Esiste una maggioranza silenziosa di italiani – spiega Andrea Piersanti, direttore artistico del festival – che non gode dell’attenzione delle maggiori istituzioni culturali del Paese.
I principali festival cinematografici, infatti, sono concepiti e organizzati pensando esclusivamente agli addetti ai lavori.
È paradossale.
Sono infatti le famiglie a garantire incassi significativi al botteghino.
Solo quando il cinema riesce a convincere il pubblico della generazione dei genitori e quello della generazione dei figli a vedere gli stessi film, la vendita dei biglietti sale in modo rilevante”.
Dieci i film in gara, che saranno giudicati da una giuria presieduta dal regista Alessandro D’Alatri che raccoglie il testimone di Pupi Avati.
Al vincitore andrà il premio che da quest’anno è dedicato a Gianni Astrei, ideatore e anima del festival, morto in un tragico incidente di montagna lo scorso primo maggio.
Alla manifestazione – organizzata con il patrocinio del Forum delle associazioni familiari, e gemellata con Cartoons on the bay, la rassegna dell’animazione internazionale organizzata da Rai Trade e diretta da Roberto Genovesi – si potrà assistere anche alle anteprime di Les Enfants de Timpelbach (“I bambini di Timpelbach”), di Nicola Bary, e di Flash of genius (“Lampi di genio”), di Marc Abraham.
Fra gli altri film in programma, il nuovo lavoro di Michael Winterbottom, Genova, con Colin Firth, Versailles, di Pierre Schöller, e Snijeg (“Neve”), di Aida Begic, vincitore del gran premio della giuria a Cannes.
Oltre a quelle sulla figura paterna è prevista anche un’altra retrospettiva sul tema “Famiglie nei cartoni”.
Ancora in forse la partecipazione di Gabriele Salvatores con il suo documentario sulle scuole di calcio (Inter Campus) che l’Inter ha aperto in tutto il mondo, mentre, dopo le polemiche per la proposta parziale al festival di Venezia, è quasi certa la proiezione dell’edizione integrale di La Rabbia (1963) con entrambi i contributi di Pier Paolo Pasolini e Giovanni Guareschi.
Sulla linea della scorsa edizione, ci saranno inoltre alcuni incontri su temi socialmente rilevanti.
Fra gli altri: “Per un consultorio al servizio della famiglia e della vita”; “Famiglia e fisco”; “Tanti padri, tanti amori”; e “L’anziano, il nonno oggi”.
Un argomento, quest’ultimo sul quale si sofferma D’Alatri.
“Il tema del festival di quest’anno – rileva il regista – è incentrato sulla figura del padre e ho pensato anche ai nonni.
Ho avuto il privilegio di essere cresciuto coi nonni, e questo purtroppo credo sia sempre più raro.
In questo passaggio si è perso un anello importante della nostra tradizione, quello di tramandare le tradizioni orali, le storie, le radici, l’educazione e l’esempio all’interno della famiglia.
Mi auguro che i film selezionati siano uno sprone a un dibattito, perché i festival hanno una funzione importantissima che è quella di animare il confronto”.
“Il successo avuto nel 2008 del ciclo di lectures su temi collegati alla famiglia e alla comunicazione – gli fa eco Armando Fumagalli, responsabile del comitato scientifico del festival – ci ha spinti ad ampliare il numero di incontri con esponenti della cultura, delle istituzioni, della vita sociale e politica del Paese.
In altre parole, il festival prosegue nella sua volontà di essere un incubatore di iniziative nei settori del cinema e della comunicazione in generale”.
Anche per questo, al festival è collegato un premio per la sceneggiatura, con l’intento di portare nuove idee nel cinema italiano e una maggiore attenzione al target family.
Alcune associazioni, come Far Famiglia, Associazione italiana genitori, Associazione famiglie separate cattoliche, Amici dei bambini, nei giorni del festival terranno incontri pomeridiani per illustrare le proprie attività.
Il Movimento italiano genitori presenterà il libro Un Anno di Zapping, mentre l’Associazione famiglie numerose, grazie alla disponibilità di una struttura da quattromila posti nella nuova sede del festival – non più alla Fonte Anticolana ma nella più centrale Fonte di Bonifacio vIII – terrà nei primi due giorni la sua assemblea nazionale.
E quest’anno, grazie agli sponsor, non ci sarà bisogno di acquistare un biglietto d’ingresso.
All’entrata verrà distribuito solo un passi che servirà per prenotare la poltrona per una proiezione, ma anche per ottenere sconti e promozioni in tutta la città.
Un’occasione, dunque, in primo luogo per le famiglie, che avranno l’occasione di trascorrere una settimana di vacanza intelligente, unendo lo svago alla riflessione, ma anche per chi fa televisione e cinema e che a Fiuggi avrà l’opportunità di confrontarsi con gli utenti.
In tal senso, secondo il direttore generale Fabio Fabbi, “la manifestazione potrà dare un contributo alla crescita del sistema cinematografico italiano.
Il cinema, infatti, sempre di più, deve imparare a confrontarsi veramente con i propri spettatori e con la società nel suo insieme allargando i propri confini e il proprio pubblico.
In termini di marketing, si tratta di ampliare il target del prodotto cinematografico”.
(©L’Osservatore Romano – 20 giugno 2009) L’anteprima dell’atteso L’era glaciale 3, un cartoon in grafica computerizzata in 3d, ovvero il meglio della tecnologia cinematografica di oggi, ma anche un piacevole ritorno al passato, con la riproposizione di un classico della tv di ieri come Il giornalino di Gian Burrasca, quello con Rita Pavone e la regia di Lina Wertmüller; e ancora film nuovi dedicati alla famiglia, con le sue attese e le sue problematiche, ma anche due retrospettive sulla figura del padre nel cinema internazionale e nella televisione italiana.
Partendo dal successo della prima edizione, il Fiuggi family festival tornerà dunque quest’anno con lo sguardo al presente, senza però dimenticare il passato e quanto di buono ha regalato al grande e al piccolo schermo.
E con un’attenzione particolare al mondo dei videogiochi, cui sarà dedicata una mattinata per un confronto tra genitori e le maggiori aziende di produzione.
L’appuntamento è dal 25 luglio al primo agosto: una settimana densa di avvenimenti per tutta la famiglia, tra proiezioni e incontri di riflessione per gli adulti; cartoni animati e giochi per i più piccini.
Anche quest’anno non mancherà il concorso internazionale, volto a promuovere pellicole, anche di difficile distribuzione, che rispondono alle esigenze di un pubblico familiare interessato e attento, deciso a diventare un interlocutore importante per gli operatori del mondo del cinema.
”
Ralf Gustav Dahrendorf
La scomparsa di Ralf Gustav Dahrendorf merita la grande attenzione che ha suscitato, ma è necessario che del tempo scorra per consentire alla meditazione di avere la meglio sull’emozione.
È invece possibile dire subito alcune delle ragioni per le quali è opportuno che il pensiero torni con pazienza sul lascito di questo grande tedesco del Novecento.
Ralf Gustav Dahrendorf è stato uno dei migliori interpreti della eredità di Max Weber.
Interprete e non ripetitore o semplice continuatore.
A differenza di tanti altri, e innanzitutto di Marx e dei vari marxismi, Dahrendorf, sulle orme di Weber, ha rifiutato e contestato con successo ogni spiegazione monofattoriale dell’agire umano, della vicenda sociale, dei processi storici (ciò sin dalla sua prima opera, del 1957, Classi e conflitto di classe nella società industriale, in Italia presso Laterza).
Egli ha inteso combattere strenuamente l’ideologia, ogni ideologia, con la scienza e nella scienza.
Perciò tra le sue pagine troviamo ricerche e studi rilevanti per il dibattito sociologico, per quello economico, per quello filosofico, per quello storico, per quello politologico.
Per questa stessa ragione troviamo nella ricerca di Dahrendorf una vigilanza metodologica ed epistemologica costante.
Questo spirito lo ha reso sempre disponibile alla critica, critica che non mancherà neppure d’ora in avanti, ma che testimonierà anche della grandezza scientifica ed etica di questo autore che ha cercato di evitare i fumosi nascondigli dell’ideologia.
Allo stesso tempo, merita notare che una tale vastità di interessi e una tale complessità di prospettive non l’ha reso un eclettico, e neppure un pensatore da “terze vie”.
In uno dei grandi eventi della storia culturale europea del Novecento, il confronto tra “razionalisti critici” e “francofortesi” svoltosi agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso (si veda Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi), Dahrendorf – pur mantenendo equilibrio e autonomia – è chiaramente tra i primi (capofila Popper, mentre tra i secondi, capofila Adorno, compare tra gli altri Habermas).
Attento alle ragioni altrui, Dahrendorf ci lascia un lungo e ricco magistero che funge per noi da baluardo contro ogni deriva totalitaria, anche apparentemente “dotta” o “dialettica”.
Ricorrendo a un suo schema, Dahrendorf ha costantemente usato delle ragioni offerteci da Kant contro i pericoli della ben viva eredità hegeliana.
Se facciamo appena un passo indietro e sull’opera di Dahrendorf guadagnamo una prospettiva più larga, scorgiamo subito una seconda ragione per la quale essa merita schietto e paziente interesse.
L’opera (e la vita stessa) di Dahrendorf si svolge principalmente – ma non esclusivamente – a cavallo del Canale della Manica.
Tedesco, Dahrendorf studia, insegna e si affianca nella ricerca alla comunità scientifica britannica e più in generale anglosassone (per qualche verso qualcosa di simile era avvenuto con Popper, e avverrà ancora con Niklas Luhmann).
Dahrendorf ha cioè saputo riconoscere la varietà per lo meno duplice della cultura europea e della modernità europea.
Come pochi altri ha conosciuto e ha saputo relativizzare l’eredità del razionalismo francese e dell’idealismo tedesco.
Non ha ridotto a questa sola corrente la propria comprensione dell’illuminismo e della modernità, ma, prima ancora di preferirla, ha riconosciuto pari dignità all’altra variante dell’illuminismo e della modernità europea, quella critica, ben più diffusa a Nord e a Sud della Manica (un Sud – l'”Europa continentale” – che spesso tende a spacciarsi come l’intero dell’Europa e della sua cultura invece di rassegnarsi a esserne solo una parte).
In questo senso, Dahrendorf è stato un “europeo”, forse – credo – un grande “europeo”, certamente un vero europeo.
In terzo luogo, nella sua lunga vita – era nato ad Amburgo nel 1929 – Dahrendorf è stato uomo di pensiero, ma anche uomo di azione e di amministrazione (di istituzioni politiche e di istituzioni scientifiche).
Da parlamentare, o da membro della Commissione europea, da componente di qualificatissime commissioni internazionali o da guida di prestigiose istituzioni accademiche, Dahrendorf ha fatto politica nella accezione più piena del termine, da liberale (più nel senso inglese che in quello franco-tedesco del termine).
Mai è stato “intellettuale organico”, mai “indipendente” nelle fila di qualche partito, mai ha pensato l’agire come una applicazione della ideologia.
In questo senso potrebbe essere d’aiuto avvicinare il suo profilo a quello di don Luigi Sturzo.
Dahrendorf ha affrontato e gestito la sfida della prassi anche come sfida alle proprie idee, e le sue esperienze hanno puntualmente lasciato un segno nel suo pensiero.
Infine, Dahrendorf, si è sempre distinto, anche rispetto agli intellettuali della sua stessa scuola, per la capacità di ascolto delle ragioni degli avversari culturali e politici, e per l’attenzione al dato empirico.
Lui, che aveva annunciato “la fine del secolo socialdemocratico”, che aveva intuito che nel xxi secolo le democrazie avrebbero conosciuto una competizione sostanzialmente ridotta alla sfida tra “liberali di destra e liberali di sinistra” – segno di una affermazione senza precedenti della libertà e delle sue istituzioni, della democrazia, del mercato, in una parola della “società aperta” – negli ultimi anni ci ha più di una volta sorpreso rimettendo in discussione, raffinando, criticando e riformulando queste ipotesi, anticipando senza abiure il travaglio intellettuale e politico cui tutti ci espone la crisi economica (e non solo economica) nella quale siamo immersi.
In conclusione, è difficile negare che si tratti di ragioni molto forti per tornare a meditare i testi e le scelte di Dahrendorf.
Nel frattempo, mi sembra, siano sufficienti a raccomandare una speciale attenzione al tedesco divenuto cittadino britannico e poi nominato Lord dalla Regina Elisabetta ii, al professore di Amburgo, Tubinga e Costanza successivamente guida della London School of Economics e successivamente del Saint Antony College dell’università di Oxford e poi ancora docente a Berlino, al parlamentare nazionale e membro della Commissione europea, al liberale che ha compreso che le opportunità degli individui crescono insieme a legami religiosi, familiari e associativi.
(©L’Osservatore Romano – 20 giugno 2009)
Valutazione nella scuola italiana
I dati Ocse sul sistema di istruzione italiano e le prove Invalsi per l’esame di licenza media di questi giorni mettono in evidenza una situazione tipicamente nostrana: docenti e studenti non sono ancora abituati all’uso delle prove oggettive per valutare i livelli di competenza raggiunti.
Anche se le prove di ieri per l’esame di licenza, a quanto sembra, sono andate complessivamente bene, resta il dato di fondo che l’uso delle prove oggettive di rilevazione delle competenze, a differenza di quanto avviene da tempo nella maggior parte degli altri Paesi, non fa parte delle abitudini di casa nostra.
E la non dimestichezza con l’uso delle prove strutturate finisce anche per limitare il miglior conseguimento degli esiti finali delle prove stesse.
Il ministro Gelmini, nell’annunciare la sua intenzione di estendere l’idea della prova scritta nazionale anche all’esame di Stato, ha aggiunto che questo può servire a rendere usuale e familiare l’impiego delle prove oggettive, utilizzate in modo generalizzato nei Paesi dell’Ocse.
In effetti, in vista della prova nazionale, le scuole tendono a prepararsi seguendo le prove degli anni precedenti, conseguendo, in tal modo, una familiarità con quello strumento di accertamento.
Va ricordato, comunque, che le rilevazioni degli apprendimenti (quest’anno, oltre alla prova nazionale l’Invalsi ha messo in campo anche la rilevazione degli apprendimenti per le classi seconde e quarte della scuola primaria) hanno soprattutto due altre finalità dirette: conoscere i livelli complessivi di competenza della popolazione scolastica del Paese e offire uno strumento di analisi e di autovalutazione per le singole scuole.
