Il cielo in una stanza

L’approccio post-romantico al paesaggio, colto e talvolta sottilmente ironico che ha caratterizzato molta della nostra produzione fotografica dagli anni Settanta fino ai primi Novanta, è andato progressivamente trasformandosi e dilatandosi in un sempre più evidente e aggressivo lavoro di documentazione e manifestazione delle mutazioni ambientali, industriali e post-industriali in atto nel nostro Paese.
Come ovunque del resto, ricerche sovente proposte in forma di racconto o di raccolta di immagini quasi inaspettatamente obbligavano il pubblico a riflettere, a domandarsi la ragione dei contenuti, e non solo a contemplare gli scatti riprodotti.
  Con una selezione di giovani autori della scena fotografica italiana, la rassegna IL CIELO IN UNA STANZA tenta la codificazione di un linguaggio differente, frutto di una ricerca che nasce da un gioco tra continuità e rottura e pertanto volta ad un confronto critico e dialettico con la tradizione.
Non vi sono sinergie fra le opere presentate ma una comune capacità di intenti, un dialogo fra inquadrature apparentemente differenti ma concepite su un comune sentire, basate su una rinnovata fiducia nella sintesi della narrazione.
A conferma della sua natura aperta, il dialogo si evolve e modifica  rispondendo alle varie sollecitazioni: a dispetto dell’attuale crisi vi è la necessità di elaborare una risposta sì perturbativa ma fondativa, che immagini un diverso atteggiamento nei confronti del futuro prossimo.
  Al di là dei segni espressivi che connotano il concetto stesso di Natura, gli autori invitati nella mostra esprimono un’acuta sensibilità nelle loro opere, una passione nel descrivere che, memore di un profondo cambiamento in atto, estromette di fatto lasciti tardo-postmoderni a favore di una fenomenologia emotiva rinnovata.
  La mostra è organizzata all’interno del progetto Aeson – Arti nella Natura che si svolge in concomitanza presso la Riserva Naturale Regionale Foce dell’Isonzo in collaborazione con l’Associazione Ecopark.
Aeson – Arti nella natura è un festival di ricerca e sperimentazione artistica, una proposta per vivere la natura in modo creativo e dinamico, un percorso per riscoprire paesaggi e luoghi di confine.
  GC.
AC – Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone, piazza Cavour 44 IL CIELO IN UNA STANZA .
Per una osservazione eccentrica del paesaggio Inaugurazione venerdì 17 luglio 2009, ore 19 Apertura 17 luglio > 2 agosto 2009, Orario dal mercoledì alla domenica, 17.00 > 20.00 Info tel.
0481 494 360 – 46262 / galleria@comune.monfalcone.go.it / www.galleriamonfalcone.it Ingresso libero   AESON .
Arti nella natura Un The con gli Artisti sabato 18 luglio 2009, ore 17.30 Apertura 12 luglio > settembre 2009 Info tel.
349 1530844 / www.aeson.it / www.isoladellacona.it Ingresso libero Quando sei qui con me / questa stanza non ha più pareti / ma alberi, alberi infiniti quando sei qui vicino a me / questo soffitto viola / no, non esiste più.  Io vedo il cielo sopra noi / che restiamo qui / abbandonati / come se non ci fosse più / niente, più niente al mondo.
(Gino Paoli, Mogol, Il cielo in una stanza, 1960).
  La Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Monfalcone presenta, venerdì 17 luglio 2009 una nuova importante mostra dedicata alla fotografia di paesaggio nella sua accezione più contemporanea.
Il Cielo in una Stanza espone 27 fotografi che hanno saputo interpretare in maniera nuova e personale una delle discipline da sempre più praticate della fotografia.
Con il titolo della mostra, il direttore della Galleria Andrea Bruciati, ha voluto donare un primo omaggio a Gino Paoli, un grande artista e poeta dai natali monfalconesi, che riceverà poi ad ottobre dal Comune il prestigioso riconoscimento della Rocca d’Oro.
  Artisti invitati: Marco Campanini, Marco Citron, Emanuele Colombo, Ettore Favini, Michael Fliri, Linda Fregni Nagler, Christian Frosi, Andrea Galvani, Luigi Ghirri, Claudio Gobbi, Andreas Golinski, Stefano Graziani / Giulia Nomis, Teodoro Lupo, Domenico Mangano, Tancredi Mangano, Margherita Morgantin, Giovanni Ozzola, Andrea Pertoldeo, Daniele Pezzi, Alessandro Piangiamore, Claudia Pozzoli, Antonio Rovaldi, Sara Rossi, Richard Sympson, Nicola Uzunovski.

Assicurare la qualità dei sistemi di istruzione

I PLAs durano 2-3 giorni, si svolgono in Paesi sempre diversi, e coinvolgono mediamente i rappresentanti di 12-15 Paesi europei, chiamati a riflettere su alcune esperienze significative realizzate dal Paese ospitante, attinenti alla tematica oggetto dell’iniziativa, e soprattutto a mettere a confronto le soluzioni e le problematiche emergenti nelle diverse situazioni nazionali.
Il ruolo degli esperti europei (per l’Italia ha partecipato Orazio Niceforo) è quello di stimolare questi processi di confronto e apprendimento collaborativo, non quello di fornire un modello di riferimento, anche se, ovviamente, tutti i partecipanti sono invitati a tenere presente il Quadro di riferimento europeo per l’assicurazione della qualità (European Quality Assurance Reference Framework – EQARF).
Nei diversi Paesi che aderiscono alla rete ENQA-VET sono operativi i Reference Point nazionali, che hanno il compito di diffondere a livello nazionale la cultura e gli strumenti per l’assicurazione della qualità in campo formativo: quello italiano fa capo all’ISFOL (www.isfol.it) e ne è responsabile Giorgio Allulli, che è anche il vicepresidente dell’ENQA-VET.
Si è tenuta la scorsa settimana a Vienna per iniziativa dell’ENQA-VET – il network europeo che si occupa dell’assicurazione di qualità nell’ambito dei sistemi di istruzione (soprattutto ma non solo professionale) – la periodica riunione degli esperti che hanno seguito o seguiranno in futuro le attività di “peer learning”.
I PLAs (Peer Learning Activities) sono iniziative di tipo seminariale, dedicate di volta in volta a una tematica considerata rilevante ai fini del miglioramento della qualità dei sistemi (esempi: l’accreditamento delle scuole e dei centri di formazione, la valutazione di sistema, il dialogo sociale, la formazione dei formatori).

