto è diretto “a rimuovere e ad escludere la religione”.
È difficile non riconoscere la rovinosa attualità di questo liberalismo religioso, che preoccupava Newman nel 1879: oggi si sta esattamente e largamente avverando e diffondendo la persuasione che le religioni siano equivalenti, che sia indifferente e non pertinente la questione della loro verità, che una confessione o una Chiesa si equivalgono.
E che, in ogni caso, la religione appartiene esclusivamente all’ambito privato e personale, senza riflessi sociali.
A non mancare di equivocità è talora lo stesso dialogo interreligioso: quando cioè dovesse attutire la coscienza che, alla fine, a importare è la religione vera.
La confusione che al riguardo si sta creando, all’interno stesso di esperienze cristiane elitarie, e “profetiche”, come le chiamano, è mirabile e singolare, ma è assolutamente contraria al Vangelo e alla tradizione ecclesiale.
Parlano del Popolo di Dio e ne annebbiano le certezze.
Anche l’altro, e connesso, rilievo di Newman appare di sorprendente attualità: quello relativo allo smantellamento della “cultura” cristiana e delle sue risorse educative, con il pretesto della “laicità” e dei valori “laici”, come diciamo oggi: il neocardinale parlava di “giustizia, benevolenza”, noi solitamente di “solidarietà”.
Ma una pura educazione “laica” condotta nell’indifferenza religiosa è incapace di fondare un’etica ed è fatalmente destinata a educare al nulla.
Oggi chi afferma una cosa stramba o antiecclesiale si autofregia del titolo di profeta; lo fu invece davvero Newman, le cui opere con la loro finezza storica e psicologica, con la loro bellezza poetica, e con lo splendore della loro verità, hanno impreziosito per sempre la Chiesa.
(©L’Osservatore Romano – 20 maggio 2009)
La competenza linguistica dei 15enni europei ed italiani
Nel 2000 si era convenuto che per la competenza degli adolescenti europei nell’interpretazione dei testi linguistici (literacy) fosse tollerabile avere non più del 17% di quindicenni fermi ai livelli minimi, cioè a quello che le ricerche PISA fissano alla capacità inferiore, livello 1.
Nel 2000 la media dell’Unione era attestata al 21,3%.
Si trattava di scendere di poco più di quattro punti con l’apporto, s’intende, di tutti i Paesi membri.
L’Italia nel 2000 era a poco meno di due punti dal benchmark 2010 del 17%.
Ma le cose in questi sette anni (2000-2007) sono andate ben diversamente dal previsto e molti Paesi, anziché migliorare i propri livelli medi di competenza linguistica dei 15enni, hanno elevato i livelli di incompetenza, tanto che la media europea, anziché scendere, è salita di 2,8 punti, passando dal 21,3% del 2000 al 24,1% del 2006.
Hanno peggiorato i precedenti livelli di competenza linguistica del 2000 la Francia (salita da un buon 15,2% ad un mediocre 21,7%), la Gran Bretagna (salita dal 12,8% al 19%), l’Olanda (peggiorata anch’essa risalendo da un buonissimo 9,5% al 15,1%) e la Spagna (risalita addirittura dal 16,3% al 25,5).
E l’Italia che nel 2000 era così vicina alla meta finale? Male anch’essa, perché è risalita al 26,4%: un livello che registra una diffusa scarsa competenza linguistica tra i nostri quindicenni per un ragazzo ogni quattro: un peggioramento di 7,5 punti.
Un livello tra i peggiori in ambito europeo (26,4%): peggio di noi soltanto la Grecia, la Bulgaria e la Romania.
Tuttoscuola avanza un’ipotesi interpretativa del dato Rispetto all’obiettivo fissato a Lisbona per contenere al 2010 il deficit di competenza linguistica dei quindicenni al 17%, nella rilevazione intermedia del 2007 è emerso che hanno migliorato il proprio livello, anche senza raggiungere l’obiettivo fissato del 17%, la Polonia, la Germania, l’Ungheria, il Lussemburgo, la Lettonia, la Danimarca e la solita Finlandia.
Proprio il Paese scandinavo, ormai noto per le sue performances in campo formativo e scolastico, ha fatto registrare, oltre all’abbassamento di oltre due punti di quel già buon livello del 7% raggiunto nel 2000, la miglior posizione in assoluto tra i Paesi Europei, attestandosi sul 4,8% di scarsa competenza linguistica tra i suoi quindicenni, che è come dire che più del 95% di quei ragazzi ha una buona o buonissima competenza linguistica: una condizione di base per conseguire ulteriori elevati traguardi in campo scolastico e formativo.