Nel primo caso si può avere una conoscenza scientificamente corretta del “prodotto” del sistema di istruzione; nel secondo caso, con la restituzione degli esiti delle prove, si offre l’opportunità a ciascuna scuola di analizzare la propria situazione e di autovalutarsi, con la possibilità, quindi, di migliorare la propria offerta formativa e di ricercare strategie di apprendimento più efficaci.
——————————————————————————– tuttoscuola.com
XII Domenica del tempo ordinario anno B
L’inquietudine della notte della fede Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora.
Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre.
Come Paolo fece coi Galati e coi Romani, così anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo.
Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte.
Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace.
Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo.
Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi.
Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza.
Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire.
(Carlo Maria MARTINI, Incontro al Signore risorto, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2009, 66).
Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia Anche il sonno di Cristo è un segno esteriore di una realtà nascosta.
Sono come dei naviganti quelli che fanno la traversata di questa vita su di un’imbarcazione.
Anche quella barca era figura della chiesa.
E ogni persona è tempio di Dio, naviga nel proprio cuore e non fa naufragio, se prova buoni sentimenti.
Se hai udito un’offesa, è come il vento; sei adirato? Ecco la tempesta.
Se soffia il vento e giunge la tempesta, corre pericolo la nave, corre pericolo il tuo cuore ed è agitato.
All’udire l’offesa, desideri vendicarti; ecco, ti sei vendicato e, godendo del male altrui, hai fatto naufragio.
E perché? Perché Cristo in te dorme.
Che cosa significa: «In te Cristo dorme»? Che ti sei dimenticato di Cristo.
Risveglia dunque Cristo, ricordati di Cristo, sia desto in te Cristo, considera lui.
Che cosa volevi? Volevi vendicarti.
Ti eri dimenticato che egli, essendo crocifisso, disse: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,24).
Egli che dormiva nel tuo cuore non volle vendicarsi.
Sveglialo e ricordalo.
Il ricordo di lui è la sua parola, il ricordo di lui è il suo comando.
Se in te è desto Cristo, tu dirai tra te e te: «Che razza di uomo sono io che mi voglio vendicare? Chi sono io, che mi permetto di minacciare un altro? Forse morrò prima di vendicarmi.
E quando ansante, infiammato di collera e assetato di vendetta, uscirò da questo corpo, non mi accoglierà Colui che non volle vendicarsi, non mi accoglierà colui che disse: «Date e vi sarà dato, perdonate e vi sarà perdonato» (Lc 6,37-38).
Frenerò allora la mia collera e tornerò alla pace del mio cuore».
Cristo comandò al mare e si fece una grande bonaccia.
In tutte le altre vostre tentazioni attenetevi a ciò che ho detto riguardo all’ira.
Quando sorge una tentazione, è come il vento; tu sei agitato, c’è la tempesta.
Sveglia Cristo affinché parli con te.
[…] Imita i venti e il mare: ubbidisci al Creatore! (AGOSTINO, Discorso 63,1-3, NBA XXX/1, pp.
284-286).
Come si fa ad avere fede? «Un giorno, durante un acquazzone improvviso, ci riparammo nell’ingresso di una grotta.
“Come si fa ad avere fede? gli chiesi là dentro”.
“Non si fa, viene”.
Lei ce l’ha già ma il suo orgoglio le impedisce di ammetterlo, si pone troppe domande, dov’è semplice complica.
In realtà ha soltanto una paura tremenda.
Si lasci andare e ciò che ha da venire verrà».
(Susana Tamaro, Va dove ti porta il cuore, Rizzoli, p.
148).
Il dubbio che porta al tramonto Si narra che un alpinista, fortemente motivato a conquistare un’altissima vetta, iniziò la sua impresa dopo anni di preparazione.
Deciso a non spartire la gloria con alcuno, iniziò l’impresa senza compagni.
Iniziò l’ascesa ma si fece tardi, sempre più tardi, senza che egli si decidesse ad accamparsi, insistendo nell’ascesa.
Ben presto fu buio.
La notte giunse bruscamente sulle alture della montagna, sicché non si poteva vedere assolutamente nulla.
Tutto era tenebra, il buio regnava sovrano, la luna e le stelle erano coperte dalle nubi.
Salendo per un costone roccioso, a pochi metri dalla cima, scivolò e precipitò nel vuoto, cadendo a velocità vertiginosa.
Nella caduta, l’alpinista poteva appena vedere delle macchie scure e sperimentare la sensazione di essere risucchiato dalla forza di gravità.
Continuava a cadere… e in quegli attimi angosciosi, gli passarono per la mente gli episodi più importanti della sua vita.
Rifletteva, ormai vicino alla morte.
D’improvviso avvertì il violento strappo della lunga fune che aveva assicurato alla cintura.
In quel momento di terrore, sospeso nel vuoto, non gli rimase che gridare: ”Dio mio, aiutami!” Improvvisamente una voce grave e profonda dal cielo gli domandò: ”Cosa vuoi che io faccia?” “Mio Dio, salvami!” “Credi realmente che io possa salvarti?” “Sì, mio Signore.
Lo credo” Allora, recidi la corda che ti sostiene!” Ci fu un momento di silenzio; poi l’uomo si avvinse ancora più fortemente alla corda.
Il resoconto della squadra di soccorso, afferma che l’alpinista fu trovato, ormai morto per congelamento, fortemente avvinghiato alla corda… A soli due metri dal suolo… La vita è un atto di fede Ho appreso che la ricerca di Dio è una Notte Buia.
E che anche la Fede è una Notte Buia.
Di certo, non può dirsi una sorpresa.
Per l’uomo, ogni giorno è una Notte Buia.
Nessuno sa che cosa accadrà nell’istante successivo, eppure tutti vanno avanti.
Perché ‘confidano’.
Perché hanno Fede.
[…] Ogni momento della vita è un atto di fede.
(Paulo COELO, Brida, Bompiani, Milano, 2008, 31).
Racconto In un paese c’ era un incrocio con tre strade: verso il mare, verso la città, verso nessuna parte.
Giovanna domanda, ma dove porta la strada «verso nessuna parte»..? Tutti i saggi del paese dicono che è pericoloso, che nessuno ha fatto mai questa strada, che non si torna più….Nonostante, Giovanna un giorno si decide a percorrere quella strada pericolosa…valli, montagne…alla fine trova un cane….il cane porta Giovanna ad una casa dove abita una fata misteriosa che dice: da tanto tempo aspettavo una visita…..guarda la mia casa e prendi l’oro che vuoi…..Cosi fece Giovanna….quando tornò al paese tutti aspettavano….vedendo l’oro che portava Giovanna tutti si affrettarono a percorrere la strada che ‘porta da nessuna parte’….Non trovarono nulla.
Arrabbiati tornano da Giovanna: “sei una imbrogliona….bugiarda…”.
Non, ma soltanto che per avere l’oro si deve percorrere la strada che porta verso nessuna parte.
Preghiera Aiutami a fare silenzio, Signore, voglio ascoltare la tua voce.
Prendi la mia mano, guidami nel deserto, per incontrarci soli, Tu e io.
Ho bisogno di contemplare il tuo volto, ho bisogno del calore della tua voce, di camminare insieme…
di tacere, perché possa parlare tu.
Mi metto nelle tue mani, voglio guardare la mia vita, scoprire ciò che deve cambiare, rendere più saldo ciò che va bene, sorprendermi per le novità che mi chiedi.
Aiutami a lasciar da parte la carriera, le preoccupazioni che riempiono la testa, blocca i miei dubbi e le mie insicurezze, aiutami ad archiviare le mie risposte prefabbricate.
Voglio condividere con te la mia vita e verificarla accanto a te.
Vedere dove “preme forte e sicura la scarpa” per operare il cambio.
Portami nel deserto, Signore, liberami da ciò che mi lega, scuoti le mie certezze e metti alla prova il mio amore.
Per incominciare nuovamente, umile, semplice, con la forza dello Spirito, a vivere fedele a Te.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Giobbe 38,1.8-11 Il Signore prese a dire a Giobbe in mezzo all’uragano: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?».
Il libro di Giobbe può essere diviso in tre parti.
La prima parte (1-2) introduce i personaggi; la seconda parte (3-42,6) contiene il dialogo tra gli attori nel quale viene esposto il grande problema della sofferenza del giusto; la terza parte (42,7-17) riferisce la sentenza di Dio al termine dell’azione.
Il brano della lettura si trova nella seconda parte, ed è costituito dall’inizio del primo discorso di Dio, il quale proclama la sua onnipotenza e trascendenza con queste parole in mezzo al turbine: «Chi ha chiuso tra due porte il mare, quando usciva impetuoso dal seno materno, quando io lo vestivo di nubi e lo fasciavo di una nuvola oscura, quando gli ho fissato un limite, gli ho messo chiavistello e due porte dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”?» (Gb 38,1.8-11).
Per comprendere questo testo occorre avere presente il contenuto dell’azione precedente.
Giobbe, uomo giusto, viene colpito dalla sventura; dapprima è colpito nei beni e nei figli, poi nella sua stessa carne, con una malattia dolorosa e ripugnante.
Egli rimane sottomesso a Dio.
Tre suoi amici vengono a consolarlo.
Dapprima si tratta di una conversazione a quattro; in tre cicli di discorsi Giobbe e gli amici confrontano le loro concezioni riguardo alla giustizia divina.
I tre amici difendono la tesi della retribuzione terrena; se Giobbe soffre, ciò vuol dire che egli ha peccato; e se anche egli è giusto ai propri occhi, non lo è agli occhi di Dio.
Giobbe sostiene la propria innocenza e gli altri si irrigidiscono nelle loro posizioni.
Ad essi Giobbe contrappone la propria esperienza dolorosa e la ingiustizia di cui il mondo è pieno.
Egli si scontra con il mistero di Dio il quale permette che il giusto sia afflitto.
Giobbe alterna momenti di sottomissione a Dio a momenti di protesta della sua innocenza.
In questo movimento entra in scena Dio stesso «in mezzo al turbine», cioè nello scenario delle teofanie.
Dio riprende Giobbe o meglio, Dio rifiuta di dare risposta alle domande di Giobbe perché l’uomo non ha diritto di mettere Dio sotto inchiesta in quanto Dio è l’infinitamente sapiente e l’onnipotente che non può essere misurato dalla debolezza dell’intelligenza e dalle sue categorie di giustizia.
Giobbe riconosce di avere parlato da insipiente e dà ragione a Dio.
Il brano della lettura sta nell’inizio dell’intervento di Dio.
In esso Dio espone la sua attività creatrice, nella quale si esplica l’infinita sapienza e l’onnipotenza.
Di fronte all’opera di Dio non si può che ammirarne la bellezza e grandezza.
L’onnipotenza di Dio viene esaltata attraverso la rievocazione della creazione del mare; il mare è una creatura che esprime essa stessa una immensa potenza, ma Dio ha posto dei limiti precisi alla potenza del mare e il mare non può trasgredirli.
Questa descrizione esaltante della signoria divina incute riverenza, timore, sottomissione, che sono atteggiamenti non soltanto della volontà ma anche dell’intelligenza.
L’uomo moderno ha esplorato con grande acume e capacità la creazione, lo spazio, l’universo, ha scandagliato le profondità del mare e ha cercato di spiegare i segreti del cosmo.
Il vero saggio, tuttavia, pur avendo raggiunto una tale conoscenza del mondo e capacità di dominarlo, non ne prova orgoglio, al contrario si sente piccolo e sempre superato dai feno-meni della natura e sa di essere ancora impotente di fronte a tanti suoi segreti.
Nasce spontanea la domanda: se la creazione è così inesauribile e inafferrabile nella moltitudine e profondità dei suoi segreti, che cosa sarà il Creatore? Seconda lettura: 2 Corinzi 5,14-17 Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove.
Il passo della lettura si trova nella prima parte della epistola in continuazione con il testo della precedente domenica.
San Paolo parla dell’amore di Cristo e della conoscenza di Cristo: «L’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti.
Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana; se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così.
Tanto che, se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove» (2 Cor 5,14-17).
La prima affermazione: Cristo è morto per tutti, rivela che Gesù ha compiuto il sacrificio in nome di tutti come capo che rappresenta l’intera umanità.
Ciò che ha valore davanti a Dio in questa morte è l’obbedienza di amore che manifesta il sacrificio di una vita interamente donata a Dio.
Dice san Paolo di Gesù ai Filippesi: «Umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio lo ha esaltato» (Fil 2,8-9) e ancora ai Romani: «Come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti» (Rm 5,19).
I fedeli, resi partecipi di questa morte di Gesù con il sacramento del battesimo che li immerge in essa, devono ratificare questa oblazione del Cristo con la loro vita, devono attuare ciò che dice san Paolo nella presente lettura subito dopo: quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per lui che è morto ed è risuscitato per loro (2 Cor 5,15).
Poi l’apostolo viene al tema della conoscenza di Cristo: «se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2 Cor 5,16).
Paolo non dice che ha conosciuto personalmente Gesù di Nazaret, afferma che tutti, anche quelli che hanno potuto conoscerlo, devono rinunciare a dare importanza alla affinità carnale con Gesù, alla conoscenza di lui secondo la carne: legame di parentela, legame di consuetudine familiare e di nazionalità.
Conclude scrivendo: «se uno è in Cristo, è una nuova creatura» (2 Cor 5,17).
Dio che aveva creato tutte le cose per il Cristo, ha restaurato la sua opera, sconvolta dal peccato, ricreandola nel Cristo.
Il centro di questa nuova creazione che interessa tutto l’universo, è l’uomo nuovo, che è stato creato nel Cristo, per una vita nuova di giustizia e di santità: «Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti con lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4).
Perciò: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,23-24).
Così l’uomo nuovo, ricreato nel Cristo, che è l’immagine di Dio ritrova la rettitudine primitiva nella quale aveva avuto origine e giunge alla pienezza della imitazione di Gesù e quindi alla pratica della esistenza morale.
Vangelo: Marco 4,35-41 In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva».
E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca.
C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Esegesi Il tratto della lettura nella prima parte del vangelo di Marco, ove è descritto il ministero di Gesù nella Galilea.
