Scuola: bilancio di un anno che si chiude

  In coincidenza con l’intervento di Mariastella Gelmini al Meeting dell’Amicizia, lo scorso 28 agosto, l’ufficio stampa del MIUR ha diffuso un ampio e dettagliato resoconto dell’azione svolta dal governo e dal ministro in previsione dell’inizio del nuovo anno scolastico 2009-2010.
Si tratta di una parte soltanto della attività sviluppata dalla Gelmini in poco più di un anno di lavoro (non si parla, per esempio, del secondo ciclo, perché la riforma decorrerà dal 2010-2011), ma non c’è dubbio che il catalogo delle novità riferite all’anno scolastico che sta per cominciare è assai consistente.
Eccone una sintesi della parte che riguarda gli ordinamenti.
Scuola dell’infanzia: Anche i bambini di due anni e mezzo potranno iscriversi alla scuola dell’infanzia.
Scuola Primaria: Maestro unico prevalente (i due aggettivi sono utilizzati in sequenza): nelle classi prime della scuola primaria si passerà al modello educativo del maestro unico prevalente, un’unica figura di riferimento per i bambini.
Ogni quadro orario, da 24, 27, 30 o 40 ore, prevederà il maestro unico di riferimento.
Successivamente il modello si estenderà alle altre classi.
Abolite le compresenze.
Tempo pieno confermato: con l’introduzione del maestro unico, l’eliminazione delle compresenze ed alcuni risparmi dovuti alla razionalizzazione degli organici e al dimensionamento delle scuole (circa 350 scuole sono state accorpate grazie anche all’impegno delle Regioni) si libereranno più maestri per aumentare il tempo pieno.
Scuola secondaria di I grado: Riformulazione dell’orario della scuola media L’orario scolastico della scuola media sarà di 30 ore settimanali, consentendo una distribuzione più razionale delle lezioni, senza insegnamenti facoltativi e opzionali che avevano allungato l’orario senza migliorare la qualità del servizio.
Tempo prolungato da 36 a 40 ore solo in presenza di requisiti strutturali e di servizio che rispondano alle aspettative delle famiglie.
Esami di terza media Il voto finale dell’esame di terza media sarà calcolato facendo la media aritmetica delle prove orali, di quelle scritte (inclusa la prova nazionale Invalsi) e del voto di ammissione.
Scuola secondaria di II grado Ammissione alla Maturità A partire dall’anno scolastico 2009/10 saranno ammessi all’esame di Stato solo gli studenti che  conseguiranno almeno 6 decimi in tutte le materie e in condotta.
Ecco gli altri provvedimenti che diventeranno operativi nel nuovo anno scolastico indicati nel comunicato stampa del MIUR del 28 agosto 2009.
Scuola digitale Pagelle on line: in molti casi  sarà possibile consultare  on line sul sito delle scuole le pagelle degli studenti.
Sms per segnalare assenze ai genitori: tutte le scuole potranno organizzare sistemi per avvisare via sms i genitori quando i ragazzi sono assenti, come avviene già in molte scuole del Paese.
Assunzioni nella scuola Per l’anno scolastico 2009-2010 vengono immessi in ruolo 8.000 docenti e 8.000 unità di personale ATA, nonché 647 dirigenti scolastici.
Contenimento della spesa per i libri di testo Introduzione dei tetti di spesa per le scelte dei libri da parte degli insegnanti: gli insegnanti devono scegliere libri di testo che abbiano un prezzo inferiore ai tetti di spesa fissati dal Ministero.
Mantenimento degli stessi libri per 5 anni: i testi scelti non potranno essere cambiati per almeno 5 anni nella primaria e 6 nella secondaria.

IV Giornata per la Salvaguardia del Creato

Si celebra il primo settembre 2009 la IV Giornata per la Salvaguardia del Creato, dal titolo: “Laudato si’, mi’ Signore… per frate vento et per aere et nubilo et sereno et onne tempo, per lo quale, a le Tue creature dài sustentamento”.
Promotori dell’evento l’Ufficio Nazionale per i problemi sociali e il lavoro e l’Ufficio Nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della CEI.
Il testo del messaggio per la Giornata e le indicazioni per la sua celebrazione a livello diocesano sono reperibili in rete su www.chiesacattolica.it/lavoro o www.chiesacattolica.it/ecumenismo.
In allegato trovate anche il testo della catechesi pronunciata da Bendetto XVI a Castel Gandolfo durante l’udienza generale di mercoledì 26 agosto e dedicata proprio al tema della Giornata.
 Documenti allegati:CATECHESI DEL SANTO PADRE.doc