L’Italia, peggiorando la sua situazione del 2000, si è attestata al 26,4%.
C’è da chiedersi quale è la ragione per un diffuso peggioramento delle competenze linguistiche registrato tra tanti quindicenni europei nell’arco di sei anni o poco più.
Un peggioramento che non si registra in termini così generalizzati per altri indicatori sui livelli di istruzione rilevati dall’Unione.
Non è facile trovare risposte, ma si possono avanzare alcune ipotesi per cercare di capire un fenomeno “strano” che vede molti Paesi peggiorare la propria situazione o, comunque, faticare più del previsto, per avvicinarsi all’obiettivo prefissato.
Se la competenza linguistica dei nostri (e di tanti altri) quindicenni è peggiorata, è causa soltanto del sistema di istruzione oppure ha altri fattori agenti esterni fortemente incidenti nei cui confronti la scuola non ha capacità di contrasto? Ci sentiamo di avanzare l’ipotesi che il crescente e diffuso ricorso a strumentazione telematica e tecnologica nella comunicazione quotidiana di cui si avvalgono i giovanissimi (internet, cellulari, blog, ecc.) stia inducendo semplificazioni del linguaggio comunicativo che risulta alla fine più funzionale e immediato, ma lessicalmente impoverito e ridotto.
E la scuola sembra subire la situazione in atto senza efficaci interventi di contrasto che richiedono un’azione di formazione linguistica strutturale che affonda le radici nella scuola primaria e che ha bisogno di essere mantenuta e integrata in modo sistematico nella scuola secondaria di I grado.
Livelli di responsabilità e autonomia delle scuole in Europa
Il bollettino, oltre ad includere un quadro politico e storico delle riforme a livello europeo sull’autonomia scolastica, si sofferma ad analizzare i livelli di responsabilità delle scuole nella gestione dei finanziamenti e delle risorse umane.
<!– /* Style Definitions */ p.MsoNormal, li.MsoNormal, div.MsoNormal {mso-style-parent:""; margin:0cm; margin-bottom:.0001pt; mso-pagination:widow-orphan; font-size:12.0pt; font-family:"Times New Roman"; mso-fareast-font-family:"Times New Roman";} @page Section1 {size:612.0pt 792.0pt; margin:70.85pt 2.0cm 2.0cm 2.0cm; mso-header-margin:36.0pt; mso-footer-margin:36.0pt; mso-paper-source:0;} div.Section1 {page:Section1;} — L’attenzione si sposta poi sull’autonomia didattica degli insegnanti per quanto concerne i contenuti curricolari, i metodi di insegnamento e la valutazione degli alunni.
La parte finale presenta, inoltre, i principali modelli di valutazione delle scuole e degli insegnanti nei sistemi scolastici europei.
SCARICA PDF: bollettino_autonomia_scolastica (1.22 MB) Nello studio dell’Unità Italiana di Eurydice Livelli di responsabilità e autonomia delle scuole in Europa (questo il link diretto allo studio e questo alla nostra presentazione dello studio) emergono dunque confronti con Paesi europei che possono farci capire meglio la scuola che viviamo e quella che potremmo vivere.
Per quello che riguarda l’utilizzo dei fondi pubblici, lo studio ci inserisce nel gruppo di paesi per cui il grado di autonomia cambia a seconda della categoria di spesa.
Le scuole italiane, ancorché vincolate dai livelli di trasferimento dei fondi da parte del Ministero e dai provvedimenti in tema di centralizzazione degli acquisti, sarebbero autonome per le spese di funzionamento, e per l’acquisto di attrezzature informatiche, mentre non sono autonome per le spese e/o acquisizioni di beni immobili (pag.
7).
Nell’utilizzo dei fondi privati (da donazioni, sponsorizzazioni, affitto di locali scolastici, prestiti), le scuole italiane sarebbero completamente autonome per ogni uso (pag.
8).
A nostro avviso, è giusto usare il condizionale per queste fattispecie, dato che l’apporto di risorse private è ancora poco diffuso nel sistema scolastico italiano.
Un capitolo interessante è dato dalla comparazione con gli altri Paesi circa l’autonomia delle scuole nella gestione delle risorse umane.
In Italia le scuole non svolgono selezioni per i posti vacanti o per le sostituzioni di insegnanti assenti, non licenziano docenti, non definiscono compiti e responsabilità, e possono comminare tuttalpiù sanzioni disciplinari.