Racconta il prodigio della tempesta sedata con lo stile caratteristico di Marco: «In quel giorno, venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva».
E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca.
C’erano anche altre barche con lui.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?».
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!».
Il vento cessò e ci fu grande bonaccia.
Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?».
E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?» (Mc 4,35-41).
Il racconto del vangelo sulla tempesta nel lago sedata da Gesù culmina nel tema della fede e mostra Gesù nella sua potestà sulla natura e sui suoi elementi.
L’episodio evoca, nei confronti di Gesù, ciò che nella Scrittura è detto di Dio nei riguardi della natura: «Tu fai tacere il fragore del mare, il fragore dei suoi flutti» (Sl 65,8).
«Tu domini l’orgoglio dei mari, tu plachi il tumulto dei suoi flutti» (Sl 89,10).
«Ridusse la tempesta alla calma, tacquero i flutti del mare, si rallegrarono nel vedere la bonaccia, egli li condusse al porto sospirato» (Sl 107, 29-30).
Tale è l’acclamazione finale nell’episodio evangelico; a Gesù anche il vento e il mare obbediscono; la sua potenza è come quella di Dio sulla natura.
Gesù nelle parole rivolte ai suoi discepoli sottolinea la necessità della fede: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
La fede che Gesù richiede fin dall’inizio della sua attività: «Credete» (Mc 1,15) e che richiederà incessantemente è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo credente rinuncia a fare affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze per rimettersi alle parole e alla potenza di colui nel quale crede.
Gesù richiede la fede particolarmente in occasione dei miracoli.
Al centurione che gli chiedeva di guarire il suo servo dice, dopo averne ammirato la fede: «Vai e sia fatto secondo la tua fede» (Mt 8,13).
Alla donna che pativa flusso di sangue, dice: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha guarito» (Mt 9,22).
Ai ciechi che gli chiedono: «Figlio di Davide abbi pietà di noi» (Mt 9,27) Gesù dice: «Credete voi che io possa fare questo? Gli risposero: Sì, Signore.
Allora toccò loro gli occhi e disse: sia fatto a voi secondo la vostra fede.
E si aprirono loro gli occhi» (Mt 9,27-30).
In tale modo i miracoli sono atti che offrono il segno della missione di Gesù e il segno della presenza del regno dei cieli.
Gesù non può compiere miracoli se non trova la fede che deve dare ad essi il loro vero significato; a Nazaret, infatti, «non fece molti miracoli a causa della loro incredulità» (Mc 13,58).
Esigendo un sacrificio dell’intelligenza e della volontà e di tutto l’essere, la fede è un atto non facile di umiltà che molti rifiutano di compiere, particolarmente in Israele, o lo compiono solo in modo imperfetto, come il padre dell’epilettico indemoniato, il quale dopo avere chiesto a Gesù la guarigione del figlio e avere ascoltato da Gesù: «Tutto è possibile a chi crede» (Mc 9,23) dice: «Credo, aiutami nella mia incredulità» (Mc 9,24).
I discepoli stessi di Gesù, che pure gli aderiscono di cuore, mostrano le difficoltà della fede perché sono lenti a credere e sono spesso rimproverati da Gesù per la loro poca fede; nell’episodio raccontato nella lettura Gesù dice: «Non avete ancora fede?» (Mc 4,40).
Quando è forte la fede opera meraviglie: «Se avete fede pari a un granellino di senapa potrete dire a questo monte: spostati di qua e là, ed esso si sposterà e niente vi sarà impossibile» (Mt 17,20).
«Questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e se berranno qualche veleno non recherà loro danno» (Mc 16,17).
L’episodio evangelico della tempesta sedata, attraverso il rimprovero di Gesù ai suoi sulla pochezza della loro fede è un richiamo all’esigenza della fede e della fiducia in Gesù nella vita cristiana come caratteristica che la distingue e che ne costituisce la specificità nel mondo in mezzo agli uomini.
Meditazione II racconto della ‘tempesta sedata’ nella versione di Marco 4,35-41 (la narrazione è presente anche in Mt 8,18.23-27 e Lc 8,22-25) è al centro della liturgia della Parola di questa domenica.
Ed è un racconto ricco di risonanze simboliche che rimandano chiaramente all’immaginario culturale e religioso biblico e che fanno da sottofondo a una narrazione segnata da significativi contrasti, interrogativi aperti, reazioni opposte.
Da una parte Marco evidenzia la signoria di Gesù che trasmette una sovrumana tranquillità interiore, espressione di quella capacità di valutare la portata degli eventi, senza lasciarsi travolgere da essi in quanto si conosce il senso di ciò che sta accadendo.
Dall’altra, di fronte a questa forza e serenità di Gesù che, singolarmente assume l’espressione simbolica del sonno (interpretata dai discepoli come una sorta di disinteresse: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?»: v.
38), c’è lo smarrimento dei Dodici su cui incombe l’esperienza della morte e che significativamente passa dalla paura al timore.
Anche la natura sembra entrare in questo gioco di contrasti, quasi ad esprimere esteriormente ciò che i discepoli stanno vivendo nel loro cuore: Marco ci descrive lo spettacolo di una natura che scatena tutta la sua forza bruta, diventando incontrollabile e minacciosa, e lo spettacolo di una natura che rivela armonia e pace.
Ed è un passaggio segnato da una parola e da un gesto che Gesù compie come risposta all’angosciata preghiera dei discepoli e che suscita un interrogativo finale: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mari gli obbediscono?» (v.
41).
La dinamica di questo racconto ci suggerisce allora alcune sottolineature.
Anzitutto notiamo che un elemento simbolico e reale allo stesso tempo, emerge come sottofondo biblico di tutto il racconto.
Ed è quello del mare.
Secondo il linguaggio che caratterizza molti testi del Primo Testamento, l’immagine del mare, caratterizzata dalla superficie instabile delle acque e dai fenomeni minacciosi e imprevedibili della tempesta, rappresenta una potenza misteriosa e oscura, una forza non domabile dall’uomo.
È l’esperienza dei naviganti descritta nel Salmo 106, i cui versetti 23-31 compongono il salmo responsoriale: travolti dalla tempesta su di un mare minaccioso, coloro «che commerciavano su grandi acque…
si sentivano venir meno nel pericolo, ondeggiavano e barcollavano…
tutta la loro abilità era svanita».
Di fronte al pericolo minaccioso e alla morte che incombe, l’uomo non ha potere, perde la sua abilità.
E appunto la reazione istintiva, connotata dalla paura della morte, che caratterizza anche i discepoli di fronte a quella «grande tempesta di vento» e a quelle «onde che si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena» (v.
37).
Secondo la Scrittura, solo Dio ha la forza di dominare questo spazio misterioso e pieno di incognite, perché solo Dio conosce i limiti entro cui questo simbolico luogo di morte può esercitare il suo potere.
Così il Signore dice a Giobbe: «Chi ha chiuso fra due porte il mare?…
gli ho fissato un limite…
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre e qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde”» (Gb 38,8-11).
Il gesto di Dio che pone le acque dentro un spazio ben delimitato è il gesto della creazione (cfr.
Gen 1,9-10).
Ma Dio ha anche potere di piegare il mare e la sua forza bruta mettendolo a servizio del suo disegno di salvezza: il mare può diventare un cammino di liberazione, una strada sicura per il popolo di Dio (il passaggio attraverso il mar Rosso narrato in Es 14).
La straordinaria ricchezza di queste immagini bibliche è come condensata nel gesto e nella parole di Gesù; proprio in quel Gesù, che Marco ci presenta anche molto umano, stanco, affaticato e per questo addormentato, si rivela la potenza di Dio.
Gesù assume così i tratti del Kyrios, il Signore della creazione e dell’esodo.
Vediamo che Gesù, svegliato e quasi rimproverato dai discepoli terrorizzati (v.
38), «si destò».
Questo movimento segna il passaggio dal sonno all’atteggiamento di colui che veglia ed è ben presente a se stesso e agli eventi che lo circondano; ma indica anche il passaggio da una situazione oscura e pericolosa segnata dalla morte incombente, alla vita (abbiamo qui una allusione alla dinamica pasquale).
Ma significativa è anche la parola che Gesù pronuncia sul mare sconvolto dalla tempesta: «minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”» (v.
39).
Gesù ha l’ultima parola sul creato, sulla storia, su tutte le forze che la compongono e che la minacciano, perché tutto il creato e ogni evento dipendono da quella parola, in quanto solo essa ha la forza di creare e di rivelare il logos di tutto.
Ecco perché a quella Parola «anche il vento e il mari gli obbediscono».
Se tutta la scena con il suo straordinario dinamismo ha la forza di rivelare l’identità di Gesù, essa permette anche di sottolineare l’atteggiamento del discepolo di fronte a questo volto che si rivela.
Diventa allora fondamentale l’interrogativo con cui si chiude l’episodio: «Chi è dunque costui?» (v.
41).
A un certo punto Gesù domanderà ai discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mc 8,29; la domanda che è posta da Marco al centro del cammino del discepolo).
L’interrogativo pieno di stupore e di timore con cui si conclude il racconto della ‘tempesta sedata’ è come un avvio a questa consapevolezza che il discepolo deve maturare a riguardo della identità di Gesù.
Ed è una consapevolezza che mette in gioco la fede.
Ecco allora una altro interrogativo che Gesù stesso pone e a cui il discepolo deve dare una risposta proprio a partire da ciò che ha vissuto: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (v.
40).
Nei discepoli c’è fede, perché prendono con loro Gesù «così com’era, sulla barca» (v.
39).
C’è fede perché nel pericolo si accostano a Gesù e lo supplicano: «Maestro…».
Ma manca in loro ancora fede, c’è un cammino ancora da compiere, devono ancora comprendere molto di Gesù.
E soprattutto il salto di qualità da compiere, proprio a partire dalla esperienza vissuta, è quello che permette di passare dalla paura ad una abbandono totale nelle mani di Gesù, quel Gesù che li ha «scelti perché stessero con lui» (Mc 3,14), quel Gesù che, pur addormentato e apparentemente assente, conosce il cammino da seguire.
La fede dei discepoli deve compiere un salto; deve, simbolicamente, passare all’altra riva.
E proprio l’atteggiamento che suscita la domanda finale, segna l’inizio di questo passaggio.
Alla fine il discepolo non ha più paura, ma ha timore, è il timore di fronte alla grandezza e alla potenza di un Dio che può veramente calmare il mare agitato delle vicende umane, un Dio che si prende cura della fragilità e della paure dell’uomo per educarlo alla fede in Lui.
Forse il discepolo ha sempre bisogno di sentirsi rivolgere questa domanda da Gesù: Non avete ancora fede? Solo così il discepolo può camminare dietro a Gesù e comprender che la sua fede in lui deve incessantemente compiere altri passi, passare attraverso mari in tempesta, sperimentare pace e calma ed essere sempre accompagnata dall’interrogativo: Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?
Classe terza – Giugno
Seconda fase dell’attività Gli insegnanti presentano l’ultimo testo-guida, riguardante il termine della vita umana.
4) La conclusione dell’avventura Quale “buona morte”? – Morire con dignità Il termine “eutanasia” ha, di per sé, un significato positivo: “buona morte”.
Morire con dignità significa, per ogni essere umano, affrontare questo inevitabile momento, per quanto possibile, in modo sereno…
cosa può significare? In un contesto fortemente “tecnologico”, accettare la dimensione di un mistero non riducibile alla nostra misura diviene sempre più difficile: si vorrebbe poter controllare razionalmente anche la propria morte, poterla gestire…
Questa tendenza, nella visione materialistica prevalente oggi, può condurre alla convinzione di essere padroni assoluti della propria vita, di poter scegliere, al limite, quando e come interromperla; questo potere su di sé, questo voler essere il Dio di se stessi sembra rientrare in un’ottica di lotta disperata per “salvare il salvabile”, soffrendo il meno possibile in un’esistenza fondamentalmente inspiegabile, forse priva di senso, forse frutto soltanto di un caso che condanna gli esseri umani a vivere come animali troppo intelligenti e consapevoli.
Il Cristiano ritiene di non poter in nessun caso disporre della vita altrui e propria, che è dono di Dio: soltanto Lui può decidere quando debba iniziare e finire, per il bene di ciascuno dei suoi figli; Egli soltanto conosce il mistero di ogni esistenza, unica e irripetibile, donata perché l’amore venga appreso e vissuto.
Ogni essere umano può trovare il senso della vita anche attraverso la sofferenza, che può essere un mezzo di crescita eccezionale per scoprire ciò che realmente conta: l’assoluta esigenza dell’amore dato e ricevuto come unico senso possibile dell’avventura terrena.
Si comprende il significato del “darsi” nella solidarietà e del ricevere e l’incommensurabile valore di ogni persona, a partire dai propri cari, quando si farebbe qualsiasi cosa ‒ e si perde così ogni egoismo ‒ per evitare a qualcuno la sofferenza, quando ci si accorge sulla propria pelle che l’amore soltanto l’allevia realmente…
È evidente come le gravi difficoltà ci offrano occasioni ineguagliabili per diventare ciò che possiamo realmente essere…
al massimo grado: responsabili, pronti ad apprezzare i valori autentici.
Secondo l’uomo di fede, l’avventura più importante e conclusiva dell’esistenza terrena, il passaggio alla vita piena con Dio attraverso l’oscuro tunnel della morte, può essere affrontata serenamente con il suo aiuto e il sostegno dei propri cari.
Le sofferenze conclusive della vita possono avere senso come tutte le altre, se vissute insieme a un Padre che non permette nulla che non conduca a varcare una “nuova soglia”.
Il nostro stesso coraggio, quando viene a galla, non manca di spalancare nuovi orizzonti, di farci evolvere e diventare nuovi.
Lo stato di malattia grave, anche cronico e irreversibile, rappresenta comunque una condizione di vita, delicata e misteriosa: secondo i Cristiani, ipotizzare un’interruzione della vita “per pietà” rappresenta un pericoloso arbitrio.
L’essere umano è imperfetto: può agire per sottile egoismo e non per amore, per il desiderio inconscio di eliminare i problemi troppo grossi ‒ come occuparsi per anni di un lungodegente, o di una persona in coma o comunque in stato di incoscienza…
‒ In sintesi, gestire con dignità morte e malattia può comportare, secondo una certa ottica, il diritto illimitato all’autogestione della propria esistenza, fino al suicidio assistito chiamato eutanasia; in un’altra ottica, la persona umana non può avere questo diritto, né chiedere ad altri di essere suoi complici: il suicidio assistito comporta l’intervento medico.