Una Conferenza di tutte le Chiese europee

“Siamo convinti che una Conferenza di tutte le Chiese europee possa, concordemente, rispondere al meglio al comandamento sacro del ristabilimento della comunione ecclesiale e servire l’uomo contemporaneo posto di fronte a una moltitudine di problemi complessi”: è la proposta lanciata ieri, domenica, dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, all’assemblea della Conferenza delle Chiese europee (Kek) in corso di svolgimento a Lione dal 15 al 21 luglio.
Nel testo dell’allocuzione quel “tutte” appare in neretto, a sottolineare la volontà del Patriarca ortodosso di allargare, di “migliorare l’impegno ecumenico” già garantito dalla cooperazione tra la Kek e il Consiglio delle conferenze episcopali d’Europa (Ccee).
”Proponiamo – ha detto Bartolomeo – di porre in essere un modo di cooperare meglio organizzato e strutturato fra queste due istanze”.
Al riguardo, il Patriarca ecumenico ha ricordato che “la Chiesa di Costantinopoli aveva proposto, durante l’ottava assemblea della nostra conferenza”, tenuta all’Accademia ortodossa di Creta nel 1979, “che la Chiesa cattolica romana divenisse in futuro membro della Kek”.
Bartolomeo non nasconde che “questa sfida non è facile e che si mostrerebbero necessari dei lavori preparatori e degli emendamenti ai relativi regolamenti”.
Tuttavia, la creazione di una Conferenza di tutte le Chiese europee consentirebbe “di promuovere più efficacemente il dialogo delle Chiese d’Europa con le istituzioni europee e l’Unione europea”.
Questo dialogo, “instaurato da molto tempo dalla nostra Chiesa”, ha detto ancora Bartolomeo, è “prezioso e necessario non solo per le Chiese ma anche per le istanze politiche dell’Unione europea, e soprattutto per i popoli dell’Europa”.
La risposta da parte cattolica non si è fatta attendere.
Interpellato dai giornalisti a margine dell’assemblea della Kek, l’arcivescovo di Lione, cardinale Philippe Barbarin, ha detto – riferisce il Sir – che scriverà direttamente al Papa per informarlo dell’idea lanciata da Bartolomeo.
“Il Patriarca – ha dichiarato il porporato – ha espresso la speranza che si intensifichino i rapporti con la Chiesa cattolica ed è andato oltre questa affermazione”.
Barbarin, come del resto ricordato da Bartolomeo, ha spiegato che tale proposta non rappresenta una novità perché la questione è già stata posta dalle Chiese in passato, aggiungendo che ciò implicherebbe “modificazioni strutturali abbastanza importanti” e una certa correlazione con la non partecipazione della Chiesa cattolica al Consiglio ecumenico delle Chiese.
L’arcivescovo di Lione ha tenuto a distinguere due piani: da una parte “il terreno concreto della collaborazione che esiste e può essere sicuramente intensificato”, dall’altra “la questione dell’integrazione della struttura che presuppone una riflessione”.
L’appello, “forte, pieno di speranza e fraterno”, è stato tuttavia “ascoltato”.
Al riguardo, il presidente della Kek, Jean-Arnold de Clermont, ritiene “possibile avere un Consiglio di tutte le Chiese cristiane in Europa”, un luogo attorno al quale “si incontrano tutti i cristiani d’Europa per elaborare un messaggio comune da portare alle società europee”.
Tornando al discorso del Patriarca ecumenico, egli ha sottolineato “le nostre responsabilità e i nostri obblighi nei confronti della Kek” e quelli che “ci spettano riguardo al comandamento di nostro Signore”, il quale “ci impone di fare tutto il possibile per ristabilire la piena comunione fra le Chiese cristiane in Europa”.
Rifacendosi al tema dell’assemblea riunita a Lione – Chiamati a una sola speranza in Cristo – Bartolomeo ribadisce che “ciò costituisce la nostra speranza e la nostra incrollabile convinzione”.
La Conferenza delle Chiese europee festeggia quest’anno il cinquantesimo anniversario della fondazione.
Mezzo secolo caratterizzato, secondo il Patriarca di Costantinopoli, da tante luci ma anche da qualche ombra.
Durante questo periodo – ha detto – “sono stati elaborati innumerevoli documenti di tenore ecumenico, testi di grande profondità teologica, come la Charta oecumenica, che è il frutto degli sforzi congiunti di tutte le Chiese d’Europa, e cioè della Kek e della Ccee”.
Tuttavia, ricorda Bartolomeo, “come è stato sottolineato nel messaggio della iii Assemblea ecumenica europea, a Sibiu nel 2007, numerose proposizioni della Charta non sono state né assorbite dalla coscienza dei nostri fedeli né, a fortiori, applicate dalle nostre Chiese”.
Sono restate “lettera morta”, incapaci di produrre i risultati positivi sperati.
La conclusione è che “i nostri discorsi si dimostrano non essere coerenti con i nostri atti”, circostanza che “intacca la credibilità delle nostre Chiese e dà l’impressione, tanto all’interno che all’esterno, che esse sono incapaci di trovare delle soluzioni ai problemi esistenti”.
Un aspetto toccato anche da fratel Alois, priore della comunità ecumenica di Taizé, che nella meditazione tenuta sabato a Lione nel tempio della Chiesa riformata si è chiesto: “Come essere credibili, parlando di un Dio dell’amore, se i cristiani restano separati?”.
L’avvenire della nuova Europa in costruzione, senza i valori spirituali cristiani, “che toccano tutto ciò che concerne il sostegno e la protezione della persona umana e della sua dignità”, è “buio, perfino incerto”, ha concluso il Patriarca ecumenico di Costantinopoli.
(giovanni zavatta) (©L’Osservatore Romano – 20-21 luglio 2009)

