Fermate gli orologi, quando dai vapori del Mar Egeo vedete sbucare la cima dell’Athos.
Perchè lì sono cose d’altri tempi.
Il calendario è il giuliano, in ritardo di 13 giorni su quello latino che ha invaso il resto del mondo.
Le ore non si contano a partire da mezzanotte, ma dal tramonto del sole.
E non è sotto il sole meridiano, ma nel buio notturno che l’Athos più vive e più palpita.
Di canti, di luci, di misteri.
Il Monte Athos è vera terra santa, che incute timor di Dio.
Non è per tutti.
Intanto non è per le donne, che già sono una buona metà degli umani.
L’ultima pellegrina autorizzata vi ha messo piede sedici secoli fa.
Si chiamava Galla Placidia, quella dei mosaici blu e oro di una chiesa di Ravenna a lei intitolata.
A nulla le valse d’esser figlia del grande Teodosio, imperatore cristiano di Roma e Costantinopoli.
Entrata in un monastero dell’Athos, un’icona della Vergine le ordinò: férmati! e le ingiunse di lasciar la montagna.
Che doveva restare da lì in poi inviolata da donna.
Dal secolo XI – dicono – neanche gli animali femmina, vacche, capre, coniglie, osano più salire impunemente il santo monte.
URANÚPOLIS Uranúpolis, città del cielo, ultimo villaggio greco prima del sacro confine, è posto di frontiera specialissimo.
Cartelli di ferro smaltato vi avvertono fino all’ultimo che non la passerete liscia se siete donna travestita da uomo o se vi scoveranno senza i giusti permessi.
La sacra epistassía, il governo dei monaci, vi consegnerà a un tribunale di Grecia.
Il quale è sempre severo nel tutelare l’extraterritorialità dell’Athos e le sue leggi di autonoma teocrazia, sancite nella costituzione ellenica e forti di riconoscimento internazionale.
Sudati monaci in tonaca e cappello a cilindro tengono a freno la calca dei viaggiatori in cerca d’un lasciapassare.
Molti i chiamati ma pochi gli eletti, dice il Vangelo.
E pochissimi sono i visti d’ingresso timbrati ogni mattina col sigillo della Vergine.
Chi finalmente riceve la similpergamena che autorizza la visita corre al molo d’imbarco.
Perché nell’Athos si entra solo via mare, su navigli che hanno nomi di santi.
Lo sbarco è un porticciolo a metà penisola che si chiama Dafne, come la ninfa di Apollo.
Ma il lontano Olimpo, che da lì si scorge nelle giornate ventose, dimenticàtelo.
Un vecchio autobus panciuto, del color della terra anche nei finestrini, arranca sulla salita fino a Kariès, ombelico amministrativo dell’Athos, sede dalla sacra epistassìa.
KARIÈS A Kariès ci sono la gendarmeria, un paio di viuzze con botteghe che vendono semi di farro, icone, grani d’incenso e tonache monacali; ci sono il finecorsa dell’autobus e una trattoria.
C’è anche un telefono pubblico, che ha tutta l’aria d’essere il primo e l’ultimo.
Kariès è uno strano paesetto senza abitanti.
Quei pochi che compaiono sono tutti provvisori: monaci itineranti, gendarmi, operai di giornata, viaggiatori smarriti.
Da lì in avanti si procede a piedi, ore di marcia su strade sterrate, senz’ombra, in nuvole di polvere impalpabile come cacao.
Oppure su camionette prese a nolo da un altro degli strani greci provvisori.
Oppure saltando su jeep di passaggio, di proprietà dei monasteri più ammodernati.
Ma sempre con grande supplizio corporeo.
L’Athos è per tempre forti, ascetiche.
Da subito vi torchia.
Ogni giorno di visita avrà la sua via crucis di polvere e sassi e precipizi: perchè sul prezioso vostro permesso c’è scritto che non potete fermarvi più di una notte in un monastero e tra l’uno e l’altro ci sono ore di cammino.
Il pellegrinare è d’obbligo.
GRANDE LAVRA Ma quando arrivate esausti in uno dei venti grandi monasteri, che paradiso.
La Grande Lavra, il primo nella gerarchia dei venti, vi accoglie tra le sue mura sospese tra terra e cielo, verso la punta della penisola proprio sotto la santa montagna.
Compare un giovane monaco e vi ritira pergamena e passaporto.
Ricompare come l’angelo dell’Apocalisse dopo un silenzio in cielo di circa mezz’ora, ristorandovi con un bicchier d’acqua fresca, un bicchierino di liquor d’anice, una zolletta di gelatina di frutta e un caffè alla turca, speziato.
È il segno che siete stato ammesso tra gli ospiti.
Vi tocca un letto in una camera a sei tra mura vecchie di secoli, con le lenzuola fresche di bucato e l’asciugamano.
Da lì in avanti farete vita da monaci.
Ossia farete come vi pare.
I monasteri dell’Athos non sono come quelli d’Occidente, cittadelle murate dove ogni mossa, ogni parola sono sotto regola collettiva.
Sull’Athos c’è di tutto e per tutti.
C’è l’eremita solitario sullo strapiombo di roccia, cui mandano su il cibo di tanto in tanto con una cesta.
Ci sono gli anacoreti nelle loro casupole sperdute tra ginestre e corbezzoli, sulla costa della montagna.
Ci sono i senza fissa dimora, sempre in cammino e sempre irrequieti.
Ci sono i solenni cenobi di vita comune retti da un abate, che qui si chiama igúmeno.
Ci sono i monasteri villaggio dove ciascun monaco fa un po’ a ritmo suo.
La Grande Lavra è uno di questi.
Dentro le sue mura ci sono piazze, stradine, chiese, pergole, fontane, mulini.
Le celle fanno blocco come in una kasbah orientale.
Spiccano gli intonaci azzurri, mentre il rosso è il sacro colore delle chiese.
Quando suona il richiamo della preghiera, con campane dai sette suoni e con il martellare dei legni, i monaci s’avviano al katholikón, la chiesa centrale.
Ma se qualcuno vuol pregare o mangiare in solitudine, niente gli vieta di restare nella sua cella.
Anche per il visitatore è così, salvo che lui di alternative ne ha proprio poche.
Al vespero accorre impaziente.
Alla preghiera notturna ci prova, presto indotto a ripiegare dal sonno.
Alla liturgia mattutina ci riprova, vagamente stordito.
O inebriato? C’è profumo d’Oriente, di Bisanzio, nella Grande Lavra.
C’è aroma di cipresso e d’incenso, fragranza di cera d’api, di reliquie, di antichità misteriosamente prossime.
Perchè i monaci dell’Athos non patiscono il tempo.
Vi parlano dei loro santi, di quel sant’Atanasio che ha piantato i due cipressi al centro della Lavra, che ha costruito con forza erculea il katholikón, che ha plasmato il monachesimo athonita, come se non fosse morto nell’anno 1000 ma appena ieri, come se l’avessero incontrato di persona e da poco.
Santi, secoli, imperi, città terrene e celesti, tutto par che oscilli e fluisca senza più distanza.
Ai visitatori sono offerti in venerazione, al centro della navata, i tesori del monastero: scrigni d’oro e d’argento con zaffiri e rubini, che incastonano la cintura della Vergine, il cranio di san Basilio Magno, la mano destra di san Giovanni Crisostomo.
La luce del tramonto li accende, li fa vibrare.
E s’accendono anche gli affreschi di Teofane, maestro della scuola cretese del primo Cinquecento, le maioliche azzurre alle pareti, le madreperle dell’iconostasi, del leggio, della cattedra.
Dopo il vespero si esce in processione dal katholikón e si entra, dirimpetto sulla piazza, nel refettorio, che ha anch’esso l’architettura di una chiesa ed è anch’esso tutto affrescato dal grande Teofane.
È la stessa liturgia che continua.
L’igúmeno prende posto al centro dell’abside.
Dal pulpito un monaco legge, quasi cantando, storie di santi.
Si mangia cibo benedetto, zuppe ed ortaggi in antiche stoviglie di ferro, nelle feste si beve del vino color ambra, su spesse tavole di marmo scolpite a corolla, a loro volta poggianti su sostegni marmorei: vecchie di mille anni ma che evocano i dolmen della preistoria.
Anche l’uscita avviene in processione.
Un monaco porge a ciascuno del pane santificato.
Un altro lo incensa con tale arte che anche in bocca ve ne resta a lungo il profumo.
VATOPÉDI Dopo la Grande Lavra, nella gerarchia dei venti monasteri, viene Vatopédi.
Sorge sul mare tra dolci colline vagamente toscane.
Lì, raccontano, si salvò il naufrago Arcadio, figlio di Teodosio.
E lì dovette riprendere il largo la sorella, Galla Placidia, la prima delle donne interdette dall’Athos.
Come la Lavra è rustica, così Vatopédi è raffinato.
E lo fu sin troppo, in qualche tratto della sua storia passata: opulento e decadente.
Ancora non molti anni fa albergava monaci sodomiti, disonore dell’Athos.
Ma poi è venuta la sferza purificatrice d’un manipolo di monaci rigoristi giunti da Cipro, che hanno messo al bando i reprobi e imposto la regola cenobitica.
Oggi Vatopédi è tornato monastero tra i più fiorenti.
Accoglie giovani novizi fin dalla lontana America, figli di ortodossi emigrati.
Vatopédi è l’aristocrazia dell’Athos.
Dice solenne l’igúmeno Efrem, barba color rame, occhi chiari e voce melodiosa: “L’Athos è unico.
È il solo Stato monastico al mondo”.
Ma se è città del cielo sulla terra, allora tutto lì dev’essere sublime.
Come le liturgie, che a Vatopédi sublimi lo sono per davvero.
Specie nelle grandi feste: Pasqua, Epifania, Pentecoste.
Il pellegrino vinca il sonno e non perda, per niente al mondo, i suoi meravigliosi uffici notturni.
Già la chiesa è di grande suggestione: è a croce greca come tutte le chiese dell’Athos, mirabilmente affrescata dai maestri macedoni del Trecento, con un’iconostasi fulgentissima d’ori e d’icone.
Ma è il canto che a tutto dà vita: canto a più voci, maschio, senza strumenti, che fluisce ininterrotto anche per sette, dieci ore di fila, perché più la festa è grande e più si prolunga nella notte, canto ora robusto ora sussurrato come marea che cresce e si ritrae.
I cori guida sono due: grappoli di monaci raccolti attorno al leggio a colonna del rispettivo transetto, con il maestro cantore che intona la strofa e il coro che ne coglie il motivo e lo fa fiorire in melodie e in accordi.
E quando il maestro cantore si sposta dal primo al secondo coro e traversa la navata a passi veloci, il suo leggero mantello dalle pieghe minute si gonfia a formare due ali maestose.
Sembra volare, come le note.
E poi le luci.
C’è elettricità nel monastero, ma non nella chiesa.
Qui le luci sono solo di fuoco: miriadi di piccoli ceri il cui accendersi e spegnersi e muoversi è anch’esso parte del rito.
In ogni katholikón dell’Athos pende dalla cupola centrale, tenuto da lunghe catene, un lampadario a forma di corona regale, di circonferenza pari alla cupola stessa.
La corona è di rame, di bronzo, di ottone scintillanti, alterna ceri e icone, reca appese uova giganti che sono simbolo di risurrezione.
Scende molto in basso, fin quasi a esser sfiorato, proprio davanti all’iconostasi che delimita il sancta sanctorum.
Altri fastosi lampadari dorati scendono dalle volte dei transetti.
Ebbene, nelle liturgie solenni c’è il momento in cui tutte le luci vengono accese: quelle dei lampadari e quelle della corona centrale; e poi i primi sono fatti ampiamente oscillare, mentre la grande corona viene fatta ruotare attorno al suo asse.
Almeno un’ora dura la danza di luce, prima che pian piano si plachi.
Il palpito delle mille fiammelle, il brillare degli ori, il tintinnio dei metalli, il trascolorare delle icone, l’onda sonora del coro che accompagna queste galassie di stelle rotanti come sfere celesti: tutto fa balenare la vera essenza dell’Athos.
Il suo affacciarsi sui sovrumani misteri.
Quali liturgie occidentali, cattoliche, sono oggi capaci d’iniziare a simili misteri e d’infiammare di cose celesti i cuori semplici? Joseph Ratzinger, ieri da cardinale e oggi da papa, coglie nel segno quando individua nella volgarizzazione della liturgia il punto critico del cattolicesimo d’oggi.
All’Athos la diagnosi è ancor più radicale: a forza d’umanizzare Dio, le Chiese d’Occidente lo fanno sparire.
