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Cultura e Religione
Nel corso di aggiornamento di Pozza di Fassa 2009 viene avviata la sperimentazione del nuovo testo di IRC “Cultura e Religione”.
La sperimentazione coinvolge venti docenti della scuola secondaria di secondo grado.
Si tratta di una sperimentazione non solo del testo ma anche dei nuovi strumenti on-line che dovranno affiancare i libri di testo.
Chiediamo la vostra collaborazione per collaudare e correggere questa nuova strumentazione, nella consapevolezza che stiamo creando qualcosa di nuovo e di originale che nel prossimo futuro aiuterà i nostri studenti nell’apprendimento della Religione Cattolica.
Sperimentazione di un nuovo testo con nuovi strumenti.
Nel corso di aggiornamento di Pozza di Fassa 2009 viene avviata la sperimentazione del nuovo testo di IRC “Cultura e Religione”.
La sperimentazione coinvolge venti docenti della scuola secondaria di secondo grado.
Si tratta di una sperimentazione non solo del testo ma anche dei nuovi strumenti on-line che dovranno affiancare i libri di testo.
Chiediamo la vostra collaborazione per collaudare e correggere questa nuova strumentazione, nella consapevolezza che stiamo creando qualcosa di nuovo e di originale che nel prossimo futuro aiuterà i nostri studenti nell’apprendimento della Religione Cattolica.
Cultura e Religione
Nel corso di aggiornamento di Pozza di Fassa 2009 viene avviata la sperimentazione del nuovo testo di IRC “Cultura e Religione”.
La sperimentazione coinvolge venti docenti della scuola secondaria di secondo grado.
Si tratta di una sperimentazione non solo del testo ma anche dei nuovi strumenti on-line che dovranno affiancare i libri di testo.
Chiediamo la vostra collaborazione per collaudare e correggere questa nuova strumentazione, nella consapevolezza che stiamo creando qualcosa di nuovo e di originale che nel prossimo futuro aiuterà i nostri studenti nell’apprendimento della Religione Cattolica.
Benevenuti nella nuova area di INTERSCAMBIO
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Premettrere al titolo dell’articolo il numero: 1 = testo 2 = strumenti di lavoro (test, questionari) 3 = Immagini coommetate 4 = video, filmati 5 = commenti e proposte ….non dovrebbe essere possibile per me modificare il tuo articolo! Un augurio di buon lavoro a tutti i coraggiosi sperimentatori.
Sembra complicato, ma in realtà è molto semplice ed è sempre la stessa procedura.
Sperimenteremo a Pozza insieme.
Proverete da soli la sera o nelle pause di lavoro.
A casa continuerete a provare mettendo sempre PROVA nel titolo degli articoli.
prova
Sperimentazione testo cultura e religione
Giugno
Le idee buddiste sulla morte sono fondate sull’antica dottrina indiana del samsara, variamente tradotto come “reincarnazione”, “trasmigrazione” o più semplicemente “rinascita”, ma che letteralmente significa “errare” da una vita a un’altra.
La religione indiana era giunta a ritenere che la vita fosse ciclica: una persona nasce, cresce, muore e quindi rinasce in un altro corpo per ricominciare il processo da capo.
La rinascita può avvenire come essere umano, divinità, fantasma o animale.
La natura della reincarnazione dipende dal karma o “azione” morale.
Chi accumula merito, o buon Karma, nel corso della vita rinascerà in una condizione più propizia della precedente, persino come un dio.
L’opposto capita se prevale il Karma negativo delle cattive azioni.
I colpevoli peggiori, prima di reincarnarsi in una differente forma, devono sradicare i propri demeriti soffrendo in uno degli strati dell’inferno, disposti in rapporto alla severità della loro punizione.
Il livello più basso è riservato a coloro che hanno ucciso i genitori o il maestro.
Il “risveglio” del Buddha ebbe inizio con la comprensione che tutta la vita è sofferenza.
Rimuovendo l’ignoranza Siddharta fu in grado di porre fine alla sofferenza in quell’esperienza che i buddisti chiamano nirvana, termine che letteralmente significa “estinguere” il fuoco del desiderio che il Buddha percepiva come il combustibile per il samsara e fonte della sofferenza.
Per la cultura tibetana la morte è, prima di tutto, un istante che ha un’importanza estrema: bisogna abbracciare coscientemente la morte perché possa condurre alla liberazione.
Essa rientra nel gruppo di quei momenti singolari della vita dell’uomo che il buddismo chiama bardo e a cui è riconosciuta una dignità particolare.
La morte è come un risveglio per colui che si è convenientemente preparato; costui vi può trovare la liberazione definitiva.
Il Libro tibetano dei Morti, il Bardo Thödol, non solo offre all’uomo la possibilità di farsi in anticipo un’idea di questo viaggio mentale tanto atteso, ma deve aiutarlo a esercitarsi in anticipo sul comportamento adeguato, grazie a determinate meditazioni e a determinati rituali.
L’individuo potrà così, nel momento decisivo, raccogliere il frutto di quegli insegnamenti ed esercizi; così la preparazione alla morte diventerà nello stesso tempo il senso della sua vita.
Introduzione Riprendiamo il discorso sulla vita e la morte nelle religioni iniziato il mese scorso con l’ebraismo e il cristianesimo per estenderlo qui all’islam, all’induismo e al buddismo.
Il tema si presta molto bene per un approccio comparativo delle religioni, così come indicato sia negli O.S.A delle Secondarie di Primo grado che in quelle del Secondo grado.
Qualunque siano le immagini, le rappresentazioni e le esperienze veicolate dalle risposte delle religioni alla questione della morte, colpisce il fatto che esse gettino sempre un ponte sulla questione del senso stesso della vita umana.
Dal momento in cui si parla della mortalità, non è possibile evitare di interrogarsi sul valore, sul senso di tutta una vita: confrontare la vita con la sua fine, vuol dire rimetterla radicalmente in discussione.
Ogni tentativo di elaborazione sulla propria mortalità conduce dunque necessariamente a produrre degli enunciati sul ruolo della vita terrena.
Tutta la filosofia induista è basata sul tentativo di migliorare la vita e, pur prendendo avvio da una visione pessimistica (la vita come sofferenza), giunge a una visione ottimistica della propria salvezza.
Si può così meglio comprendere l’atteggiamento fatalistico dell’uomo indù, la rassegnazione dell’individuo, la passività apparente, il non intervento dell’uno nella vita dell’altro.
L’uomo è il solo artefice del proprio destino: né gli dei né gli uomini possono intervenire a suo favore, è solo lui stesso che con la sua devozione può risvegliare in sé le forze purificatrici del suo destino.
Gli dei non sono che la manifestazione riflessa della natura stessa dell’uomo, dei processi vitali del suo corpo, degli impulsi che animano il mondo materiale, delle sue emozioni.
Essi non sono entità esterne all’uomo, ma sono le medesime potenze di cui è intessuto il suo essere, la qualità e i difetti che traspaiono nella stessa sostanza della sua anima durante il ciclo del karma.
Essere in accordo con la divinità, compiendo i riti e seguendo le leggi, significa essere d’accordo con se stessi e garantirsi una vita migliore prima o dopo la morte.
Ne consegue che l’etica nell’induismo è ben diversa da quella occidentale.
L’individuo deve comportarsi secondo le regole del karma-samsara per la sua salvezza che, in fondo, non è che il ritorno al mare dell’acqua contenuta in un vaso.
La vita dell’induista è rivolta a quattro scopi fondamentali: osservare le leggi universali divine, dharma; pensare al benessere proprio e della società, artha; soddisfare in modo lecito i propri desideri, kama; e infine la liberazione o la salvezza, moksha.
Persino nel perseguire questi quattro scopi vi è una progressiva purificazione.
I primi tre sono rivolti all’uomo coinvolto nel mondo che dovrà osservare attentamente il dharma nell’adempiere i propri doveri e le proprie responsabilità: è la via dell’azione, la via che insegna a compiere l’azione disinteressata, a sviluppare quella rinuncia ai propri egoismi, ad allargare il senso dell’io all’umanità intera.