Anche molti non cristiani condividono con i credenti l’idea che il rifiuto dell’eutanasia non rientri in una questione di opinioni, ma che esprima la difesa di un principio universalmente condivisibile: quello del rispetto assoluto del mistero della vita, della “sacralità” della vita.
«Perché lasciare ai soli cristiani l’onere e l’onore di difendere il valore della vita?» affermava il filosofo torinese Norberto Bobbio, non credente.
– L’eutanasia L’eutanasia è un intervento medico indolore mirato ad abbreviare o decisamente sopprimere la vita, su richiesta di un malato cosciente.
Si può verificare soprattutto in situazioni-limite di malattia terminale mortale, dolorosa e causa di degrado della persona.
Sembrerebbe particolarmente legata a un pericolo di abuso tale scelta da parte di un “tutore” che decida al posto di un malato incosciente.
«L’esperienza dimostra che molti malati terminali temono più la sofferenza o il dover dipendere dagli altri, che la morte» osserva Daniel Kevles, esperto in bioetica.
Il più delle volte, l’eliminazione del dolore e l’assistenza psicologica fanno scomparire questa richiesta.
Chiedere di morire è spesso una disperata richiesta di aiuto, a cui in campo medico è doveroso rispondere con i massimi sforzi nell’ambito innanzitutto della terapia del dolore! Leggi che autorizzassero l’eliminazione di un malato con enormi esigenze potrebbero significare una pericolosa tendenza al disimpegno nei confronti della ricerca di una sempre migliore assistenza.
Afferma l’anziano senatore Giulio Andreotti: «Mi preoccupa la deriva disumana cui si andrebbe incontro, ho paura degli scivolamenti.
Se si afferma che l’eutanasia è lecita giuridicamente, temo che ci si avvii verso una china di disumanità, per cui si rischia di discutere se la malattia è curabile o no, se i vecchi sono necessari o inutili…».
La Chiesa cattolica, nel corso di tutta la sua tradizione, ha sempre condannato l’eutanasia vera e propria in quanto «uccisione deliberata, moralmente inaccettabile, di una persona umana» (EV, 65).
– L’accanimento terapeutico «È lo sforzo di prolungare a oltranza e con ogni mezzo fornito dalla tecnologia medica, la vita dei malati terminali, nonostante la loro sofferenza e impotenza.
Si tratta di interventi sproporzionati ai risultati che si potrebbero ottenere in situazioni in cui la morte si preannuncia imminente e inevitabile.
Certo, curarsi è un dovere.
Ma la rinuncia a mezzi straordinari sproporzionati non equivale certo al suicidio o all’eutanasia» (Carlo Fiore in Etica per giovani, ElleDiCi, p.
301).
Tali mezzi potrebbero essere per esempio interventi chirurgici effettuati senza speranza di guarigione, unicamente prolungando l’esistenza per breve tempo, con sofferenze aggiuntive.
Anche l’accanimento terapeutico è inaccettabile per il cristiano: può essere un voler “forzare la mano di Dio” in modo opposto all’eutanasia, ma altrettanto poco rispettoso della vita nel suo naturale concludersi.
– Le cure palliative Esse sono attente alla qualità della vita che resta; si basano sulle migliori terapie antidolorifiche possibili, ma anche sull’atteggiamento di presenza costante di chi assiste e di attenzione alle esigenze di un malato mai solo; sull’“umanizzazione” del ricovero ospedaliero e del rapporto tra medico e paziente.
Secondo lo studioso di bioetica G.
Russo, l’eutanasia è dunque «una risposta semplicistica e sbrigativa nei confronti di sentimenti umani come il dolore e lo smarrimento angoscioso della sofferenza.
La richiesta di eutanasia, da qualunque parte venga (paziente, medico, società), è soltanto l’evidenziarsi di una triste realtà di mancanza di effetti, mancanza di cure, solitudine».
Terza fase dell’attività L’insegnante di scienze potrà approfondire alcuni aspetti fondamentali a sua scelta; l’insegnante di religione proporrà il seguente questionario agli allievi, perché sintetizzino le conoscenze ed elaborino opinioni personali, dopo aver letto con attenzione tutti i testi-guida.
1) Definisci con parole tue i seguenti concetti.
– Bioetica.
– Embrione e cellule staminali.
– Eutanasia.
– Accanimento terapeutico.
– Cure palliative.
2) Secondo te, è giusto ricercare “principi universali” validi per tutti gli esseri umani? La difesa della vita fa parte di questi principi? Se sì, in quali modi condivisibili da tutti la vita può essere tutelata? 3) Secondo un determinato modo di intendere l’esistenza, la persona umana può disporre della vita: la propria, anche decidendo di porvi fine, e anche quella altrui, con l’interruzione volontaria di gravidanza o decidendo, al posto di un malato non cosciente, di interromperne l’esistenza per il suo bene.
Secondo questa posizione, il medico dovrebbe poter accondiscendere legittimamente alle richieste.
Un’altra ottica ritiene che la vita umana, al contrario, sia indisponibile; che le richieste di morte siano in realtà richieste di aiuto a cui è doveroso rispondere con il massimo della solidarietà umana e con le cure palliative, non agendo come chi, per rispettare la libertà di un uomo che scavalca il parapetto per buttarsi nel fiume, gli darebbe una spinta per aiutarlo…
– Quali sono le motivazioni di chi aderisce alle due diverse visioni sulla disponibilità della vita? – Qual è la posizione della Chiesa cattolica? – Esprimi, se te la senti, una tua opinione, motivandola.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per la classe terza e Guida.
Unità di lavoro interdisciplinare (religione, scienze) Seconda parte OSA di riferimento per l’Irc Conoscenze – Fede e scienza, letture distinte ma non conflittuali dell’uomo e del mondo.
– Vita e morte nella visione di fede cristiana. Abilità – Confrontare spiegazioni religiose e scientifiche del mondo e della vita.
– Descrivere l’insegnamento cristiano sui rapporti interpersonali, l’affettività e la sessualità.
– Motivare le risposte del Cristianesimo ai problemi della società di oggi.
– Confrontare criticamente comportamenti e aspetti della cultura attuale con la proposta cristiana. Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere: termini e concetti fondamentali riguardanti la bioetica; la posizione della Chiesa cattolica su alcune questioni di bioetica, nel confronto con opinioni diverse.
– Esprimere opinioni motivate sui “vincoli morali” che la scienza dovrebbe avere e sul concetto di “tutela della vita umana”.
Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Saper prendere in considerazione il progetto di vita cristiano e la visione cristiana dell’esistenza.
– Sviluppare interesse alla distinzione tra bene e male, alla ricerca della verità. 1) Dalla Dichiarazione sull’eutanasia della “Congregazione per la dottrina della fede” della Chiesa cattolica.
«Bisogna ribadire con tutta fermezza che nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano, feto o embrione, bambino o adulto, vecchio malato incurabile o agonizzante.
Nessuno può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato la sua responsabilità, né può acconsentirvi.
Nessuna autorità può imporlo o permetterlo.
Si tratta infatti della violazione di una legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità».
2) Dal Manifesto dell’eutanasia firmato, nel 1973, da 37 personalità del mondo culturale.
«È crudele e barbaro esigere che una persona venga mantenuta in vita contro il suo volere, che le si rifiuti l’auspicata liberazione quando la sua vita ha perduto qualsiasi dignità, bellezza, significato, prospettiva di avvenire…
Ogni individuo ha diritto di vivere con dignità, ha anche il diritto di morire con dignità».
3) Da un documento della Pontificia Accademia per la Vita.
«È dichiarando curabile il dolore e proponendo come impegno di solidarietà l’assistenza verso colui che soffre, che si afferma un vero umanesimo: il dolore richiede amore e condivisione solidale, non la sbrigativa violenza della morte anticipata.
Il cosiddetto principio di autonomia, con cui si vuole talvolta esasperare il concetto di libertà individuale, non può certo giustificare la soppressione della vita propria o altrui: l’autonomia personale, infatti, ha come presupposto primo l’essere vivi, e reclama la responsabilità dell’individuo, libero per fare il bene secondo verità…».
4) Sull’accanimento terapeutico.
«Sappiamo che non è facile tracciare una linea netta di demarcazione tra la cura dell’ammalato e l’accanimento terapeutico, cioè quando un trattamento non è più una cura ma diventa una violenza contro la persona.
Però sappiamo anche che la persona, nel prendere una decisione, deve tener presenti i seguenti elementi oggettivi.
Anzitutto che la vita non è in potere dell’uomo.
L’uomo porta in sé il dovere di vivere la sua vita in tutta la sua estensione.
È un talento che deve far fruttificare e di cui dovrà rendere conto.
Ma se non ha diritto alla morte, non ha neppure il dovere di conservare la sua vita a ogni costo.
C’è un limite oltre il quale può decidere di non essere più curato.
Quando? Possiamo cercare di offrire dei criteri oggettivi che servono da guida nella formulazione di questo giudizio.
Si possono rifiutare le cure quando si constata che la terapia è inefficace o inutile; quando è penosa e procura sofferenza e umiliazione, senza produrre risultati significativi; quando si utilizzano mezzi terapeutici sproporzionati ed eccezionali, senza previsioni di miglioramento.
Sospendere le cure sproporzionate non significa interrompere le cure ordinarie.
E tra le cure ordinarie dobbiamo mettere l’alimentazione e l’idratazione, anche quando sono realizzate in modo diverso da quello comune.
E dobbiamo contemplare adeguate terapie contro il dolore, anche se possono accorciare la vita» (Giordano Muraro).
Classe seconda – Giugno
Unità di Lavoro interdisciplinare di educazione alla mondialità (religione, italiano) OSA di riferimento (Irc) Conoscenze – L’opera di Gesù e la missione della Chiesa del mondo. Abilità – Documentare come le parole e le opere di Gesù abbiano ispirato scelte di vita fraterna, di carità e di riconciliazione nella storia dell’Europa e del mondo. OSA di riferimento per l’Educazione alla convivenza civile Conoscenze – Consapevolezza delle modalità relazionali da attivare con coetanei e adulti. Abilità – Leggere e produrre testi e condurre discussioni argomentate su esperienze di relazioni interpersonali significative.
Obiettivi Formativi trasversali ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere e descrivere con parole proprie il concetto di educazione e auto-educazione alla mondialità, di accoglienza del diverso e di dialogo; di “responsabilità a vasto raggio”. Conoscenze e abilità per l’IRC – Conoscere e descrivere le motivazioni e le risorse che fanno di un Cristiano un “abitante del mondo”. Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale (considerabili come trasversali) – Sviluppare, sul piano della crescita umano-relazionale, capacità di ascolto, dialogo, conoscenza e rispetto dell’altro, condivisione e accoglienza. – Voler distinguere, sul piano morale, tra bene e male. – Riconoscere il contributo del pensiero cristiano al progresso culturale e sociale dell’Europa e dell’intera umanità. Prima fase dell’attività Gli insegnanti presentano agli allievi il primo testo-guida, che introduce il concetto di “mondialità” come scelta di “orizzonti illimitati” nel cui ambito vivere. 1) Mondialità.
«La mondialità è innanzitutto un sentimento che porta un uomo a sentirsi parte di un tutto umano e ambientale-ecologico.
Essa è inoltre una visione del mondo caratterizzata anche dal valore della diversità, in cui la famiglia umana è intesa come una comunità di popoli diversi (fratellanza universale).
Per mondialità s’intende un complesso di comportamenti informati al principio della responsabilità: agire nel presente con la coscienza di essere responsabili del futuro del mondo» (C.
Nanni, Educare alla convivialità, Ed.
EMI, p.
9).
Educare (per genitori e insegnanti) e “autoeducarsi” (per giovani alla ricerca del loro modo di abitare il mondo) alla mondialità può significare: • far conoscere ‒ e voler conoscere ‒ i problemi e le ingiustizie planetari legati a un uso sbagliato delle risorse naturali, ai soprusi politici ed economici a danno dei poveri, alla violazione dei diritti umani, alla mancanza di pace, a una tecnologia esasperata che compromette l’ambiente naturale… • fornire e trovare motivazioni per decidere di partecipare al “miglioramento del mondo” come si può, certi che l’oceano…
sia fatto di gocce.
Gradualmente, crescendo, un ragazzo della tua età potrà decidere di buttarsi nella mischia, di non stare a guardare il mondo come uno spettatore critico e, dopo un po’ di vita trascorsa, fatalmente annoiato…
Senza rischi, senza l’indignazione per le ingiustizie, senza tentativi appassionati perché qualcosa “vada meglio”…
che vita sarebbe? Abbiamo tutti un gran bisogno di appartenenza a una realtà umana di cui essere elementi attivi, di contribuire a un lavoro di squadra che crei quei legami insostituibili tra persone che ben conosce chiunque abbia “faticato insieme” per raggiungere un obiettivo importante: in un’orchestra, in un’equipe medica…
In quest’ottica, come non avvertire un legame con l’intera umanità, sulla base delle esigenze, delle gioie, dei dolori e delle fatiche che condividiamo tutti, quel legame che il Cristiano vive come una vera e propria fratellanza? Il Cristiano ha una risorsa particolare: si sente sostenuto da Cristo risorto lungo il suo cammino; se sa di non poter cambiare il mondo con le proprie forze, si sente di affermare, con san Paolo: «Tutto posso, in Colui che mi dà forza».
La comunità dei credenti, la Chiesa, è chiamata a insegnare con l’esempio e la diffusione della Parola un amore illimitato per il mondo, patria e casa comune dei figli di Dio.
Come migliorarlo e curarlo, il mondo, se lo sentiamo casa nostra, abitato da tanti fratelli diversi per convinzioni e abitudini, ma uguali per esigenze e sentimenti “di base”? Abbiamo tutti bisogno di libertà e tenerezza, di cibo e di istruzione…
Possono sorgere in noi pressanti interrogativi.