“Il nostro non è il Dio dello scolasticismo occidentale”, sentenzia Gheorghios, igúmeno del monastero athonita di Grigoríu.
“Un Dio che non deifichi l’uomo non può avere alcun interesse, che esista o meno.
È in questo cristianesimo funzionale, accessorio, che stanno gran parte delle ragioni dell’ondata di ateismo in Occidente”.
Gli fa eco Vassilios, igúmeno dell’altro monastero di Ivíron: “In Occidente comanda l’azione, ci chiedono come possiamo rimanere per così tante ore in chiesa senza far nulla.
Rispondo: cosa fa l’embrione nel grembo materno? Niente, ma poiché è nel ventre di sua madre si sviluppa e cresce.
Così il monaco.
Custodisce lo spazio santo in cui si trova ed è custodito, plasmato da questo stesso spazio.
È qui il miracolo: stiamo entrando in paradiso, qui e ora.
Siamo nel cuore della comunione dei santi”.
SIMONOS PETRA Simonos Petra è un altro dei monasteri che sono alla testa della rinascita athonita.
Si erge su uno sperone di roccia, tra la vetta dell’Athos e il mare, coi terrazzi a vertigine sul precipizio.
Eliseo, l’igúmeno, è appena tornato da un viaggio tra i monasteri di Francia.
Apprezza Solesmes, baluardo del canto gregoriano.
Ma giudica la Chiesa occidentale troppo “prigioniera di un sistema”, troppo “istituzionale”.
L’Athos invece – dice – è spazio degli spiriti liberi, dei grandi carismatici.
All’Athos “il logos si sposa alla praxis”, la parola ai fatti.
“Il monaco deve mostrare che le verità sono realtà.
Vivere il Vangelo in modo perfetto.
Per questo la presenza del monaco è così essenziale per il mondo.
Scriveva san Giovanni Climaco: luce per i monaci sono gli angeli, luce per gli uomini sono i monaci”.
Simonos Petra fa scuola, anche fuori dei confini dell’Athos.
Ha dato vita a un monastero per monache, un’ottantina, nel cuore della penisola Calcidica.
Un altro ne ha fatto sorgere vicino al confine tra Grecia e Bulgaria.
E ha aperto tre altri suoi nuclei monastici persino in Francia.
È un monastero colto, dotato d’una ricca biblioteca.
A notte alta i suoi ottanta monaci, prima della liturgia antelucana, vegliano in cella da tre a cinque ore leggendo e meditando i libri dei Padri.
Athos insonne.
Senza tempo che non sia quello delle sfere angeliche.
Lasciarlo è una dura scossa anche per il visitatore più disincantato.
A Dafne si risale sul traghetto.
Il cadenzato ronfare dei motori vi rimette in pari con gli orologi mondani.
La ragazza greca, la prima, che a Uranúpolis vi serve il caffé, vi viene incontro come un’apparizione.
Con la folgorante bellezza d’una Nike di Samotracia.
God Is Back
JOHN MICKLETHWAIT – ADRIAN WOOLDRIDGE, God Is Back: Come la rinascita globale della Fede sta cambiando il mondo, Penguin Press HC, 2009, ISBN-10: 1594202133, pp.416, $ 18,45.
Lingua: Inglese Contrariamente a quello che si riteneva in Europa, Dio non è morto, anzi sta benissimo, e anche il capitalismo sta meglio di quello che pensavamo.
Infatti, dato che sarà il mercato globale a decidere dove Dio tornerà, e soprattutto quale Dio tornerà, sarà un Dio cristiano, occidentale e americano.
Questa è, in estrema sintesi, la tesi di fondo dell’ultimo libro di John Micklethwait e Adrian Wooldridge, God Is Back: How the Global Revival of Faith Is Changing the World (Penguin Press, 2009, 416 pagine).
Già autori di vari reportage, tra cui un volume sui vari volti della destra americana, la “right nation” (tradotto da Mondadori nel 2005, La destra giusta.
Storia e geografia dell’America che si sente giusta perché è di destra), i due giornalisti di punta dell’Economist dipingono un interessante panorama della “rivincita di Dio” in corso nel mondo post-11 settembre.
Di recente alcuni libri hanno annunciato una controffensiva in difesa di Dio da parte di una generazione di neo-apologisti (tra i più recenti usciti in America: Robert Wright, The Evolution of God; Karen Armstrong, The Case for God; Nicholas Wade, The Faith Instinct) che hanno lanciato una reazione al proselitismo antireligioso e populista della triade Dawkins-Harris-Hitchens.
L’appassionante God Is Back parte da una prospettiva di geopolitica delle fedi.
Micklethwait e Wooldridge non sono avvocati della tesi dello “scontro di civiltà” interpretato dai teocon americani, ma fanno propria la lezione di Samuel Huntington circa la necessità di comprendere la dimensione religiosa della politica internazionale e di elaborare una lettura politica (ed economica) delle relazioni interreligiose nel mondo globalizzato.
La prima parte del libro dipinge due vie alternative verso la modernità: la via europea e la via americana.
Di fronte ad un’Europa laicista in cui l’ateismo pubblico è la condizione richiesta ai personaggi pubblici, la storia degli Stati Uniti rappresenta l’esatto contrario, cioè una democrazia che si regge su un pilastro religioso e trascendente, cioè sulla religione, «e non mi importa quale essa sia» (per citare le parole del presidente Eisenhower).
La maggiore differenza rispetto all’Europa è che l’America si divide sull’interpretazione della religione nello spazio pubblico, più che sull’opportunità di dare alla religione uno spazio pubblico.
Ma lo scenario è in mutamento su entrambi i lati dell’Atlantico.
Se in America, dagli anni Ottanta in poi, il cristianesimo evangelical è passato da mera lobby culturale a forza politica organizzata, secondo gli autori anche in Europa si comincerà presto a sentire l’effettorimbalzo causato da una spinta migratoria in gran parte proveniente da paesi arabi e/o a maggioranza musulmana.
Ma tra Europa e America vi è ancora un evidente “God gap”, una fondamentale differenza nella percezione del ruolo della religione in politica: questa differenza è impersonata dal tentativo di alfabetizzazione teologica del neo-cattolico Tony Blair, un tentativo finora malriuscito e incompreso da entrambe le parti dell’Atlantico (il suo corso su “fede e globalizzazione” a Yale ha sollevato critiche per l’ignoranza dell’ex premier inglese circa concetti-base della “teologia pubblica” che avrebbe dovuto insegnare).
La storia recente degli Stati Uniti è testimone del gap.
La lunga campagna elettorale per le presidenziali del 2008 si era risolta a favore di Obama anche grazie alle sua capacità di “outgodding”, cioè di articolare meglio la questione religiosa rispetto agli altri candidati: meglio sia di Hillary Clinton (che tentò di usare in modo cinico il caso del reverendo Wright), sia di John McCain (che, intervistato, non era certo di sapere a quale chiesa appartenesse).
Però la vittoria di Obama non significa la fine delle “culture wars” attorno alla questione religiosa in America: ne è testimone il caso di Sarah Palin, «la più radicata nella subcultura evangelical di qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca» (p.
124).
Quanto a “cultural warrior”, per gli autori di God Is Back «quello con la maggiore esperienza nel campo conservatore è la Chiesa cattolica (…) il cui appetito per la battaglia culturale è aumentato in modo visibile sotto Giovanni Paolo II» (p.
347).
Ma se la lotta all’aborto sembra essere il campo di battaglia preferito dei cattolici, il nuovo evangelicalismo americano (quello del pastore Rick Warren) si è aperto alle questioni della povertà, dell’immigrazione, della solidarietà internazionale, dell’ambientalismo.
Grazie alla formidabile spinta missionaria del cristianesimo di matrice evangelicale e pentecostale in tutti i continenti, il cristianesimo è in ripresa, e gli autori riconoscono l’esistenza di diverse aree di tensione politico-religiosa sull’atlante mondiale: l’Africa centrale, India e Pakistan, la Cina.
Tuttavia è tra Europa, America e islam che si deciderà la lotta.
Per i due autori è assai più verosimile che l’Europa si avvicini al modello americano piuttosto che una secolarizzazione della politica americana.
Tuttavia, è la maggiore capacità degli americani di gestire il “God business”, il marketing di Dio, che spinge Micklethwait e Wooldridge a vedere l’America come il mercato trainante nella concorrenza tra cristianesimo e islam: «L’America contribuisce al revival religioso globale da due lati: come maggior esportatore mondiale di religione e come maggior fornitore mondiale di quel capitalismo che aumenta la domanda di religione.
Gli americani stanno esportando oppio e allo stesso tempo stimolando la domanda di oppiacei» (p.
244).
Al contrario della cultura politica europea, l’Economist non ha dimenticato né la lunga durata della “politica di Dio” né la lezione di Marx sui rapporti tra economia, politica e religione.
Tocca agli europei decidere se è ragionevole lasciare che di “religione e politica” si occupino i chierici e i manager.
Il marketing delle religioni Massimo Faggioli in “Europa” del 16 dicembre 2009
La distinzione tra politica e religione garanzia di libertà
Pubblichiamo una nostra traduzione italiana del discorso rivolto dal Papa alle autorità politiche, civili e diplomatiche della Repubblica Ceca, incontrate nel pomeriggio di sabato 26 settembre, nel castello di Praga.
Eccellenze, Signore e Signori, vi sono grato per l’opportunità che mi viene data di incontrare, in questo straordinario contesto, le autorità politiche e civili della Repubblica Ceca ed i membri della comunità diplomatica.
Ringrazio vivamente il Signor Presidente Klaus per le gentili parole di saluto che ha pronunciato in vostro nome.
Esprimo inoltre il mio apprezzamento all’Orchestra Filarmonica Ceca per l’esecuzione musicale che ha aperto il nostro incontro, e che ha espresso in maniera eloquente sia le radici della cultura ceca che il rilevante contributo offerto da questa Nazione alla cultura europea.
La mia visita pastorale alla Repubblica Ceca coincide col ventesimo anniversario della caduta dei regimi totalitari in Europa Centrale ed Orientale, e della “Rivoluzione di Velluto” che ripristinò la democrazia in questa nazione.
L’euforia che ne seguì fu espressa in termini di libertà.
A due decenni di distanza dai profondi cambiamenti politici che trasformarono questo continente, il processo di risanamento e ricostruzione continua, ora all’interno del più ampio contesto dell’unificazione europea e di un mondo sempre più globalizzato.
Le aspirazioni dei cittadini e le aspettative riposte nei Governi reclamavano nuovi modelli nella vita pubblica e di solidarietà tra nazioni e popoli, senza i quali il futuro di giustizia, di pace e di prosperità, a lungo atteso, sarebbe rimasto senza risposta.
Tali desideri continuano ad evolversi.
Oggi, specialmente fra i giovani, emerge di nuovo la domanda sulla natura della libertà conquistata.
Per quale scopo si vive in libertà? Quali sono i suoi autentici tratti distintivi? Ogni generazione ha il compito di impegnarsi da capo nell’ardua ricerca di come ordinare rettamente le realtà umane, sforzandosi di comprendere il corretto uso della libertà (cfr.
Spe salvi, 25).
Il dovere di rafforzare le “strutture di libertà” è fondamentale, ma non è mai sufficiente: le aspirazioni umane si elevano al di là di se stessi, al di là di ciò che qualsiasi autorità politica od economica possa offrire, verso quella speranza luminosa (cfr.
ibid., 35), che trova origine al di là di noi stessi e tuttavia si manifesta al nostro interno come verità, bellezza e bontà.
La libertà cerca uno scopo e per questo richiede una convinzione.
La vera libertà presuppone la ricerca della verità – del vero bene – e pertanto trova il proprio compimento precisamente nel conoscere e fare ciò che è retto e giusto.
La verità, in altre parole, è la norma-guida per la libertà e la bontà ne è la perfezione.
Aristotele definì il bene come “ciò a cui tutte le cose tendono”, e giunse a suggerire che “benché sia degno il conseguire il fine anche soltanto per un uomo, tuttavia è più bello e più divino conseguirlo per una nazione o per una polis” (Etica Nicomachea, 1; cfr.
Caritas in veritate, 2).
In verità, l’alta responsabilità di tener desta la sensibilità per il vero ed il bene ricade su chiunque eserciti il ruolo di guida: in campo religioso, politico o culturale, ciascuno secondo il modo a lui proprio.
Insieme dobbiamo impegnarci nella lotta per la libertà e nella ricerca della verità: o le due cose vanno insieme, mano nella mano, oppure insieme periscono miseramente (cfr.
Fides et ratio, 90).
Per i Cristiani la verità ha un nome: Dio.
E il bene ha un volto: Gesù Cristo.