Lo studio accomuna, con profili leggermente differenti, la nostra situazione a quella di Irlanda, Grecia, Francia, Cipro, Malta, Belgio,Germania, Lussemburgo e Portogallo, e ci distingue dunque dal resto dei paesi europei (pagg.
9-11).
Più avanti nello studio (pag.
15), il Bollettino commenta che “in circa la metà dei paesi europei, la selezione degli insegnanti non rientra nella responsabilità degli istituti scolastici.
Tuttavia, quando la selezione spetta a questi ultimi, il capo di istituto partecipa sempre alla decisione”.
Per quello che riguarda la definizione del curriculo minimo obbligatorio, la scuola italiana, al pari di quelle della maggioranza dei Paesi, non ha nessuna autonomia, mentre è completamente autonoma (qui la situazione europea è più variegata) per quanto riguarda la definizione delle materie opzionali e la scelta dei libri di testo (pagg.
16-21).
Anche per quello che riguarda la valutazione degli alunni, l’autonomia scolastica in Italia è totale.
Infine per quello che riguarda la cosiddetta accountability (definita non solo come “l’assunzione di responsabilità, ma più specificamente un sistema di regole e criteri trasparente, secondo il quale un soggetto accetta anticipatamente di «render conto» ad altri di proprie azioni o risultati specificati”), l’Italia si distingue da praticamente tutto il resto di Europa per l’assenza di valutazione.
Assenza di valutazione esterna dei i singoli istituti scolastici (pag.
28), e assenza di valutazione individuale o collettiva degli insegnanti, effettuata in qualsiasi maniera (pag.
29).
Insomma, c’è di che riflettere.
——————————————————————————– tuttoscuola.com martedì 19 maggio 2009
Siamo tutti nella stessa barca
CARLO MARIA MARTINI, LUIGI MARIA VERZÉ, Siamo tutti nella stessa barca, EditoreSan Raffaele, Milano, 2009, EAN9788886270908, pp.
140, € 14,50 “Sono contento che la Chiesa mostri in alcuni casi benevolenza e mitezza, ma ritengo che dovrebbe averla verso tutte le persone che veramente la meritano.” Nuovo ‘sasso nello stagno’ del cardinal Martini, arcivescovo emerito di Milano, che negli ultimi anni ha fatto sentire piu’ volte la propria voce per suggerire alla Chiesa inedite – almeno recentemente – possibilita’ di dialogo con le esigenze del mondo contemporaneo.
L’occasione, questa volta, e’ costituita da un libro-dialogo con don Luigi Maria Verze’, fondatore dell’Ospedale San Raffaele di Milano, dal titolo ”Siamo tutti nella stessa barca” e edito dalla Editrice San Raffele, di cui il Corriere della Sera anticipa oggi alcuni brani.
Per il card.
Martini, dopo la revoca della scomunica ai lefebvriani voluta da papa Benedetto XVI, potrebbe essere giunto il momento di un simile gesto di ”misericordia” verso i divorziati risposati, a cui e’ negata dalla Chiesa la possibilita’ di ricevere la comunione.
”Io mi sono rallegrato per la bonta’ con cui il Santo Padre ha tolto la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani – afferma Martini -.
Penso, pero’, con tanti altri, che ci sono moltissime persone nella Chiesa che soffrono perche’ si sentono emarginate e che bisognerebbe pensare anche a loro.
E mi riferisco, in particolare, ai divorziati risposati.
Non a tutti, perche’ non dobbiamo favorire la leggerezza e la superficialita’, ma promuovere la fedelta’ e la perseveranza.
Ma vi sono alcuni che oggi sono in stato irreversibile e incolpevole.
Hanno magari assunto dei nuovi doveri verso i figli avuti dal secondo matrimonio, mentre non c’e’ nessun motivo per tornare indietro; anzi, non si troverebbe saggio questo comportamento.
Ritengo che la Chiesa debba trovare soluzioni per queste persone”.
Il cardinale prosegue: ”Sono contento che la Chiesa mostri in alcuni casi benevolenza e mitezza, ma ritengo che dovrebbe averla verso tutte le persone che veramente la meritano.
Sono, pero’, problemi che non puo’ risolvere un semplice sacerdote e neppure un vescovo.
Bisogna che tutta la Chiesa si metta a riflettere su questi casi e, guidata dal Papa, trovi una via di uscita”.