Questa ricerca della verità pratica (sadhana) inizia dall’infanzia, quando, i genitori prima, e i maestri poi, iniziano il bambino all’ordine universale.
Le stesse preghiere lo abituano alla contemplazione del cosmo, gli fanno aprire la mente al valore dei principi universali.
L’idea dell’armonia del tutto assorbe quella della sua individualità e, come si dissolve la neve al sole, così si dissolve il suo egoismo nella vita universale.
Egli impara a riconoscere il mutuo scambio della vita, impara a usare ciò che ha; sapendo che nulla gli appartiene, ma che riceve in uso da Dio tutto, compresa la sua vita stessa.
Questa è la via del laico, di coloro che vivono nel mondo e nella società, stadio in cui non è chiesto di rinunciare al desiderio, ma di soddisfarlo secondo le leggi divine e s’impara così a utilizzare ciò che si ha per il benessere collettivo.
L’analogia tra il piano materiale e il piano spirituale viene affermata in ogni momento della giornata e anche il modo di vivere del laico conduce in maniera naturale alla spiritualità.
Le diverse sadhana sono altrettante vie che permettono di santificare l’esistenza umana e divinizzarla; ciò che vi è di comune è il metodo perseguito da ciascuna via e che prevede l’orazione, il rituale, la meditazione.
A seconda dei temperamenti dell’uomo, si percorrono tre differenti vie: la via della devozione, quella della conoscenza e quella dell’azione.
Esse non sono mai isolate l’una dall’altra, s’integrano e si completano.
Nessuna via esclude le altre.
Ricerca e purificazione sono mezzi necessari per la vera trasformazione dell’essere, per la realizzazione di uno stato di felicità e pace: quella gioia suprema che porta la conoscenza di Dio.
A seconda del grado di evoluzione di ogni singola persona, la sadhana accompagna il graduale risveglio dell’essere fino alla completa liberazione nella quale il ruolo della rinuncia gioca un aspetto fondamentale.
Nell’induismo, l’insegnamento della rinuncia, riferita alla vita monacale, non viene concesso a tutti ma solo alla persona qualificata.
Donare se stessi è uno dei più alti scopi, come l’atto di Dio che offre se stesso in quell’immenso sacrificio che è la creazione stessa.
Lavora e vivi come un atto d’offerta per ottenere fama immortale e completa soddisfazione di aver vissuto una vita.
Ricordati, tu sei figlio dell’immortalità e tutta la vita non è altro che un’offerta.
Non dimenticare mai che il nettare del fiore della grazia è per quelli che sacrificano e la vita offerta è la vita accettata.
Lascia che la sacra fiamma del fuoco divino brilli splendente nel tuo spirito.
(Atharva Veda 15-17-10) La concezione buddista della vita è racchiusa nelle Quattro Nobili Verità che rappresentano il nucleo della predicazione primitiva e che sono fondamentali per tutte le scuole.
La struttura di queste verità riproduce sostanzialmente lo schema diagnostico dell’antica medicina indiana, in cui si susseguono ordinatamente gli elementi che seguono.
1.
L’accertamento dei sintomi della malattia che provocano sofferenza in un malato sta alla base della comprensione del disagio esistenziale (dukkha) dell’individuo.
La presa di coscienza dell’universalità della sofferenza è fondamentale nell’iter intellettuale e meditativo che conduce al distacco dal mondo: «Tutto è soltanto dukkha per chi sa passare al vaglio l’esperienza», recita un celebre aforisma dei testi Yogasutra.
In tale presa di coscienza sono individuate successivamente delle modalità che conducono a comprendere che la nascita stessa è sofferenza, la vecchiaia è sofferenza, la malattia è sofferenza, la morte è sofferenza… La prima nobile verità rimanda, a un livello di maggiore profondità: al principio che la sofferenza è immanente all’esperienza, allorché ci si attacca ai cinque elementi (skandha) che la compongono.
2.
Dall’accertamento del morbo si passa alle sue cause: le cause della sofferenza esistenziale degli individui.
Esse sono individuate in quella “sete”, in quel “fuoco” insaziabile che, partendo dagli oggetti, arde i sensi e la mente e che mai potrà trovare appagamento negli oggetti stessi.
La seconda Nobile Verità distingue tre ordini di “oggetti”: a) il desiderio dell’oggetto bramato di tipo essenzialmente amoroso; b) l’esistenza intesa come auto perpetuarsi dell’individuo attraverso il ciclo delle rinascite; c) il desiderio di auto dissoluzione, fine bramato da chi è soggetto a gravi sofferenze.
3.
Così come la curabilità della malattia è data dalla soppressione delle sue cause, allo stesso modo la Terza Nobile Verità invita l’individuo a bloccare la sofferenza mettendo fine alla sete insaziabile.
Tradizionalmente viene qui presentata un’antichissima descrizione del Nirvana, concepito in termini negativi.
4.
La terapia per il malato necessaria alla sua guarigione, dipende dalla natura della malattia che si intende contrastare.
Analogamente la Quarta Nobile Verità introduce le tappe di una pratica ascetica che forma il Nobile Sentiero dalle Otto vie: esso coincide con una vista appropriata, una decisione appropriata, una parola appropriata, un’azione appropriata, dei mezzi di sussistenza appropriati, degli esercizi appropriati, un’attenzione appropriata, una concentrazione appropriata.
La medicina prende in considerazione le cause superficiali delle sofferenze; l’insegnamento buddista indaga sulle cause ultime per garantire un futuro stabile e felice.
Il Sutra del Loto definisce questo mondo come un luogo in cui «gli esseri viventi sono felici e a proprio agio».
Lo scopo della pratica buddista è proprio quello di metterci in grado di godere ogni istante che trascorriamo in questo mondo, fino all’ultimo momento della vita.
La vita nella concezione islamica è un’unità organica: Come potete essere ingrati nei confronti di Dio, quando eravate morti ed Egli vi ha dato 1a vita? Poi vi farà morire e vi riporterà alla vita, e poi a Lui sarete ricondotti.
(Sura, 2,28).
L’uomo ha infatti una consistenza sia fisica che spirituale, è un insieme di materia e di spirito che necessita di particolari cure e attenzioni.
Il sistema di vita islamico ha quindi origine direttamente da Dio che dà all’uomo le indicazioni e le leggi morali per realizzare la giustizia e la felicità già durante la vita terrena.
Lo scopo dell’Islam è quello di realizzare un’umanità sana, che dia importanza sia alla vita temporale che a quella spirituale, senza mortificare nessuna delle due sfere.
Sappiate che questa vita non è altro che gioco e svago, apparenza e reciproca iattanza, vana contesa di beni e progenie.
[Essa è] come una pioggia: la vegetazione che suscita, conforta i seminatori, poi appassisce, la vedi ingiallire e quindi diventa stoppia.
Nell’altra vita c’è un severo castigo, ma anche perdono e compiacimento da parte di Allah.
La vita terrena non è altro che godimento effimero.
(Sura 7,20).
La vita nell’Islam è un impulso verso il bene presente in ogni uomo.
La convinzione forte e radicata dell’esistenza di un Dio a cui dare conto delle proprie azioni fa in modo che per il musulmano sia del tutto naturale sottomettersi a Lui e alle sue leggi, realizzando così quella vita morale a cui l’uomo spontaneamente tende.
La fede è la forza che aiuta all’osservanza della morale.
Il digiuno osservato nel mese di Ramadan, ad esempio, è uno strumento di auto-controllo in una realtà sociale in cui le tentazioni sono molte e i freni morali sono messi alla prova.
Il musulmano praticante deve astenersi dal vizio ed evitare l’invidia che rappresenta un atto di ribellione alla volontà di Dio e al modo in cui Egli ha distribuito i suoi doni tra gli uomini.