La fede cristiana, dal tempo dei Santi Cirillo e Metodio e dei primi missionari, ha avuto in realtà un ruolo decisivo nel plasmare l’eredità spirituale e culturale di questo Paese.
Deve essere lo stesso nel presente e per il futuro.
Il ricco patrimonio di valori spirituali e culturali, che si esprimono gli uni attraverso gli altri, non solo ha dato forma all’identità di questa nazione, ma l’ha anche dotata della prospettiva necessaria ad esercitare un ruolo di coesione al cuore dell’Europa.
Per secoli questa terra è stata un punto d’incontro tra popoli, tradizioni e culture diverse.
Come ben sappiamo, essa ha conosciuto capitoli dolorosi e porta le cicatrici dei tragici avvenimenti causati dall’incomprensione, dalla guerra e dalla persecuzione.
E tuttavia è anche vero che le sue radici cristiane hanno favorito la crescita di un considerevole spirito di perdono, di riconciliazione e di collaborazione, che ha reso la gente di queste terre capace di ritrovare la libertà e di inaugurare una nuova era, una nuova sintesi, una rinnovata speranza.
Non è proprio di questo spirito che ha bisogno l’Europa di oggi? L’Europa è più che un continente.
Essa è una casa! E la libertà trova il suo significato più profondo proprio nell’essere una patria spirituale.
Nel pieno rispetto della distinzione tra la sfera politica e quella religiosa – distinzione che garantisce la libertà dei cittadini di esprimere il proprio credo religioso e di vivere in sintonia con esso – desidero rimarcare l’insostituibile ruolo del cristianesimo per la formazione della coscienza di ogni generazione e per la promozione di un consenso etico di fondo, al servizio di ogni persona che chiama questo continente “casa”! In questo spirito, rendo atto alla voce di quanti oggi, in questo Paese e in Europa, cercano di applicare la propria fede, in modo rispettoso ma determinato, nell’arena pubblica, nell’aspettativa che le norme sociali e le linee politiche siano ispirate al desiderio di vivere secondo la verità che rende libero ogni uomo e donna (cfr.
Caritas in veritate, 9).
La fedeltà ai popoli che voi servite e rappresentate richiede la fedeltà alla verità che, sola, è la garanzia della libertà e dello sviluppo umano integrale (cfr.
ibid., 9).
In effetti, il coraggio di presentare chiaramente la verità è un servizio a tutti i membri della società: esso infatti getta luce sul cammino del progresso umano, ne indica i fondamenti etici e morali e garantisce che le direttive politiche si ispirino al tesoro della saggezza umana.
L’attenzione alla verità universale non dovrebbe mai venire eclissata da interessi particolaristici, per quanto importanti essi possano essere, perché ciò condurrebbe unicamente a nuovi casi di frammentazione sociale o di discriminazione, che proprio quei gruppi di interesse o di pressione dichiarano di voler superare.
In effetti, la ricerca della verità, lungi dal minacciare la tolleranza delle differenze o il pluralismo culturale, rende il consenso possibile e permette al dibattito pubblico di mantenersi logico, onesto e responsabile, assicurando quell’unità che le vaghe nozioni di integrazione semplicemente non sono in grado di realizzare.
Sono fiducioso che, alla luce della tradizione ecclesiale circa la dimensione materiale, intellettuale e spirituale delle opere di carità, i membri della comunità cattolica, assieme a quelli di altre Chiese, comunità ecclesiali e religioni, continueranno a perseguire, in questa nazione e altrove, obiettivi di sviluppo che possiedano un valore più umano ed umanizzante (cfr.
ibid., 9).
Cari amici, la nostra presenza in questa magnifica capitale, spesso denominata “il cuore d’Europa”, ci stimola a chiederci in cosa consista questo “cuore”.
È vero che non c’è una risposta facile a tale domanda, tuttavia un indizio è costituito sicuramente dai gioielli architettonici che adornano questa città.
La stupefacente bellezza delle sue chiese, del castello, delle piazze e dei ponti non possono che orientare a Dio le nostre menti.
La loro bellezza esprime fede; sono epifanie di Dio che giustamente ci permettono di considerare le grandi meraviglie alle quali noi creature possiamo aspirare quando diamo espressione alla dimensione estetica e conoscitiva del nostro essere più profondo.
Come sarebbe tragico se si ammirassero tali esempi di bellezza, ignorando però il mistero trascendente che essi indicano.
L’incontro creativo della tradizione classica e del Vangelo ha dato vita ad una visione dell’uomo e della società sensibile alla presenza di Dio fra noi.
Tale visione, nel plasmare il patrimonio culturale di questo continente, ha chiaramente posto in luce che la ragione non finisce con ciò che l’occhio vede, anzi essa è attratta da ciò che sta al di là, ciò a cui noi profondamente aneliamo: lo Spirito, potremmo dire, della Creazione.
Nel contesto dell’attuale crocevia di civiltà, così spesso marcato da un’allarmante scissione dell’unità di bontà, verità e bellezza, e dalla conseguente difficoltà di trovare un consenso sui valori comuni, ogni sforzo per l’umano progresso deve trarre ispirazione da quella vivente eredità.
L’Europa, fedele alle sue radici cristiane, ha una particolare vocazione a sostenere questa visione trascendente nelle sue iniziative al servizio del bene comune di individui, comunità e nazioni.
Di particolare importanza è il compito urgente di incoraggiare i giovani europei mediante una formazione che rispetti ed alimenti la capacità, donata loro da Dio, di trascendere proprio quei limiti che talvolta si presume che debbano intrappolarli.
Negli sport, nelle arti creative e nella ricerca accademica, i giovani trovano volentieri l’opportunità di eccellere.
Non è ugualmente vero che, se confrontati con alti ideali, essi aspireranno anche alla virtù morale e ad una vita basata sull’amore e sulla bontà? Incoraggio vivamente quei genitori e responsabili delle comunità che si attendono dalle autorità la promozione di valori capaci di integrare la dimensione intellettuale, umana e spirituale in una solida formazione, degna delle aspirazioni dei nostri giovani.
“Veritas vincit”.
Questo è il motto della bandiera del Presidente della Repubblica Ceca: alla fine, davvero la verità vince, non con la forza, ma grazie alla persuasione, alla testimonianza eroica di uomini e donne di solidi principi, al dialogo sincero che sa guardare, al di là dell’interesse personale, alle necessità del bene comune.
La sete di verità, bontà, bellezza, impressa in tutti gli uomini e donne dal Creatore, è intesa a condurre insieme le persone nella ricerca della giustizia, della libertà e della pace.
La storia ha ampiamente dimostrato che la verità può essere tradita e manipolata a servizio di false ideologie, dell’oppressione e dell’ingiustizia.
Tuttavia, le sfide che deve affrontare la famiglia umana non ci chiamano forse a guardare oltre a quei pericoli? Alla fine, cosa è più disumano e distruttivo del cinismo che vorrebbe negare la grandezza della nostra ricerca per la verità, e del relativismo che corrode i valori stessi che sostengono la costruzione di un mondo unito e fraterno? Noi, al contrario, dobbiamo riacquistare fiducia nella nobiltà e grandezza dello spirito umano per la sua capacità di raggiungere la verità, e lasciare che quella fiducia ci guidi nel paziente lavoro della politica e della diplomazia.
Signore e Signori, con questi sentimenti esprimo nella preghiera l’augurio che il vostro servizio sia ispirato e sostenuto dalla luce di quella verità che è il riflesso della eterna Sapienza di Dio Creatore.
Su di Voi e sulle Vostre famiglie, invoco di cuore l’abbondanza delle benedizioni divine.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)
La memoria digitale diventa «eterna»
PER SEMPRE BIT Il professor Alex Zettl e il suo team di ricercatori hanno infatti realizzato un prototipo di memoria digitale praticamente eterno, che andrebbe ben oltre la vita media di 10-30 anni delle attuali memory card e raggiungerebbe una durata di un miliardo d’anni e una capienza pari a un terabyte per pollice quadrato (un trilione di bit).
Il tutto senza l’utilizzo di silicio.
GRANDE NANOMEMORIA Il dispositivo sperimentale creato nei laboratori di Berkeley (California) non sfrutta la tecnologia dei microchip tradizionali, ma si serve invece della nanotecnologia.
Zettl e compagni hanno in pratica inserito una nanoparticella di ferro in un nanotubo di carbonio: in presenza di un segnale elettrico, la nanoparticella può essere controllata e spostata con grande precisione all’interno del nanotubo, le cui estremità – ancorate ad elettrodi – rappresentano i due simboli (0 e 1) del codice binario.
In questo modo viene realizzato un sistema di memoria programmabile, che permette di registrare le informazioni digitali e riprodurle tramite la tecnologia hardware convenzionale.
Lo studio in cui viene illustrata la scoperta degli scienziati statunitensi sarà pubblicato sul numero di giugno del mensile American Chemical Society’s Nano Letters.
Dal floppy disc alle pen-drive, passando per il disco ottico, la tecnologia dei supporti di memoria digitale per i Pc ha fatto tanta strada, portando alla realizzazione di prodotti sempre più piccoli e capienti.
E la vita media dei moderni dispositivi di archiviazione si è decisamente allungata, anche se la loro durata non è ancora in grado di garantire vita eterna ai dati conservati.
Tuttavia, una recente scoperta realizzata dagli scienziati dell’Università di Berkeley potrebbe spingere in avanti di un bel po’ la «data di scadenza» – diciamo così – dei supporti di archiviazione, rendendoli praticamente eterni.
Uomini che odiano le donne
Uomini che odiano le donne è il primo film tratto dalla trilogia ‘Millennium’, i romanzi di Stieg Larsson, che hanno venduto oltre 8 milioni di copie in tutto il mondo.
Purtroppo, Larsson non è vissuto abbastanza per vedere il successo del suo lavoro, essendo morto all’improvviso nel 2004, poco dopo aver consegnato il manoscritto all’editore svedese.
La trama Quarant’anni fa Harriet Vanger è scomparsa da una riunione di famiglia sull’isola abitata dal potente clan dei Vanger, che ne sono anche i proprietari.
Benché il corpo della donna non sia mai stato ritrovato, lo zio è convinto che sia stata assassinata e che l’autore del delitto sia un membro della sua stessa famiglia – una gruppo disfunzionale ma i cui membri sono legati da vincoli molto stretti.
Per indagare sull’accaduto, lo zio assume il giornalista economico in crisi Mikael Blomkvist e la hacker tatuata e senza scrupoli Lisbeth Salander.
Dopo aver collegato la scomparsa di Harriet a una serie di grotteschi delitti avvenuti una quarantina d’anni prima, i due investigatori cominciano a dipanare una storia familiare oscura e sconvolgente.
Ma i Vanger sono gelosi dei loro segreti, e Blomkvist e Salander scopriranno che sono capaci di qualsiasi cosa pur di difenderli.
Scheda Uomini che odiano le donne (Män som hatar kvinnor, Svezia, 2009) Regia: Niels Arden Con: Michael Nyqvist, Noomi Rapace, Lena Endre, Sven Bertil Taube Distribuzione: Bim Genere Thriller Durata: 152′ Data di uscita: 29-05-2009 » IL SITO UFFICIALE Il fenomeno ‘Millennium’ sembra destinato a diventare un fenomeno anche nelle sale italiane.
In quelle scandinave Uomini che odiano le donne, uscito il 27 febbraio scorso, è stato visto da oltre un milione e mezzo di spettatori con un incasso di 25 milioni di dollari.
I prossimi due episodi si chiameranno: La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta.
Stieg Larsson (1954-2004) è stato un giornalista, con una grandissima esperienza sulle organizzazioni anti-democratiche, della destra estremista e naziste, sulle quali veniva spesso consultato.
La serie ‘Millenium’ è un esordio straordinariamente brillante nel genere del giallo.
Nei tre romanzi, l’azione si svolge a partire dal 2003.
La forza principale di Larsson sta nel suo stile non artificioso, asciutto, privo di cliché.
La sua è una scrittura efficace, incisiva e professionale.
E non lascia mai niente di irrisolto.
Per quanto riguarda il film Michael Nyqvist è uno degli attori svedesi più amati, mentre per quanto riguarda Lisbeth Salander, si erano vagliati vari nomi prima di scegliere la ‘particolare’ Noomi Rapace.
Il regista, Niels Arden Oplev, ha affermato: “Molti mi hanno chiesto se mi sentivo onorato di essere stato scelto per dirigere Uomini che odiano le donne, la verità è che avevo sentito parlare dei libri ma non li avevo letti.
Poi mi ci sono messo di impegno e li ho trovati interessantissimi.