Nel libro, Martini affronta anche il tema del celibato obbligatorio per i preti della Chiesa cattolica occidentale, dicendosi convinto ”che il celibato sia un grande valore, che rimarra’ sempre nella Chiesa: e’ un grande segno evangelico.
Non per questo e’ necessario imporlo a tutti, e gia’ nelle chiese orientali cattoliche non viene chiesto a tutti i sacerdoti”.
Sulla scelta dei vescovi, oggi scelti da Roma mentre un tempo ‘eletti’, tra l’altro, dal popolo cristiano, il cardinale afferma: ”E’ sempre stato un problema difficile nella Chiesa.
Nelle situazioni antiche in cui partecipava maggiormente il popolo, si verificavano litigi e molte divisioni.
Oggi forse e’ stata portata troppo in alto loco.
Vi sono alcune diocesi in Svizzera e in Germania che lo fanno, ma e’ difficile dire che le cose vadano senz’altro meglio.
In conclusione – conclude Martini – si tratta di una realta’ molto complessa”.
Una conversazione tra il cardinale e don Luigi Verzé Carlo Maria Martini — Non so se sono sveglio o sto sognando.
So che mi trovo completamente al buio, mentre un lento sciabordio mi fa pensare che sono su una barca che scivola via sull’acqua.
Cerco a tastoni di stabilire meglio il luogo in cui mi trovo emi accorgo che vicino ame vi è un albero, forse l’albero maestro dell’imbarcazione.
A poco a poco mi avvicino così da potermi aggrappare a esso con le mani, per avere un po’ di sicurezza e di stabilità nei sempre più frequenti moti della barca sulle onde.
In questo tentativo incontro qualcosa che mi sembra come una mano d’uomo.
Forse è un altro passeggero che sta cercando anche lui di appoggiarsi all’albero maestro.
Non so chi sia, come non so io stesso come mi sia trovato su questa barca.
Ma il tocco di quella mano mi dà fiducia: mi spingo avanti così da poterla stringere ed esprimere la mia solidarietà con qualcuno in quell’oscurità che mette i brividi.
Vorrei anche tentare di dire qualcosa, pur non sapendo se il mio compagno di barca capisce l’italiano.
Ma nel frattempo lui inizia a farmi qualche breve domanda, a cui sono lieto di rispondere.
Si tratta di una persona che non conoscevo, ma di cui avevo sentito parlare.
Mi colpiva il suo interesse per me in quel momento difficile, in cui ciascuno avrebbe voglia di pensare solo a se stesso.
Dialogando così nella notte fonda, in quel momento di incertezza e anche di pericolo si videro a poco a poco spuntare le prime luci dell’alba.
Riconobbi il luogo in cui mi trovavo: eravamo noi due soli in barca.
E usando alcuni remi che trovammo in fondo a essa, ci mettemmo a remare verso la riva, fermandoci ogni tanto per assaporare la tranquillità del lago.
Ci siamo detti molte cose in quelle ore.
È venuto chiaramente alla luce durante la conversazione che eravamo tanto diversi l’uno dall’altro.
Ma ci rispettavamo come persone e ci amavamo come figli di Dio.
Anche il fatto di trovarci sulla stessa barca ci permetteva di comprenderci e di accoglierci, così come eravamo.
Tra le prime cose che ci siamo detti c’è naturalmente un poco di autopresentazione.
Così ho appreso che il mio interlocutore aveva nientemeno che ottantanove anni, mentre io ne avevo ottantadue.
Don Luigi Verzé (tale appresi poi essere il nome di colui che viaggiava con me) presentava la sua vita come quella di uno che aveva vissuto sessantuno anni di sacerdozio.
(…) Luigi Maria Verzé — Quanto è cambiata ora la valutazione etica ecclesiastica, rispetto a quella imposta ai tempi della mia infanzia.
D’altra parte, poiché la moralità è imperativo categorico, la gente si fa una propria etica laica e la Chiesa resta con un’etica cristiana incongruente perché incondivisa dagli stessi devoti.
Ricordo, per esempio, che nella mia visita alle favelas del Brasile frequentemente mi incontravo con povere donne senza marito con un bimbo in seno, un altro in braccio e una sfilza di altri che le seguivano, tutti prodotti di diversi mariti.
Era giocoforza concludere che la pillola anticoncezionale andava consigliata e fornita.
Il Brasile, totalmente cattolico fino agli anni Ottanta, ora è disseminato di chiese e chiesuole semicristiane, organizzate però sui bisogni anche spiccioli della gente.