Che cosa potrei fare per il coetaneo che è nato in una baraccopoli indiana, che è intelligente forse più di me, ma che non potrà mai avere un’opportunità? Cosa c’entro io con le guerre, la fame, il terrorismo? Occorrerà, per rispondere a domande come queste, • cercare, conoscere gli “operatori di giustizia” (pensiamo all’enorme lavoro dei missionari nel Terzo Mondo) per imitarli, capire le loro motivazioni, i mezzi che adoperano…
Sarà un’imitazione che dovrà nascere soprattutto da piccole occasioni quotidiane.
Ciò potrà voler dire leggere libri o articoli su grandi uomini, ma soprattutto cercare di comprendere a fondo l’amico più grande che nel tempo libero fa animazione tra i piccoli lungodegenti di un ospedale pediatrico, o semplicemente la propria mamma che ha instaurato un dialogo con l’immigrato, senza lavoro, che tenta di sopravvivere portando le buste della spesa fino all’auto dei clienti, al supermercato, sperando in qualche mancia… • Sarà essenziale, per aprirsi al mondo, considerare la diversità culturale e religiosa come occasione di dialogo e quindi di arricchimento reciproco, ricercando i valori condivisibili (sentimenti, comportamenti, idee) nel rispetto delle inevitabili divergenze, per poi costruire senza pregiudizi rapporti interpersonali che uniscano, nella ricerca di un bene comune…
Si inizia a cambiare il mondo partendo da se stessi, dilatando gli orizzonti del cuore.
Chi si rende conto del problema della fame può scegliere di evitare gli sprechi, chi riflette sulla sofferenza portata dalla guerra può diventare un costruttore di pace tra i suoi amici, chi prende coscienza del dramma dei poveri potrà entrare nel mondo del volontariato…
Terza fase dell’attività Gli insegnanti potranno impegnare la classe in uno dei seguenti laboratori interdisciplinari.
a) La classe si divide in gruppi.
Ogni gruppo dovrà inventare un racconto breve (a scelta realistico, fantastico, di fantascienza…) per esprimere una riflessione su un tema a scelta tra quelli proposti: – l’accoglienza del diverso; – l’importanza del dialogo; – l’importanza del senso di responsabilità.
Gli insegnanti potranno ipotizzare una valutazione comune dei racconti; l’insegnante di religione terrà conto soprattutto della “profondità di pensiero” nell’esprimere valori.
b) I gruppi inventeranno scenette della durata di cinque-dieci minuti sulle tematiche precedenti, “in positivo” (accoglienza e dialogo realizzati, un’assunzione di responsabilità…) oppure “in negativo” (dialogo fallito ecc.) La classe rifletterà così sui messaggi ricavati dalla drammatizzazione, sulle caratteristiche concrete dell’accoglienza, del dialogo e del senso di responsabilità.
La domanda – Come ci si può “auto-educare” alla mondialità? Oltre alle vie proposte, hai in mente altri comportamenti e scelte possibili? Quali risorse particolari e motivazioni possiede il Cristiano? Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida Seconda fase dell’attività Gli insegnanti propongono l’esperienza di una giovane donna, un esempio illuminante di amore per l’intera umanità.
2) L’infermiera Cristina 9 dicembre 1993.
Maria Cristina è al lavoro, puntuale e dolce come sempre, nel suo ambulatorio di Mogadiscio.
All’improvviso sulla porta si presenta un somalo con due pistole in pugno.
Pretende dei soldi.
L’infermiera non ne ha.
Per reazione e in preda a un raptus di follia, il bandito le scarica addosso 9 colpi.
La rosa dei proiettili colpisce in pieno la giovane volontaria.
Maria Cristina Luinetti stramazza a terra ferita gravemente.
Morirà poco dopo il ricovero nell’ospedale da campo.
Si chiudeva per sempre la felice parentesi africana di questa ragazza ventiquattrenne, dai lunghi capelli neri e dal sorriso incantevole.
Era arrivata in Somalia il 20 novembre come crocerossina, per salvare vite umane, “arruolata” in quel corpo speciale a carattere umanitario che è la Croce Rossa.
In cambio, lasciava su questa terra la sua vita e il rimpianto di un servizio generoso e sereno.
A giorni sarebbe tornata in Italia, felice di aver regalato energie e cure alle vittime della guerra tribale che insanguinava da mesi l’incantevole paese africano.
La sua non voleva essere una semplice avventura giovanile.
Era la risposta al profondo desiderio di aiutare chi soffre.
Il giorno prima della partenza da Cesate, un piccolo paese della cintura industriale milanese, per Mogadiscio aveva indirizzato alla zia Maria Rosa una lettera che sapeva di testamento.
Scriveva che in caso di un suo “ritorno in bara” non avrebbe voluto fiori e cerimonie ufficiali, ma solo una funzione religiosa e l’alta uniforme da crocerossina.
È stata accontentata.
Forse presentiva ciò che si è fatalmente verificato.
Il parroco don Carlo che la vedeva tutte le domeniche mattina a messa ricorda: «Era felice, entusiasta del compito che andava a svolgere in Africa.
Da tanto tempo aspettava questa occasione.
Cesate le andava un po’ stretta: il suo cuore, il suo desiderio di servire l’umanità richiedeva spazi più ampi».
Questi spazi li ha trovati nella terra sabbiosa e assolata di Mogadiscio.
Avrebbe voluto incontrarli anche in una seconda tappa, in Mozambico, dove sarebbe andata dopo questa prima missione ufficiale.
Non ha fatto in tempo.
I colpi di pistola di uno squilibrato hanno spento per sempre la sua voglia di rendersi utile agli altri.
Il volontariato era la passione di Maria Cristina, un’autentica vocazione: «Voleva andare ad aiutare la gente, non parlava d’altro», ripete oggi il fratello Massimiliano, 22 anni.
Un ideale che le era cresciuto dentro molto presto.
A quindici anni, il tempo in cui normalmente le ragazze pensano al divertimento e alla bella vita, Maria Cristina decide di diventare crocerossina.
Una scelta che orienta sempre di più il suo futuro.
In attesa di realizzare il suo sogno, alterna gli studi di danza e di informatica a quelli da infermiera e alla pratica: lascia la sua abitazione e si trasferisce a casa del nonno novantenne, infermo e bisognoso di attenzioni e di cure.
Nel giugno 1992 ottiene il diploma di infermiera volontaria.
Passa l’estate nell’ospedale di Saronno, in quell’anticamera di emergenze e dolore che è il Pronto soccorso.
Ha fretta di imparare al meglio la professione per ottenere quanto prima il visto di partenza per le frontiere più difficili.
Le viene concesso nel novembre 1993.
Un visto per un biglietto di andata senza ritorno.
Classe prima – Giugno
Unità di Lavoro di approfondimento interdisciplinare (religione, educazione artistica) OSA di riferimento Conoscenze – Il libro della Bibbia, documento storico-culturale e Parola di Dio. Abilità – Ricostruire le tappe della storia della Bibbia.
Obiettivi Formativi ipotizzabili Conoscenze e abilità – Conoscere i materiali, gli antichi strumenti scrittori, il passaggio dal rotolo al codice in relazione alla nascita del testo biblico.
– Conoscere alcuni fondamentali ritrovamenti archeologici riguardanti i più antichi testi biblici. Competenze di riferimento dell’allievo in prospettiva triennale – Possedere essenziali conoscenze bibliche e riconoscere il contributo del pensiero biblico al progresso culturale, artistico e sociale dell’Europa e dell’intera umanità. 3) I ritrovamenti di Qumran Nel 1947, a qualche decina di chilometri da Gerusalemme, a Qumran, un pastorello di 13 anni, in cerca di una capra che gli era sfuggita, trovò una misteriosa caverna in mezzo a un paesaggio aspro e desertico, presso il grande lago salato del Mar Morto.
In quella grotta scoprì enormi giare stracolme di rotoli manoscritti su cuoio e papiro; si trattava delle più antiche copie dell’Antico Testamento giunte fino a noi.
I monaci Esseni, autori delle copie, facevano parte di una comunità ebraica che attendeva il Messia.
I manoscritti risalgono a un periodo compreso tra il II secolo a.C.
e il I secolo dopo Cristo: si tratta di tutti i libri della Bibbia ebraica tranne uno (Ester).
Il più noto manoscritto è il famoso Rotolo A di Isaia: lungo quasi 7,5 metri, risale a più di 2200 anni fa.
17 pezzi di pelle sono stati cuciti per formare questo rotolo; il testo ebraico è consonantico, senza l’inserimento delle vocali che solo nel Medioevo diverrà usuale.
Gli Esseni avevano consacrato la vita alla trasmissione dell’Antico Testamento, scegliendo di vivere una vita di studi e meditazione, mettendo i beni in comune e vivendo semplicemente in capanne e grotte.
All’avvicinarsi delle legioni romane che li avrebbero sterminati, all’epoca della ribellione giudaica repressa da Tito, nascosero nelle grotte vicine alle loro abitazioni i risultati del loro lavoro.
Prima fase dell’attività Gli insegnanti di religione ed educazione artistica presentano alla classe il testo-guida; l’insegnante di educazione artistica potrà approfondire soprattutto l’affascinante argomento dei “codici miniati”.
2) Dal rotolo al codice Nell’antichità classica e durante i primi secoli della cristianità, la scrittura e la lettura del rotolo di pergamena o papiro procedevano su colonne orizzontali; per evitare che si deteriorasse o si piegasse, veniva avvolto su due bastoncini di legno o di osso disposti alle due estremità del manufatto.
Durante il trasporto, i rotoli venivano legati e custoditi in casse rettangolari o cilindriche.
Il rotolo era deficitario per conservare lunghe opere letterarie (per il libro degli Atti degli Apostoli sarebbe occorso un rotolo di circa 9 metri!) e per consultarle; nel caso della Bibbia, esso rendeva davvero difficile la ricerca dei passi della Scrittura.
I Cristiani del II secolo furono così indotti a ricercare soluzioni editoriali diverse.
Per i Cristiani non provenienti dall’ebraismo, il ricorso al codice fu anche una scelta finalizzata a differenziarsi dagli Ebrei, staccandosi dalle loro consuetudini.
I codici erano composti da fogli sovrapposti e cuciti di papiro o pergamena; quest’ultima permetteva di scrivere sulle due facciate.
Essi agevolavano la consultazione dei libri biblici; copertine rigide li protessero da agenti atmosferici e dall’usura del tempo.
Seconda fase dell’attività Laboratorio Gli insegnanti propongono alla classe, divisa in gruppi con portavoce, di ricercare a casa, con l’aiuto dei genitori, notizie sui più importanti ritrovamenti archeologici riguardanti la Bibbia.
I gruppi riordineranno i dati reperiti da ciascun allievo con l’aiuto dell’insegnante di educazione artistica, evidenziando con l’insegnante di religione i motivi dell’importanza delle scoperte archeologiche prese in considerazione in relazione a una migliore conoscenza di fatti biblici o della storia del testo.
I gruppi prepareranno semplici relazioni, esposte poi ai compagni dal portavoce.
Rispondi.
1) Confronta: – il papiro e la pergamena; – il rotolo e il codice.
2) Cosa sono i “codici miniati”? Spiega con parole tue.
Per l’inserimento dell’argomento in Unità di Apprendimento articolate, vedere Tiziana Chiamberlando, Sentinelle del Mattino, SEI, Volume per il biennio e Guida I più antichi testi biblici 1) Materiali e strumenti scrittori Il materiale scrittorio della Bibbia era quello tipico delle diverse epoche antiche: la pietra (le Tavole della Legge), l’argilla, il cuoio, le tavolette spalmate di cera, papiro e pergamena.
Questi ultimi soprattutto vennero utilizzati per i testi letterari e grazie a essi la Bibbia è giunta fino a noi.
– Il papiro Il papiro è un vegetale palustre che anticamente cresceva spontaneamente presso il Nilo, in Etiopia, in Palestina, in Mesopotamia e anche in Sicilia; il termine significa “ciò che appartiene al re”, infatti la lavorazione e il commercio del papiro, in Egitto, erano monopolio statale.
Esso fu utilizzato come supporto scrittorio per la Bibbia dal III millennio a.C.
fino al 300 d.C.
circa; era abbastanza economico, ma piuttosto delicato soprattutto in condizioni climatiche umide.
Strisce sottili ricavate dal midollo del papiro venivano bagnate e sovrapposte a strati, alternando quelli con strisce orizzontali a quelli con strisce verticali…
Poi gli strati venivano battuti, levigati e fatti essiccare al sole; i papiri più pregiati erano giallo/bianchi anziché giallo/brunastri.
A seconda dell’estensione del testo da trascrivere, incollando opportunamente più fogli di papiro si otteneva un rotolo (il cosiddetto “volumen”); esso veniva conservato in giare o recipienti cilindrici e immerso nell’olio di cedro per tenere lontani i parassiti.
Clamoroso è stato il ritrovamento di un papiro egiziano di oltre 42 metri! – La pergamena La pergamena è ricavata dalla lavorazione della pelle degli animali giovani, quali la pecora, la capra, il vitello e l’antilope.
Prevalse sul papiro a partire dal IV secolo d.C.; era più robusta ed era più facile ottenerla, anche se era più costosa.
Per la Bibbia, fu usata fino al X secolo d.C., epoca in cui si iniziò ad adoperare carta ricavata dalla lavorazione di cotone, canapa e lino, diffusa da mercanti arabi che erano venuti a contatto con la civiltà cinese.
Gli artigiani che producevano le pergamene (“percamenarii”) nel Basso Medioevo abitavano un borgo specifico delle città, vicino a una sorgente (l’acqua è un elemento essenziale per la lavorazione delle pelli): i procedimenti per lavare, raschiare, depilare, impermeabilizzare e levigare le pelli erano lunghissimi.
Tinture conclusive con porpora, oro e argento per pergamene di particolare importanza erano costosissime: nel IV secolo d.C., san Gerolamo cercò di opporsi a questi “sprechi” riguardanti soprattutto manoscritti del Nuovo Testamento…
– Strumenti Ogni scriba dell’antichità doveva sapersi fabbricare le proprie “penne”: il “calamo”, un fusto sottile di legno ricavato da varie piante o in metallo, che fu strumento di scrittura fino al sesto secolo d.C.; la penna d’oca, ricavata dalle piume remiganti dei volatili.
L’inchiostro era di due tipi: una miscela a base di nerofumo e gomma, impiegato dalle classi meno abbienti e una miscela di acido tannico ricavato dalla quercia, solfato di ferro, gomma arabica (resina dell’acacia) e acqua detto inchiostro ferrogallico e adoperato a partire dal III secolo d.C.