XVII Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: 2Re 4,42-44 In quei giorni, da Baal Salisà venne un uomo, che portò pane di primizie all’uomo di Dio: venti pani d’orzo e grano novello che aveva nella bisaccia.
Eliseo disse: «Dallo da mangiare alla gente».
Ma il suo servitore disse: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?».
Egli replicò: «Dallo da mangiare alla gente.
Poi-ché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”».
Lo pose davanti a quelli, che mangiarono e ne fecero avanzare, secondo la parola del Signore.
Il brano fa parte del ciclo di Eliseo (2Re 2,1-9,10; 13,14-21), del quale si narrano l’inter-vento negli affari politici del tempo, il ruolo da lui svolto nella rivolta di Iehu e i prodigi, fra cui questo della moltiplicazione delle primizie offerte all’uomo di Dio.
Il possidente terriero proveniente da Baal Salisa (l’attuale Ketr-Tilt distante 26 km a o-vest di Galgala), porta, secondo le prescrizioni di Levitico 23,17-18 («Porterete dai luoghi do-ve abiterete due pani per offerta con rito di agitazione, i quali saranno di due decimi di efa di fior di farina e li farete cuocere lievitati; sono le primizie in onore del Signore»), «il pane di primizia», fatto cioè con il raccolto dell’anno e destinato a Dio.
Con la sua offerta esso vuole onorare l’uomo di Dio, che dal contesto risulta essere chiaramente Eliseo.
La pietà del profeta verso la folla che soffre la fame a causa della carestia (v.
38) spinge Eliseo a dividere generosamente l’offerta con i cento discepoli dei profeti che lo seguiva-no.
La quantità è sufficiente solo per venti dei presenti.
L’obiezione del servo è motivata: «Come posso mettere questo davanti a cento persone?» (v.
43a).
Ma più forte della ragione umana è la fede del profeta nell’intervento di Dio: «Dallo da mangiare alla gente.
Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avanzare”» (v.
43b).
Dio non delude chi confida nel suo nome e dona ai suoi eletti più di quanto sia necessa-rio: «Dallo da mangiare alla gente.
Poiché così dice il Signore: “Ne mangeranno e ne faranno avan-zare» (v.
44).
Seconda lettura: Efesini 4,1-6 Fratelli, io, prigioniero a motivo del Signore, vi esorto: comportatevi in maniera degna della chiamata che avete ricevuto, con ogni umiltà, dolcezza e magnanimità, sopportandovi a vicenda nell’amore, avendo a cuore di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.
Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo.
Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti.
Questo brano della lettera agli Efesini presenta un discorso parenetico che ha per contenuto l’esortazione all’unità per mezzo dell’amore.
Quello di Paolo è un premuroso incoraggiamento.
È Paolo stesso, infatti, che invita in prima persona, presentandosi non solo come «l’Apostolo di Cristo», ma anche come «prigioniero a motivo del Signore».
Per effetto della sua esperienza di sofferenza ha acquistato una sapienza delle cose divine e quindi può esortare i membri della comunità a una vita che corrisponda alla beneficenza divina.
La condotta corrispondente si attua soltanto se i membri della Chiesa, rinunciando alla superbia, si lasciano guidare dall’umiltà collaborando col prossimo.
Accanto all’umiltà si trova la mansuetudine o mitezza che consiste in un comportamen-to pacifico e paziente, dolce e amichevole che trae origine dal timore di Dio e dall’amore.
All’umile mansuetudine si accompagna la magnanimità, dono dello Spirito, che è sop-portazione paziente e longanime del prossimo e che sgorga dalla carità.
Paolo completa e precisa il suo pensiero esortando i fedeli a sopportarsi nell’amore che avviene quando si perdonano reciprocamente, mantenendo e custodendo la pace.
Ciò che i cristiani devono custodire, però, non è stato prodotto da essi, né deve essere da essi acquisito, ma è stato loro concesso e devono semplicemente custodirlo.
Ciò che devono custodire è l’unità dello spirito: il pneuma (lo spirito), infatti, è la forza che produce e conserva l’unità.
Chi è anche solo pigro nel custodire l’unità tiene una condotta indegna della sua vocazione, dimostrando di mancare di umiltà e mansuetudine, di pazienza e magnanimità, di libertà d’amore.
L’unità si custodisce nel vincolo della pace, nella pace alla quale i fedeli sono stati am-messi quando hanno accolto la chiamata di Dio.
L’esortazione a custodire l’unità è fondata e giustificata dal fatto che uno è il corpo, uno lo spirito ed unica anche la speranza.
Non custodire l’unità dell’unico corpo significherebbe negare l’unità dell’unico spirito, ledere la nuova natura in cui i credenti vivono dal momento del battesimo.
Significherebbe negare l’unità dell’unico Signore, della sola fede, del solo battesimo.
Dall’unica Chiesa, attraverso l’unico Signore, lo sguardo dell’Apostolo giunge all’unico Dio, che è il supremo e più intimo fondamento dell’unità.
In definitiva l’unità si fonda sul fatto che nei cristiani abita l’unico Dio.
Vangelo: Giovanni 6,1-15 In quel tempo, Gesù passò all’altra riva del mare di Galilea, cioè di Tiberìade, e lo seguiva una grande folla, perché vedeva i segni che compiva sugli infermi.
Gesù salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli.
Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei.
Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?».
Diceva così per metterlo alla prova; egli infatti sapeva quello che stava per compiere.
Gli rispose Filippo: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa riceverne un pezzo».
Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?».
Rispose Gesù: «Fateli sedere».
C’era molta erba in quel luogo.
Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini.
Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano.
E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto».
Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d’orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato.
Allora la gente, visto il segno che egli aveva compiuto, diceva: «Questi è davvero il profeta, colui che viene nel mondo!».
Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo.
Esegesi Con una indicazione generica di tempo (v.
1: «Dopo questi fatti»), l’evangelista racconta un trasferimento di Gesù all’altra riva del lago di Galilea, cioè a quella orientale, e lo colloca lontano dalla città santa.
Da dove venga la folla, che compare improvvisamente (v.
2: «…
e lo seguiva una grande folla »), qui non è detto.
Di un seguito di tanta gente non si fa mai parola nel Vangelo di Giovanni.
Le folle inizialmente seguono Gesù per i segni che egli compie sugli infermi, ma ora partecipano al prodigio straordinario della moltipli-cazione dei pani.
Tuttavia, il giorno seguente, rifiuteranno la rivelazione del Figlio di Dio e non lo riconosceranno (6,26ss).
Il monte (v.
3: «Gesù salì sul monte»), su cui Gesù si reca con i suoi discepoli, non è una montagna qualsiasi, ma il monte della Galilea.
Monte teologico e punto fondamentale di interesse per i Sinottici che vi collocano i fatti più importanti della vita di Gesù.
L’inte-resse di Giovanni è anch’esso teologico e non geografico e segue la tradizione biblica che presenta Dio che si rivela sul monte (il Sinai).
Anche l’annotazione sull’imminenza della Pasqua ha un significato teologico e corri-sponde pienamente allo stile dell’evangelista che inquadra i vari episodi della vita di Ge-sù nelle principali feste giudaiche (2,13; 7,2; 11,15).
C’è però molto di più: Gv 6,4 sembra, infatti, porre la moltiplicazione dei pani sotto il segno della pasqua cristiana, l’Eucaristia.
L’esplicitazione che la pasqua è la festa dei giudei sembra insinuare che al tempo dell’e-vangelista si celebrava un’altra pasqua (quella cristiana), riattualizzata nel sacramento dell’Eucaristia.
Giovanni non si sofferma a sottolineare la compassione di Gesù per la folla.
A differen-za dei Sinottici, è Gesù che rivolge a Filippo la domanda per metterlo alla prova (v.
5: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?») e non i discepoli.
Un acquisto rilevante di pane, quanto si sarebbe potuto comprare con un denaro (il salario giornaliero di un operaio), sarebbe stato ugualmente insufficiente.
Lo sforzo umano, infatti, anche se generoso, è sempre insufficiente a saziare, mentre l’intervento del Verbo incarnato appaga non solo i bisogni dei presenti, ma di tutto il mondo, come insinua la raccolta dei dodici pezzi avanzati.
L’informazione data da Andrea sul ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci è pro-pria del quarto vangelo: solo Giovanni scrive che i pani erano d’orzo, per indicare che si tratta di cibo dei poveri e per rievocare l’analogo prodigio operato dal profeta Eliseo (2Re 4,42-44).
Giovanni (ma anche i Sinottici) sottolinea che sul posto c’era molta erba tipico della pri-mavera in Palestina.
Questa osservazione concorda con quella di 6,4 sulla vicinanza della Pasqua.
Il numero dei commensali, come la menzione dei gesti del Maestro, fanno parte della tradizione comune e sono riferiti allo stesso modo dai Sinottici.
Le particolarità più rilevanti del quarto vangelo si trovano nell’uso del verbo euchari-stéin (rendere grazie) che sostituisce eulogéin (benedire) dei Sinottici, nella presenza del participio anakéimenois (seduti) e nella distribuzione dei pani fatta da Gesù in persona.
Nella moltiplicazione dei pesci adopera òpsos invece di ichthys.
Anche l’ordine di radunare i pezzi avanzati è proprio di Giovanni.
I Sinottici, infatti, non riportano questo ordine del Maestro.
L’annotazione finale, sui dodici cesti di pezzi avanzati, dopo che le cinquemila persone si erano saziate, sottolinea per contrasto l’abbondanza e la ricchezza del dono di Gesù, co-me avviene alle nozze di Cana per il vino (Gv 2,1-11).
Gv 6,14 descrive la reazione della folla dinanzi al prodigio straordinario e ricorda l’en-tusiasmo del popolo ebreo in attesa del Messia.
Il Maestro è riconosciuto come il profeta atteso per la fine dei tempi dalla folla sfamata, ma il passo finale ci fa capire che l’entusia-smo messianico della folla è di carattere politico (6,15).
La folla vuole rapire Gesù per far-lo re, ma siccome la sua regalità è fraintesa dalla folla egli fugge sul monte (6,15), per sottrarsi al loro sguardo.
Meditazione «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cos’è questo per tanta gente?» (v.
9).
Effettivamente, davanti ad una folla di cinquemila uomini – senza contare le donne e i bambini – chi non si porrebbe una simile domanda? Che chiede, peraltro, risoluzione pressoché immediata! Ma, a ben pensarci, a ogni livello, da quello economico a quello educativo, da quello religioso a quello relazionale, chi si sente certo di poter offrire a ognuno ciò che gli è necessario per una crescita sana e completa? Chi non si sente inadeguato dinanzi al compito di diventare adulto, a qualunque epoca, situazione, cultura appartenga? Questa cruda constatazione non è conferma del detto ‘mal comune, mezzo gaudio’, ma forse ci aiuta a relativizzare le affermazioni spavalde di chi, magari politico, assicura la risoluzione di ogni problema in scioltezza…
Ma torniamo al nostro brano, che ci pone drammaticamente dinanzi alla dimensione più essenziale della nostra stessa sussistenza: il cibo.
Il pane, evidente immagine simbolica dell’elemento più elementare e necessario per la nostra vita, non c’è.
O almeno, non c’è per tutti.
La nostra superficialità e la nostra ricchezza occidentale ci permettono di riuscire a dimenticare che ogni giorno nel mondo migliaia di persone muoiono di fame e di sete.
Le ragioni sono molteplici e il vangelo non è un testo di strategia socio-politico-economica (anche se questa dimensione non è esclusa).
Eppure ci può aiutare ad affrontare in modo più corretto la totalità della nostra – e altrui – vita.
Si può, ad esempio, osservare che se cinque pani e due pesci non sono praticamente nulla per un’immensa folla come quella che Gesù aveva raccolto attorno a sé, è altrettanto vero che sono tanti per una sola persona.