La vita è la proprietà di tutti ed è un diritto inviolabile garantito dall’Islam.
I cittadini dello Stato islamico sono quindi sacri e inviolabili, che siano o no musulmani.
L’Islam invita alla comprensione tra i popoli e al superamento di ogni pregiudizio basato sulla diversità: O voi che credete! Siate testimoni sinceri di fronte a Dio secondo giustizia.
Non vi spinga all’iniquità l’odio per un certo popolo.
Siate equi: l’equità è consona alla devozione.
(Sura 5,8).
Il razzismo e qualsiasi tipo di discriminazione sono quindi estranei all’Islam.
1.
Cosa vuol dire che la vita, nella mentalità islamica, è un’unità organica? 2.
Che cosa condivide l’islam con l’ebraismo e il cristianesimo a proposito del tema della morte? 3.
Sai spiegare perché, nella concezione indiana della vita, prevale l’atteggiamento fatalistico? 4.
In che cosa consiste la legge del Karma? 5.
Come definiresti lo scopo della pratica buddista? 6.
Che cos’è il Bardo Thödol? La morte non è la fine della vita, ma solo la fine di uno stato; quando si muore l’anima si reincarna nuovamente, a seconda della condotta tenuta nella vita precedente.
Addirittura, in alcuni casi, ci si può reincarnare anche in animali (chi si è macchiato di colpe particolarmente gravi, è condannato a rinascere anche in un insetto).
La legge inesorabile del Karma lega l’uomo al ciclo della morte e delle rinascite; è la legge secondo la quale ognuno sarà ricompensato in base alle opere compiute; queste opere compiute durante la vita, infatti, lasciano una traccia nell’anima della persona che le ha compiute.
Questo lungo ciclo di rinascite, chiamato samsara (cioè pellegrinaggio) durerà fino al raggiungimento della virtù in possesso dell’uomo che ama Dio e desidera l’incontro con lui come bene supremo e che è capace di azioni buone e disinteressate.
Le reincarnazioni servono a purificare la propria anima, a espiare il peso delle vite precedenti.
Quando finisce il ciclo delle reincarnazioni, anche dopo 800 vite, la persona si immedesima, si dissolve nel Brahman, l’assoluto, realtà unica, perdendo ogni identità, giungendo all’illuminazione e alla conoscenza assoluta e sottraendosi alla vita terrena, che è soltanto apparenza, illusione e dolore.
La nascita e la morte non sono altro che momenti di mutamento nell’eterno flusso della vita.
Come un uomo smettendo i vestiti usati, ne prende altri nuovi, così proprio l’anima incarnata, smettendo i corpi logori, viene ad assumerne altri nuovi.
(Bhagavadgita) Samsara è il cerchio della nascita, della morte, della rinascita, della nuova vita e poi ancora della morte, e così all’infinito.
La fruizione dei desideri accumulati nelle esperienze è la spinta essenziale che, fino al suo totale esaurimento, determina il fenomeno di ritornare in un altro corpo.
Dissolvendo il velo della separazione e dell’ignoranza, si realizza lo scopo unico della vita, la realizzazione del Sé immortale.
La morte è considerata un punto importante del ciclo della vita.
È una realtà necessaria e anche desiderabile, perché la vita, se io non muoio, non può continuare e ricrearsi.
Non è una cosa spaventosa che bisogna combattere a ogni costo, ma un passaggio che bisogna accettare di compiere.
Il suicidio non è visto come una cosa drammatica, ma non è auspicabile.
La morte di un bambino è considerata un fatto anormale, e le morti per incidente appaiono come morti non naturali.
Nello stesso senso, la sofferenza fa parte del ritmo naturale delle cose, dato che la vita comporta inevitabilmente delle sofferenze, legate alla malattia (roga) o alla vecchiaia (jara).
Bisogna vivere attraverso la sofferenza e il dolore, fisico, mentale o spirituale che sia.
Bisogna tener conto del fatto che, se una persona è malata, lo sono anche la sua famiglia, la sua comunità e il cosmo stesso: l’interrelazione è totale.
Ognuno – afferma il dr.
Srinivas dell’Università di Pondicherry – dovrebbe desiderare di raggiungere l’obiettivo supremo della vita che non è altro che la realizzazione del Sé, la liberazione, l’emancipazione (moksha) da tutti i legami.
L’Islam non ritiene che la morte sia la conseguenza del peccato e la dedizione a Dio fa sì che la morte perda tutto ciò che ha di terribile.
Ogni anima gusterà la morte, ma riceverete le vostre mercedi solo nel Giorno della Resurrezione.
Chi sarà allontanato dal Fuoco e introdotto nel Paradiso, sarà certamente uno dei beati, poiché la vita terrena non è che ingannevole godimento.
(Sura 3,185) L’Islam ortodosso condanna ogni interruzione violenta della vita perché rappresenta un’intromissione illecita nelle competenze divine.
Secondo il Corano gli uomini e le loro opere, se buoni secondo le indicazioni islamiche, sono immortali.
Nella mistica islamica è presente anche l’idea che la morte sia una tappa del processo di crescita.
Il mistico Rumi (morto nel 1227) affermava nel suo Corano dei mistici: Guarda! Sono morto da pietra e sono germinato come pianta; sono morto da pianta e mi sono trasformato in animale; sono morto da animale e mi sono trasformato in un uomo.
Di che temo dunque se con la morte non posso trasformarmi in qualcosa di inferiore? Di nuovo, quando sarò morto come uomo, mi saranno date ali da angelo, ma anche come angelo dovrò essere sacrificato, dovrò diventare ciò che non comprendo, un alito divino.
L’Islam ha ripreso la topografia ebraico/cristiana dell’aldilà.
Per la tradizione, che aggiunge molto al Corano, il Paradiso è un luogo elevato «la cui estensione è quella dei cieli e della terra» e che ha per pavimento il trono di Allàh.
Secondo i testi si tratta di uno (o due) giardini, irrigati da due o quattro fiumi; comprende sette piani dei quali l’ultimo è riservato ai màrtiri.
L’inferno, sotto terra, è circondato da una muraglia con sette porte.
Le differenti tradizioni rivelano così il desiderio di disegnare una geografia ideale, una ripartizione spaziale dei defunti secondo la loro purezza e il loro grado di dedizione alla divinità, il valore assoluto.
Secondo la tradizione che riferisce, a tal proposito, alcuni detti del Profeta, Allah accetta il pentimento dell’uomo finché l’anima non risale nel corpo fino alla gola per fuggire via.
Ma non c’è perdono per coloro che fanno il male e che, quando si presenta loro la morte, gridano: «Adesso sono pentito!»; e neanche per coloro che muoiono da miscredenti.
Per costoro abbiamo preparato doloroso castigo.
(Sura 4,18).
Matteo Ricci
Gli sarebbero bastate “una casetta e una chiesuola” dove stare fino alla morte servendo Dio.
Così, felice in terra e sereno nell’anima, avrebbe compiuto i suoi giorni ricco di pace e di fede, più che di fama e di beni terreni.
La Provvidenza, però, volle assai più per il gesuita Matteo Ricci, umanista rinascimentale, uomo illustre di scienza e di lettere, missionario illuminato, “il saggio d’Occidente”: non solo trascorse ventotto fecondi anni, dal 1582 al 1610, nella Cina imperiale lontana e misteriosa, ma nel segno dell’armonia portò in quelle terre, modellate dal pensiero di Confucio e da culti antichissimi, la Buona Novella del Vangelo.
Accolto con rispetto e amicizia, si fece cinese ut Christo Sinas lucrifacere.
E in quell’impero così vasto e da lui così ammirato e rispettato, venne sepolto, “come il chicco di grano nascosto nel seno della terra per portare frutto abbondante”, scriveva, guardando al Celeste impero d’allora e alla Repubblica popolare di oggi, Giovanni Paolo II.