Nei monasteri medievali, i monaci copisti (amanuensi), grazie alla cui pazienza possediamo oggi un patrimonio inestimabile di cultura antica, disponevano di un set di strumenti quali il calamaio, antico contenitore portatile in terracotta del calamo, poi sostituito da un corno di toro, spugne bagnate per lavare e cancellare i fogli e un coltello utile per l’immediata cancellatura degli errori. 4) Lo splendore dei codici miniati Con “codici miniati” ci si riferisce a manoscritti su pergamena abbelliti con decorazioni artistiche.
L’espressione deriva da “minium”, il pigmento rosso ricavato dal piombo, il colore prevalente con cui furono decorati i bordi delle pagine, i titoli e le lettere iniziali dei manoscritti.
L’arte orientale bizantina, dopo il V secolo d.C., influenzò la miniatura italiana; si diffusero colori prevalentemente scuri.
In Francia, l’oro splendeva negli esemplari più sfarzosi, mentre le illustrazioni interne dei codici, raffiguranti scene bibliche e ritratti dei grandi personaggi delle Scritture, tendevano a distorcere le proporzioni delle figure umane per lanciare messaggi simbolici.
Durante il Medioevo, le figure umane risultarono via via più accurate, più piccole e più realistiche.
Agora
di Maria de falco marotta Alejandro Amenábar, è un regista “difficile”.
Affronta con rigore i temi più controversi del nostro vivere quotidiano, premio Oscar per l’intimista Mare dentro che noi abbiamo visto alla Mostra di Venezia , ponendo poi domande all’autore, dice che il suo film da quasi 50 milioni di euro Agora portato al Festival di Cannes 2009 fuori Concorso, ha l’obiettivo di “far sentire il pubblico come se stesse seguendo una troupe della CNN mentre documenta qualcosa che accade nel IV secolo dopo Cristo”.
Bisogna credergli: E’ talmente serio, giovane e introverso che sicuramente il suo lavoro sarà apprezzato da molti.
Ma non da tutti.
Nell’Egitto del IV secolo a.C, la storia di Hypatia di Alessandria, primo astronomo-filosofo donna dell’Occidente.
Spinto dal desiderio di raccontare una storia su Romani e Cristiani nell’Antico Egitto, il regista spagnolo di origine cilena ha individuato la sua eroina nella figura di Ipazia, figlia di Teone, ultimo direttore della celeberrima biblioteca di Alessandria, e donna simbolo della tolleranza della società greco-romana di quel tempo.
Con la sua Himenóptero, Amenábar ha coinvolto la Mod Producciones di recente creazione e Telecinco Cinema, mettendo assieme un cast internazionale che recitasse in lingua inglese e permettesse di lanciare il film sul mercato internazionale.
A vestire la tunica di Ipazia è la star britannica Rachel Weisz (The Constant Gardener, La Mummia).
La vediamo insegnare astronomia, matematica e filosofia ai suoi allievi, in quel tempio della saggezza che doveva essere allora la Biblioteca alessandrina.
Ma mentre tra quelle mura si discetta di Aristotele e si preconizza l’eliocentrismo, per le strade e le piazze della città governata dall’Impero Romano d’Oriente cresce ed esplode il dissidio tra le religioni: cristiani contro pagani ed ebrei.
Presto i parabalani incappucciati(funzionari romani che disdegnano la propria vita per la causa della Chiesa.
In genere, sono attivisti, monaci, guerrieri e becchini, fanatici, ignoranti, violenti ) spingeranno la folla ad attaccare nel nome di Cristo gli adoratori degli déi e, nonostante la mediazione romana, la Biblioteca verrà saccheggiata e distrutta.
Il resto è storia, con la sola eccezione del servo Davus, personaggio inventato, interpretato dal giovane inglese Max Minghella.
Lo spettatore potrebbe trovare noiose e fintamente intellettuali le numerose discussioni “scientifiche” ma quello che non sfuggirà è la scelta di portare sul grande schermo questa martire del paganesimo che ha tutto l’aspetto di un attacco frontale del regista al Cristianesimo e non genericamente al fanatismo religioso.
All’uscita di Agora difficilmente le stanze del Vaticano apprezzeranno le scene in cui i cristiani sbudellano la gente urlando come invasati o vengono visualizzati come formiche nere che si affrettano sulla preda con una efficace ripresa dall’alto velocizzata.
Chi è il regista Alejandro Amenábar (Santiago del Cile, 1972) è figlio di madre spagnola e di padre cileno.
La sua famiglia si trasferisce in Spagna quando lui ha un anno, facendolo crescere e studiare a Madrid.
Scrive, produce e dirige il suo primo cortometraggio, “La cabeza”, a 19 anni, e ne ha 23 quando debutta nel lungometraggio con “Tesis” che in Spagna riceve molti premi.
Il suo “Apri gli occhi” riscuote in Spagna un enorme successo e viene distribuito in tutto il mondo: è stato ultimamente oggetto di un remake hollywoodiano diretto da Cameron Crowe e intitolato “Vanilla Sky”, con Tom Cruise (che ne è anche il produttore), Penelope Cruz (protagonista anche della versione originale) e Cameron Diaz.
“The Others” – interpretato in modo perfetto da Nicole Kidman e prodotto da Tom Cruise – è il suo primo film girato in lingua inglese, presentato alla Mostra di Venezia, dove ha riscosso un grande successo di pubblico e critica.
Ha realizzato la colonna sonora di tutti i suoi film, nonchè di molti altri, tutti iberici.
Nel 2004 gira “Mare dentro”, un film sulla vita del tetraplegico Ramon Sampedro e il delicato tema dell’eutanasia, che segna una svolta nel suo cinema che riceve premi dal Festival di Venezia, da E.F.A., il premio Goya, e la candidatura al premio Oscar come miglior film straniero.
Presentando a Cannes 2009 Agorà(piazza, assemblea) ha dichiarato: «Il mio Agorà contro ogni fondamentalismo.
Ipazia (Rachel Weisz) filosofa e scienziata, martire del politeismo ad Alessandria, capitale culturale del Mediterraneo nel IV secolo della nostra era, controllata dall’Impero romano d’Oriente e centro di attriti tra il politeismo e i due monoteismi, l’uno frutto dell’eresia dell’altro: giudaismo e cristianesimo.
La vergine Ipazia – aggiunge- era uno spirito aperto, praticava la misericordia e fu torturata e uccisa dai cristiani alla vigilia del tracollo del mondo classico.
La sua vicenda ricorda – in senso opposto – quella di Gesù».
Attorno a lei, gli ex allievi, l’aristocratico (Oscar Isaac), convertito al cristianesimo onde avere la carriera pubblica che si aspettava; e lo schiavo (Max Minghella, figlio di Anthony), fanatico nella nuova fede.
In Agorà i ruoli di buoni e cattivi sono distribuiti per fazione.
Il tragico degli scontri politico-religiosi è che ognuno ha le sue ragioni” Il film: titolo internazionale: Agora titolo originale: Agora paese: Spagna, USA anno: 2009 genere: fiction regia: Alejandro Amenábar data di uscita: ES 02/09/2009 sceneggiatura: Alejandro Amenábar, Mateo Gil cast: Rachel Weisz, Max Minghella, Oscar Isaac, Ashraf Barhom, Michael Lonsdale, Rupert Evans, Homayoun Ershadi fotografia: Xavi Giménez scenografia: Guy Dyas costumi: Gabriella Pescucci musica: Alejandro Amenábar produttore: Fernando Bovaira produzione: Mod Producciones, Himenoptero, Telecinco Cinema distributori: Mars Distribution (FR) rivenditore estero: Focus Features International Chi era questa straordinaria scienziata? Ipazia era l’erede della Scuola alessandrina, la più notevole comunità scientifica della storia dove avevano studiato Archimede, Aristarco di Samo, Eratostene, Ipparco, Euclide, Tolomeo… e i geni che hanno gettato le fondamenta del sapere scientifico universale.
Filosofa neoplatonica, musicologa, medico, scienziata, matematica, astronoma, madre della scienza sperimentale (studiò e realizzò l’astrolabio, l’idroscopio e l’aerometro).… e, come scrisse Pascal, «ultimo fiore meraviglioso della gentilezza e della scienza ellenica».
Nei suoi settecento anni la Scuola alessandrina aveva raggiunto vette talmente elevate nel campo scientifico, che sarebbe bastato lasciar vivi e liberi di studiare Ipazia e i suoi allievi per acquisire 1200 anni in più di progresso.
Ma su Ipazia e sull’intera umanità si abbatté la più grossa delle sventure: l’ascesa al potere della Chiesa cattolica e il patto di sangue stipulato con l’impero romano agonizzante.
Questo patto – oltre alla soppressione del paganesimo – prevedeva la cancellazione delle biblioteche, della scienza e degli scienziati, l’annullamento del libero pensiero, della ricerca scientifica (nei concilî di Cartagine, infatti, fu proibito a tutti – vescovi compresi – di studiare Aristotele, Platone, Euclide, Tolomeo, Pitagora etc.).
Alla donna doveva essere impedito l’accesso alla religione, alla scuola, all’arte, alla scienza.
In poche decine di anni il piano venne quasi interamente realizzato.
Ma Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino e Cirillo – i giganti del nascente impero della Chiesa – trovarono, sulla loro strada lastricata di roghi e di sangue, un ultimo impedimento: una giovane bellissima creatura a capo della Scuola alessandrina, una scienziata con una dirittura morale impossibile da piegare la quale, al termine d’una giornata di studio e di ricerca, si gettava sulle spalle il tribon – il mantello dei filosofi – e se ne andava in giro per Alessandria a spiegare alla gente – con ingegno oratorio e straordinaria saggezza – cosa volesse dire libertà di pensiero, l’uso della ragione.
E Cirillo, vescovo e patriarca di Alessandria, ordì il martirio di Ipazia.
Uccidere ingiustamente un qualunque essere umano è troncare una vita, spezzare una possibilità, ma trucidare una creatura come Ipazia è arrecare un danno incalcolabile all’umanità intera, è uccidere la speranza nel progresso umano.
Questo delitto segnò la fine del paganesimo, il tramonto della scienza e della dignità stessa della donna.
Segnò la definitiva affermazione del gruppo più astuto, raffinato, vorace, spietato e feroce prodotto dalla specie umana: da quel marzo del 415 d.C.
la Chiesa Cattolica, oltre a imprigionare, torturare, bruciare vivi popoli interi, incatenò la mente degli uomini per manovrarli, dirigerli, dominarli, alleandosi sempre con il potere e con l’ingiustizia.
Nessun mea culpa potrà mai restituire all’umanità tanto sangue innocente e tanti secoli di progresso mancato.
In quel 415 d.C.
a nulla valse la voce isolata del prefetto Oreste, che cercò inutilmente di difendere e di salvare la scienziata.
Quando giunse ad Alessandria, Oreste si recò a rendere omaggio a Ipazia, astro incontaminato della sapiente cultura.
Da lei apprese che non poteva definirsi realmente pagana perché «qualunque religione, qualunque dogma, è un freno alla libera ricerca, e può rappresentare una gabbia che non permette d’indagare liberamente sulle origini della vita e sul destino dell’uomo».
Ipazia gli raccontò che dopo l’incendio della biblioteca, il prefetto Evagrio le aveva proposto di convertirsi al cristianesimo in cambio di maggiori sovvenzioni per la sua scuola e che lei aveva rifiutato dicendo: «Se mi faccio comprare, non sono più libera.
E non potrò più studiare.
È così che funziona una mente libera: anch’essa ha le sue regole».
Dopo il massacro di Ipazia, il vescovo e patriarca Cirillo governò Alessandria da padrone assoluto per i successivi trent’anni.
I libri di Ipazia e di tutta la Scuola alessandrina furono bruciati (con la sola eccezione del suo commento alla Syntaxis), la sua memoria cancellata.
A parte Ierocle (di cui sono rimaste solo due modeste opere di filosofia neoplatonica) e il poeta Pallada che con i suoi versi cantò l’irreprensibilità dei costumi, l’alto sentire, l’accuratezza e il savio giudicare della filosofa e scienziata alessandrina, tutti i discepoli della scienziata scomparvero e di loro, del loro pensiero, delle loro opere, nulla è rimasto.
Alcuni riuscirono ad emigrare in India (tra cui Paulisa, autore dell’opera astronomica Paulisa siddhānta), importandovi le ultime scoperte di trigonometria ed astronomia.
Ci è pervenuta, però, una parte dell’opera di uno degli allievi preferiti di Ipazia: Sinesio di Cirene, vescovo di Tolemaide.
Dalle sue lettere indirizzate alla maestra, si apprende che Ipazia è stata la madre della scienza moderna in quanto, all’analisi teorica dei problemi di fisica e di astronomia, faceva seguire la sperimentazione pratica (il grande matematico del ‘600 Pierre de Fermat, studiando l’idroscopio realizzato dalla scienziata alessandrina, rese omaggio «alla grande Ipazia, che fu la meraviglia del suo secolo»).
Mentre la sua maestra era ancora in vita, Sinesio scriveva: «L’Egitto tien desti i semi di sapienza ricevuti da Ipazia».
Le testimonianze antiche su Ipazia sono offerte, principalmente, da quattro storici: Socrate Scolastico (Storia Ecclesiastica), Filostorgio (Storia Ecclesiastica), Sozomeno (Storia della Chiesa) – tutti contemporanei di Ipazia -, e Damascio, ultimo direttore dell’Accademia platonica di Atene, che scrisse di lei 50 anni dopo il suo massacro.
Ambrogio, Giovanni Crisostomo, Agostino e Cirillo vennero fatti santi.
Sant’Ambrogio, San Giovanni Crisostomo, Sant’Agostino e San Cirillo d’Alessandria sono stati elevati, inoltre, al rango di dottori e padri della Chiesa universale.
Per i successivi 1200 anni la Chiesa di Roma manovrò principi, re ed imperatori per tenere a freno il suo più acerrimo nemico: il sapere, la conoscenza.
Soprattutto la scienza della Scuola alessandrina.Il 17 febbraio dell’Anno Santo 1600 la Chiesa di Roma fece bruciare vivo Giordano Bruno, il filosofo e scienziato che aveva studiato gli atomisti greci e che attraverso le opere di Democrito aveva capito l’essenza di quegli universi infiniti che Ipazia aveva intuito.