La Chiesa cattolica è troppo lontana dalla realtà, e le fiumane di gente, quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate e delle feste per la dea Iemanjà, l’antica Venere cui tutti, compreso il prefetto cristiano, gettano tributi floreali.
La Chiesa, più che vivere, sopravvive sulle ossa degli eroici primi missionari.
E poiché siamo in tema di morale pratica, che cosa dice, Eminente Padre, della negazione dei sacramenti a devotissimi divorziati? Io penso che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l’obbligo del celibato, poiché temo che per molti il celibato sia una finzione.
E non sarebbe più vantaggioso che la consacrazione dei vescovi avvenisse su acclamazione del popolo di Dio, oggi così estraneo ai fatti della Chiesa? Forse non si è ancora maturi per tutto questo, ma Lei non crede che siano temi ai quali si dovrebbe pensare pregando lo Spirito? Carlo Maria Martini — Oggi ci sono non poche prescrizioni e norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele.
Per questo, la Chiesa appare un po’ troppo lontana dalla realtà.
Purtroppo sono d’accordo che le fiumane di gente che vanno a manifestazioni religiose non sempre le vivono con profondità.
Occorre prepararle, e occorre dopo dare un seguito di riflessione nell’ambito della parrocchia o del gruppo.
Non credo, però, che si possa dire che in Paesi come il Brasile, la Chiesa non vive ma sopravvive soltanto sulle ossa dei primi eroici missionari.
La Chiesa vive là anche su gente semplice, umile, che fa il proprio dovere, che ama, che sa comprendere e perdonare.
È questa la ricchezza delle nostre comunità.
Tanti laici di queste nazioni e anche tanti laici vicino a noi sono seri e impegnati.
Lei mi chiede che cosa penso della negazione dei sacramenti a devotissimi divorziati.
Io mi so no rallegrato per la bontà con cui il Santo Padre ha tolto la scomunica ai quattro vescovi lefebvriani.
Penso, però, con tanti altri, che ci sono moltissime persone nella Chiesa che soffrono perché si sentono emarginate e che bisognerebbe pensare anche a loro.
E mi riferisco, in particolare, ai divorziati risposati.
Non a tutti, perché non dobbiamo favorire la leggerezza e la superficialità, ma promuovere la fedeltà e la perseveranza.
Ma vi sono alcuni che oggi sono in stato irreversibile e incolpevole.
Hanno magari assunto dei nuovi doveri verso i figli avuti dal secondo matrimonio, mentre non c’è nessun motivo per tornare indietro; anzi, non si troverebbe saggio questo comportamento.
Ritengo che la Chiesa debba trovare soluzioni per queste persone.
Ho detto spesso, e ripeto ai preti, che essi sono formati per costruire l’uomo nuovo secondo il Vangelo.
Ma in realtà debbono poi occuparsi anche di mettere a posto ossa rotte e di salvare i naufraghi.
Sono contento che la Chiesa mostri in alcuni casi benevolenza e mitezza, ma ritengo che dovrebbe averla verso tutte le persone che veramente la meritano.
Sono, però, problemi che non può risolvere un semplice sacerdote e neppure un vescovo.
Bisogna che tutta la Chiesa si metta a riflettere su questi casi e, guidata dal Papa, trovi una via di uscita.
Dopo di ciò Lei affronta un problema molto importante, dicendo che ai sacerdoti andrebbe tolto l’obbligo del celibato.
È una questione delicatissima.
Io credo che il celibato sia un grande valore, che rimarrà sempre nella Chiesa: è un grande segno evangelico.
Non per questo è necessario imporlo a tutti, e già nelle chiese orientali cattoliche non viene chiesto a tutti i sacerdoti.
Vedo che alcuni vescovi propongono di dare il ministero presbiterale a uomini sposati che abbiano già una certa esperienza e maturità (viri probati).
Non sarebbe, però, opportuno che fossero responsabili di una parrocchia, per evitare un ulteriore accrescimento del clericalismo.
Mi pare molto più opportuno fare di questi preti legati alla parrocchia come un gruppo che opera a rotazione.
Si tratta in ogni caso di un problema grave.
E credo che quando la Chiesa lo affronterà avrà davanti anni davvero difficili.
Non mancheranno coloro che diranno di aver accettato il celibato unicamente per arrivare al sacerdozio.
D’altra parte, sono certo che ci saranno sempre molti che sceglieranno la via celibataria.
Perché i giovani sono idealisti e generosi.