Una divina dinamica della missione che Giovanni XXIII, additando proprio padre Matteo come esempio nella lettera Princeps pastorum, semplicemente citando il Vangelo di Giovanni pone sotto la logica talvolta imperscrutabile del Buon Dio, poiché “chi semina non è lo stesso che raccoglie”.
È una vera avventura umana e spirituale quella di Matteo Ricci: per il secolo in cui si svolse, i luoghi che l’accolsero – Macerata, Roma, Coimbra, Goa, Macao, la Cina continentale fin verso Pechino – per la modernità dell’approccio missionario diventato modello di autentica, eppure vigile, inculturazione del Vangelo.
Un “apostolato originale e profetico”, ricorda Benedetto XVI, il cui stile fu improntato, come ancora rileva il Papa, dall’amicizia, dal rispetto e dalla stima reciproca.
Vi sono aspetti anche spettacolari, in questa vita esemplare, che visivamente possono avvincere: la scoperta della Roma pontificia; il fascino del viaggio e dell’ignoto; l’approccio a un Paese vastissimo e sconosciuto; gli usi, i costumi e le scienze così diversi, che pazientemente Ricci cerca di avvicinare e di integrare ai valori dell’Occidente e del cristianesimo.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Fare un “docufilm” su di lui può essere, per questi motivi, anche una brillante operazione di cinema e il regista d’origine kossovara Gjon Kolndrekaj ha colto con lungimiranza questi aspetti in Matteo Ricci, un gesuita nel Regno del Drago presentato in Vaticano.
Forte di una solida consulenza editoriale, religiosa e storica ha cercato di fornire più informazioni possibili, con una scelta forse arbitraria e dando un ritmo anche troppo affannato alle citazioni e alle immagini, come per trasmettere l’ansia missionaria e conoscitiva della quale Matteo fu investito.
Si coglie, però, anche la limitazione economica che deve avere imposto alla produzione di fare “di necessità virtù”: nella prima parte Matteo in costume entra e esce da troppe scale e saloni; poi da turista del XVI secolo percorre, trasognato, una Roma assai moderna; del suo lungo viaggio è detto e mostrato poco; infine del suo soggiorno in Cina cogliamo solo l’abito e la fluente barba bianca.
I mezzi della tecnologia e del cinema oggi possono invece fare meraviglie.
Basta seguire alcuni splendidi documentari inglesi e americani: assicurano, alternando il passato ricostruito da validi esperti al presente raccontato da illustri ospiti, un perfetto scorrere dei tempi, senza mancare un’informazione, un dettaglio, una curiosità, che diventano spettacolo.
Aiuterà probabilmente il libro che sarà stampato a supporto del film in dvd: insieme prepareranno ai grandi festeggiamenti del prossimo anno per il quarto centenario della morte di padre Matteo, oggi così caro alla diocesi di Macerata, alla Chiesa e alla Cina.
“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo”
Si è svolto a Reggio Calabria, presso l’Auditorium “Calipari” nel Palazzo del Consiglio Regionale della Calabria, il XLIII Convegno Nazionale dei direttori degli uffici catechistici diocesani, organizzato dall’Ufficio Catechistico Nazionale della CEI.
“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo” è stato il tema dei lavori, ispirato a 2 Cor 3,2 (“La nostra lettera siete voi…”). Si è aperto lunedì 15 giugno con il saluto e l’introduzione di don Guido Benzi, Direttore dell’Ufficio Catechistico Nazionale.
Tra le relazioni quelle di S.E.
Mons.
Lucio Soravito de Franceschi, Vescovo di Adria-Rovigo e Segretario della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi; di S.E.
Mons.
Bruno Forte, Arcivescovo di Chieti-Vasto e Presidente della Commissione Episcopale per la dottrina della fede, l’annuncio e la catechesi.
Mercoledì 17 giugno S.E.
Mons.
Mariano Crociata, Segretario Generale della CEI, è intervenuto sul tema “Comunità cristiane e accompagnamento delle persone in ricerca: ascolto, dialogo e questione educativa.” Il programma completo dei lavori del convegno e maggiori informazioni sulle modalità di partecipazione sono disponibili in rete, nel sito dell’Ufficio Catechistico Nazionale (http://www.chiesacattolica.it/pls/cci_new/%22http://www.chiesacattolica.it/ucn%22) Documenti allegati:InterventoMons.
Crociata.doc
Testrimoni del nostro tempo: Padre Pio
Ricordo di padre Pio Il frate e il sindaco socialista di Giuseppe Tamburrano Presidente della Fondazione Nenni La visita che il Papa farà alla tomba di padre Pio mi emoziona come figlio di San Giovanni Rotondo.
Una visita molto significativa perché non tutti nella Chiesa hanno amato il frate con le stimmate.
Ed evoca in me il ricordo di un villaggio contadino, di un piccolo convento francescano aggrappato alla roccia della montagna, di quel cappuccino con le mani piagate nei guanti e un volto sorridente, circondato dalla devozione quasi clandestina di pochi.
Non riesco a dissociare quelle mani e quel volto dai ricordi della mia prima giovinezza, ragazzo vivace, irriverente, propenso più a combattere per il paradiso sulla terra che ad aspirare a quello dei cieli.
Ribelle, ma padre Pio col suo sorriso dolce e ironico mi placava.
Mi voleva bene: chissà perché.
Forse perché sentiva in me il laico cristiano.
È stampato vividissimo nella mia memoria il suo viso trasfigurato, sofferente e rigato di lacrime mentre mi porge l’ostia della prima comunione.
Dopo le quotidiane sassaiole contro la squadra dei figli dei “signori” io, caporione della squadra dei figli dei “cafoni”, andavo al convento a preparare le recite che la maestra Cleonice organizzava in onore di padre Pio – ricordo sant’Agnese, interpretata da una bionda, eterea fanciulla che fu il mio primo amore: io ero nelle vesti del centurione Vinicio, convertito da Agnese – o a esercitarmi per le mie esibizioni canore: ricordo l’Ideale del Tosti che ho cantato accompagnato all’organo dal sacerdote Di Gioia.
E ricordo soprattutto l’atmosfera triste della mia casa, il volto afflitto di mio padre nel cavo della sua mano e i profondi, dolorosi sospiri di mia madre.
Mio padre, figlio di contadini, riuscì a laurearsi in giurisprudenza grazie ai sacrifici dei genitori.
Ma la passione politica lo infiammò più dell’agone forense.
Fu il leader del Partito socialista e fu eletto sindaco nelle elezioni dell’ottobre 1920.
Di quel tragico ottobre che, il giorno 14, registrò quattordici cadaveri e molti feriti tra i proletari – tante donne! – che volevano issare la bandiera rossa sul municipio e furono ricevuti a colpi di arma da fuoco dalla forza pubblica e dagli agrari.
Il destino di mio padre fu segnato: l’emarginazione sociale e civile e la miseria dell’esiliato in patria.
Mia madre apparteneva a una buona famiglia borghese e quanto era mite mio padre tanto ella era orgogliosa.
E la vedo curva sulla macchina da cucire Singer o con l’ago da ricamo lavorare per le sue “amiche” dell’establishment fascista.
E ricordo la zia Annina che viveva sola in una modesta abitazione ma godeva di buone rendite che divideva con la nipote prediletta: “Giusè, va’ a trovare zia Annina”, si raccomandava mia madre.
E mio padre, senza clienti e senza amici (tutti diventati fascisti) non diceva nulla: subiva, viveva triste, assente.
Dopo ho capito perché non voleva vedermi vestito da balilla moschettiere andare alle adunanze del sabato fascista.
“Tu lo vedi ora spento.
Avresti dovuto vederlo qualche anno fa: sembrava un leone con l’abbondante chioma al vento e la voce calda nei comizi proletari” mi diceva mia madre.
Ebbene quest’uomo mite, onesto, umiliato, escluso dal consorzio civile del paese trovò in padre Pio un vero amico, un cuore fraterno, una mente intelligente che sapeva come nessuno farlo sorridere e dargli la forza della speranza.