Il 22 giugno 1633 la Chiesa di Roma fece imprigionare ed abiurare il padre della scienza moderna Galileo Galilei, il quale aveva proseguito l’opera iniziata dalla Scuola alessandrina e da Ipazia nella sperimentazione della scienza e che, nel Dialogo sui massimi sistemi del mondo, aveva avuto il coraggio di proporre l’ipotesi eliocentrica che Aristarco di Samo aveva formulato nel 280 a.C.
nella Scuola alessandrina e che Ipazia aveva elaborato.
Papa Pio XII nel 1944, per festeggiare i 1500 anni della morte di San Cirillo d’Alessandria (la cui opera teologica è alla base del dogma della Vergine Madre di Dio) promulgò l’enciclica Orientalis Ecclesiae, per «esaltare con somme lodi» e «tributare venerazione a San Cirillo», a colui che aveva cacciato e fatto massacrare ebrei, nestoriani, novaziani (chiamati catari – puri) e pagani da Alessandria d’Egitto.
Il vescovo-patriarca S.
Cirillo aveva studiato per cinque anni – dal 394 al 399 – nel monastero della montagna della Nitria, nel deserto di San Marco, e lì era stato ordinato Lettore.
In questo monastero aveva stretto vincoli di amicizia con gran parte dei monaci parabolani (di cui si servì per sterminare ebrei, nestoriani, novaziani e pagani) e soprattutto con Pietro il Lettore, a cui sedici anni dopo ordinò di trucidare Ipazia… l’ultima voce libera, l’ultima luce femminile di sapienza dell’antichità.
Purtroppo le donne che tentarono di studiare e d’inserirsi nel mondo della scienza dovettero combattere su due fronti: il primo risaliva ai tempi di Platone, che le considerava esseri inferiori per natura (e questo sembra incredibile: Platone, Aristotele e i più grandi pensatori che ha prodotto il genere umano, che hanno dato vita all’attuale libertà di pensiero, ebbene… consideravano la donna inferiore per natura); il secondo… il ruolo secondario assegnatole proprio dai padri fondatori della Chiesa (Sant’Agostino… e San Giovanni Crisostomo che affermò che la donna porta il marchio di Eva e che Dio non le ha concesso il diritto di ricoprire cariche politiche, religiose o intellettuali).
Infatti se Ipazia fosse stata uomo, l’avrebbero solamente uccisa.
Essendo donna, dovevano farla a pezzi, nella cattedrale cristiana, per rendere quel massacro simbolico d’un sacrificio.
Per escludere, nel cammino dei secoli a venire, metà del genere umano.Ipazia ci ha insegnato che la via della ragione – la via dell’esperienza personale non mediata da altri, la ricerca continua della verità sulla nostra vita, verità che racchiude il nostro corpo, la mente, l’universo, l’intelligibile… come direbbero gli antichi filosofi, la metafisica… che vuol dire il raggiungimento d’un principio supremo non creatore, ma che è e che si evolve insieme a noi – è la via a cui ha diritto ogni essere umano.
Naturalmente, colto e rigoroso com’è A.
Amenabar, si è documentato su fonti storiche e su altri studi di cui non citiamo che la minima parte.Eccole: Fonti • Cirillo, Homilia VIII, in J.
P.
Migne, Patrologia Graeca, vol.
LXXVII • Esichio di Mileto, Fragmenta, in «Fragmenta Historicorum Graecorum», Paris, Didot 1841-1870 • Damascio, Vita Isidori, Hildesheim, Olms 1967 • Filostorgio, Historia Ecclesiastica, in J.
P.
Migne, Patrologia Graeca, vol.
LXV; Epitome in Fozio, Bibliotheca, 8 voll., Paris, Les Belles Lettres 1959 • Palladas, in Antologia Palatina, Yorino, Einaudi 1978 • Sinesio, Opere, Torino, UTET 1989 • Socrate Scolastico, Historia Ecclesiastica, in J.
P.
Migne, Patrologia Graeca, vol.
LXVII • Sozomeno, Historia Ecclesiastica, in J.
P.
Migne, Patrologia Graeca, vol.
LXVII • Suda, Lexicon, Lipsia, Teubner 1928 • Teodoreto, Historia Ecclesiastica, Berlin Akademie Verlag 1954 • Teone, Commentaria in Ptolomaei syntaxin mathematicam I-II, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 1936 • Teone, Commentaria in Ptolomaei syntaxin mathematicam III-IV, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 1943 • Teone, Le Petit commentare de Théon d’Alexandrie aux Tables faciles de Ptolomée, tr.
da A.
Tihon, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana 1978 Bibliografia • Diodata Saluzzo Roero, Ipazia ovvero Delle Filosofie (romanzo in versi), Torino, Chirio e Mina 1827 • Richard Hoche, Hypatia, die Tochter Theons, in «Philologus» 15, 1860 • Guido Bigoni, Ipazia Alessandrina, Venezia, Antonelli 1887 • Augusto Agabiti, Ipazia: la prima martire della liberta di pensiero, Roma, E.
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20-34 e anche: Nell’Egitto del IV secolo a.C, la storia di Hypatia di Alessandria, primo astronomo-filosofo donna dell’Occidente.
Spinto dal desiderio di raccontare una storia su Romani e Cristiani nell’Antico Egitto, il regista spagnolo di origine cilena ha individuato la sua eroina nella figura di Ipazia, figlia di Teone, ultimo direttore della celeberrima biblioteca di Alessandria, e donna simbolo della tolleranza della società greco-romana di quel tempo.
Con la sua Himenóptero, Amenábar ha coinvolto la Mod Producciones di recente creazione e Telecinco Cinema, mettendo assieme un cast internazionale che recitasse in lingua inglese e permettesse di lanciare il film sul mercato internazionale.
A vestire la tunica di Ipazia è la star britannica Rachel Weisz (The Constant Gardener, La Mummia).
La vediamo insegnare astronomia, matematica e filosofia ai suoi allievi, in quel tempio della saggezza che doveva essere allora la Biblioteca alessandrina.
Ma mentre tra quelle mura si discetta di Aristotele e si preconizza l’eliocentrismo, per le strade e le piazze della città governata dall’Impero Romano d’Oriente cresce ed esplode il dissidio tra le religioni: cristiani contro pagani ed ebrei.
Presto i parabalani incappucciati(funzionari romani che disdegnano la propria vita per la causa della Chiesa.
In genere, sono attivisti, monaci, guerrieri e becchini, fanatici, ignoranti, violenti ) spingeranno la folla ad attaccare nel nome di Cristo gli adoratori degli déi e, nonostante la mediazione romana, la Biblioteca verrà saccheggiata e distrutta.
Il resto è storia, con la sola eccezione del servo Davus, personaggio inventato, interpretato dal giovane inglese Max Minghella.
Lo spettatore potrebbe trovare noiose e fintamente intellettuali le numerose discussioni “scientifiche” ma quello che non sfuggirà è la scelta di portare sul grande schermo questa martire del paganesimo che ha tutto l’aspetto di un attacco frontale del regista al Cristianesimo e non genericamente al fanatismo religioso.
All’uscita di Agora difficilmente le stanze del Vaticano apprezzeranno le scene in cui i cristiani sbudellano la gente urlando come invasati o vengono visualizzati come formiche nere che si affrettano sulla preda con una efficace ripresa dall’alto velocizzata.
Alejandro Amenábar (Santiago del Cile, 1972) è figlio di madre spagnola e di padre cileno.
La sua famiglia si trasferisce in Spagna quando lui ha un anno, facendolo crescere e studiare a Madrid.
Scrive, produce e dirige il suo primo cortometraggio, “La cabeza”, a 19 anni, e ne ha 23 quando debutta nel lungometraggio con “Tesis” che in Spagna riceve molti premi.
Il suo “Apri gli occhi” riscuote in Spagna un enorme successo e viene distribuito in tutto il mondo: è stato ultimamente oggetto di un remake hollywoodiano diretto da Cameron Crowe e intitolato “Vanilla Sky”, con Tom Cruise (che ne è anche il produttore), Penelope Cruz (protagonista anche della versione originale) e Cameron Diaz.
“The Others” – interpretato in modo perfetto da Nicole Kidman e prodotto da Tom Cruise – è il suo primo film girato in lingua inglese, presentato alla Mostra di Venezia, dove ha riscosso un grande successo di pubblico e critica.
Ha realizzato la colonna sonora di tutti i suoi film, nonchè di molti altri, tutti iberici.
Nel 2004 gira “Mare dentro”, un film sulla vita del tetraplegico Ramon Sampedro e il delicato tema dell’eutanasia, che segna una svolta nel suo cinema che riceve premi dal Festival di Venezia, da E.F.A., il premio Goya, e la candidatura al premio Oscar come miglior film straniero.
Presentando a Cannes 2009 Agorà(piazza, assemblea) ha dichiarato: «Il mio Agorà contro ogni fondamentalismo.
Ipazia (Rachel Weisz) filosofa e scienziata, martire del politeismo ad Alessandria, capitale culturale del Mediterraneo nel IV secolo della nostra era, controllata dall’Impero romano d’Oriente e centro di attriti tra il politeismo e i due monoteismi, l’uno frutto dell’eresia dell’altro: giudaismo e cristianesimo.
La vergine Ipazia – aggiunge- era uno spirito aperto, praticava la misericordia e fu torturata e uccisa dai cristiani alla vigilia del tracollo del mondo classico.
La sua vicenda ricorda – in senso opposto – quella di Gesù».
Attorno a lei, gli ex allievi, l’aristocratico (Oscar Isaac), convertito al cristianesimo onde avere la carriera pubblica che si aspettava; e lo schiavo (Max Minghella, figlio di Anthony), fanatico nella nuova fede.
In Agorà i ruoli di buoni e cattivi sono distribuiti per fazione.
Il tragico degli scontri politico-religiosi è che ognuno ha le sue ragioni”
Apertura dell’Anno Sacerdotale
il Santo Padre Benedetto XVI presiederà la celebrazione dei secondi vespri al cospetto delle reliquie del santo.
L’invito alla partecipazione è rivolto in particolare “ai sacerdoti secolari, ai religiosi, a tutti i seminaristi di Roma, ma anche alle religiose e ai fedeli laici che con la loro fede, preghiera e operosità concorrono a sostenere la vita, il ministero dei sacerdoti e la loro santificazione, a beneficio di tutti.”(L’arcivescovo M.
Piacenza, segretario della Congregazione per il clero).
Presso la Prefettura della casa Pontificia si possono richiedere i biglietti per l’accesso in Basilica, permesso dalle ore 16.
In diretta su Telelazio Rete Blu dalle17.25 l’arrivo delle reliquie di San Giovanni Maria Vianney, patrono dei sacerdoti, in San Pietro e la celebrazione presieduta dal Santo Padre.
Venerdì 19 giugno, ore 21,piazza San Pietro.
Veglia di preghiera per il Papa e il suo Pontificato.
Presiede il card.
Angelo Comastri, vicario generale per la Città del Vaticano.
I Templari e la sindone di Cristo
Dopo il 1250, perduta ormai da decenni Gerusalemme e allontanandosi sempre più la prospettiva di recuperarla, i Templari sentirono il bisogno di mantenere un contatto fisico, concreto con i luoghi della vita di Cristo; così presero l’abitudine di farsi delle reliquie personali da portare sempre addosso come difesa contro i peccati dell’anima e i rischi della battaglia: in fondo questo rispondeva bene alla loro fisionomia di ordine militare e religioso, e anche san Bernardo aveva sottolineato che il Templare combatte sempre su due fronti tutti i giorni della sua vita.
Durante i decenni precedenti, quando Gerusalemme e il Santo Sepolcro erano custoditi dai cristiani, i Templari si recavano nella grande basilica per celebrare particolari liturgie notturne delle quali le fonti non ci dicono nulla: probabilmente consacravano le loro cordicelle, simbolo dei voti religiosi del Tempio, poggiandole proprio su quella pietra dove era stato deposto il cadavere di Gesù dopo la crocifissione.
Se così fu, le rendevano in tal modo inestimabili reliquie della Passione di Cristo da tenere sempre su di sé, a tutela della loro salvezza fisica e spirituale.
Più tardi, perduto il Sepolcro per la riconquista del Saladino, dovettero rassegnarsi a consacrare le loro corde con qualcosa di diverso: altri Luoghi Santi del regno cristiano che però non avevano certo lo stesso valore del Sepolcro, oppure alcune reliquie di cui l’ordine era entrato in possesso, che nella seconda metà del Duecento formavano un tesoro custodito nella città di Acri.
La voce che il misterioso “idolo” fosse conservato proprio nel tesoro di Acri circolava fra i Templari e tutto lascia pensare che la sua identità venisse tenuta segreta alla maggioranza dei frati.
Qualunque cosa fosse, nell’ordine esistevano molte copie sparpagliate fra le varie commende; questi simulacri sembra venissero esposti alla venerazione dei Templari ma anche dei fedeli laici che frequentavano le chiese del Tempio come se appartenessero a un misterioso personaggio sacro che proteggeva l’ordine in maniera speciale.
Il ritratto era considerato più una reliquia che non una semplice immagine, veniva conservato ed esposto insieme alle altre reliquie dei Templari, e anche la liturgia con cui era venerato prevedeva proprio quel bacio rituale che per tradizione si dava alle reliquie.
Secondo alcuni Templari l’idolo era chiamato “il Salvatore”; si pregava chiedendogli non favori materiali come la ricchezza, il successo con le donne o il potere nel mondo, ma piuttosto il più alto dei valori cristiani, la salvezza dell’anima.
Esiste la possibilità di sapere con certezza chi mai fosse l’uomo raffigurato in questo ritratto? Fortunatamente sì.
Nell’anno 1268 il sultano Baibars si impadronì del fortilizio di Saphed che era stato in possesso dei Templari; certo si meravigliò di trovare nella sala principale della fortezza, proprio quella in cui si celebrava il capitolo dell’ordine, un bassorilievo che raffigurava la testa di un uomo con la barba.
Il sultano non capì chi fosse quell’uomo, e purtroppo anche lo storico moderno non può fare alcuna ipotesi perché il monumento è andato distrutto.