Perché i beni essenziali sono nelle mani di pochi, di pochissimi? Una riflessione sulla nostra sobrietà e sulla nostra volontà di condivisione di quei beni che per essenza non possono diventare strumento di ricatto e di schiavitù ver-so altre persone meno fortunate di noi – perché solo di fortuna si tratta: che merito c’è nell’essere nato in una zona del mondo piuttosto che in un’altra? – si impone.
Ma poi, ci poniamo questa domanda – «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v 5) – oppure resta un optional per ‘anime belle’? Quale prezzo siamo disposti a pagare perché vi sia oggettivamente una migliore giustizia per tutti? Non a caso la domanda viene posta da Gesù.
Il racconto di questo grande segno, riportato – unico caso nei vangeli, segno che effettivamente il fatto è storico e ha stupito non poco – anche da Matteo, Marco e Luca, ci svela impietosamente quale fu il suggerimento dato dai discepoli al Signore: «Congeda la folla perché vada nei villaggi a comprarsi da mangiare» (Mt 14,15).
Detto altrimenti, ‘si arrangino’! Cosa fa allora Gesù? Innanzi tutto non fa un discorso: di ottimi e unanimemente condi-visi principi morali e spirituali.
Non lo fa nemmeno per prendere tempo.
O meglio, il di-scorso lo tara, bellissimo e profondo, il più lungo mai riportato nei vangeli, capace di far interrogare tutti i presenti sul senso di quanto appena avvenuto (cfr.
vv.
22-59).
Ma, ap-punto, lo farà solo dopo aver agito, solo dopo aver preso a cuore questa impellente urgenza alimentare.
E per prima cosa fa sedere i presenti (cfr v.
10), li mette comodi: c’è un desiderio e uno stile di qualità dietro questo particolare.
Non si vuole ‘fare la carità’ – intendendo quest’espressione nel peggior modo possibile, ovvero mantenendo ben evidenti le distanze tra chi dona e chi riceve esasperando l’umiliazione degli indigenti – ma raggiungere una relazionalità accogliente, attenta, umana.
Successivamente si parte da quello che si possiede, da quanto – seppur pochissimo che sia – viene messo a disposizione di Gesù.
La rinuncia a trattenere solo per sé, con il rischio che tolga al possessore la propria sicurezza, è una forza inestimabile di condivisione.
E Gesù ringrazia, il Padre e – certamente – anche l’offerente.
E nelle mani di Gesù avviene la possibilità che ognuno trovi nutrimento sufficiente, anzi abbondante (cfr.
vv.
11-13).
Era già successo nei tempi antichi, quando un altro ragazzo, Davide, offrendo anch’egli la disponibilità a giocare tutta la sua vita e affidandosi alla forza di Dio, aveva vinto Golia con una fionda e qualche ciottolo di fiume (cfr.
1Sam 17).
Solo Gesù è in grado di colmare la nostra fame e sete di vita, di una vita piena.
Lui de-sidera nutrire la nostra esistenza, essere il cibo che rende bella e giusta la nostra vita.
Ma lo vuole per tutti, proprio tutti.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Sofferenza Se qualche volta la nostra povera gente è morta di fame, ciò non è avvenuto perché Dio non si è preso cura di loro, ma perché voi ed io non abbiamo dato, perché non siamo stati uno strumento di amore nelle sue mani per far giungere loro il pane e il vestito ne-cessario, perché non abbiamo riconosciuto Cristo quand’egli è venuto, ancora una volta, miseramente travestito nei panni dell’uomo affamato, dell’uomo solo, del bambino senza casa e alla ricerca di un tetto.
Dio ha identificato se stesso con l’affamato, l’infermo, l’ignudo, il senza tetto; fame non solo di pane, ma anche di amore, di cure, di considerazione da parte di qualcuno; nudità non solo di abiti, ma anche di quella compassione che veramente pochi sentono per l’individuo anonimo; mancanza di tetto non solo per il fatto di non possedere un riparo di pietra, bensì per non aver nessuno da poter chiamare proprio caro.
(MADRE TERESA, Sorridere a Dio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 1998, 28-29).
Questi è davvero il profeta Furono riempite dodici ceste.
Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale.
Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentir-ne parlare, rimaniamo freddi.
Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo.
Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede.
Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi.
Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: «Beati quelli che non vedono e credono» (Gv 20,29).
Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire.
Ci siamo così veramente sa-ziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell’orzo.
Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? «Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta» (Gv 6,14).
[…] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l’ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: «Susciterò per loro un profeta simile a te» (Dt 18,18).
Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà.
E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli.
Lo stesso Signore dice di se stesso: «Un profeta non riceve onore nella sua patria» ( Gv 4,44).
Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta.
Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli.
Egli stesso è detto angelo del grande consiglio.
E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr.
Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.
(AGOSTINO DI IPPONA, Commento al vangelo di Giovanni 24,6-7, NBA XXIV, pp.
564-566).
Il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro «Anche se ormai pochi ci fanno caso, ogni volta che le comunità cristiane si riuniscono per celebrare il grande mistero della loro fede lo fanno con il pane e il vino disposti su una mensa che i cristiani chiamano la «tavola del Signore».
È così che mettono davanti a Dio tutta la creazione, tutto l’universo fisico, sintesi di ciò che vive, e insieme il lavoro dell’uomo, sintesi della fatica, della tecnica, della scienza, della capacità di abitare il mondo.
E con spirito di profezia compiono sul pane e sul vino il gesto compiuto da Gesù, promessa di trasfigurazione di questo mondo e delle loro vite nella vita del loro Signore: al cuore della vita spirituale più intensa, il pane con la sua ma-terialità e il suo significato appare come la realtà, il cibo capace di narrare il più grande mistero cristiano.
Anche cosi si illumina la capacità del pane di essere simbolo della condivisione: chi mangia il pane con un altro non condivide solo lo sfamarsi, ma inizia con il condividere la fame, il desiderio di mangiare, che è anche il primo impulso dell’essere umano verso la felicità.
Noi uomini abbiamo fame, siamo esseri di desiderio e il pane esprime la possibilità di trovare vita e felicità: da bambini mendichiamo il pane, divenuti adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano, vivendo con gli altri siamo chiamati a condividerlo.
E in tutto questo impariamo che la nostra fame non è solo di pane ma anche di parole che escono dalla bocca dell’altro: abbiamo bisogno che il pane venga da noi spezzato e offerto a un altro, che un altro ci offra a sua volta il pane, che insieme possiamo consumarlo e gioire, abbiamo soprattutto bisogno che un Altro ci dica che vuole che noi viviamo, che vuole non la nostra morte ma, al contrario, salvarci dalla morte».
(Enzo BIANCHI, Il pane di ieri, Torino, Einaudi, 2008, 44-45).
Offerta la mondo Noi cittadini e cittadine del mondo, gente del cammino, gente che cerca, eredi del legato di antiche tradizioni, vogliamo proclamare: – che la vita umana è, per se stessa, una meraviglia; che la natura è la nostra madre e il nostro focolare, e che dev’essere amata e preservata; – che la pace dev’essere costruita con sforzo, con la giustizia, col perdono e la generosità; – che la diversità di culture è una grande ricchezza e non un ostacolo; – che il mondo ci si presenta come un tesoro se lo viviamo in profondità, e le religioni vogliono essere dei cammini verso tale profondità; – che, nella loro ricerca, le religioni trovano forza e senso nell’apertura al Mistero inafferrabile; – che fare comunità ci aiuta in questa esperienza; – che le religioni possono essere un punto di accesso alla pace interiore, all’armonia con se stesso e col mondo, ciò che si traduce in uno sguardo ammirato, gioioso e grato; – che noi che apparteniamo a diverse tradizioni religiose vogliamo dialogare tra di noi; – che vogliamo condividere con tutti la lotta per fare un mondo migliore, per risolvere i gravi problemi dell’umanità: la fame e la povertà, la guerra e la violenza, la distruzione dell’ambiente naturale, la mancanza di accesso ad un’esperienza profonda di vita, la mancanza di rispetto per la libertà e la differenza; – e che vogliamo condividere con tutti i frutti della nostra ricerca delle aspirazioni più alte dell’essere umano, nel rispetto più radicale di ciò che ciascuno è e col proposito di poter vivere tutti insieme una vita degna di essere vissuta.
(Testo elaborato dalle diverse tradizioni religiose radunate per il IV Parlamento delle Religioni del Mondo, a Barcellona nel 2004).
Rese grazie per insegnarci a rendere grazie Il fatto che Gesù sollevasse gli occhi e vedesse venire la moltitudine è segno della compassione divina, perché egli è solito andare incontro con il dono della misericordia celeste a tutti quelli che desiderano venire a lui.
E perché non si perdano nel cercarlo, è solito aprire la luce del suo spirito a coloro che corrono a lui.
Che gli occhi di Gesù indichino spiritualmente i doni dello Spirito, lo testimonia Giovanni nell’Apocalisse; costui, parlando di Gesù simbolicamente, dice: «Vidi un agnello che stava in piedi, come sgozzato, con sette corna e sette occhi, che sono gli spiriti di Dio mandati su tutta la terra» (Ap 5,6).
[…] Il Signore diede i pani e i pesci ai discepoli e i discepoli li distribuirono alla folla.
Il mistero dell’umana salvezza iniziò a narrarlo il Signore e dai suoi ascoltatori è stato confermato fino a noi.
Spezzò i cinque pani e i due pesci e li distribuì ai discepoli quando svelò loro il senso per comprendere ciò che su di lui era stato scritto nella Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi (cfr.
Lc 24,44-45).
I discepoli li offrirono alla folla quando «predicarono dovunque con l’aiuto del Signore, che confermava la parola coi miracoli che l’accompagnavano» (Mc 16,20).
[…] E non bisogna trascurare che quando fu sul punto di rifocillare la folla, Gesù rese grazie.
Rese grazie per insegnare anche a noi a rendere sempre grazie per i doni celesti che riceviamo e per mostrarci quanto egli stesso gioisce dei nostri progressi, della nostra rigenerazione spirituale.
[…] Saziata la moltitudine, Gesù comandò ai discepoli di raccogliere gli avanzi perché non andassero perduti.
«Li raccolsero e riempirono dodici canestri di avanzi» (cfr.
Mc 6,43).
Poiché con il numero dodici si è soliti indicare la somma della perfezione, con i dodici canestri pieni di avanzi si intende tutto il coro dei dottori spirituali, ai quali viene ordinato di radunare, meditare, consegnare allo scritto e conservare per uso proprio e del popolo i passi oscuri delle Scritture che il popolo da sé non riesce a comprendere.
Così hanno fatto gli apostoli e gli evangelisti inserendo nelle loro opere non poche citazioni della Legge e dei Profeti da loro interpretate in modo spirituale.
Così hanno fatto alcuni loro discepoli, maestri della chiesa su tutta la terra studiando accuratamente interi libri dell’Antico Testamento, e anche se sono strati disprezzati dagli uomini, sono ricchi del pane della grazia celeste.
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sul vangelo 2,2, CCL 122, pp.
195-198).
Preghiera Con i tuoi segni, Gesù, vuoi farmi conoscere la tua identità di Figlio di Dio e introdurmi nel mistero della tua persona e della tua missione.
Perdona il mio pragmatismo che si ferma all’interesse immediato, alla superficie della realtà.
Non so darti il poco che possiedo; ma poi, quando con quel poco tu operi grandi cose, vi resto abbarbicato e non vado più in profondità, dove tu mi vuoi condurre.
Un Dio che risolve i problemi contingenti della vita mi va bene, ma un Dio che mi propone di es-sere sempre dono totale e gratuito per gli altri mi scandalizza.
Tu mi ripeti, Gesù, che pro-prio questa, invece, è la mia vocazione di figlio del Padre.
Ancora una volta, alla tua scuola, che io impari ad amare.