E non gli chiese mai: perché non entri in chiesa? Prima di morire, mio padre, cristiano autentico per tutta la vita, riconobbe il Dio cattolico.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009 Due sono le principali fonti autobiografiche di padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo Epistolario (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro Padre Pio sotto inchiesta.
L’autobiografia segreta (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel Diario di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, Padre Pio da Pietrelcina.
“Il cireneo di tutti” (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, Padre Pio da Pietrelcina, croficisso senza croce (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, Padre Pio.
Le stigmatisé (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo Un tormentato settennio (1918-1925) nella vita di padre Pio da Pietrelcina di Giuseppe Saldutto (Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); Alla scuola spirituale di padre Pio da Pietrelcina di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); Il Calvario di padre Pio, i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); I casi di morale di padre Pio di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), Don Luigi Orione e padre Pio da Pietrelcina.
Nel decennio della tormenta.
1923-1933.
Fatti e documenti, di Flavio Peloso (Milano, 1999); Il beato Pio da Pietrelcina di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); Il divenire inquieto di un desiderio di santità.
Padre Pio da Pietrelcina: saggio psicologico di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); L’itinerario di fede di padre Pio da Pietrelcina nell’Epistolario di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); Nella comunione dei santi.
Santa Gemma Galgani a san Pio da Pietrelcina di Luca Lucchini (Città del Vaticano, 2005) e L’epistolario di padre Pio.
Una lettura mistagogica di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, Oltre la sapienza di parola.
Paolo di Tarso e Pio da Pietrelcina: linee didattiche cristiane tra antichità e novità (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, Träger der Wundmale Christi (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri Le stigmate di padre Pio da Pietrelcina: testimonianze, relazioni (San Giovanni Rotondo, 1985); La trasverberazione di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1985); Atti del convegno di studio sulle stigmate del servo di Dio padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, Il Papa e il frate (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, La terza lettera di monsignor Wojtyla a padre Pio, pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, Molti hanno scritto di lui.
Bibliografia di padre Pio da Pietrelcina (San Giovanni Rotondo, 1986).
(francesco castelli) Due sono le principali fonti autobiografiche di padre Pio.
La prima è senz’altro costituita dal suo (i-iv, San Giovanni Rotondo, 1992).
Il primo volume, in particolare, ha un valore notevole essendovi raccolta la corrispondenza con i direttori spirituali nella quale il cappuccino svela gran parte della sua interiorità.
Vi sono poi le risposte giurate e sottoscritte da padre Pio davanti al visitatore apostolico, il vescovo Raffaello Carlo Rossi, nel 1921.
Si tratta di 142 dichiarazioni fino a poco tempo fa sconosciute, nelle quali il cappuccino rivela importanti e a volte decisivi aspetti della sua vita spirituale e mistica.
Durante l’esame stimmatico condotto dal visitatore apostolico, peraltro, padre Pio spiega fenomeni sinora ignoti relativi alle sue piaghe.
Tale documento è ora pubblicato integralmente nel libro (Milano, Edizioni Ares, 2008, pagine 328, euro 14, a cura di chi scrive).
Oltre alle fonti ricordate prima, sono state e certamente ne verranno pubblicate altre – cartoline, lettere, auguri e così via – che, per quantità e contenuto saranno però difficilmente avvicinabili al valore delle prime due.
Circa le fonti testimoniali, di notevole rilevanza sono gli appunti di uno dei suoi direttori spirituali, editi nel di Agostino da San Marco in Lamis, (San Giovanni Rotondo, 2003).
Possono poi essere utilmente lette le pubblicazioni di memorie o diari di tanti figli spirituali.
Richiedono tuttavia un attento vaglio critico.
Su san Pio, biografie scientifiche definitive non esistono giacché molti archivi – soprattutto quelli del Sant’Uffizio e dell’Archivio Segreto Vaticano – non sono ancora completamente esplorabili.
Tra le numerose biografie – spesso divulgative, ora devote, ora prevenute in senso opposto – segnaliamo quelle di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1991); di Ferdinando da Riese, (San Giovanni Rotondo, 1984) e di Yves Chyron, (Paris, 2004).
A queste opere va affiancata la lettura di monografie su questioni particolari.
Su tali argomenti ricordiamo di Giuseppe Saldutto(Roma, 1974, con buona ricostruzione storica); di Melchiorre da Pobladura (San Giovanni Rotondo, 1978); , i-ii di Giuseppe Pagnossin (Padova, 1978); di Luigi Di Matteo (San Giovanni Rotondo, 1991), , di Flavio Peloso (Milano, 1999); di Gerardo Di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 2001); di Giuseppe Esposito e Silvana Consiglio (Siena, 2002); di Luigi La Vecchia (San Giovanni Rotondo, 2003); di Luca Lucchini(Città del Vaticano, 2005) e di Luciano Lotti (San Giovanni Rotondo, 2006).
Tra gli studi recenti, di valore appare il volume di Carmelo Pellegrino, (San Giovanni Rotondo, 2007).
Per uno studio sulla stigmatizzazione del frate fondamentale appare la lettura dei lavori di Johannes Hocht, (Stein am Rhein, 1964) e di quelli curati da Gerardo di Flumeri (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1985); (San Giovanni Rotondo, 1988).
Sul rapporto di padre Pio con Giovanni Paolo II, ricordiamo il documento autobiografico del Pontefice pubblicato nel libro di Stefano Campanella, (San Giovanni Rotondo, 2007); circa la terza lettera di Wojtyla a padre Pio, rimandiamo all’articolo di chi scrive, , pubblicato nella rivista “Servi della Sofferenza”, XVIi, (2008), pp.
6-11.
Infine è utile consultare i numeri delle riviste “Voce di padre Pio” e “Studi su padre Pio”.
Per ulteriori approfondimenti si può anche ricorrere al libro di Alessandro da Ripabottoni, (San Giovanni Rotondo, 1986).
() (©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Le date 1887.
Il 25 maggio a Pietrelcina (Benevento) nasce Francesco Forgione.
1891.
Iniziano le vessazioni diaboliche.
1892.
All’età di cinque anni percepisce il desiderio di consacrarsi a Dio e l’anno successivo gli appare il Sacro Cuore di Gesù.
1899.
Riceve il sacramento della cresima e si accosta per la prima volta all’Eucaristia.
1903.
Entra tra i cappuccini, nel noviziato di Morcone (Benevento).
Prende il nome di fra Pio da Pietrelcina.
1907.
Emette la professione dei voti solenni.
A circa 20 anni comincia il dono dei “rapimenti”.
1910.
Il 10 agosto viene ordinato sacerdote nel duomo di Benevento dall’arcivescovo Paolo Schinosi.
Inizia il fenomeno delle stimmate.
1912.
Il fenomeno della stimmatizzazione invisibile si ripete dal giovedì sera fino al sabato.
1915.
Su richiesta di padre Agostino da San Marco in Lamis, confessa di aver subito quasi ogni settimana, da più anni, la “coronazione di spine” e la “flagellazione”.
1918.
Il 30 maggio si offre vittima per i peccatori perché la guerra finisca.
Tra il 5 e il 7 agosto vive il fenomeno della transverberazione.
Il 20 settembre Gesù Crocifisso gli appare sofferente e gli dice: “Ti associo alla mia Passione”, poi lo stimmatizza.
1919.
Primi esami medici delle stimmate.
1920.
Il 18 aprile Agostino Gemelli visita padre Pio per pochi minuti.
Dopo un brevissimo colloquio, Gemelli invia al Sant’Uffizio una valutazione non positiva sull’origine del fenomeno delle stimmate pur elogiando la vita religiosa del frate.
1921.
Dal 14 al 21 giugno si svolge la prima visita apostolica del Sant’Uffizio da parte del vescovo di Volterra, Raffaello Carlo Rossi.
Nella relazione presenta un profilo estremamente positivo del cappuccino e della sua fedeltà al Signore.