Inoltre ci sono nel mondo alcune situazioni particolarmente difficili, in alcuni continenti in particolare.
Penso però che tocchi ai vescovi di quei Paesi fare presente queste situazioni e trovarne le soluzioni.
Lei si domanda anche se non sarebbe più vantaggioso che la consacrazione dei vescovi avvenisse su acclamazione del popolo di Dio.
L’elezione dei vescovi è sempre stato un problema difficile nella Chiesa.
Nelle situazioni antiche in cui partecipava maggiormente il popolo, si verificavano litigi e molte divisioni.
Oggi forse è stata portata troppo in alto loco.
Mi ricordo che un canonista cardinale intervenne in una riunione per dire che non era giusto che la Santa Sede facesse due processi per la stessa persona: uno dovrebbe essere fatto in loco e il secondo dal Nunzio.
Quanto alla partecipazione della gente, vi sono alcune diocesi in Svizzera e in Germania che lo fanno, ma è difficile dire che le cose vadano senz’altro meglio.
In conclusione, si tratta di una realtà molto complessa.
Però l’attuale modo di eleggere i vescovi deve essere migliorato.
Sono temi sui quali si dovrebbe riflettere molto, e parlare anche di più.
Nei sinodi qualcosa emergeva, ma poi non veniva mai approfondito.
Il problema, però, esiste e deve potersi fare una discussione pubblica a questo proposito.
CARLO MARIA MARTINI e LUIGI MARIA VERZÉ 19 maggio 2009
Classe terza – Maggio
Prima fase dell’attività Gli insegnanti di religione e scienze presenteranno i testi-guida insieme, commentandoli e approfondendoli in base alle rispettive competenze.
3) Alle origini dell’esistere Biologicamente, l’embrione unicellulare è il risultato della fusione delle due cellule umane fondamentali, dell’ovulo femminile fecondato dallo spermatozoo maschile; in esso ha origine un nuovo “genoma” (insieme del patrimonio genetico inscritto nel DNA).
Evidenziamo tre aspetti del “genoma”.
– Ha un’individualità somatica, è un’entità con una sua originale corporeità.
– È unico e irripetibile.
Non è esistito né mai esisterà, nell’ambito del genere umano, un altro embrione identico.
– Secondo la legge “ontogenica” di sviluppo, «tutto ciò che l’embrione da quel momento in poi è, tutta la sua storia biologica, è già tutta presente in codice.
Se dal quattordicesimo-sedicesimo giorno si formerà la stria, il primo abbozzo di cellule del cervello, se dopo cinque mesi avrà già tutti gli organi strutturati, se dopo nove mesi nascerà, se a un anno circa camminerà, se a una certa età spunteranno i capelli bianchi, tutto ciò è già iscritto in codice nel genoma dell’embrione.
Tutto ciò che si formerà successivamente è già presente nell’embrione fin dal primo istante.
Non è quindi accettabile l’ipotesi che l’embrione sia un essere umano in potenza.
In potenza è soltanto il suo sviluppo; ci troviamo di fronte non a un essere umano potenziale, ma in atto» (Giovanni Russo in Bioetica e Cristiani, ElleDiCi, collana “Mondo nuovo”, p.
13).
La scienza afferma e dimostra come l’embrione sia un essere umano.
Secondo la Chiesa ‒ e non solo ‒ non è lecito rivendicare il “diritto” di poter interrompere una gravidanza, tranne che nel caso in cui la madre si trovi in reale pericolo di vita a causa della gravidanza stessa (in una situazione praticamente di “legittima difesa”): i genitori non sono padroni della vita dei figli.
Giovanni Paolo II affermò: «Confermo che l’uccisione diretta e volontaria di un essere umano innocente è sempre gravemente immorale.
Tale dottrina, fondata in quella legge non scritta che ogni uomo, alla luce della ragione, trova nel proprio cuore, è riaffermata dalla Sacra Scrittura» (Evangelium Vitae, N57).
La mancanza di tutela dell’embrione a livello legislativo rappresenta una lacerante contraddizione in qualsiasi assetto sociale in cui si affermi teoricamente il principio di tutela della persona umana: ciò che, su di esso, è scientificamente dimostrato viene ipocritamente ignorato per lasciare spazio a una visione “di comodo”, che consenta al cittadino una “semplificazione della vita” ottenuta ignorando le verità il cui rispetto richiede impegno.
L’embrione non potrebbe neppure essere oggetto di “sperimentazione selvaggia” che ne comporti la disinvolta manipolazione e la frequente soppressione: quando c’è di mezzo il mistero della vita, il fine non può giustificare i mezzi.