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrive al Papa sulla “Caritas in Veritate”

Il Presidente Giorgio Napolitano ha inviato una lettera a S.S.
Benedetto XVI in merito all’enciclica “Caritas in Veritate”, di seguito il testo.
Ho letto con grande interesse la Sua terza enciclica Caritas in veritate che, rivolta anche “a tutti gli uomini di buona volontà”, porta il Suo messaggio all’interno di società in cui vi è in questi anni apprensione ed incertezza non solo per le prospettive e per il futuro dell’economia mondiale e dello sviluppo, ma anche per i cambiamenti che si vanno delineando nei rapporti umani, nel mondo del lavoro e dell’impresa, nelle relazioni tra gli abitanti del pianeta e l’ambiente e le risorse naturali che per molto tempo sono state considerate inesauribili.
Sono certo che i temi centrali che riguardano la vita dell’uomo in rapporto ai suoi simili e le grandi questioni che toccano le nostre società, così come delineati nell’enciclica e collegati da quel filo rosso che Ella ha saputo così chiaramente rendere visibile nel testo, costituiranno uno stimolo ad una riflessione che potrà risultare benefica per tutti.
L’affermazione di Vostra Santità che oggi la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica costituisce in effetti un invito ad un ripensamento approfondito e sereno di molti aspetti della vita e del funzionamento degli aggregati umani, con particolare riferimento “al senso dell’economia e dei suoi fini” e alla necessità di una “revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni”.
Mi è gradita l’occasione, Santità, per ribadirLe le espressioni della mia più alta considerazione e della mia attenta partecipazione nel seguire lo svolgimento della Sua quotidiana ed estremamente impegnativa missione”.
Roma, 16 luglio 2009

Servizio Civile estero FOCSIV

per il bando 2009 del Servizio Civile Nazionale, Volontari nel mondo – FOCSIV cerca 250 volontari, di età compresa tra i 18 e i 28 anni, da inserire all’interno di 43 paesi per il progetto “Caschi bianchi: interventi umanitari in aree di crisi” per il Servizio Civile all’estero.
  Il Servizio Civile è un’opportunità unica per un importante anno di crescita umana e professionale e per contribuire alla lotta contro ogni forma di esclusione e povertà.
I giovani andranno ad inserirsi in progetti di sviluppo in 43 paesi di Africa, America Latina, Asia ed Europa, in base alle loro competenze per un percorso dal forte valore umano e per un’esperienza altamente formativa.
  Dai seguenti link potrete visionare i nostri progetti e scaricare la nostra locandina sul servizio civile all’estero:   – Progetti 2009  – Locandina   Per maggiori informazioni è possibile contattare lo sportello Informarvi – Tel.
06 6876706 Email informarvi@focsiv.it – o visitare il sito della FOCSIV, www.focsiv.it.
  Il termine ultimo per inviare la candidatura è il 27 luglio 2009 entro le ore 14.

«Gloria a Dio e onore a voi uomini artefici della grande impresa»