1922.
I cardinali del Sant’Uffizio scrivono al ministro generale dei cappuccini dichiarando di rimanere in osservazione su padre Pio; di evitare ogni “singolarità e rumore”; che “per nessun motivo egli mostri le così dette stimmate”; che interrompa con padre Benedetto da San Marco in Lamis “ogni comunicazione anche epistolare”; che i superiori dell’ordine si preparino a trasferire padre Pio quando il clima popolare lo consentirà.
In questo periodo giungono al Sant’Uffizio nuove accuse dal clero locale poi rivelatesi infondate.
1923.
Il Sant’Uffizio afferma che non consta la soprannaturalità dei fatti attribuiti a padre Pio ed esorta i fedeli a conformarsi a queste dichiarazioni.
Gli viene proibito di celebrare la messa in pubblico.
Sommossa popolare di tremila persone davanti al convento.
Al frate viene concessa la facoltà di celebrare in chiesa.
1923-1926.
Al Sant’Uffizio giungono costantemente numerose accuse del clero locale provocando timori e sospetti.
1931.
Il 23 maggio il Sant’Uffizio comunica la proibizione per padre Pio di celebrare in pubblico e il ritiro della facoltà di confessare.
1933.
Il 16 luglio viene autorizzato a celebrare di nuovo in pubblico e gradualmente gli viene restituita la facoltà di confessare.
1947.
Inizia la costruzione della Casa Sollievo della Sofferenza.
1948.
In aprile don Karol Wojtyla incontra padre Pio e si confessa da lui.
1956.
Il 2 luglio inizia la costruzione della chiesa di San Giovanni Rotondo.
1959.
Mentre la statua della Madonna di Fátima fa tappa a San Giovanni Rotondo, padre Pio guarisce da una pleurite.
1960.
Dal 30 luglio al 17 settembre si svolge la visita apostolica di monsignor Carlo Maccari.
1961.
Nuove disposizioni del Sant’Uffizio, anche sulla durata della messa di padre Pio.
1962.
Monsignor Wojtyla, vescovo ausiliare di Cracovia, scrive a padre Pio chiedendo e ottenendo la guarigione del medico Wanda Póltawska.
1963.
Nuovi contatti epistolari tra Wojtyla e padre Pio.
Il vescovo chiede preghiere per se stesso e per la sua delicata situazione pastorale.
1964.
Il cardinale Ottaviani, a capo del Sant’Uffizio, comunica la volontà di Paolo VI che “Padre Pio svolga il suo ministero in piena libertà”.
1968.
La salute di padre Pio declina.
Le stimmate iniziano a chiudersi senza lasciare alcun segno.
1968.
Il 23 settembre padre Pio muore.
1983.
Il 20 marzo si apre il processo cognizionale sulla vita e le virtù del servo di Dio Pio da Pietrelcina.
1997.
Il 20 marzo Padre Pio è dichiarato venerabile.
1999.
2 giugno viene proclamato beato.
2002.
Il 16 giugno Giovanni Paolo II proclama padre Pio santo e ne istituisce la memoria liturgica obbligatoria.
(francesco castelli) La salvezza dei «fratelli» al centro della spiritualità sacerdotale di padre Pio Tra il dolore e la bellezza di Cristo di Francesco Castelli Il 2008 è stato un anno di eccezionale importanza per la conoscenza di padre Pio da Pietrelcina.
La pubblicazione di due documenti ha svelato aspetti umani e mistici del cappuccino inediti e di profondo significato.
Nel febbraio 2008 è avvenuta la scoperta di una nuova lettera, la terza, del vescovo vicario capitolare a Cracovia Karol Wojtyla al cappuccino, nella quale il futuro Pontefice chiedeva a padre Pio di pregare questa volta anche per lui e per la propria difficile situazione pastorale.
Poi, è seguita la pubblicazione degli atti della prima visita apostolica del Sant’Uffizio, compiuta nel giugno 1921, per otto giorni, lunghi e intensi, dal vescovo di Volterra Raffaello Carlo Rossi, futuro cardinale.
Un confronto netto e serrato, ma anche equilibrato, durante il quale padre Pio fu chiamato a rispondere su tutti gli aspetti della sua vita, da quelli più semplici della quotidianità fino alle pieghe più intime della sua vita interiore e mistica.
Le risposte del frate, ben 142, trascritte e inviate sub secreto al Sant’Uffizio, offrono oggi un elemento fondamentale per conoscere la spiritualità sacerdotale di questo grande santo del xx secolo: il racconto preciso e dettagliato della stimmatizzazione e con esso della missione a lui affidata dal Signore.
Che cosa accadde dunque quella mattina del 20 settembre 1918, quando padre Pio, dopo aver celebrato la messa, si ritirò in preghiera? Quale missione fu affidata al giovane sacerdote di San Giovanni Rotondo? Padre Pio, com’è noto, era stato sempre restio nel parlare di quel giorno e di quello speciale incontro.
“Un misterioso personaggio”, così diceva, gli era apparso e gli aveva impresso i segni della passione.
Ora, invece, la pubblicazione degli atti dell’inchiesta ha svelato il contenuto e le stesse parole di quell’incontro.
È lo stesso padre Pio a riferirne, sotto giuramento, a monsignor Rossi, a tre anni di distanza dai fatti.
La mattina di quel 20 settembre “vidi Nostro Signore in atteggiamento di chi sta in croce, ma non mi ha colpito se avesse la Croce, lamentandosi (sic) della mala corrispondenza degli uomini, specie di coloro consacrati a Lui e più da Lui favoriti.
Di qui si manifestava che Lui soffriva e che desiderava di associare delle anime alla sua passione.
M’invitava a compenetrarmi dei suoi dolori e a meditarli: nello stesso tempo occuparmi per la salute dei fratelli.
In seguito a questo mi sentii pieno di compassione per i dolori del Signore e chiedevo a Lui che cosa potevo fare.
Udii questa voce: “Ti associo alla mia passione”.
E in seguito a questo, scomparsa la visione, sono entrato in me, mi son dato ragione e ho visto questi segni qui, dai quali gocciolava il sangue.
Prima nulla avevo”.
In padre Pio, dunque, l’affidamento della missione di “occuparsi della salvezza dei fratelli” era stato indissolubilmente legato con l’annuncio delle sofferenze in unione a Cristo: “Ti associo alla mia passione”.
Da quel giorno – come in parte già avveniva – quel “Ti associo alla mia passione” era divenuto la ragione della sua vita e del suo amore.
Era cresciuto in lui uno speciale amore per i suoi fratelli.
Era come un fuoco che gli bruciava nel petto.
Proprio parlando di ciò al suo padre spirituale ebbe a dire: “Per i fratelli (…) quante volte, per non dir sempre, mi tocca dire a Dio giudice, con Mosè: o perdona a questo popolo o cancellami dal libro della vita.
Che brutta cosa è vivere di cuore! Bisogna morire in tutti i momenti di una morte che non fa morire se non per vivere morendo e morendo vivere”.
Padre Pio si trovò, così, per tutta la vita, ad ascoltare un numero straripante di confessioni, ad avere una personale esperienza della consistenza del male causato dal peccato, della distruzione che esso provoca nel cuore dell’uomo, della necessità che esso sia smaltito, “smaltito con l’amore”.
Per questo “Ti associo alla mia passione” divenne un elemento caratterizzante la sua fisionomia spirituale di sacerdote nel quale percepì l’indole esigente delle purificazioni di Dio e la fecondità dell’amore sofferente che egli, come sacerdote, poteva offrire al Signore.
Da allora non si allontanò né spiritualmente né fisicamente dal confessionale.
Monsignor Rossi apprese che padre Pio vi rimaneva fino a sedici ore al giorno.
Domandare il perdono al Signore, aiutare i fratelli nella conversione spirituale divenne – con puntuale fedeltà verso l’invito di quel 20 settembre 1918 – l’imperativo della sua esistenza.