Esistono comunque alcune raffigurazioni dello stesso personaggio che si trovano su oggetti appartenuti sicuramente ai Templari, oggetti che si conservano ancor oggi e permettono di vedere, diciamo pure toccare con mano, l’identità dell’uomo misterioso: sono alcuni sigilli di Maestri del Tempio conservati in archivi della Germania, che portano sul verso proprio il ritratto di un uomo con la barba, e un pannello di legno ritrovato nella chiesa della magione templare di Templecombe, in Inghilterra.
Sono senza dubbio tutte copie del Volto di Cristo raffigurato senza né aureola né collo, come se la testa fosse stata in qualche modo isolata dal resto del corpo.
È un modello iconografico abbastanza raro nell’Europa del medioevo ma invece estremamente diffuso in Oriente perché riproduce il vero aspetto del Cristo come appariva dal mandylion, la più preziosa delle reliquie posseduta dagli imperatori bizantini.
Secondo una tradizione molto antica si trattava di un ritratto di Cristo non fatto da mano umana, bensì prodottosi in maniera miracolosa quando Gesù aveva passato sul volto un asciugamano (in greco appunto mandylion); non era un ritratto in senso vero e proprio, cioè un disegno, ma piuttosto un’impronta.
Custodito nel grande sacrario del palazzo imperiale di Costantinopoli, il mandylion fu copiato innumerevoli volte in affreschi, miniature, icone su tavola di legno, e la tradizione di questo ritratto miracoloso si diffuse pian piano anche in Occidente.
Ancor oggi in alcune fra le maggiori basiliche d’Europa restano opere d’arte che la riproducono, come ad esempio l’icona su tessuto nota come Santo Volto di Manoppello, quelle conservate a Genova, Jaen, Alicante, quella custodita nella basilica di San Pietro in Vaticano dentro la cappella di Matilde di Canossa: sono tutte copie del mandylion realizzate in Oriente.
La tavola trovata nella chiesa templare di Templecombe sembra molto interessante perché riproduce addirittura la forma della teca-reliquiario di Costantinopoli così come ci risulta in tante raffigurazioni, prima fra tutte la splendida miniatura sul codice Rossiano greco 251 della Biblioteca Apostolica Vaticana (secolo XII): il Volto appare inserito dentro una specie di custodia rettangolare che ha proprio le dimensioni di un asciugamano, più largo che lungo, e questa custodia ha un’apertura al centro che lascia vedere soltanto il Volto di Cristo isolato dal collo e dal resto del corpo.
Nell’icona di Templecombe la forma di questo riquadro che scopre le fattezze umane di Gesù e le isola dalla copertura è un elegante motivo geometrico a quadrifoglio molto amato in Oriente, e usato nei reliquiari bizantini già dal ix secolo.
Il fantomatico idolo dei Templari era dunque in se stesso un ritratto di Gesù Cristo di tipo molto particolare: ma nel guazzabuglio degli interrogatori, sotto tortura o anche solo suggestionati dagli inquisitori, molti frati finirono per descrivere ogni cosa che potesse in qualche modo somigliare a quella strana testa maschile su cui gli aguzzini volevano informazioni a ogni costo.
Era un ritratto che seguiva un’iconografia orientale, importata da Costantinopoli ma poco nota in Europa, ed era presente in molte commende dell’ordine in forme diverse: come icona su legno, come bassorilievo, in forma di un telo di lino che però ne portava la rappresentazione del corpo per intero.
L’ultimo di questi oggetti fu visto solo da alcuni frati nel sud della Francia: non sembrava un dipinto ma piuttosto un’immagine dai tratti indefiniti, ed era un’immagine monocromatica.
Si trattava di un ritratto assolutamente particolare, impossibile da riconoscere per chi non fosse consapevole di certi fatti: riproduceva il Cristo in una versione tragicamente umana, lontanissima da quella del Risorto che i Templari erano abituati a vedere di solito.
E tutto lascia pensare che i dirigenti dell’ordine ebbero le loro ragioni per decidere di mantenere segreta la sua esistenza.
Secondo Ian Wilson la sindone ripiegata in modo da lasciar vedere solo l’immagine del volto era in realtà un oggetto a suo tempo posseduto dagli imperatori bizantini, ritenuto fra le più venerate e preziose reliquie della cristianità: era un ritratto autentico del viso di Gesù che ne riproduceva fedelmente la fisionomia.
Ian Wilson crede che la sindone-mandylion sparì da Costantinopoli durante il terribile saccheggio che la città dovette subire al tempo della quarta crociata (1204).
Restò nascosta per molti decenni, poi ricomparve nell’anno 1353 presso Lirey, una cittadina della Francia centrosettentrionale: in quell’anno il cavaliere Geoffroy de Charny, Portaorifiamma nell’esercito di re Giovanni il Buono nonché uomo tra i nobili più in vista a corte, donò la singolare reliquia alla chiesa collegiata che aveva appena fondato proprio a Lirey.
La sindone cominciò a essere esibita alla venerazione come vero sudario del Cristo in una serie di ostensioni solenni che attirarono l’entusiasmo dei fedeli e le gelosie del vescovo locale; passata dopo varie vicissitudini nelle mani della famiglia Savoia, fu custodita dapprima a Chambéry presso la sontuosa Sainte-Chapelle del palazzo ducale, poi trasferita a Torino dove si trova tuttora.
Il legame con l’ordine dei Templari è stato suggerito a Ian Wilson dalla circostanza che l’uomo morto sul rogo insieme a Jacques de Molay si chiamava Geoffroy de Charny, cioè esattamente come il proprietario della sindone a Lirey.
Alcuni sollevano un’obiezione a quest’ultimo punto e sostengono che il primo possessore della sindone si trova nominato come Geoffroy de Charny, mentre il cognome del Precettore templare in Normandia compare nei vari documenti che lo citano in forme diverse, cioè Charny ma anche Charneyo, Charnayo, Charniaco.
A loro giudizio ci sarebbe insomma una piccola differenza di suoni e ciò basterebbe per supporre che si trattò di due persone diverse.
Mi permetto di far notare che in un registro amministrativo del tempo di re Filippo vi di Valois il cognome del primo possessore della sindone è reso con le forme de Charneyo e anche Charni, Charnyo oppure Charniaco proprio come si trova per il suo parente templare Geoffroy morto sul rogo il 18 marzo 1314 insieme a Jacques de Molay.
Un simile ragionamento che pretende di spaccare il capello in quattro sulle varianti d’ortografia del latino medievale può essere dato in pasto solo a chi non ha alcuna pratica di documenti del medioevo.
Il discorso sarebbe giusto se il nostro personaggio fosse vissuto nella Francia di Napoleone o di Victor Hugo, ovvero in un mondo dominato dalla carta stampata e soprattutto con una cultura che è ormai ufficialmente in francese.
Per la società del medioevo le cose sono completamente diverse.
Gli atti del processo contro i Templari, come un numero incalcolabile di altri documenti della stessa epoca, furono scritti a mano e questo significa che si potevano facilmente commettere piccoli errori; ma soprattutto, venivano composti in latino da alcuni notai che traducevano simultaneamente mentre ascoltavano i testimoni parlare nella loro lingua nativa, in questo caso il francese.
Quanto possiamo trarre dai documenti del processo contro i Templari conferma l’ipotesi di Wilson.
Geoffroy de Charny apparteneva alla cerchia ristretta dei fedeli di Jacques de Molay ed era l’unico compaignon dou Maistre cui Nogaret riconobbe un potere tale nel Tempio da rinchiuderlo nelle prigioni di Chinon insieme ai membri dello Stato Maggiore: il tipo di isolamento prescelto, e il fatto di volerli negare al Papa che desiderava interrogarli, fa supporre che Charny e gli altri fossero in grado di dare una testimonianza determinante.
Geoffroy veniva da una famiglia di rango cavalleresco ed era diventato templare nel 1269 presso la magione di Étampes, nella diocesi di Sens: la sua cerimonia d’ingresso fu celebrata da un alto dignitario templare chiamato Amaury de La Roche, di cui parleremo in seguito, un personaggio di primo piano nell’ordine del Tempio ma anche uomo legatissimo alla corona di Francia.
Dovette trattarsi di una cerimonia importante, visto che anche il precettore di Parigi Jean le Franceys si spostò dalla sua magione per assistere alla cerimonia.
Nato intorno al 1250, il cavaliere Geoffroy de Charny nel 1294 era responsabile della magione di Villemoison, in Borgogna, e un anno più tardi, a soli 45 anni, deteneva la responsabilità della provincia templare di Normandia; fece un carriera prestigiosa, ma non fu solo il suo grado gerarchico a determinarne il potere e il prestigio nel Tempio.
Le fonti templari documentano che quest’uomo fu sempre molto vicino alla persona di Jacques de Molay; nel 1303 era nella magione di Marsiglia dove assistette all’ingresso di un giovane servitore del Gran Maestro, preposto alla cura dei suoi arnesi e dei suoi cavalli, il quale fu ricevuto da Symon de Quincy allora soprintendente alla traversata verso Outremer.
Marsiglia era il principale porto francese d’imbarco verso l’Oriente ed entrambe le testimonianze affermano che i frati presenti in quel capitolo partirono poi alla volta di Cipro: una norma degli statuti gerarchici templari proibiva ai precettori delle province occidentali di recarsi in Outremer a meno che non obbedissero a un espresso ordine del Gran Maestro, dunque è sicuro che Geoffroy de Charny si trovava in quel luogo mentre era in viaggio con gli altri frati per raggiungere Jacques de Molay.
Esisteva di sicuro un forte legame di amicizia personale fra il Gran Maestro e Geoffroy de Charny: la cronaca nota come Continuazione di Guillaume de Nangis ricorda che solo il Precettore di Normandia volle seguire Molay sul rogo gridando alle folle, durante l’ultimo appello loro concesso, che il Tempio era innocente e non aveva tradito la fede cristiana.
Geoffroy de Charny sembra costantemente fra i più importanti dignitari del Tempio.
C’è anche un altro dettaglio.
Se guardiamo ai documenti del processo nella loro interezza, notiamo che il Precettore di Normandia Geoffroy de Charny era noto ai confratelli anche con un soprannome che indicava la sua zona d’origine, come noi oggi diremmo “il toscano” o “il siciliano”.
Charny era chiamato anche le berruyer, che nel francese trecentesco significava “originario del Berry”: è la zona oggi detta Champagne berrichonne, la quale nel tardo medioevo si trovava incuneata fra i due grandi potentati feudali del conte di Champagne e del duca di Borgogna.
Si tratta proprio della zona dove vissero e fiorirono i de Charny, che infatti dovettero sempre barcamenarsi nel difficile gioco dei poteri imposto dalla presenza di queste due grandi signorie.
Il Precettore templare di Normandia Geoffroy de Charny e il Portaorifiamma di Francia che possedeva la sindone alla metà del Trecento appartenevano con ogni probabilità alla stessa famiglia, anche se le fonti non ci permettono di vedere in dettaglio quale fosse l’esatto legame di parentela.
I de Charny si erano legati all’ordine del Tempio verso la fine del XII secolo: nel 1170 Guy vendette al Tempio un bosco ma i suoi figli Haton e Symon, 11 anni più tardi, doneranno all’ordine 15 arpenti di terra, mentre nel 1262 un altro membro del lignaggio, Adam, donerà all’ordine il feudo di Valbardin.
È da notare che queste donazioni si facevano spesso come “dote” per un figlio che entrava nell’ordine.
Il dominio templare a Charny distava soltanto un quarto di lega dalla commanderia.
Grazie al cartulario di Provins veniamo a conoscenza del fatto che nel 1241 viveva un templare chiamato Hugues de Charny, il quale potrebbe ben essere uno zio del futuro Precettore di Normandia.
La famiglia ebbe a che fare (seppur in via indiretta) con un altro evento che riguardò la sindone da vicino: la quarta crociata, con il tremendo saccheggio di Costantinopoli durante il quale la reliquia sparì.
Il conte Guillaume de Champlitte, uno dei maggiori baroni che parteciparono alla presa di Costantinopoli e divenne poi principe di Acaia, chiese in moglie Elisabeth del lignaggio di Mont Saint-Jean, signori di Charny.
Già dalla metà del XII secolo il feudo di Charny era intimamente legato alla famiglia de Courtenay: Pietro i de Courtenay, signore anche di Charny e ultimo figlio del re di Francia Luigi il Grosso, era il padre di Pietro ii de Courtenay destinato a divenire imperatore di Costantinopoli nel 1205; un anno dopo la conquista della capitale greca, cioè proprio nel 1205, un personaggio del lignaggio de Courtenay risiede nel castello di Charny.
Più tardi, anche quando i greci ripresero il controllo dell’impero d’Oriente, i de Charny mantennero legami concreti con i feudi che si erano creati laggiù: agli inizi del Trecento il cavaliere Dreux de Charny sposò la nobildonna Agnès erede della signoria greca di Vostzitza.
Le fonti note indicano comunque che la famiglia de Charny non entrò in possesso della sindone all’indomani del grande sacco, bensì molti decenni più tardi.
(©L’Osservatore Romano – 17 giugno 2009) FRALE B., I Templari e la sindone di Cristo, il Mulino,Bologna,2009 , pp.251, ISBN 272, 978-88-15-13157-7, pp. € 16,00 I Templari, l’ordine religioso-militare più potente del Medioevo, con tutta probabilità per un certo periodo custodirono la sindone oggi conservata a Torino.
Venerato nel più rigido segreto e conosciuto nella sua reale natura solo dai maggiori dignitari dell’ordine, il telo era conservato nel tesoro centrale dei Templari, che avevano fama di essere autorità nel campo delle reliquie.
In un’epoca di confusione dottrinale diffusa in gran parte della Chiesa, la sindone per i Templari rappresentava un potente antidoto contro il proliferare delle eresie.
Seguendone l’itinerario nel corso del Medioevo l’autrice procede anche a ritroso nel tempo, fino agli albori dell’era cristiana, aprendo una prospettiva nuova sulla controversa reliquia.
Barbara Frale, storica ed esperta di documenti antichi, è ufficiale dell’Archivio Segreto Vaticano.
Studiosa dei Templari e delle crociate, ha scritto “L’ultima battaglia dei Templari” (Viella, 2001), “Il papato e il processo ai Templari” (Viella, 2003) e “I Templari” (Il Mulino, 2004; trad.
inglese, francese, spagnola, portoghese, polacca e ceca).