Si è tanto parlato in questi giorni, e in tutto il mondo, e con tutte le voci possibili, dell’impresa lunare; Noi stessi vi abbiamo dedicato qualche esclamazione ammiratrice, così che sembrerebbe ora cosa migliore per Noi tacerne che parlarne.
Ma, oltre il fatto che proprio domani la straordinaria escursione planetaria deve concludersi con il ritorno, che auguriamo felicissimo, degli astronauti sulla terra, questo avvenimento penetra talmente nella psicologia della pubblica opinione da costituire una sorgente di pensieri, di questioni, di spiritualità, che commetteremmo un peccato di omissione, se non Ci fermassimo, anche in questo familiare incontro, a meditarlo un po’.
È purtroppo vero che la superficialità è una abitudine di moda.
Anche le più forti impressioni, che a noi vengono dall’esperienza della vita moderna, si cancellano subito; o subito sono soverchiate da altre successive, così che spesso manca il tempo, manca la voglia di approfondirle, e di coglierne il significato, la verità, la realtà.
Ma in questo caso il trauma della novità e della meraviglia è così forte, che sarebbe stoltezza non riflettere su questa, possiamo dire, sovrumana e storica avventura, alla quale tutti abbiamo, come spettatori esterrefatti, in qualche modo – anche questo meraviglioso – assistito.
Ciascuno vi pensi a suo modo, purché vi pensi! L’importanza degli studi scientifici può essere di per sé oggetto di interminabili considerazioni.
Ad esempio, quella circa lo sviluppo e il progresso, che questi studi hanno avuto nel tempo nostro, fino a modificare la mentalità umanistica tradizionale della nostra cultura e della nostra scuola; il che vuol poi dire della nostra vita.
Il bilancio di questi studi positivi e scientifici è così attivo, che una grande attrattiva vi polarizza molta parte delle nuove generazioni, e un ottimismo sognatore sulle loro future conquiste ne fa quasi un’iniziazione profetica.
E sia pure.
Il campo scientifico merita ogni interesse.  Ma intanto potremmo, di passaggio, osservare come sia fuori luogo, almeno a questo riguardo, il disfattismo oggi di moda contro la società e la sua compagine, e in genere contro la vita moderna.
Questo disfattismo seduce oggi perfino qualche parte della gioventù, e altri uomini di pensiero e d’azione; li gratifica di audace progressismo, e sembra loro conferire una personalità superiore, quando li riempie di istinti ribelli e di spregiudicato disprezzo verso la nostra età e verso il suo sforzo creativo.
La vita invece è seria; e ce lo insegna la somma immensa di studi, di spese, di fatiche, di ordinamenti, di tentativi, di rischi, di sacrifici, che una impresa colossale, come quella spaziale, ha reclamati.
Criticare, contestare è facile; non così costruire, in questa iniziativa si comprende; ma parimente in altre moltissime da cui risulta la nostra presente civiltà.
Perciò Ci sembra che un dovere di ripensamento e di apprezzamento dei valori della vita moderna ci sia intimato dall’avvenimento che stiamo celebrando.
Noi non neghiamo alla critica i suoi diritti, né rimproveriamo al genio dei giovani il suo istinto di emancipazione e di novità.
Ma riteniamo non degno di giovani il decadentismo iconoclasta e privo di amore dei contestatori di mestiere.
I giovani devono sentire l’impulso ideale e positivo che loro è offerto dalla magnifica avventura spaziale.
Ed allora ecco un’altra considerazione.
Questo nostro aperto suffragio per la progressiva conquista del mondo naturale, per via di studi scientifici, di sviluppi tecnici e industriali, non è in contrasto con la nostra fede e con la concezione della vita e dell’universo, ch’essa comporta.
Basta ricordare quanto insegna a questo riguardo il recente Concilio (Gaudium et spes, nn.
37, 58, 59, ecc.).
Qui tocchiamo uno dei punti più delicati della mentalità moderna rispetto alla nostra religione cattolica, una religione cioè positiva, con sue dottrine ben determinate, e ordinate a sistema unitario, incentrato in Gesù Cristo, nel suo Vangelo, nella sua Chiesa.
Ora è facile riscontrare nella mentalità dell’uomo odierno, specialmente di quello dedicato agli studi scientifici, una duplice serie di difficoltà:  una di ordine essenziale, l’altra di ordine storico.
Come può, dice oggi lo studioso, entrare nello schema dogmatico e rituale della vita cattolica l’immenso patrimonio delle scoperte scientifiche, con l’impiego libero e totale della ragione, e con la concezione che ne risulta sul mondo e sull’umana esistenza? E come può, insiste lo studioso osservando i mutamenti continui, rapidi e macroscopici, che avvengono col volgere del tempo nel pensiero e nel costume dell’uomo moderno, rimanere intatta la religione tradizionale, racchiusa in una mentalità statica e d’altri tempi? Occorrerebbero libri interi, sia per formulare queste obiezioni capitali, sia per rispondervi.
Non è certo qui, né in questo momento che lo faremo.
Ma ora Ci basti rassicurarvi.
La fede cattolica, non solo non teme questo poderoso confronto della sua umile dottrina con le meravigliose ricchezze del pensiero  scientifico  moderno, ma lo desidera.
Lo desidera, perché la verità, anche se si diversifica in ordini differenti e se si appoggia a titoli diversi, è concorde con se stessa, è unica; e perché è reciproco il vantaggio che da tale confronto può risultare alla fede (cfr.
Gaudium et Spes, n.
44) e alla ricerca e allo studio d’ogni campo conoscibile.
È stata questa una delle affermazioni caratteristiche e più documentate del pensiero cattolico apologetico del secolo scorso e della prima metà del nostro secolo, con risultati magnifici, dei quali le nostre Università sono documenti gloriosi.  Adesso si profilano altre tendenze, che suppongono, non smentiscono la precedente:  quella, che si rifà alla famosa parola di sant’Agostino, e che possiamo dire psicologica:  “Tu, (o Signore), ci hai fatti per Te ed è inquieto il nostro cuore, finché non si riposi in Te” (Confess.
i, 1).
Il bisogno di Dio è insito nella natura umana, e quanto più essa progredisce tanto più essa avverte, fino al tormento, fino a certa drammatica esperienza, il bisogno di Dio.
Ovvero quella che, tanto per intenderci, potremmo dire la tendenza cosmica:  chi studia, chi cerca, chi pensa non può sottrarsi ad una obiettiva onnipresenza di Dio, antica verità, che il Libro sacro sempre ci ripete:  “Dove andrò io lungi dal Tuo spirito (o Signore), e dove fuggirò io dalla Tua faccia?” (Ps 138, 7).
Impossibile sottrarsi da questa presenza, di cui la materia, la natura è, per chi lo sa comprendere, un libro di lettura spirituale:  “In Lui (cioè in Dio, dice san Paolo) noi viviamo, ci muoviamo, ed esistiamo” (Act 17, 28).
Il Dio ignoto è sempre lì; ogni studio delle cose è come un contatto con un velo dietro il quale si avverte un’infinita palpitante Presenza.
Ora qui è l’attimo sublime, l’attimo della rivelazione, l’attimo in cui Cristo apre il velo e appare nella storica e semplice scena del Vangelo.
Chi è Cristo? Ecco la questione decisiva.
Risponde san Giovanni, al primo capitolo del suo Vangelo:  è il Verbo, è Dio, è Colui per virtù del Quale tutte le cose furono fatte.
E san Paolo confermerà:  è Colui che “è avanti a tutte le cose; e tutte le cose sussistono per lui” (Col 1, 17); ed è Colui che un giorno, il giorno finale “della restaurazione di tutte le cose” (della “apocatastasi”:  Atti degli apostoli, 3, 21) nel quale Egli con la sua potenza “assoggetterà a sé tutte le cose” (Phil 3, 21).
Cioè Cristo è l’alfa e l’omega, il principio e il fine (cfr.
Apoc 1, 8; 21, 6; 22, 13), non solo per i destini dell’uomo, ma per il cosmo intero, che in Lui ha il suo punto focale, donde ogni senso, ogni luce, ogni ordine, ogni pienezza.
Non temiamo, Figli carissimi, che la nostra fede non sappia comprendere le esplorazioni e le conquiste, che l’uomo va facendo del creato, e che noi, seguaci di Cristo, siamo esclusi dalla contemplazione della terra e del cielo, e dalla gioia della loro progressiva e meravigliosa scoperta.
Se saremo con Cristo saremo nella via, saremo nella verità, saremo nella vita.
(©L’Osservatore Romano – 20-21 luglio 2009)

“Iota unum”