La sua domanda di perdono per i fratelli, gli ricordava “Colui che per il perdono ha pagato il prezzo della discesa nella miseria dell’esistenza umana e della morte in croce”.
Nascevano così in lui la gratitudine per l’amore sofferente del Signore – e questo spiegava la sua preghiera continua, notte e giorno, senza cessare – e poi la gioia di associarsi alla sua passione.
Per questo scriveva: “Sì, io amo la croce, la croce sola: l’amo perché la vedo sempre alle spalle di Gesù: (…) Deh, padre mio, compatitemi se tengo questo linguaggio; Gesù solo può comprendere che pena sia per me, allorché mi si prepara davanti la scena dolorosa del Calvario”.
Sacrifici subiti, incomprensioni, ostilità: tutto accolse pur di essere fedele al quel dono oneroso di domandare perdono per gli altri e di ottenere la gioia dell’amicizia con Dio per i suoi fratelli.
Altre sofferenze non andò a cercarle.
Anzi, a fronte di una richiesta del visitatore che gli domandava quali mortificazioni al di fuori di quelle prescritte facesse per fugare ogni dubbio, gli rispose.
“Non ne fo: prendo quelle che manda il Signore”.
“Ti associo alla mia passione” divenne così per il sacerdote padre Pio un modo tutto nuovo con il quale capire le parole del Signore: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me” (Giovanni, 12, 32).
Anch’egli, da quando venne stimmatizzato, iniziò ad attirare molti non a sé, ma al Signore e al suo amore.
A molti, a moltissimi ottenne guarigioni fisiche ma a molti di più quelle dell’anima.
“Sono pronto a tutto – diceva – purché Gesù sia contento e mi salvi le anime dei fratelli, specie quelle che egli mi ha affidate” (18 dicembre 1920).
Da allora tanti divennero suoi figli spirituali, numerose furono le grazie, numerosissime le conversioni.
I molti che facevano ricorso a lui, andavano via soddisfatti, spiritualmente aiutati e umanamente soccorsi.
Proprio con la sua disponibilità d’amore ad associarsi alle sofferenze del Signore, padre Pio verificò visibilmente nella conversione e crescita spirituale dei suoi figli che con “Gesù entra gioia nella tribolazione”.
Così egli mostrò che “non c’è amore senza sofferenza” – “l’amore si conosce nel dolore”, scriveva – e che con l’amore sofferente egli poteva, in un mondo in cui la menzogna è potente, dare pubblica testimonianza di fedeltà all’amore e proprio così alla vera gioia.
In tale maniera il frate di Pietrelcina divenne un vero sacerdote del Signore.
Offerente della Vittima divina e vittima egli stesso, colpiva i suoi discepoli e visitatori proprio per il personale e spirituale coinvolgimento durante la messa, piena realizzazione della sua spiritualità sacerdotale.
Sono molte le testimonianze di quanti lo ricordano in modo indelebile sull’altare.
Giovanni Paolo II, menzionando la sua personale esperienza nel vederlo celebrare, ebbe a scrivere espressioni vive e forti: “Ho partecipato alla santa messa (di padre Pio), che fu lunga e durante la quale si vide la sua faccia che soffriva profondamente.
Vidi le sue mani che celebravano l’Eucaristia; i luoghi delle stigmate erano coperti con una fascia nera.
Tale evento è rimasto in me come un’esperienza indimenticabile.
Si aveva la consapevolezza che qui sull’altare, a San Giovanni Rotondo, si compiva il sacrificio di Cristo stesso, il sacrificio incruento e, nello stesso tempo, le ferite sanguinose sulle mani ci facevano pensare a tutto quel sacrificio, a Gesù crocifisso.
Questo ricordo dura fino a oggi e, in qualche modo, fino a oggi ho davanti agli occhi quello che allora vidi io stesso”.
La qualità liturgica della celebrazione di padre Pio che colpiva tutti, perfino il futuro Papa, manifestava un vero cammino interiore di graduale assimilazione a Cristo, nel dolore e nella gioia, nella morte e nella risurrezione, nell’ubbidienza e nella libertà vera.
In definitiva, in lui il “sì” alla croce e alle sofferenze permesse dal Signore divenne la via ordinaria della sua gioia e di una più profonda amicizia con Cristo come suo sacerdote.
I suoi figli spirituali dicevano e dicono di aver continuato negli anni a vedere nel suo viso qualcosa di angelico e straordinariamente sereno, nonostante la sofferenza da lui vissuta nel corpo attraverso le stimmate, e, spiritualmente, per la conversione dei peccatori.
Gioia e dolore, sofferenza e beatitudine furono e rimasero così in lui due tratti costitutivi del volto spirituale di sacerdote, proprio come Gesù che per la sua bellezza paradossale è “il più bello dei figli dell’uomo” (Salmo, 44, 3) e allo stesso tempo colui che “non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore” (Isaia, 53, 2).
Proprio parlando della paradossale bellezza di Gesù, il cardinale Joseph Ratzinger scrisse: “Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine, la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante.
Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva “sino alla fine” e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza”.
Proprio di tale bellezza il sacerdote padre Pio ha dato testimonianza alla Chiesa e al mondo facendo della paradossale bellezza di Gesù la sua spiritualità sacerdotale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009) Dall’accoglienza alla comunione di Mario Ponzi San Giovanni Rotondo ha certamente confidenza con i grandi eventi ecclesiali.
Eventi in parte legati alla fama di santità dei figli dell’antica terra del Gargano, di padre Pio in particolare, e in parte dovuti alla tradizionale religiosità di un popolo devoto, generoso e accogliente.
Sta di fatto che la macchina che si è messa in moto per ricevere la visita di Benedetto XVI domenica prossima, 21 giugno, non ha perso un colpo e “tutto è pronto per mostrare al Papa l’anima vera del Gargano” confida a “L’Osservatore Romano” monsignor Domenico Umberto D’Ambrosio, in procinto di fare – subito dopo la visita del Papa – il suo ingresso nell’arcidiocesi di Lecce, sede dove è stato trasferito già dallo scorso mese di aprile.
Ha retto la Chiesa di Manfredonia-Vieste-San Giovanni Rotondo dal 2002 e oggi, come ultimo atto della sua missione, prepara la sua gente ad accogliere Benedetto XVI.
Ci sono tanti motivi per definire indimenticabile il momento che si prepara a vivere domenica prossima: la visita del Papa sembra essere il prezioso sigillo al suo incarico pastorale tra queste genti del Gargano.
Come state vivendo questa vigilia? Effettivamente è un momento particolare.
Il Papa, successore di Pietro, viene a confermarci nel cammino di fede compiuto in questi anni.
Il fatto che venga tra di noi per pregare sulla tomba del nostro santo padre Pio, e solo due giorni dopo aver inaugurato l’anno sacerdotale, sta a significare il riconoscimento del clima di ricchezza sacerdotale che si respira nella nostra terra, della fecondità della nostra testimonianza di devozione e di fedeltà al carisma del santo, al suo messaggio, che è il messaggio stesso della Croce.
Nei giorni passati abbiamo molto riflettuto su questo messaggio e sugli insegnamenti di Benedetto XVI.
Diversi vescovi si sono quotidianamente alternati nel parlarne ai fedeli della nostra diocesi ma anche ai tanti pellegrini che passano di qui.
Simbolicamente questo cammino si concluderà nella veglia di sabato notte al santuario.
Nella preparazione della visita è tornato spesso un motivo: è la seconda volta in poco più di venti anni che un Papa viene tra di noi.
Un evento di grazia che si rinnova, dunque.
La visita di Giovanni Paolo II è rimasta nel cuore dei fedeli.
Si è fermato due giorni in questi luoghi e ha lasciato un grande messaggio di speranza.
E dalla visita di Benedetto XVI cosa vi aspettate? Intanto ci attendiamo una rinnovata percezione dell’intensità del rapporto con la Chiesa che non può ridursi alle formalità.