Quello che mi ha conquistato è che il romanzo non l’ho mai visto come un giallo, piuttosto come un film drammatico a sfondo poliziesco.
Volevo fare un film con emozioni potenti e una storia controversa e intrigante.
Era importante che conservasse lo spirito tagliente del libro, che avesse il coraggio di mostrare il lato oscuro della società.
Spero tanto di esserci riuscito!” Detective dell’odio nella Svezia più oscura di Luca Pellegrini Penetra a fondo nel bianco della neve svedese, che tutto copre e tutto nasconde, l’odio degli uomini per le donne, per chi arranca nella verità, l’odio per chi porta un nome ebraico, per chi è debole e solo, l’odio vorticoso e incontenibile nel quale sguazzano impuniti capitalisti farabutti, parenti corrotti, figli assassini, padri brutali, avvocati perversi.
No, non è la Svezia serena e democratica, efficiente e pulita che immaginiamo dalle cartoline turistiche e dall’idea di civiltà che da sempre abbiamo associata ai Paesi del Grande nord.
Harriet Vagner è scomparsa da quarant’anni, lo zio Henrik si dispera, Mikael Blomkvist indaga, Lisbeth Salander collabora a modo suo.
Per chi ha dimestichezza con i best seller, subito riconosce in questi nomi i protagonisti delle 676 pagine di intrighi e crudeltà, vendette e misteri, che Stieg Larsson ha sviluppato nel primo capitolo della sua trilogia Millennium (è il nome di un fittizio mensile politico-economico), caso letterario in cui l’artificioso marasma psicologico scaturisce probabilmente dalla realtà sperimentata dall’autore, la cui fine sembra lambire le sue stesse storie.
Dieci milioni di copie vendute nel mondo, lettori famelici che non spengono la luce nelle loro notti profonde pur di arrivare il prima possibile alla parola “fine” e naturalmente ora anche un film autarchico, tutto svedese o almeno nordico (per fortuna Hollywood se ne è tenuta, fino ad ora, alla larga), a cominciare dal giovane regista danese Niels Arden Oplev – che ha confessato non essere stato mai un lettore appassionato della trilogia e nemmeno molto interessato alle riprese, almeno fino al loro inizio, perché preso dalla scrittura di un film sui Testimoni di Geova – insieme alla lunga serie di bravi attori, tra i quali Michael Nyqvist e Noomi Rapace, i volti inquieti dei due amatissimi protagonisti.
I diritti, confessa il produttore Sören Staermose, sono stati acquistati nel 2005, dopo ardue trattative, comunque prima dell’esplosione del successo letterario che ha fatto schizzare le aspettative mondiali, i costi e ora, si spera, anche i guadagni, mentre i due successivi capitoli – La ragazza che giocava con il fuoco e La regina dei castelli di carta – sono già in fase di post produzione e in uscita sugli schermi rispettivamente il prossimo autunno e nella primavera del 2010.
Larsson, però, non può godersi questi inaspettati successi terreni: morto improvvisamente a cinquant’anni nel 2004 e con trecento pagine del quinto capitolo ambientato in Canada (dieci quelli progettati), testo depositato nel file del suo computer – non si sa ora a chi appartenga – e che probabilmente non si leggerà mai.
Non ci possiamo certo immaginare come sarebbero proseguite le indagini di questa spericolata e stranamente assortita “compagnia investigativa” che si inabissa nelle più oscure perversità dell’animo umano: la società contemporanea è crudele verso le donne – centomila casi di violenza sono stimati in Svezia ogni anno su appena nove milioni di abitanti – un odio che cresce in tenerissima età e si espande fino a quella più matura.
Poi, spiega il regista, si diramano ovunque rigagnoli di razzismo in superficie mentre sotto, ben nascosti, prosperano commercio di armi, di esseri umani e scandali finanziari.
Più che esplorare le radici di tanto odio, di tanto disprezzo, di tanto marciume che dalla Danimarca di Amleto è tracimato nella Svezia dei Nobel, romanzo e film esaltano i contrasti tra bene fragile e male agguerrito a fini puramente spettacolari, esasperano la drammaticità delle relazioni familiari del gruppo patriarcale dei Vagner marchiato dall’adesione al nazismo in tempi oscuri e non lontani e da un fanatismo religioso che fa da collante logico agli spaventosi delitti, parlano in ogni momento di emozioni vere e di peccati gravi.
Tipica letteratura d’evasione, dunque, scritta però con sapida attrazione e fedele trasposizione cinematografica – oltre due milioni e mezzo di spettatori in Scandinavia – che non altera troppo la struttura narrativa, condensa molto bene le diverse tensioni e paure, non evita certo il raccapriccio di alcune scene che vanno prese e maneggiate con estrema cura.
Nessuno è esente dalla debolezza del cuore, del sesso, dell’egoismo, dell’avidità, nella Svezia delle parole di Larsson e delle immagini di Oplev.
Tutti sono sull’orlo dell’abisso: quassù si cammina in una penombra incerta e ingannevole, laggiù si precipita senza salvezza e senza assoluzione.
Il personaggio di Lisbeth – non ci si aspetti un eroina da fumetto, ma una hacker quasi anoressica, a tratti sgradevole, che sa muoversi come Diabolik e pensare come Sherlock Holmes – è l’icona della donna fragile, vulnerabile.
“Lisbeth è una vittima che rifiuta di essere vittima non si adatta mai, non si autocommisera.
Combatte per la sua sopravvivenza, si ribella, trova sempre il modo di risorgere con un’energia che affascina.
Assapora, quando possibile, la vendetta.
Potrebbe sembrare un bene: lo è nel romanzo, ma nella realtà non credo – dice Noomi, l’attrice che la interpreta – che la sua reazione sia giusta.
Ciò che è giusto sarebbe essere giudicati tutti allo stesso modo in un mondo di pari diritti, che però non ha visto ancora la luce”.
Nel crepuscolo che avvolge l’isola di Hedeby teatro di tante efferatezze, gli uomini continuano ad odiare, le donne a subire e non si capisce bene che fine abbiano fatto pietà, misericordia, onore, giustizia.
Per il film può andar bene così, per la vita sarebbe una catastrofe.
(©L’Osservatore Romano – 29 maggio 2009)
Tutto il processo a Galileo
L’opera – osserva monsignor Pagano – per vari motivi fu parziale e lacunosa.
Seguirono edizioni analoghe curate nello stesso anno a Stoccarda da Karl von Gebler e un anno dopo da Domenico Berti.
Solo nel 1909 Antonio Favaro, nel xix volume dell’edizione nazionale delle Opere di Galileo (1888-1909), compiva un deciso passo avanti.
Si deve poi effettuare un ben più ampio balzo temporale fino al 1984, quando lo stesso Sergio Pagano, per volere di Giovanni Paolo ii pubblica una nuova edizione dei documenti del processo allo scienziato pisano.
“La brevità dei tempi allora – ricorda monsignor Pagano – mi costrinse a giornate di lavoro molto intenso e il risultato mi soddisfece solo in parte.
Per questo come ho potuto, mi sono dedicato alla presente nuova edizione di 550 pagine e 1300 note.
E ho piacere che il volume – che uscirà per la fine di giugno – veda la luce proprio ora: è il contributo umile e silenzioso dell’Archivio Segreto alla celebrazione dell’Anno Internazionale dell’Astronomia”.
Dal 1984 a oggi – osserva monsignor Pagano – molti studi relativi a questa celebre vicenda sono apparsi in veste di monografie e di saggi su riviste storiche; ma soprattutto dal 22 gennaio 1998: quando sono stati ufficialmente aperti agli studiosi gli archivi del Sant’Officio e quello della Congregazione dell’Indice, entrambi conservati nell’Archivio storico della Congregazione per la Dottrina della Fede.
Quest’ultimo evento ha avuto una rilevanza notevole e ha stimolato nuove indagini e approfondimenti non solo sugli atti superstiti della vicenda giudiziaria in questione, ma anche sul funzionamento della stessa Inquisizione Romana e sui personaggi che ne furono guida o membri lungo i secoli.
Rispetto alle edizioni precedenti degli atti processuali galileiani le novità più rilevanti odierne sono determinate dalla maggiore conoscenza dei personaggi implicati nel procedimento, tutti precisati nelle note, compresi moltissimi inquisitori; dai documenti presentati nella loro genuinità – originali, copie, sunti, note d’ufficio – con rigorose note archivistiche; dal panorama, come si è detto, delle fonti “vaticane” riguardanti il processo allo scienziato pisano e cioè l’Archivio storico della Congregazione per la Dottrina della Fede, l’Archivio Segreto Vaticano, la Biblioteca Apostolica Vaticana.
La nuova edizione comprende naturalmente tutte le carte già note e almeno una ventina di nuovi documenti reperiti nell’Archivio del Santo Officio dopo il 1991 da alcuni ricercatori: in particolare Ugo Baldini e Leen Spruit.
La nuova edizione annota criticamente i vari documenti dei quali propone una edizione fedele agli originali che – come sottolinea monsignor Pagano – sono stati letti di nuovo, riga per riga.
L’edizione dei documenti è preceduta da una ampia introduzione storica alle vicende che gradualmente portarono all’istruzione e allo svolgimento del processo, a partire dalle denunce del domenicano Tommaso Caccini, dal 1616 al 1633 e fino al 1741, quando, sotto il pontificato di Papa Benedetto xiv, fu permessa la costruzione del mausoleo nella basilica di Santa Croce di Firenze (di fronte alla tomba di Michelangelo) e fu consentita la pubblicazione a Padova dell’opera galileiana ferme restando le censure del Sant’Uffizio.
Il 31 ottobre 1992, nel rivolgersi ai membri della Pontificia Accademia delle Scienze Giovanni Paolo ii diceva a proposito del processo: “Come la maggior parte dei suoi avversari Galileo non fa distinzione tra quello che è l’approccio scientifico ai fenomeni naturali e la riflessione sulla natura, di ordine filosofico, che esso generalmente richiama.
È per questo che egli rifiutò il suggerimento che gli era stato dato di presentare come un’ipotesi il sistema di Copernico, fin tanto che esso non fosse confermato da prove irrefutabili.
Era quella peraltro, un’esigenza del metodo sperimentale di cui egli fu il geniale iniziatore (…) Il problema che si posero dunque i teologi dell’epoca era quello della compatibilità dell’eliocentrismo e della Scrittura.
Così la scienza nuova, con i suoi metodi e la libertà di ricerca che essi suppongono, costringeva i teologi a interrogarsi sui loro criteri di interpretazione della Scrittura.
La maggior parte non seppe farlo.
Paradossalmente, Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto più perspicace dei suoi avversari teologi”.
Anche a giudizio di monsignor Pagano l’atteggiamento dei teologi avrebbe potuto essere più comprensivo ed elastico.
Fermo restando che i tempi storici non erano maturi per recepire gli studi scientifici del grande studioso pisano è innegabile che in questa vicenda siano stati commessi diversi errori; anche da parte dello stesso Galileo, dice il prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano.
In una cultura dominata dalla visione tolemaica l’irruzione del sistema copernicano che veniva a contraddire sistematicamente la Scrittura – allora letta senza interpretazioni – richiedeva da parte dello studioso un atteggiamento meno apodittico quale traspariva da il Dialogo sopra i massimi sistemi.
Al tempo stesso non si può negare la ferma e risoluta decisione di Urbano viii a volere il processo e la condanna affidando le carte e gli studi di Galileo al vaglio di studiosi prevenuti e non sempre all’altezza.
Tra i gesuiti – che rimasero fuori dal procedimento – infatti non sarebbero mancati atteggiamenti disposti a essere più indulgenti con gli studi del pisano che invece, come recitava la sentenza: essendosi egli reso “veementemente sospetto d’eresia” era incorso nelle censure e nelle pene previste.
Queste consistettero, com’è noto, nel domicilio coatto e in una vita di preghiere e penitenze.
Prima per pochi giorni a Villa Medici a Roma, poi a Siena e infine ad Arcetri, dove Galileo sarebbe morto nel 1642.
(©L’Osservatore Romano – 29 maggio 2009) Come e perché fu processato e condannato Galileo? Da oltre centotrent’anni gli studiosi si sono dedicati a rispondere a questa domanda.
Sopraggiunge oggi un contributo decisivo con la nuova edizione accresciuta, rivista e annotata dal prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, il vescovo Sergio Pagano, del volume I documenti vaticani del processo di Galileo Galilei (Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2009, pagine 550, 16 tavole fuori testo, “Collectanea Archivi Vaticani”, 69).