Riflettiamo, con il seguente documento, su quest’ultima problematica.
1) La “scienza della sopravvivenza” Oggi, il rapporto tra scienza e pensiero religioso è basato sul rispetto della reciproca autonomia: sono diversi i campi d’indagine, diversi i metodi e gli obiettivi…
Scienza e fede non sono dimensioni “in opposizione”: la scienza indaga sui fenomeni, le leggi naturali e la loro interazione (sul “come”…); il pensiero religioso va alla ricerca del senso di ogni realtà…
S’interroga sul “perché”.
Si tratta di due approcci a due diversi tipi di conoscenza.
Per lo scienziato credente, le leggi della natura sono altrettanti doni di Dio.
Tuttavia, la Chiesa invita i Cristiani ad assumere un ruolo profetico nei confronti della scienza, che può sia costruire che distruggere, che dev’essere “servizio e non fine”, “mezzo e non termine”, nella consapevolezza che non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito.
Il problema è sempre quello della tutela dei diritti fondamentali della persona; il diritto alla vita, alla tutela della sua dignità, della sua complessità e degli equilibri psico-fisici che la caratterizzano…
di tutto ciò si occupa la bioetica.
La “bioetica” nacque come nuova disciplina, nel 1970: l’oncologo americano Van Rensselaer coniò l’espressione presentandola come “scienza della sopravvivenza”, con l’obiettivo di tutelare la qualità della vita.
La “bioetica medica” ne è l’aspetto più conosciuto: tratta le nuove frontiere della medicina, la genetica, e affronta la questione della tutela della persona dal suo nascere, nella fase embrionale, fino alla morte cerebrale, trattando di eutanasia, clonazione, sperimentazioni cliniche…
2) La vita: un valore assoluto? «Ho iniziato il mio tunnel 19 anni or sono.
Ho subito una decina di interventi chirurgici, la radioterapia mi ha distrutto le ossa del viso: mi manca il mento, un pezzo di mascella, non ho la lingua.
Praticamente non ho la bocca, infatti da 36 mesi mi nutro per via enterale (sarebbe un tubetto piantato nello stomaco).
Non sono contento, però sono felice di essere vivo.
Faccio sport, oggi sarò con la mia squadra al Giro della Collina.
Tutte le domeniche, se non sono ricoverato, vado a correre con la squadra.
Arrivo sempre ultimo! Ma quando vedo lo striscione dell’arrivo sono felice.
Il più felice di tutti.
Se fossi morto 19 anni fa, sarei stato sfortunato! Questo sì! Sono 19 anni che mi godo una famiglia meravigliosa e degli amici magnifici» (Lettera firmata, in «La Stampa», «Lettere al giornale», 12 ottobre 1997) L’atleta così sofferente della testimonianza vive una vita difficile, eppure ricca di significato per gli obiettivi da raggiungere, per i rapporti costruiti, per il suo coraggio che sembra avere la forza profetica di far apprezzare agli altri, come un dono, tutto ciò che hanno…
La persona umana è un mistero complesso e splendido: ciascuno può scoprire, o comunque vivere in modo diverso da chiunque altro, una “missione speciale” da portare a termine, con le risorse sorprendenti che porta in sé.
Il concetto di “qualità della vita”, nella nostra società, sta sostituendo quello di “sacralità della vita”.
La vita umana non vale forse “di per sé”, prima ancora che sia caratterizzata da benessere psico-fisico? Il ragazzo “down” può sorprendere ed essere un insegnamento vivente con la sua dolcezza e la sua capacità di gioire per le piccole cose; il bimbo vissuto poche ore può risvegliare nei genitori, nonostante il dolore, un amore così profondo da farli cambiare, progredire; il nonno, dalla sedia a rotelle, può essere una presenza indispensabile per i nipoti, nonostante non sia più giovane, né “bello”, né “utile” nel senso comune del termine…
In un’ottica di fede, ogni persona, unica e irripetibile, è voluta da Dio, l’unico che possa stabilire nell’ambito di un progetto di bene quanto sia giusto che duri un’esistenza terrena, palestra per imparare e insegnare l’amore.
Un’ottica semplicemente umana può comunque giungere alla stessa conclusione: esistere è un diritto intangibile.