 ROMANO AMERIO, Iota unum.
Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di Enrico Maria Radaelli, prefazione del card.
Darío Castrillón Hoyos, Lindau, Torino, 2009.
ROMANO AMERIO, Stat veritas.
Séguito a Iota unum, a cura di Enrico Maria Radaelli, Lindau, Torino, 2009.
Da domani fanno ritorno nelle librerie italiane, editi da Lindau, due volumi entrati tra i classici della cultura cattolica, il cui contenuto è in impressionante sintonia col titolo e col fondamento della terza enciclica di Benedetto XVI: “Caritas in veritate”.
I due volumi hanno per autore Romano Amerio, letterato, filosofo e teologo svizzero scomparso nel 1997 a 92 anni di età.
Un suo grande estimatore, il teologo e mistico don Divo Barsotti, ne sintetizzò così il contenuto: “Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente a un generale disordine mentale per cui viene messa la ‘caritas’ avanti alla ‘veritas’, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità”.
In effetti, Amerio vide proprio in questo rovesciamento del primato del Logos sull’amore – ossia in una carità senza più verità – la radice di molte “variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX”: le variazioni che egli descrisse e sottopose a critica nel primo e più imponente dei due volumi citati: “Iota unum”, scritto tra il 1935 e il 1985; le variazioni che lo portarono a porre la questione se con esse la Chiesa non fosse divenuta altra cosa da sé.
Molte delle variazioni analizzate in “Iota unum” – ma ne basterebbe una sola, uno “iota”, stando a Matteo 5, 18 che dà il titolo al libro – spingerebbero il lettore a pensare che una mutazione d’essenza vi sia stata, nella Chiesa.
Amerio però analizza, non giudica.
O meglio, da cristiano integrale qual è, lascia a Dio il giudizio.
E ricorda che “portae inferi non praevalebunt”, cioè che per fede è impossibile pensare che la Chiesa smarrisca se stessa.
Una continuità con la Tradizione permarrà sempre, pur dentro turbolenze che la oscurano e fanno pensare il contrario.
C’è uno stretto legame tra le questioni poste in “Iota unum” e il discorso di Benedetto XVI del 22 dicembre 2005 alla curia romana, discorso capitale per quanto riguarda l’interpretazione del Concilio Vaticano II e il suo rapporto con la Tradizione.
Ciò non toglie che lo stato della Chiesa descritto da Amerio sia tutt’altro che pacifico.
Benedetto XVI, nel discorso del 22 dicembre 2005, paragonò la babele della Chiesa contemporanea al marasma che nel IV secolo seguì al Concilio di Nicea, descritto da san Basilio, all’epoca, come “una battaglia navale nel buio di una tempesta”.
Nella postfazione che Enrico Maria Radaelli, fedele discepolo di Amerio, pubblica in coda a questa riedizione di “Iota unum”, la situazione attuale è paragonata piuttosto allo scisma d’Occidente, cioè ai quarant’anni tra il XIV e il XV secolo che precedettero il Concilio di Costanza, con la cristianità senza guida e senza una sicura “regola della fede”, divisa tra due o persino tre papi contemporaneamente.
In ogni caso, riedito oggi a distanza di anni, “Iota unum” si conferma libro non solo straordinariamente attuale, ma “costruttivamente cattolico”, in armonia col magistero della Chiesa.
Nella postfazione Radaelli lo mostra in modo inconfutabile.
La conclusione della postfazione è riprodotta più sotto.
Quanto al secondo libro, “Stat veritas”, pubblicato da Amerio nel 1985, esso è in lineare continuità col precedente.
Confronta la dottrina della Tradizione cattolica con le “variazioni” che l’autore ravvisa in due testi del magistero di Giovanni Paolo II: la lettera apostolica “Tertio millennio adveniente” del 10 novembre 1994 e il discorso al Collegium Leoninum di Paderborn del 24 giugno 1996.
Il ritorno in libreria di “Iota unum” e “Stat veritas” rende giustizia sia al loro autore, sia alla censura di fatto che si è abbattuta per lunghi anni su entrambi questi suoi libri capitali.
In Italia, la prima edizione di “Iota unum” fu ristampata tre volte per complessive settemila copie, nonostante le sue quasi settecento pagine impegnative.
Fu poi tradotto in francese, inglese, spagnolo, portoghese, tedesco, olandese.
Raggiunse decine di migliaia di lettori in tutto il mondo.
Ma per gli organi cattolici ufficiali e per le autorità della Chiesa era tabù, oltre che naturalmente per gli avversari.
Caso più unico che raro, questo libro fu un “long seller” clandestino.
Continuò a essere richiesto anche quando si esaurì nelle librerie.
La rottura del tabù è recente.
Convegni, commenti, recensioni.
“La Civiltà Cattolica” e “L’Osservatore Romano” si sono anch’essi svegliati.
All’inizio del 2009 una prima ristampa di “Iota unum” è apparsa in Italia per i tipi di “Fede & Cultura”.
Ma questa nuova edizione del libro ad opera di Lindau, assieme a quella di “Stat veritas”, ha in più il valore della cura filologica, da parte del massimo studioso ed erede intellettuale di Amerio, Radaelli.
Le sue due ampie postfazioni sono veri e propri saggi, indispensabili per capire non solo il senso profondo dei due libri, ma anche la loro perdurante attualità.
Lindau, con Radaelli curatore, ha in animo di pubblicare nei prossimi anni l’imponente “opera omnia” di Amerio.
> Grandi ritorni: Romano Amerio e le variazioni della Chiesa cattolica (15.11.2007) > “La Civiltà Cattolica” rompe il silenzio.
Su Romano Amerio
(23.4.2007) > Fine di un tabù: anche Romano Amerio è “un vero cristiano” (6.2.2006) > Un filosofo, un mistico, un teologo suonano l’allarme alla Chiesa (7.2.2005) __________ Su Enrico Maria Radaelli, discepolo di Amerio, e sul suo libro “Ingresso alla bellezza”: > Tutti a vedere il “sacro teatro dei cieli”.
Un teologo fa da guida
(15.2.2008) Qui di seguito ecco un brevissimo assaggio della postfazione a “Iota unum”: le considerazioni finali.
Tutta la Chiesa in uno “iota” di Enrico Maria Radaelli […] La conclusione è che Romano Amerio si rivela essere il pensatore più attuale e vivificante del momento.
Con il garbo teoretico che contraddistinse tutti i suoi scritti, egli offre con “Iota unum” un pensiero molto costruttivamente cattolico, colmando uno spazio filosofico e teologico altrimenti incerto su interrogativi gravi.
Egli individua e indica che nella Chiesa una crisi c’è, ed è crisi che pare anche sovrastarla, ma mostra che non l’ha sovrastata; che pare rovinarla, ma non l’ha rovinata.
Individua poi e indica con chiarezza la causa prima di questa crisi in una variazione antropologica e prima ancora metafisica.
Individua e indica infine gli strumenti logici (iscritti nel Logos) necessari e sufficienti (eroicamente sufficienti, ma sufficienti) per superarla.
E tutto questo Amerio lo fa sviluppando un “modello di continuità” con la Tradizione, di ordinata e perciò perfetta obbedienza al papa, di intima adesione alla regola prossima della fede, che parrebbe chiarire in tutto come va intesa quella “ermeneutica della continuità” richiesta da papa Benedetto XVI nel discorso alla curia romana del 22 dicembre 2005 per mantenersi sicuri sulla strada della ragione, che è a dire sulla strada della salvezza, ossia sulla strada della Chiesa per perseguire la vita.
Romano Amerio: critico sì, discontinuista mai.
Questo “modello di continuità” tutto ameriano attende solo di essere oggi finalmente riconosciuto, anzi, finalmente apprezzato.
Chissà: magari persino seguìto, per il bene comune (teorico e pratico, filosofico ed etico, dottrinale e liturgico) della Città di Dio, con la semplicità e il coraggio necessari.
Se con l’uso di ambiguità e di contraddizioni si è riusciti a compiere una rivoluzione antropologica verso le più vane fantasie, tanto più si potrà compiere, e con meno sforzo, una più sana rivoluzione antropologica verso la Realtà, giacché è più facile essere semplici che essere complessi.