Un rapporto, per intenderci, del quale ci si accorge solo per necessità contingenti, cioè perché si vuole fruire dei servizi religiosi tipo il battesimo, la cresima, il matrimonio 0 quando c’è bisogno di certificazioni come se la Chiesa fosse una stazione di servizio, anche se religioso.
Ecco io mi auguro che quest’esperienza accanto a Benedetto XVI ci farà da viatico per una reale inversione di tendenza.
Accogliere milioni di pellegrini che vengono qui da ogni parte del mondo comporta uno scambio di doni spirituali con la comunità ecclesiale dei residenti? Questo è un altro degli aspetti sui quali vorrei tanto che portasse una parola nuova la visita del Papa.
È una delle questioni che io ritengo tra le più grandi che debba affrontare e risolvere questa Chiesa che sto per lasciare.
La nostra comunità quotidianamente si deve confrontare con i quattro cinque milioni di pellegrini che, solo a San Giovanni Rotondo, annualmente salgono a questo colle.
A essi vanno poi ad aggiungersi gli oltre due milioni di quelli che annualmente fanno visita all’altro grande santuario di queste terre, quello ultramillenario dedicato a San Michele Arcangelo a Monte Sant’Angelo.
Ma è proprio questa marea di persone che si trasforma per la nostra Chiesa, una sfida da affrontare.
Non dovrebbe essere un problema visto che San Giovanni Rotondo è nota nel mondo proprio come “Città della pace e dell’accoglienza”.
Certo noi i pellegrini li accogliamo molto bene.
Garantiamo per quello che può essere il servizio religioso, la soddisfazione di loro bisogni, delle loro esigenze.
In moltissimi casi si tratta di pellegrinaggi che durano un giorno, o due al massimo però possono trascorrere tranquillamente e nel giusto clima.
Ma non è questo il problema che mi preoccupa.
La domanda che ci poniamo infatti è un’altra: cosa diamo a questa gente? cosa possiamo ricevere da questa gente? In questi anni ho visto quasi una frattura fra queste due componenti, cioè tra la Chiesa che vive in questi luoghi e quanti qui vengono per attingere alla santità di padre Pio, a cercare, nell’incontro spirituale con lui, risposte ad attese e ad incognite che pervadono la loro esistenza, a sofferenze che portano dentro di sé sino a deporle ai piedi della tomba del santo quasi gli chiedessero aiuto per sopportarle.
Certamente si sarà fatto un’idea di cosa fare per risanare questa frattura.
Bisogna reimpostare la pastorale per far sì che sia soprattutto pastorale dell’accoglienza.
Non basta infatti continuare a dire che San Giovanni Rotondo è la città della pace e dell’accoglienza; bisogna fare di più perché in realtà non c’è un rapporto vero tra questa comunità ecclesiale e questa massa di persone che portano con sé il bagaglio della loro fede.
Né gli uni ne gli altri ricevono un granché da questa seppure fugace vicinanza.
Ecco cosa mi aspetto dalla visita del Papa.
Mi aspetto che da quanto ci dirà nei tre momenti centrali della sua visita, possano venire delle indicazioni chiare e precise per il cammino futuro di una Chiesa che è comunque già di per sé vivace e in questo momento avviata nel progetto “giovani, famiglia e missione”, affinché possa realmente trasformarsi in Chiesa in missione tra questa massa di persone che vengono a bussare alle sue porte.
Non possiamo più limitarci a dare quel poco che può essere la confessione o la celebrazione.
Tantomeno possiamo accontentarci del ritorno dal punto di vista economico per le strutture alberghiere e di ristorazione del posto e così via.
Dobbiamo offrire la ricchezza di una fede che risale alle origini della Chiesa apostolica e che vive autonomamente, separata dalla comunque provvidenziale presenza di padre Pio.
Allargando un po’ lo sguardo all’intera Capitanata ci può dire quali sono le sfide che deve affrontare la Chiesa oggi in quest’area che sembra essere particolarmente colpita dalla crisi economica? La Capitanata è un territorio molto vasto ma poco popolato.
La situazione sociale presenta diverse sfaccettature.
Lungo le nostre coste, per esempio, dove il turismo è la forza trainante, i riflessi della crisi non hanno lasciato tracce profonde.
La situazione cambia drasticamente nelle zone interne, segnate da larghe fasce di povertà, dove i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, raggiungono indici gravissimi.
È una condanna che ci portiamo dietro da sempre.
E se non fosse per quei bagliori riflessi dell’industria del turismo per tutto il territorio conosceremmo i morsi della povertà estrema.
La situazione si aggrava per la distrazione, diciamo così, di chi dovrebbe provvedere ad un’equa distribuzione delle risorse tra le diverse aree della Puglia, tanto che da qualche tempo ha ripreso forza l’ondata emigratoria.
Non ha ancora raggiunto i livelli di quella degli anni cinquanta, ma di fatto bisogna prendere atto della recrudescenza di questo fenomeno che riguarda soprattutto i giovani, tra i quali sono sempre più numerosi quelli che hanno conseguito lauree ed alte specializzazioni.
Per loro non c’è spazio in casa, non ci sono opportunità.
Dunque bisogna emigrare.
Ciò comporta non solo un distacco dalle proprie origini ma anche un cambiamento di mentalità, di atteggiamenti.
Si abbandonano tutti i principi, anche etici e morali, acquisiti per immergersi in una cultura che non gli appartiene, si imbevono di un’etica lontana dalla bontà di tutto ciò di cui si sono nutriti nella loro terra originaria.
Però la situazione oggi è talmente grave che la fuga si presenta come unica alternativa.
Noi come Chiesa, con l’aiuto della Conferenza episcopale italiana (Cei) abbiamo istituto un fondo di solidarietà, abbiamo anche effettuato interventi ad ampio raggio, ma la situazione è quella che è.
Mi preoccupa piuttosto la mancata risposta da parte di chi sarebbe preposto ad intervenire, a creare strumenti e progetti che garantiscano un approccio diverso alla povertà che fa soffrire così tante famiglie.
Cassa integrazione, mobilità, licenziamenti sembrano essere invece le uniche risposte alla crisi.
E questo anche perché industrie che hanno ricevuto il contributo dello Stato per aprire attività in loco, non esitano a chiudere subito dopo.
Questo crea grande sofferenza.
Ed è estremamente pericoloso perché dà il via libera ad attività criminose, alla malavita organizzata che trova sempre più abbordabili adepti tra i giovani, e anche tra i giovanissimi.
Dal punto di vista pastorale cosa la preoccupa di più? In questo periodo stiamo dedicando un’attenzione particolare alla famiglia.
Assistiamo ad un’impennata dei divorzi.
È un problema che ci assilla.
C’è un allentamento dei costumi che porta all’abbandono della fedeltà coniugale, e alla separazione.
I giovani sembrano sempre più orientati verso la convivenza più che verso il matrimonio.
C’è poi una certa recrudescenza della pratica dell’aborto.
Spesso restano coinvolti proprio dei giovanissimi, ma che hanno comunque il sostegno dei genitori.
Di qui la necessità di reimpostare una pastorale giovanile che sappia andare incontro ai giovani, andarli a cercare senza aspettare che vengano loro, offrire loro proposte recepibili da parte dei giovani stessi.
C’è anche bisogno di reimpostare la pastorale familiare, fondandola sull’aiuto di laici esemplari che sappiano offrire modelli da imitare.
Dobbiamo cioè aiutare la gente a recuperare il senso della stabilità della famiglia, il sapore della sua genuinità, il valore di un amore che nasce dal cuore.
Il dono che il Papa ci fa è una possibilità che ci offre per trovare modi nuovi di vivere la nostra fede, per cogliere le novità che si presentano grazie all’incontro con tante persone che portano esperienze di Chiese diverse e che dunque possono costituire un arricchimento per la nostra Chiesa come valore universale.
(©L’Osservatore Romano – 21 giugno 2009)