La convinzione che l’essere umano debba avere dei diritti e dei doveri assoluti rientra in quei valori scritti nel profondo della coscienza, in quella “legge naturale” che tutti possono condividere, prima che entrino in gioco le differenze ideologiche? Se la risposta è affermativa, il “diritto originario” non è forse quello di…
poter “provare a esserci”? E se un altro principio può essere quello dell’uguaglianza tra esseri umani, con quale autorità un uomo potrebbe decidere della vita di un altro uomo? Il coesistere democratico di opinioni diverse non significa rinuncia alla ricerca di “principi veri” condivisi, che consentano la tutela della persona anche a livello legislativo.
In caso contrario, tutto è “una questione di opinioni”…
E quelle di una Madre Teresa di Calcutta devono avere lo stesso peso di quelle…
di un Adolf Hitler.
Compito fondamentale della bioetica è il riconoscimento di questi principi superiori.
La Chiesa valorizza, tramite le scelte concrete dei cristiani e i documenti del Magistero, questa concezione della bioetica.
DOCUMENTO Cellule staminali ed embrioni Le cellule staminali sono cellule il cui destino non è stato ancora “deciso”.
Possono originare vari tipi di cellule diverse.
Nelle fasi iniziali dello sviluppo umano esse sono situate nell’embrione.
Le cellule staminali (originarie basilari) sono cellule capaci di replicarsi e di dare origine a molti altri tipi di cellule, via via più specializzate.
L’embrione, all’inizio, è composto di cellule ciascuna delle quali è capace di dare origine a tutto l’organismo; per questo, tali cellule vengono chiamate “totipotenti”.
Quando l’embrione arriva ad avere sedici cellule (circa tre giorni di vita), questa capacità viene perduta; le cellule che costituiscono la massa interna dell’embrione divengono “pluripotenti”, rimangono cioè capaci di produrre tutti i tessuti dell’organismo.
Sono queste in senso proprio le cellule staminali.
Subito dopo, le cellule si differenziano ulteriormente e, attraverso vari passaggi, andranno a costituire tutti i diversi tessuti dei vari organi.
Le cellule staminali, oltre che nell’embrione nella sua prima fase di vita, si trovano nel cordone ombelicale e, come si è scoperto negli ultimi anni, anche in molti tessuti dell’adulto: il sistema delle cellule staminali attivo all’inizio della vita dell’embrione si conserva dunque, in parte, per tutta la vita.
Cellule staminali embrionali umane La preparazione di tali cellule, in modo che siano adatte alla sperimentazione, richiede che vengano appositamente prodotti embrioni umani, o che si utilizzino quelli congelati in seguito a tecniche di fecondazione artificiale.
Cellule staminali adulte Nella maggior parte dei tessuti dell’adulto esistono cellule staminali capaci di produrre cellule di ricambio, non solo per il tessuto nel quale risiedono, ma anche per tessuti di altri organi.
Anch’esse sono capaci, attraverso l’applicazione dei più avanzati metodi di biologia molecolare, di dare origine a più tipi di cellule che, impiantate in tessuti sofferenti, si sono mostrate capaci di restituire loro le normali funzioni.
La terapia attraverso le staminali adulte è già una realtà per la leucemia, le lesioni ossee, le ustioni, il trapianto di cornea.
L’uso delle cellule staminali adulte non prevede la soppressione di embrioni né la loro clonazione.
(da A.M.
Baggio, Per la democrazia e la vita, speciale “Città Nuova”, Roma, n.
3, 2005) (Nella seconda parte, una riflessione sull’eutanasia e le attività).
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per la classe terza e Guida.
Unità di lavoro interdisciplinare (religione, scienze) Prima parte OSA di riferimento per l’Irc Conoscenze – Fede e scienza, letture distinte ma non conflittuali dell’uomo e del mondo.
– Vita e morte nella visione di fede cristiana.
Abilità – Confrontare spiegazioni religiose e scientifiche del mondo e della vita.
– Descrivere l’insegnamento cristiano sui rapporti interpersonali, l’affettività e la sessualità.
– Motivare le risposte del Cristianesimo ai problemi della società di oggi.
– Confrontare criticamente comportamenti e aspetti della cultura attuale con la proposta cristiana.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità Conoscere e descrivere – termini e concetti fondamentali riguardanti la bioetica; – la posizione della Chiesa cattolica su alcune questioni di bioetica, nel confronto con opinioni diverse.
– Esprimere opinioni motivate sui “vincoli morali” che la scienza dovrebbe avere e sul concetto di “tutela della vita umana”.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza.
– Sviluppare interesse alla distinzione tra bene e male, alla ricerca della verità.