Ne parliamo con il curatore che ci ricorda come fin dal 1877 si ebbe la prima edizione parigina del cosiddetto “codice vaticano” del processo a Galileo a opera di Henri de L’Épinois, uno studioso laico che ebbe il permesso sotto il pontificato di Pio ix – era Archivista e Bibliotecario di Santa Romana Chiesa il cardinale Jean-Baptiste Pitra – di visionare le carte del processo.
autoaggiornamento e formazione der i docenti
Ai molti lettori che lo stanno chiedendo, Tuttoscuola conferma che è stata prorogata anche a quest’anno la detraibilità dalle imposte sul reddito delle persone fisiche, delle spese sostenute dai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, anche non di ruolo con incarico annuale, a fini di autoaggiornamento e formazione.
La misura della detraibilità è del 19% fino ad un massimo di 500 euro spesi e documentati (quindi la detraibilità massima è di 95 euro).
Il riferimento normativo è quello della Legge 22 dicembre 2008, n.
203 – Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2009) – art.
2 (il cui titolo è “Proroghe fiscali, misure per l’agricoltura e per l’autotrasporto, gestioni previdenziali, risorse destinate ai rinnovi contrattuali e ai miglioramenti retributivi per il personale statale in regime di diritto pubblico, ammortizzatori sociali e patto di stabilità interno”).
Al comma 5 di questo articolo, si legge testualmente: “Per l’anno 2009, ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, anche non di ruolo con incarico annuale, ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, spetta una detrazione dall’imposta lorda e fino a capienza della stessa nella misura del 19 per cento delle spese documentate sostenute ed effettivamente rimaste a carico, fino ad un importo massimo delle stesse di 500 euro, per l’autoaggiornamento e per la formazione”.
I lettori di Tuttoscuola sanno che le spese di abbonamento alla rivista o al sito appartengono alla categoria oggetto della detraibilità, ma materialmente come devono fare? Lo scorso 21 aprile l’Agenzia delle Entrate, ha diffuso una Circolare con cui spiega come fare per accedere alle agevolazioni fiscali per i docenti previste dalla Finanziaria del 2008 (ed è del tutto verosimile che la procedura si applichi anche quest’anno).
Il punto 3 della Circolare si intitola “Documentazione per la richiesta della detrazione per l’autoaggiornamento e per la formazione dei docenti” e consta di una domanda e di una risposta.
La domanda è: “Con riferimento alla detrazione per l’autoaggiornamento e per la formazione dei docenti delle scuole di ogni ordine e grado anche non di ruolo con incarico annuale, tenuto conto che il Caf non è in grado di sapere se una determinata spesa è finalizzata all’autoaggiornamento o alla formazione, si chiede se è possibile attribuire la detrazione previa autocertificazione del contribuente che oltre ad indicare lo status di docente dichiarerà la finalità dell’acquisto”.
La risposta è “L’articolo 1, comma 207, della legge 24 dicembre 2007, n.
244, ha previsto che, per l’anno 2008, i docenti delle scuole di ogni ordine e grado, anche non di ruolo con incarico annuale, possono detrarre dall’imposta sul reddito delle persone fisiche, fino a capienza dell’imposta lorda, un importo pari al 19 per cento delle spese documentate sostenute ed effettivamente rimaste a carico, per l’autoaggiornamento e la formazione.
La detrazione spetta fino a un importo massimo di spesa di 500 euro.
La norma non definisce il significato di autoaggiornamento e formazione.
Al riguardo, si ritiene che diano diritto alla detrazione le spese relative a beni e servizi che secondo l’accezione comune favoriscono lo sviluppo della professionalità del docente, quali libri, riviste, software didattici, corsi di aggiornamento e seminari.
La riferibilità alla professione svolta dei beni e dei servizi acquistati e la qualità di docente di ruolo o di docente con incarico annuale devono essere oggetto di dichiarazione da parte del contribuente.
Le spese sostenute devono essere documentate con fattura o ricevuta fiscale dalle quali risulti la tipologia del servizio o del bene acquistato”.
tuttoscuola.com Il riferimento normativo è quello della Legge 22 dicembre 2008, n.
203 – Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2009) – art.
2 (il cui titolo è “Proroghe fiscali, misure per l’agricoltura e per l’autotrasporto, gestioni previdenziali, risorse destinate ai rinnovi contrattuali e ai miglioramenti retributivi per il personale statale in regime di diritto pubblico, ammortizzatori sociali e patto di stabilità interno”).
Al comma 5 di questo articolo, si legge testualmente: “Per l’anno 2009, ai docenti delle scuole di ogni ordine e grado, anche non di ruolo con incarico annuale, ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, spetta una detrazione dall’imposta lorda e fino a capienza della stessa nella misura del 19 per cento delle spese documentate sostenute ed effettivamente rimaste a carico, fino ad un importo massimo delle stesse di 500 euro, per l’autoaggiornamento e per la formazione”.
I lettori di Tuttoscuola sanno che le spese di abbonamento alla rivista o al sito appartengono alla categoria oggetto della detraibilità, ma materialmente come devono fare? Lo scorso 21 aprile l’Agenzia delle Entrate, ha diffuso una Circolare con cui spiega come fare per accedere alle agevolazioni fiscali per i docenti previste dalla Finanziaria del 2008 (ed è del tutto verosimile che la procedura si applichi anche quest’anno).
Il punto 3 della Circolare si intitola “Documentazione per la richiesta della detrazione per l’autoaggiornamento e per la formazione dei docenti” e consta di una domanda e di una risposta.
La domanda è: “Con riferimento alla detrazione per l’autoaggiornamento e per la formazione dei docenti delle scuole di ogni ordine e grado anche non di ruolo con incarico annuale, tenuto conto che il Caf non è in grado di sapere se una determinata spesa è finalizzata all’autoaggiornamento o alla formazione, si chiede se è possibile attribuire la detrazione previa autocertificazione del contribuente che oltre ad indicare lo status di docente dichiarerà la finalità dell’acquisto”.
La risposta è “L’articolo 1, comma 207, della legge 24 dicembre 2007, n.
244, ha previsto che, per l’anno 2008, i docenti delle scuole di ogni ordine e grado, anche non di ruolo con incarico annuale, possono detrarre dall’imposta sul reddito delle persone fisiche, fino a capienza dell’imposta lorda, un importo pari al 19 per cento delle spese documentate sostenute ed effettivamente rimaste a carico, per l’autoaggiornamento e la formazione.
La detrazione spetta fino a un importo massimo di spesa di 500 euro.
La norma non definisce il significato di autoaggiornamento e formazione.
Al riguardo, si ritiene che diano diritto alla detrazione le spese relative a beni e servizi che secondo l’accezione comune favoriscono lo sviluppo della professionalità del docente, quali libri, riviste, software didattici, corsi di aggiornamento e seminari.
La riferibilità alla professione svolta dei beni e dei servizi acquistati e la qualità di docente di ruolo o di docente con incarico annuale devono essere oggetto di dichiarazione da parte del contribuente.
Le spese sostenute devono essere documentate con fattura o ricevuta fiscale dalle quali risulti la tipologia del servizio o del bene acquistato”.
tuttoscuola.com
Domenica di Pantecoste anno B
La Pentecoste La struttura dell’icona ricorda l’Ultima Cena: allora gli apostoli si stringevano intorno a Gesù per accogliere il suo testamento, ora si raccolgono intorno a Maria per perseverare nella preghiera, in attesa dello Spirito Paraclito.
La scena si svolge nella stessa stanza che vide Cristo istituire l’Eucaristia, la «camera alta» di Sion.
La comunione di quanti credono in Cristo è custodita dalla sollecita premura di Maria, beata perché per prima ha creduto all’adempimento della parola del Signore (cf Lc 1, 45).
La Madre di Dio e degli uomini, che ha conosciuto la potenza dello Spirito nell’Annunciazione, rassicura gli apostoli turbati per il forte vento che si abbatte gagliardo e che riempie tutta la casa dove si trovano.
Le lingue di fuoco che appaiono, che si dividono e che si posano su ciascuno di loro non provocano nessun incendio, ma illuminano le loro menti e accendono nei loro cuori il fuoco dell’Amore.
In questa Chiesa nascente, lo Spirito Santo riveste di forza gli apostoli, ricorda loro tutte le parole di Cristo e li rende testimoni del Vangelo sino agli estremi confini della terra.
Maria, nuovamente visitata dalla fecondità dello Spirito Santo, diviene Madre della Chiesa, rifugio mirabile dei discepoli che invocano la sua materna protezione.
Vieni Spirito Santo.
Vento impetuoso, fuoco che divora, ma anche brezza leggera, scintilla di luce.
Vieni in me.
Parola potente, ma anche lieve sussurro.
Vieni in me.
Fresca cascata, ma anche rivolo d’acqua che estingue l’arsura…
Dammi occhi nuovi, dammi ali di libertà, dammi trasparenza di vita, dammi tenerezza e audacia e attenderò con te, nella speranza, il nuovo Giorno.
(Domenica GHIDOTTI, Icone per pregare.
40 immagini di un’iconografa, Milano, Ancora, 2003, 54-55).
Aprirci al “di più” Il dono che il Signore vuol farci e che da sempre ci ha fatto con il suo Spirito è di capire che l’uomo si realizza andando oltre se stesso, che si realizza donandosi.
Dio non esiste se non nella relazione di donazione del Padre al Figlio, e non è pensabile al di fuori dello Spirito che è effervescenza continua di amore.
Egli è fuoco che brucia sen-za consumare, è al di là del mistero stesso del fuoco, pur essendo fuoco.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 54).
Sii un vero amico Le vere amicizie sono durature perché il vero amore è eterno.
L’amicizia nella quale il cuore parla al cuore è un dono di Dio, e nessun dono che viene da Dio è temporaneo od occasionale.
Tutto ciò che viene da Dio partecipa della vita eterna di Dio.
L’amore tra le persone, quando è dato da Dio, è più forte della morte.
In questo senso la vera amicizia continua al di là dei confini della morte.
Quando hai amato profondamente, quell’amore può crescere anche più forte dopo la morte della persona che ami.
È questo il centro del messaggio di Gesù.
Quando Gesù è morto, l’amicizia dei discepoli con lui non è scemata.
Al contrario, è cresciuta.
È questo il significato dell’invio dello Spirito.
Lo Spirito di Gesù ha reso duratura l’ami-cizia di Gesù con i suoi discepoli, più forte e più intima di prima della sua morte.
È questo che Paolo ha sperimentato quando diceva: «Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
Devi avere fiducia che ogni vera amicizia non ha fine, che esiste una comunione dei santi tra tutti coloro, viventi o defunti, che hanno veramente amato Dio e si sono amati l’un l’altro.
Sai dall’esperienza quanto questo sia reale.
Coloro che hai amato profondamen-te e che sono morti continuano a vivere in te, non solo come ricordi, ma come presenze re-ali.
Osa amare ed essere un vero amico.
L’amore che dai e ricevi è una realtà che ti condur-rà sempre più vicino a Dio e a coloro che Dio ti ha dato da amare.
(H.J.M.
NOUWEN, La voce dell’amore, Brescia, Queriniana, 2005, 111-112).
“Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato” E’ il 14 luglio.
Tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.
C’è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I religiosi dicono il mattutino di sant’Enrico, re.
Ed io, penso all’altro re.
Al re David che danzava davanti all’Arca.
Perché se ci sono molti santi che non amano danzare, ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare, tanto erano felici di vivere: Santa Teresa con le sue nacchere, San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia, e san Francesco, davanti al papa.
Se noi fossimo contenti di te, Signore, non potremmo resistere a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo, e indovineremmo facilmente quale danza ti piace farci danzare facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.
Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da condottiero, di conoscerti con aria da professore, di raggiungerti con regole sportive, di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
Un giorno in cui avevi un po’ voglia d’altro hai inventato san Francesco, e ne hai fatto il tuo giullare.
Lascia che noi inventiamo qualcosa per essere gente allegra che danza la propria vita con te.
(…) Per essere un buon danzatore, con Te come con tutti, non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire, essere gioioso, essere leggero, e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni sui passi che ti piace fare.
Bisogna essere come un prolungamento, vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l’orchestra scandisce.
(…) Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito, e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica; dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza, che la tua Santa Volontà è di una inconcepibile fantasia, e che non c’è monotonia e noia se non per le anime vecchie, che fanno tappezzeria nel ballo gioioso del tuo amore.
Signore, vieni a invitarci.
(…) Se certe arie sono spesso in minore, non ti diremo che sono tristi; se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo che sono logoranti.