La dimensione teologico-pastorale della “Caritas in veritate”

Vari i timori che hanno accompagnato la gestazione dell’enciclica: su tutti, la persuasione diffusa e condivisa che i temi sociali non appartenessero alle corde profonde della teologia e della pastorale di Joseph Ratzinger.
Un papa “teologo”: appassionato a questioni di fede e all’affermazione della verità soprattutto ad intra Ecclesiae, solo occasionalmente dedito a questioni ad extra Ecclesiae e soltanto quando si tratti di difendere la possibilità della religione di chiesa nel mondo e nella cultura post-moderni.
1.Carità nella verità: reciproca inclusione di teoria e prassi Invece il primo dato, emergente fin dal titolo, è l’affermazione dell’unità profonda di verità e di carità, di fede creduta e di vita vissuta, di fides quae e di fides qua.
Chi si occupa di teologia pastorale avrà tirato un sospiro di sollievo, ritrovando nella riflessioni introduttive (i nn.
1-7) il filo che trattiene inestricabilmente teoria e prassi, teologia speculativa e teologia pratica.
Su tale filo si regge la teologicità non solo della teologia pastorale ma anche della Dottrina sociale della chiesa, nonchè la loro legittimità, tanto ad intra che ad extra.
Il tema della reciproca inclusione di teoria e di prassi nonchè della loro specificità è giustificato dall’enciclica a partire da un’unità originaria del conoscere, che possiamo qui riassumere come unità di intelligenza e di amore.
Già in Deus caritas est, 10 il papa dimostrava come questo fosse un dato che sporge non solo dall’esperienza umana elementare, ma pure dalla rivelazione cristiana.
Si comprende così perchè la teologia si interessi di tutte le questioni pratiche umane, e dunque anche di quelle sociali.
Che l’azione sia inscritta nella comprensione, è tanto dato originario dell’uomo quanto nota peculiare della Rivelazione cristiana, la cui attestazione non è mai solo informativa, ma sempre performativa: cioè conversione interiore e cambio della vita.
Anche sociale.
2.
La Dottrina sociale ha il suo “luogo” nella Tradizione della fede apostolica “Appartiene da sempre alla verità della fede […] che la Chiesa, essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di verità” (n.11).
Tale dato originario è richiamato dal papa attraverso il rapporto che egli stabilisce tra l’enciclica, il Concilio, il magistero sociale precedente e soprattutto la Populorum progressio di Paolo VI (nn.
8-11 e l’intero primo capitolo), omaggiata di un impegnativo riconoscimento: “esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata come ‘la Rerum novarum’ dell’epoca contemporanea” (n.
8).
Questa unità tra pronunciamenti sociali diversi ma tutti con le medesime radici è spiegata dal papa come sviluppo della Tradizione della fede apostolica (n.
10).
Si tratta di un tema “classico” e in fondo prevedibile in un pontefice che interpreta il Concilio entro l’ermeneutica della continuità.
Ciò che appare se non nuova almeno ribadita con fermezza, è l’uso di una tale ermeneutica per il corpus della Dottrina sociale.
Il che può significare non tanto (come certamente si affanneranno a interpretare – e scrivere – altri, non noi) che al potenziale di emancipazione sociale iscritto nel cristianesimo si vuol mettere la museruola di una riduzione conservatrice, ma che nella chiesa non si è ancora sufficientemente compreso e agito intendendo la Dottrina sociale come “parte integrante della nuova evangelizzazione”.
Dunque come un ambito che non può essere trascurato dalla ordinaria predicazione e dalla pastorale ordinaria delle comunità cristiane.
La Dottrina sociale – nella sua valenza culturale e con la sua pretesa di offrire non solo precetti, ma anche una visione complessiva dell’uomo e della società, coestensiva alla visione cristiana della vita, è un capitolo strutturale del contributo che la fede cristiana può e desidera offrire al superamento della crisi della ragione moderna occidentale, ricollocando l’uomo nella sua costitutiva relazionalità sociale.
3.
Una questione sociale complessa, non solo per via della globalizzazione Tale “crisi antropologica” è in fondo alla base delle molte cose che non vanno anche in economia, politica e sistemi sociali vari (cfr.
n.
34), cosicchè si potrebbe sostenere che la questione sociale oggi viene a coincidere con la “questione antropologica” di ruiniana memoria (cfr.
n.
51).
La carità nella verità vede urgente ricomporre un intero che sia di nuovo l’uomo-non-scisso: in cui, ad esempio, fede e ragione si sostengono e si “allargano” a vicenda, i regni di Dio tornano ad essere uno (e non uno nella mano destra e un altro nella sinistra, come sosteneva Lutero), l’anima e il corpo non si ignorano tra loro, l’individuo sia parte di una società, e più in generale l’uomo non tratti Dio da nemico.
Tali scissioni – per certi versi senz’altro all’origine della modernità, nonchè di quell’esito che è la differenziazione luhmanniana – necessitano di essere risignificate anche nella sfera sociale della vita a partire da un centro.
Questo centro non può essere costitutito da un sottosistema-quale-che-sia (n.34).
La religione cattolica ritiene che dall’incarnazione del Figlio di Dio in poi, un tale centro sia offerto a tutti: in forza dell’unione ipostatica Dio e l’uomo non sono scissi o separati tra loro, così che il papa può sorprendentemente ri-affermare che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n.
8; PP n.
16).
Questo sviluppo ‘integrale’ si dà entro un’intelaiatura chel’enciclica tesse tra la questione della vita umana, quella del diritto al vangelo e quella sociale.
Proprio ricalcando il magistero montiniano, Benedetto XVI lega Humanae vitae (HV), Evangelii nuntiandi (EN) e Populorum progressio (PP).
La questione della vita umana (HV), del progresso sociale ed economico (PP) e del diritto al vangelo (EN) si saldano tra loro fondando la dignità inviolabile e l’effettiva possibilità dello sviluppo dei popoli e dei singoli a un livello che non rimanga puramente quello del potere e dell’economia (o del potere dell’economia).
Per quanto affermato fin dall’inizio a proposito del legame tra tra teoria e prassi, risulta chiaro che una certa visione della procreazione umana porta implicito un certo legame o non-legame con il Dio rivelato dal vangelo e dunque un certo modello di rapporti sociali ed economici.
E così via.
Sarà a carico di chi rigetterà l’enciclica esplicitare il proprio apparato teorico a riguardo dell’antropologia e dell’evangelizzazione, implicito in quel rifiuto pratico; e sostenere la congruenza tra la sua posizione e quella espressa da Gesù, così come ci è stata trasmessa finora.
Possibilmente, senza creare nuove scissioni.
4.
Gv 21, 25 a Cioè: “Vi sono ancora molte altre cose…” nell’enciclica che meriterebbero di essere riprese.
Una osservazione si può ancora fare: quanto è bella la chiesa quando non parla solo di se stessa! Quando il sale o il lievito di cui essa dispone vengono immessi dentro la pasta che è la vita del mondo.
Isolare le prese di posizione della Chiesa e trattarle come distillati da laboratorio, senza farli regire con situazioni e contesti concreti, non porta che a un’estenuazione del dato di fede.
A dibattiti che, avvitandosi su se stessi, rendono incomprensibile se non inutile la fede, perchè privata del suo essenziale supposto che è non l’uomo astratto, ma quello reale (cfr.
RH n.
14).
Che pena se la recezione dell’enciclica in Italia si limitasse al dibattito “meglio per la Chiesa lasciar perdere la bioetica e concentrarsi sulle questioni sociali”- come se non esistesse tra loro la connessione di cui sopra! Sarà interessante raccogliere le reazioni e i dibattiti di quanti sono impegnati nella pastorale sociale e nella Caritas, più o meno internationalis: ci aiuteranno a coniugare la carità nella verità? O si perpetueranno – anche qui – le “moderne” scissioni: carità/giustizia, evangelizzazione/promozione umana, impegno sociale/vita spirituale, cittadino/cristiano? ————- *Don Paolo Asolan insegna Teologia Pastorale all’Istituto Pastorale “Redemptor Hominis” della Pontificia Università Lateranense.

Dio o gli dei

GIAMPAOLO CREPALDI , Dio o gli dei.
Dottrina sociale della Chiesa: percorsi, Ediz.
Cantagalli, 2009, ISBN 978-88-8272-440-5.
pp.
192 ,euro 14,50  Benedetto XVI ci sta insegnando che assegnare un posto a Dio nella sfera pubblica è indispensabile perché le energie umane si possano pienamente sviluppare, suscitate dal ”Dio dal volto umano”.
In questa luce, anche la parola della Chiesa e con essa la sua dottrina sociale, acquistano la loro fondamentale importanza.
La Dottrina sociale della Chiesa non è un sapere marginale o residuale.
Essa, come afferma la Deus caritas est, è all’incrocio della fede e della ragione, e interloquisce a pieno titolo con i saperi che presiedono all’organizzazione del mondo.
Ecco l’importante novità di metodo di questo libro.
Vengono affrontati fondamentali problemi dell’età nostra e viene dimostrato sul campo che la Dottrina sociale della Chiesa ha una capacità orientativa insostituibile.