E se qualcuno ci urta, la prenderemo in ridere; sapendo bene che questo capita sempre quando si danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno avviato fra te e noi, il ballo singolare della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni; in essa quel che tu permetti da suoni strani nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno la nostra condizione umana come un vestito da ballo che ci farà amare da te, tutti i suoi dettagli come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita, non come un gioco di scacchi dove tutto è calcolato, non come un match dove tutto è difficile, non come un teorema rompicapo, ma come una festa senza fine in cui l’incontro con te si rinnova, come un ballo, come una danza, fra le braccia della tua grazia, nella musica universale dell’amore.
Signore, vieni a invitarci.
(MADELEINE DELBRÉL, La danza dell’obbedienza, in Noi delle strade, Torino, Gribaudi, 1988, 86-89.
Lo Spirito del Signore ha riempito l’universo La solennità di questo giorno ci riempie di gioia non soltanto perché riconosciamo la sua importanza, ma anche perché assaporiamo la sua dolcezza.
Ciò che essa fa risaltare è l’amore.
Ora, non vi è nel linguaggio umano una parola più dolce a udirsi, un sentimento più delizioso da coltivare.
Quest’amore non è altro che la bontà di Dio, la sua benevolenza, il suo amore.
O piuttosto, Dio in persona è la bontà, la benevolenza, l’amore.
E questa bon-tà si identifica al suo Spirito, che è esso stesso Dio.
[…] E secondo il disegno di Dio, in prin-cipio, lo Spirito di Dio ha riempito l’universo, «dispiegando la sua forza da un confine al-l’altro del mondo e governando ogni cosa con dolcezza» (Sap 8,1).
Ma per quanto riguarda la sua opera di santificazione, è a partire da questo giorno di Pentecoste che lo Spirito del Signore ha riempito l’universo.
Poiché è oggi che questo dolce Spirito è stato inviato dal Padre e dal Figlio per santificare ogni creatura secondo un nuovo disegno, un modo nuo-vo, una manifestazione nuova della sua potenza e della sua forza.
Certo, in precedenza «lo Spirito non era stato ancora dato, perché Gesù non era stato ancora glorificato» (Gv 7,39).
[…] Ma oggi, discendendo dalla dimora celeste, lo Spirito si è dato ai mortali con tutta la sua ricchezza, la sua fecondità.
Così questa rugiada divina si stende su tutta la terra, nella diversità dei suoi doni spirituali.
Ed è giusto che la pienezza delle sue ricchezze sia discesa dall’alto dei cieli per noi, perché pochi giorni prima, grazie alla generosità della nostra ter-ra, il cielo aveva ricevuto il Signore.
La nostra terra non ha mai prodotto nulla di più dolce, di più piacevole, di più delizioso, di più santo.
[…] «Lo Spirito di Cristo riempie l’universo, lui che tiene insieme tutti gli esseri, sente tutte le voci» (Sap 1,7).
Ovunque lo Spirito agi-sce, ovunque lo Spirito prende la parola.
Certamente prima dell’Ascensione lo Spirito fu dato ai discepoli, quando il Signore disse loro: «Ricevete lo Spirito santo» ( Gv 20,23).
Ma in nessun modo, prima di Pentecoste, non si udì la voce dello Spirito santo, non si vide ri-splendere la sua potenza.
E i discepoli di Cristo non giunsero a conoscerlo; non erano stati ancora riconfermati, la paura li obbligava ancora a nascondersi in una stanza a porte chiu-se.
Ma a partire da quel giorno, «la voce del Signore domina le acque, il Dio della gloria scatena il tuono, la voce del Signore spezza i cedri e tutti gridano: Gloria!» (cfr.
Sal 28 [29] , 3.5.9).
(AELREDO DI RIEVAULX, Omelia sulla settuplice voce dello Spirito 1, in Sermones inediti, a cura di di C.H.
Talbot, Roma 1952 pp.
112-114).
Preghiera allo Spirito Santo Spirito Santo, eterno Amore, che sei dolce Luce che mi inondi e rischiari la notte del mio cuore; Tu ci guidi qual mano di una mamma; ma se Tu ci lasci non più d’un passo solo avanzeremo! Tu sei lo spazio che l’essere mio circonda e in cui si cela.
Se m’abbandoni cado nell’abisso del nulla, da dove all’esser mi chiamasti.
Tu a me vicino più di me stessa, più intimo dell’intimo mio.
Eppur nessun Ti tocca o Ti comprende e d’ogni nome infrangi le catene.
Spirito Santo, eterno Amore.
(Edit Stein [S.
Teresa Benedetta della Croce]).
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Atti 2,1-11 Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nel-lo stesso luogo.
Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbat-te impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano.
Apparvero loro lingue come di fuo-co, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spiri-to Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo.
A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua.
Erano stupiti e, fuori di sé per la meravi-glia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? E come mai cia-scuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamìti; abi-tanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Ro-mani qui residenti, Giudei e proséliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio».
In questo brano degli Atti degli Apostoli sono presentati i due propulsori dello svilup-po della chiesa: lo Spirito e la Parola.
La parola dell’apostolo arriva, provoca la fede e con-verte, perché è stata preceduta dallo Spirito, che solo apre l’orecchio all’ascolto.
Al tempo di Gesù la Pentecoste, o festa delle settimane — antica festa agricola (offerta del-le messi), celebrata sette settimane dopo la pasqua (cf.
Lv 23,15-21) — aveva assunto anche il senso di commemorazione dell’alleanza del Signore e di celebrazione della legge mosai-ca.
Poiché il giorno inizia la sera del giorno prima, l’espressione «stava compiendosi il giorno di Pentecoste» indica la mattinata inoltrata che conclude il periodo della festività.
Ma essa indica anche una realtà più profonda: il «giorno» atteso dai profeti sta per finire; la storia è al suo giro di boa, perché il vero Israele incomincia a separarsi dal giudaismo incredulo.
La scena descritta nel testo ricalca la teofania del Sinai (Es 19,16-22): l’antica alleanza è sostituita dalla nuova alleanza.
Tuoni, lampi, rumore di tromba, fumo indicano la presen-za del Signore nel Sinai e la «discesa» dello Spirito sugli apostoli.
L’antica legge diventa «nuova» per la presenza dello Spirito, che non solo istruisce ma anche dà la forza di compiere quello che la legge richiede.
Il «fuoco» che purifica e illumina (cf.
Is 6,6), indica una trasformazione interiore nei di-scepoli di Gesù, i quali, da poveri e incolti pescatori, diventano annunciatori del vangelo: il messaggio più sconvolgente che gli uomini possano sentire (At 1,8).
La presenza di tutte le nazioni a Gerusalemme ha un significato più profetico che stori-co: la Chiesa oltrepassa i confini del giudaismo; ad essa tutti possono accedere per speri-mentare i frutti della Nuova Alleanza promessa non solo per Israele, ma per tutti.
Il miracolo delle lingue può essere una semplice glossolalia (gesti simbolici tradotti da un interprete in un linguaggio comprensibile) o un apprendimento (o una traduzione si-multanea) di nuove lingue (così si potrebbe comprendere come i presenti sentano parlare le loro lingue).
Ma Luca potrebbe essere stato influenzato dalla tradizione giudaica secon-do la quale nel Sinai la voce di Dio si era divisa in 70 lingue, perché la capissero tutte le 70 nazioni della terra: con il dono dello Spirito la Chiesa si apre all’evangelizzazione di tutte le nazioni del mondo.
Seconda lettura: Galati 5,16-25 Fratelli, camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il deside-rio della carne.
La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desi-deri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quel-lo che vorreste.
Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge.
Del resto sono ben note le opere della carne: fornicazione, impurità, dissolutezza, idola-tria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubria-chezze, orge e cose del genere.
Riguardo a queste cose vi preavviso, come già ho det-to: chi le compie non erediterà il regno di Dio.
Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; contro queste cose non c’è Legge.
Quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la car-ne con le sue passioni e i suoi desideri.
Perciò se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.
La figliolanza abramitica, o divina, non è possibile senza lo Spirito.
È solo lo Spirito che fa di un uomo della carne, un uomo dello Spirito.
L’uomo della carne è l’uomo schiavo dei propri vizi: fornicazione, impurità, libertinaggio (disordini sessuali), idolatria, stregoneria (corruzione del culto), inimicizia, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidia (peccati contro la comunità), ubriachezza, orge (disordini dei sensi), e cose del genere (l’e-lenco è solo indicativo).
L’uomo vorrebbe compiere la legge, che porta alla vita, ma non ha in se stesso la forza di compierla, e si trova a fare quello che non vuole (v.
17): gli è impedi-to l’esercizio della vera libertà, quella di amare rinnegando se stesso per perdersi nell’altro.
In questa battaglia contro l’uomo della carne che vorrebbe tornare a prevalere nella vita del cristiano, s’inserisce lo Spirito Santo.
La sua presenza è indicata dai frutti: il punto d’ar-rivo dell’attività vivente dello Spirito, che sollecita la nostra libera cooperazione.
Essi sono: amore, gioia, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (V.
22).
Sono gli atteggiamenti dell’uomo nuovo, liberato dalle sue paure e dal suo egoismo, in grado di amare gratuitamente.
La comunità, in questa battaglia, può anche dire di no alla forza liberante dello Spirito, e ricadere nelle antiche opere della carne.
Vangelo: Giovanni 15,26-27; 16,12-15 In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimo-nianza di me; e anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio.
Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso.
Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parle-rà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future.
Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà.
Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo an-nuncerà».
Esegesi I due brani del vangelo sono tratti dal secondo discorso d’addio di Gesù durante la cena pasquale.
Gesù parla della testimonianza che i suoi discepoli daranno nel contesto della persecuzione.
Essi non saranno mai soli, perché egli manderà il Consolatore, o meglio il Difensore, che procede dal Padre.
La forza necessaria, infatti, per testimoniare la verità su Cristo durante il giudizio verrà dallo Spirito di verità, che in modo silenzioso continua l’o-pera di Gesù che è la Verità.
Lo Spirito ricorderà loro quel che hanno visto e udito fin da principio.
La testimonianza oculare non basta per comprendere Gesù.
È solo lo Spirito che dona gli occhi della fede per capire chi veramente egli sia: «per il momento non siete capaci di portarne il peso» (16,12).
Lo Spirito è una guida «a tutta la verità» (16.13): Gesù è la verità, ma è anche la «via», che conduce alla verità.
Lo Spirito dopo la risurrezione sarà il maestro interiore che li accom-pagnerà alla comprensione sempre più profonda di Gesù.
Anche i vangeli sono stati scritti sotto la guida di questo Spirito, e così pure la comprensione del loro significato nelle co-munità del futuro avverrà sotto l’azione dello Spirito.
Come Gesù ci ha detto tutto quello che ha udito dal Padre, così anche lo Spirito non dà del suo, ma di quello che riceve da Gesù (v.
13b).
Egli rivela e glorifica Gesù, mettendo in evidenza la sua natura trascendente (v.
14): questa è anche l’opera d’ogni discepolo dopo la Pasqua.
Meditazione Attraverso una lunga e simbolica attesa di cinquanta giorni, la liturgia prepara i creden-ti a vivere quel giorno di dono e di pienezza che è la Pentecoste, il giorno in cui il Signore Gesù porta a compimento la missione che il Padre gli ha affidato, facendo dono all’umani-tà del suo Spirito affinché tutto il mondo possa entrare nella novità della vita divina (cfr.
il racconto di At 2,1-11).
Gesù stesso, con la sua parola, prepara il discepolo in questo tempo di attesa: gli fa comprendere che, nella vita di chi si pone alla sequela di Cristo, ciò che da forza, freschezza, passione, vivacità a ogni parola, a ogni gesto, è proprio quello Spirito che abita in lui, quello Spirito che è stato il segreto stesso della vita di Gesù (cfr.
Gal 5,16-25 e Gv 15,26-27).
E la dimensione del dono emerge con forza nelle letture che la liturgia di questo giorno ci propone.
Nel racconto redatto da Luca e riportato in At 2,1-11, l’esperienza della Pentecoste viene descritta attraverso allusioni bibliche che richiamano l’evento del Sinai (cfr.
in particolare gli elementi descrittivi che caratterizzano la teofania del Sinai, come il fragore che viene dal cielo, il vento che si abbatte impetuoso, il fuoco) e la stessa comunità dei discepoli radunata «tutta insieme nello stesso luogo» (2,1) ricorda il popolo di Israele accampato davanti al monte (cfr.
Es 19,2, una delle letture proposte per la messa vigilare).
Di qui deriva un pri-mo aspetto del dono che la comunità dei credenti riceve a Pentecoste: «l’invio dello Spirito – annota J.
Dupont – si sostituisce alla promulgazione della Legge; l’alleanza che era fon-data sulla legge mosaica viene rimpiazzata da una nuova alleanza, basata sulla presenza e sull’azione dello Spirito nei cuori.
Tale alleanza non è più legata all’obbedienza a coman-damenti imposti dal di fuori, ma ad una trasformazione intima operata dallo Spirito che ispira, a coloro che l’hanno ricevuto, un atteggiamento filiale nei riguardi di Dio».
Ma questa intima comunione tra Dio e l’uomo che si realizza mediante lo Spirito del Ri-sorto investe anche le relazioni: crea una comunità che è la Chiesa.
Il dono dello Spirito è un dono che suscita unità e comunione tra gli uomini.
E Luca sottolinea il carattere univer-sale della koinonia inaugurata dallo Spirito.
Viene capovolta la pretesa di Babele (Gen 11,1-9, prima lettura della messa vespertina della vigilia): ciò che l’uomo non può realizzare nella logica di una conquista autonoma, cioè l’unità delle lingue, viene compiuta come do-no da Dio, mediante lo Spirito che apre alla comprensione dell’altro nella diversità dei lin-guaggi.
Nella Pentecoste, dunque, ci viene rivelato ciò che unisce gli uomini: non è il ‘no-me’ che essi si danno annullando ogni alterità nella pretesa di una unità puramente uma-na, ma lo Spirito (il volto della relazione intradivina) che viene donato.
L’unità che scaturi-sce da questo dono, allora, non è nella riduzione a una sola lingua, ma nella comprensione della parola dello Spirito nella diversità e nella unicità di ciascuna lingua.
E inoltre, a Pentecoste, sotto il simbolo del vento gagliardo che all’improvviso investe il luogo ove erano riuniti i discepoli di Gesù e si trasforma in fuoco che si posa su ciascuno di loro, la comunità dei credenti riceve in dono quella forza che gli permetterà, lungo la storia e in ogni luogo, di essere testimone dell’evangelo e portatrice della Pasqua di Cristo.
È come se in quel giorno a quel primo seme di Chiesa, attraverso lo Spirito, venisse donato un vento e un fuoco inestinguibili, tali da percorrere senza sosta ogni epoca e ogni luogo e tali da rendere possibile annunciare, comprendere e vivere l’evangelo.
Si può capire allora, proprio attraverso questa immagine, ciò che lo Spirito Santo compie nella Chiesa e in noi credenti: ci abilita ad essere testimoni dell’evangelo, ci dà la forza di annunciare la parola di Gesù, ci rende capaci di comunione e di unità.
Ed è l’aspetto che emerge nella pericope del vangelo di Giovanni.
In un contesto di per-secuzione, il discepolo fa esperienza certamente di una conformazione al destino del suo Signore: «se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20).
Tuttavia sente il peso di portare una testimonianza che a volte sembra al di là delle sue forze.
Gesù allora promette la presenza dello Spirito il quale si rivela come «il Paraclito […] lo Spirito di verità che procede dal Padre» (15,26).
Egli diventa il testimone interiore del discepolo, colui che ha la forza di convincere il cuore del discepolo della verità della parola di Gesù, quasi ‘di-fendere’ Gesù nel cuore del discepolo e di rendere trasparente la testimonianza del disce-polo di fronte al mondo, facendo comprendere la bellezza della testimonianza data al no-me di Gesù.
Solo lo Spirito può fare del discepolo un testimone.
Ma in Gv 16,12-13 ci viene anche ricordato che solo lo Spirito può fare da ‘esegeta’ della parola di Gesù, da guida nel cammino di comprensione di questa parola a volte così diffi-cile da ‘portare’.
È lo Spirito di verità, poiché «non parla da se stesso, ma dice tutto ciò che ha udito e annuncia le cose future» (cfr.
16,13).
Mediante lo Spirito, la comunità dei disce-poli viene condotta nel cuore stesso del mistero di Gesù; lo Spirito guida «verso e dentro la pienezza della verità» (tale è il senso della espressione odegesei eis del v.l3).
E questo cam-mino guidato dallo Spirito è, nello stesso tempo, un cammino di fedeltà e di novità, di memoria e di rinnovamento.
Senza lo Spirito, la parola stessa di Gesù resta estranea al nostro cuore, come qualcosa di duro, di impossibile da capire e da accogliere nella propria vita.
Solo lo Spirito ha la for-za di inciderla nel nostro cuore e di nasconderla come seme che feconda la nostra esisten-za, ricreandola, aprendo vie nuove, rendendoci veramente liberi.
Solo lo Spirito, ci ricorda Gesù, può introdurci alla verità tutta intera: alla verità della parola di Dio, ma anche alla verità della nostra vita, del nostro cuore, alla verità dell’altro.
E infine, mediante lo Spirito, questa parola di verità si trasforma in vita.
E come ci ri-corda l’apostolo Paolo, il dono dello Spirito fa maturare nella nostra esistenza, nel nostro agire, il frutto dello Spirito (cfr.
Gal 5,22).
«Camminate secondo lo Spirito…
lasciatevi guida-re dallo Spirito» (Gal 5,16.18): questo è l’invito di Paolo.
Ed è un modo di vivere nella logi-ca del dono e della novità: significa affidare il nostro cuore con i suoi desideri alla guida dello Spirito, camminare con il ritmo che lui ci indica; significa vivere nell’ascolto dello Spirito, il quale, conoscendo le profondità del nostro cuore, sa trarre fuori da esso ogni de-siderio di bene e, irrobustendolo con la sua potenza, mettendolo in sintonia con il cuore stesso di Dio (con ciò che lui desidera per noi), lo fa diventare un frutto di vita.
Vivere se-condo lo Spirito, secondo i suoi desideri, è trasformare la propria vita in un terreno fecon-do in cui germogliano i semi che sono già nascosti nel nostro cuore (i nostri desideri) di-ventando frutto dello Spirito.
Paolo ci dice, tra l’altro, che c’è un solo frutto da portare e, in qualche modo, tutti i nostri desideri devono convogliare in quel frutto.
Questo frutto è l’amore, l’agape, il riflesso della carità di Dio in Gesù che si rivela nella nostra vita.
Il dono dello Spirito è la carità.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006- .
– Comunità monastica Ss.
Trinità di Dumenza, La voce, il volto, la casa e le strade.
Quaresima e tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009, pp.
71.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
– J.
RATZINGER/BENEDETTO XVI, Giovanni Paolo II.
Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007 – Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 53-54 – C.M.
MARTINI, Incontro al Signore risorto.
Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.
valutazione degli studenti
Alle scuole superiori la valutazione intermedia e finale degli apprendimenti è effettuata dal consiglio di classe.
Nello scrutinio finale il consiglio di classe sospenderà il giudizio degli alunni che non hanno conseguito la sufficienza in una o più materie, senza decidere immediatamente la non promozione, ma comunicando i risultati conseguiti nelle altre materie.
A conclusione dei corsi di recupero per le carenze dimostrate il consiglio di classe, dopo aver accertato il recupero delle lacune formative entro la fine dello stesso anno scolastico, non oltre la data di inizio delle lezioni dell’anno successivo, formulerà il giudizio finale e l’ammissione alla classe successiva.
Secondo quanto indicato dall’ordinanza ministeriale n.
40 dell’8 aprile 2009, relativa all’anno scolastico 2008/09, per l’ammissione all’esame di Stato sarà necessaria la media del 6.
Il voto in condotta concorrerà alla formazione della media.
A partire dall’anno scolastico 2009/10 saranno ammessi all’esame di Stato tutti gli studenti che conseguiranno la sufficienza in tutte le materie e in condotta.
Saranno ammessi direttamente agli esami di Stato gli studenti che in quarta avranno conseguito almeno 8 decimi in ciascuna materia (e anche nel comportamento) e che hanno riportato una votazione non inferiore al 7 in ciascuna disciplina, 8 per la condotta, nelle classi seconda e terza.
L’educazione fisica concorre come ogni altra disciplina alla determinazione della media dei voti.
Con il Regolamento approvato oggi dal Consiglio dei Ministri il voto sul comportamento concorrerà alla determinazione dei crediti scolastici.
Il 5 in condotta sarà attribuito dal consiglio di classe per gravi violazioni dei doveri degli studenti definiti dallo Statuto delle studentesse e degli studenti, purchè prima sia stata irrogata allo studente una sanzione disciplinare.
Inoltre, l’insufficienza in condotta dovrà essere motivata con un giudizio e verbalizzata in sede di scrutinio intermedio e finale.
La valutazione del comportamento è peraltro già partita nel primo quadrimestre dell’anno scolastico in corso ed ha registrato circa 34 mila insufficienze.
Per la valutazione degli alunni con disabilità si dovrà tener conto, oltre che del comportamento, anche delle discipline e delle attività svolte sulla base del piano educativo individualizzato.
Inoltre si prevede per gli alunni disabili, come in passato, la predisposizione di prove di esame differenziate, corrispondenti agli insegnamenti impartiti e idonei a valutare il progresso dell’alunno in rapporto alle sue potenzialità e ai livelli di apprendimento iniziali.
Per gli alunni in situazione di difficoltà specifica di apprendimento debitamente certificate, infine, interviene per la prima volta una disciplina organica, con la quale si prevede che, in sede di svolgimento delle attività didattiche, siano attivate adeguate misure dispensative e compensative e che la relativa valutazione sia effettuata tenendo conto delle particolari situazioni ed esigenze personali degli alunni.
——————————————————————————– tuttoscuola.com Questa mattina il Consiglio dei Ministri ha approvato in via definitiva, insieme ai Regolamenti per la nuova Istruzione tecnica e professionale (in prima lettura) anche l’atteso Regolamento sulla valutazione degli studenti nelle scuole di ogni ordine e grado.
Non ci sono novità rispetto alla versione iniziale del provvedimento.
Nella scuola primaria gli alunni saranno valutati dall’insegnante unico di riferimento.
La valutazione terrà conto del livello di conoscenza e del rendimento scolastico complessivo degli alunni nelle singole materie.
La valutazione nelle singole materie sarà espressa in voti numerici, solo per l’insegnamento della religione cattolica resta la valutazione attraverso un giudizio sintetico formulato dal docente.
I docenti di sostegno parteciperanno alla valutazione di tutti gli alunni.
Nella scuola elementare gli alunni potranno essere non ammessi alla classe successiva solo in casi eccezionali e motivati.
Il voto in condotta nella scuola elementare sarà espresso attraverso un giudizio del docente o dei docenti contitolari.
Nella scuola secondaria di primo grado gli studenti saranno valutati nelle singole materie con voti numerici.
Anche a questo livello di scuola l’insegnamento della religione cattolica continuerà ad essere valutato attraverso un giudizio sintetico del docente.
Per essere ammessi all’anno successivo, comunque, sarà necessario avere almeno 6 in ogni materia, compreso il comportamento (condotta).
Anche per la ammissione all’esame di Stato di terza media gli alunni dovranno conseguire la sufficienza in tutte le materie, compreso il comportamento.
In sede d’esame finale agli alunni particolarmente meritevoli che conseguiranno il punteggio di 10 decimi potrà essere assegnata la lode dalla commissione che deciderà all’unanimità, ma questa norma entrerà in vigore solo l’anno prossimo (2009-2010), insieme a quelle riguardanti il voto d’ammissione (in decimi) e i criteri di calcolo del voto finale.
Ecosocialismo o barbarie.
UN PREMIO PLURALE di Luiz Flávio Cappio Quando mi è giunta la notizia del Premio “Cittadino del Mondo” della Fondazione Kant, mi sono subito chiesto il perché.
Quale legame dovrebbe avere la nostra lotta nella Vale do Rio São Francisco, nel Nordest del Brasile, con la filosofia di Immanuel Kant e i propositi della Fondazione che ne custodisce gli ideali? Sono andato a rivedere i miei studi di Filosofia dei lontani anni ’60.
Non è stato difficile cogliere l’intenzione della Fondazione nelle proposizioni etico-filosofiche di Kant, luminosamente attuali, di una cittadinanza cosmopolita, basata su diritti umani universalizzati, sull’unione di morale e politica.
Il fatto di venire associato a questa filosofia mi onora, ma non mi rende superbo.
Perché l’oggetto della premiazione non è una persona o quello che da sé, in maniera solitaria, avrebbe fatto.
Non è merito di uno solo, ma di una legione di uomini e di donne, di giovani e di anziani, di movimenti, di organizzazioni e di organismi sociali, che operano – potremmo dire – sotto l’imperativo categorico kantiano: cercare per tutti quello che desidereremmo che tutti facessero a tutti.
Atteggiamento che direi rivoluzionario, considerando l’estensione e la profondità della crisi che viviamo, crisi di civiltà, di paradigma, in fondo la più grave crisi etica.
È il fatto di non lasciarsi guidare da principi universali (in quanto fondamentali), ma da fini meramente individualisti e utilitaristi che ha disumanizzato l’essere umano e lo ha condotto a corrompere la natura.
Stiamo sotto il giogo di un inedito relativismo di valori e punti di riferimento dell’esistenza umana, una perdita collettiva del senso della vita, della società, dell’umanità.
Realmente, senza esagerazioni, non siamo lontani da uno stato di anomia e di barbarie.
Verso un ecosocialismo Come e perché siamo arrivati a questo punto? Dobbiamo avere il coraggio di rispondere e non temere la risposta.
Il Rapporto sullo Sviluppo Umano 2007/2008, del Pnud (Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo) rivela: il 20% più ricco del mondo assorbe l’82,4% di tutte le ricchezze del pianeta a fronte del 20% più povero che deve accontentarsi appena dell’1,6%.
Questa macchina di produzione di disuguaglianza non si sostiene più politicamente, né si accetta eticamente.
È evidente che la sua radice affonda nel sistema dell’eco-nomia di libero mercato autoregolato e assoluto – il cosiddetto neoliberismo con la sua globalizzazione mercantile – eretto sul dogma del massimo profitto a qualunque costo, anche al costo della malattia e della morte di milioni di esseri umani (come avviene in Africa con l’Aids, come minaccia di avvenire con l’Influenza A).
Questa pretesa a-etica non si arresta di fronte alla dannazione dei simili.
Ma i limiti della natura, l’esaurimento delle risorse naturali e il riscaldamento globale causato da questo modello di civiltà si incaricano di offrire all’umanità un’occasione, forse l’ultima, per rivedere questo sistema di morte e reinstaurare relazioni libere e solidali con tutte le forme di vita.
Come dice il mio maestro e fratello Leonardo Boff, “la nuova era o sarà l’era dell’etica o non sarà”.
Questo il compito a cui tale premiazione ci convoca.
Se le alternative storiche al capitalismo si sono rivelate frustranti, riproducendo la dominazione umana e la devastazione della natura, si tratta, apprendendo dall’esperienza storica, di reinventare il nostro modo di vita sulla terra.
Credo fermamente che una società internazionale giusta, sostenibile e pacifica, che viva e consenta di vivere, sia possibile solo in una prospettiva ecosocialista.
Un modello di produzione ecologico e un accesso solidale ai beni necessari, in condizioni socialiste, sono ciò che ci condurrà al superamento dell’attuale crisi.
Credo che l’Europa, malgrado le contraddizioni del colonialismo, per la sua tradizione di democrazia e di rispetto dei diritti umani, abbia in tutto questo un ruolo importante.
Credo anche che i popoli originari, sopravvissuti alla co-lonizzazione e in resistenza, e le comunità impoverite del Sud e di tutto il mondo abbiano un enorme contributo da dare.
Perché nutrono il desiderio di cambiamento e conservano pratiche tradizionali di relazione con la natura e tra di essi, mostrando i più nitidi segnali di interazione rispettosa e solidale.
Cittadini del mondo È per questo che intendo e accetto il Premio “Cittadino del Mondo” della Fondazione Kant: perché nella mia persona voi e io vediamo tutti coloro che incarnano questa utopia, ideale di vita e impegno storico.
Concretamente, siamo Cittadini del Mondo tutti noi che ci uniamo nella difesa del “São Francisco – terra e acqua, fiume e popolo”, ci mobilitiamo attorno ad un modello di vita comunitaria nell’impo-verito Semiarido brasiliano, ci dedichiamo a riscattare la di-gnità dei poveri esigendo con loro, attivamente e pacificamente, la giustizia e il diritto, giustizia e diritto che dovrebbero esistere universalmente.
Ho cercato questi Cittadini del Mondo nella mia traiettoria di vita degli ultimi 40 anni, da quando, rispondendo alla chiamata di Gesù ad uno stile di vita proposto e testimoniato da Francesco di Assisi, lasciai il ricco Sudest del Brasile per l’impoverito Nordest.
Li ho trovati nelle comunità e nei popoli impoveriti e in resistenza del sertão semiarido del fiume São Francisco.
Ho compreso che i Cittadini del Mondo qui premiati sono i poveri di questa regione, con cui ho imparato, più che insegnarle, la dignità del lavoro, la gioia della condivisione anche nella più grande povertà, la cura dei doni della terra, delle acque, delle foreste e degli animali, il diritto alle condizioni materiali e immateriali imprescindibili a una vita in abbondanza e in pace.
Per esempio, i ribeirinhos (popoli tradizionali ai margini dei fiumi, ndt) in lotta per il fiume e per i propri diritti che abbiamo incontrato tra il 1993 e il 1994 peregrinando per un anno per le sponde dei quasi 3 mila chilometri del terzo maggiore fiume del Brasile.
O gli abitanti del Semiarido che, malgrado gli abusi e la corruzione, imparano e insegnano a convivere con il clima, in condizioni ambientali avverse.
I Cittadini del Mondo premiati dalla Fondazione Kant sono anche le innumerevoli persone e organizzazioni, molte delle quali qui in Germania, che hanno espresso solidarietà alle iniziative di digiuno e di preghiera che abbiamo intrapreso, nel 2005 e nel 2007, contro il Progetto di Trasposizione delle acque del fiume São Francisco.
Hanno compreso il nostro gesto: tale progetto riassume la fallacia del sistema, poiché in nome dei poveri e assetati intende creare sicurezza idrica per grandi imprese private di produzione ed esportazione di prodotti ad alto consumo d’acqua e socialmente dannosi, come la canna da zucchero per l’etanolo.
È per me sempre motivo di angoscia questa domanda: perché dobbiamo lottare contro quando abbiamo molte più cose a favore delle quali lottare? Ma, se è vero che “un fiume è come uno specchio che riflette i valori di una società”, la nostra non vale quello che beve e mangia…
Si resiste all’evidenza della fallacia di questo modello.
In Brasile, con tante benedizioni della natura, potenziale straordinario per servire il popolo, l’umanità e il pianeta in questo momento difficile, la crisi economica e quella ecologica sono state affrontate persino entusiasticamente come opportunità di lucro: una posizione cieca, meschina e irresponsabile.
L’attuale governo del presidente Lula, frustrando le enormi aspettative della maggioranza che lo ha eletto, si presta a sussidiare la riproduzione del modello fallito.
Il Pac, il Programma di Accelerazione della Crescita (di circa 178 miliardi di euro) dà la priorità a opere di infrastruttura per la crescita economica a qualunque costo, fino a venir meno al rispetto della legge, dei popoli tradizionali, delle istituzioni dello Stato.
Non c’è più posto, in Brasile come in ogni altro luogo, per una crescita illimitata e ossessiva.
È urgente trasformare il nostro modo di produzione e i nostri modelli di consumo, assumendo come criterio quello della destinazione universale dei beni fondamentali.
Dobbiamo apprendere a “vivere di più con meno”.
Per far fronte all’emergenza, dobbiamo ampliare iniziative come la tassazione delle attività distruttive, del capitale speculativo e dei grandi profitti, e l’uso di tali risorse in programmi di prevenzione dei disastri ecologici e in appoggio alle vittime della fame, della sete, delle malattie e dei cambiamenti climatici.
Ringraziamenti Comprese e condivise le ragioni per cui ci troviamo qui, mi resta solo da ringraziare.
Come riconoscimento e incoraggiamento per la nostra lotta, il premio è giunto nel momento migliore.
Molti – perché non capiscono e minimizzano quello che è in gioco – già davano per perso uno scontro che è impari.
Felice coincidenza: questa settimana abbiamo dato avvio ad una nuova Campagna Internazionale contro la Trasposizione del fiume São Francisco, a cui ha iniziato a lavorare l’Esercito Brasiliano.
Lanciata dai 33 Popoli Indigeni del Bacino del São Francisco colpiti direttamente e indirettamente dal progetto, la campagna esige che essi siano consultati insieme al Congresso Nazionale e che vengano rispettati i loro territori, come prescrive la Costituzione.
Invito tutti a impegnarsi in questa campagna di e-mail al Supremo Tribunale Federale e alle altre autorità brasiliane.
Ringrazio la Fondazione Kant per l’opportunità di far avanzare la coscienza e la lotta.
Associare questa lotta a quella del popolo palestinese, incarnata nella persona di Jeff Harper (docente di Antropologia e difensore dei diritti umani, noto per la sua protesta contro la distruzione di case palestinesi nella Striscia di Gaza, anche lui premiato dalla Fondazione; ndt) la rende più grande e più profonda.
Vi comunico che destineremo il valore economico del Premio all’avvio delle opere del Santuario dei Martiri nella mia diocesi.
Cittadini del Mondo, più che qualsiasi altro, sono stati coloro che hanno dato la propria vita per la causa della Vita.
In vita hanno avuto sofferenza e dolore, che riposino in dignità e pace! (…).
Prima di Kant e della sua entusiastica proposta di una “pace perpetua”, fondata sull’esercizio del Diritto della “comunità universale”, Francesco di Assisi, padre e maestro, quasi 800 anni prima delle attuali catastrofi socio-ambientali, proponeva la fraternità universale come cammino per la salvezza di tutti e la gloria del Creatore.
A tutti e tutte il mio saluto francescano, e che risuoni come una preghiera: pace e bene! Adista Documenti n.
59 Non capita molto spesso di ascoltare un vescovo che parli di socialismo e di ecosocialismo.
Eppure è questo che è avvenuto a Friburgo, il 9 maggio scorso, durante il conferimento del Premio “Cittadino del mondo” della Fondazione Kant al vescovo brasiliano dom Luiz Cappio, della diocesi di Barra, per la sua lotta in difesa del fiume São Francisco e del popolo che ne abita le sponde.
“Credo fermamente che una società internazionale giusta, sostenibile e pacifica – ha affermato il vescovo francescano nel discorso pronunciato alla cerimonia di premiazione – sia possibile solo in una prospettiva ecosocialista.
Sono un modello di produzione ecologico e un accesso solidale ai beni necessari, in condizioni socialiste, che ci condurranno al superamento dell’attuale crisi”.
Ma se suonano inconsueti gli accenti del vescovo, non meno inconsuete sono state le modalità della sua lotta.
Contro il progetto di deviazione delle acque del São Francisco e in difesa di un progetto alternativo rispettoso delle leggi del fragile ecosistema del Nordest brasiliano, dom Cappio non aveva esitato, per due volte in due anni, a ricorrere allo sciopero della fame.
Nel primo caso, nel settembre del 2005, lo aveva interrotto dopo 11 giorni (v.
Adista nn.
69 e 73/05), in seguito all’impegno di Lula di sospendere il progetto, avviando su di esso un ampio, trasparente e partecipativo dibattito con la società civile.
Dibattito, tuttavia, che era stato interrotto molto presto (v.
Adista n.
85/07).
Il vescovo era tornato allora alla carica, sollecitando il rispetto dell’impegno preso con una lettera al presidente, nel febbraio del 2007 ma, per tutta risposta, il governo aveva mandato l’esercito a iniziare i lavori, incurante del fatto che, nel frattempo, fossero state presentate alternative concrete, praticabili ed economiche, come quelle previste dall’Atlante del Nordest dell’Agenzia nazionale delle Acque: 530 opere per più di mille municipi, destinate a rifornire d’acqua 34 milioni di persone (con un costo di 3,6 miliardi di reais, contro i 6,6 miliardi del progetto di deviazione del corso delle acque).
Una soluzione vantaggiosa da tutti i punti di vista, ma osteggiata dalle imprese legate al capitale internazionale, che del megaprogetto governativo hanno bisogno per promuovere l’allevamento di gamberetti e la produzione di frutta per l’esportazione (secondo gli studi di impatto ambientale, il 70% delle acque sarebbe destinato infatti alla frutticoltura, il 26% al rifornimento delle città e solo il 4% alla popolazione dei campi).
Così il vescovo, nel novembre del 2007, aveva ripreso lo sciopero della fame, stavolta interrompendolo dopo ben 24 giorni, appena prima che la sua salute ne fosse irreversibilmente compromessa, su richiesta della famiglia, degli amici, dei compagni di lotta (difficile valutare quanto abbiano pesato le pressioni del Vaticano, che a sua volta aveva ricevuto quelle del governo Lula; v.
Adista n.
1/08).
La fine del digiuno non aveva però comportato in alcun modo un allentamento della lotta contro il progetto governativo.
Non a caso, dom Cappio, nel suo discorso pronunciato durante la cerimonia di premiazione, rivolge un duro attacco al governo Lula, colpevole ai suoi occhi di aver frustrato “le enormi aspettative della maggioranza che lo ha eletto”, prestandosi “a sussidiare la riproduzione di un modello fallito”.
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