l’Agorà dei giovani del Mediterraneo

Anche quest’anno si svolgerà presso il Centro Giovanni Paolo II di Loreto (AN) l’Agorà dei giovani del Mediterraneo, organizzata anche dal Servizio Nazionale di Pastorale Giovanile e dal Movimento Giovanile Missionario.
“Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio, perché Dio darà loro il suo regno” è il tema di quest’anno, particolarmente attuale nel contesto sociale e globalizzato nel quale viviamo.
Il martirio, segno vivo del sì dell’uomo alla chiamata di Dio e testimonianza ai fratelli, è la luce che illumina il cammino di ciascun cristiano dal giorno del Battesimo e in particolare i giovani sono chiamati ad essere testimoni autentici dell’incontro con Cristo che trasforma radicalmente l’esistenza riempiendola di senso.
L’iniziativa, giunta ormai all’ottava edizione, non rappresenta soltanto un momento di confronto, scambio e conoscenza tra giovani; ciascun partecipante rappresenta, infatti, la Chiesa locale che lo invia e, soprattutto, lo attende al termine dell’Agorà per valorizzare insieme i frutti dell’esperienza vissuta.
In particolare la comunità diocesana è chiamata ad allargare gli orizzonti dell’azione pastorale attraverso gesti concreti di conoscenza, testimonianza, solidarietà e scambio tra nazioni.
Sono molte le chiese locali italiane che hanno progetti di cooperazione in Europa, in Medio Oriente e nel bacino del Mediterraneo, i quali non di rado prevedono il coinvolgimento di giovani volontari e gruppi giovanili: l’Agorà del Mediterraneo è un’opportunità per stimolare i giovani e le comunità italiane a far nascere iniziative di cooperazione anche lì dove ancora non esistono.
Il carattere internazionale dell’evento, l’apertura al Mediterraneo e all’Europa e alle problematiche che attraversiamo, rende l’iniziativa particolarmente adatta a giovani che abbiano fatto un anno di studio all’estero (adolescenti del quarto anno delle Superiori), abbiano fatto o stiano per fare l’Erasmus o il progetto Leonardo, abbiano vissuto una o più esperienze in terra di missione (in gruppo o singolarmente), abbiano maturato una o più esperienze lavorative all’estero.
È importante che l’invito sia pensato, inserito in un progetto pastorale diocesano sempre più capace di aprirsi alle altre culture e al mondo, un progetto che sappia inviare i giovani all’Agorà e coinvolgerli al loro rientro con iniziative che li vedano operatori di pace verso i loro coetanei.
Sarebbe bello se ogni diocesi italiana riuscisse ad inviare due giovani all’Agorà dei giovani del Mediterraneo per continuare un percorso di pastorale giovanile diocesana sempre più aperto all’accoglienza dello straniero e alla comunione tra giovani cristiani.
L’invito può essere esteso anche a giovani stranieri che risiedano stabilmente in Italia (per lavoro o studio) e siano in qualche modo inseriti nella vita della comunità cristiana.
Vitto e alloggio al Centro Giovanni Paolo II di Loreto sono gratuiti; il viaggio è a carico dei partecipanti.
  AGORÀ DEI GIOVANI DEL MEDITERRANEO VIII EDIZIONE 1-8 settembre 2009 Centro Giovanni Paolo II 8 – 12 settembre accoglienza in alcune diocesi italiane « Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la  volontà di Dio: perché Dio darà loro il suo regno » Anche quest’anno, presso il Centro Giovanni Paolo II, si svolgerà l’Agorà dei giovani del Mediterraneo.
Il tema: Beati quelli che sono perseguitati per aver fatto la volontà di Dio: perché Dio darà loro il suo regno, è particolarmente attuale nel contesto sociale e globalizzato nel quale viviamo. Il martirio, segno vivo del si dell’uomo alla chiamata di Dio e testimonianza ai fratelli, è la luce che illumina il cammino di ciascun cristiano dal giorno delBattesimo, in particolare i giovani sono chiamati ad essere testimoni autentici dell’incontro con Cristo che trasforma radicalmente l’esistenza riempiendola di senso.
L’iniziativa, giunta ormai all’ottava edizione, non rappresenta soltanto un momento di confronto, scambio e conoscenza tra giovani; ciascun partecipante rappresenta, infatti, la Chiesa locale che lo invia e, soprattutto, lo attende al termine dell’Agorà per valorizzare insieme i frutti dell’esperienza vissuta.
In particolare la Comunità Diocesana è chiamata ad allargare gli orizzonti dell’azione pastorale attraverso gesti concreti di conoscenza, testimonianza, solidarietà e scambio tra nazioni.
Sono molte le chiese locali italiane che hanno progetti di cooperazione in Europa, in Medio Oriente e nel bacino del Mediterraneo, i quali non di rado prevedono il coinvolgimento di giovani volontari e gruppi giovanili, l’Agorà del Mediterraneo è un’opportunità per stimolare i giovani e le comunità italiane a far nascere iniziative di cooperazione anche lì dove ancora non esistono.
Il carattere internazionale dell’evento, l’apertura al mediterraneo e all’Europa e alle problematiche che attraversiamo, rende l’iniziativa particolarmente adatta a giovani che: abbiano fatto un anno di studio all’estero (adolescenti del quarto anno delle Superiori); abbiano fatto o hanno in mente l’Erasmus o il progetto Leonardo; abbiano vissuto una o più esperienze in terra di missione (in gruppo o singolarmente); abbiano maturato una o più esperienze lavorative all’estero.
È importante che l’invito sia pensato, inserito in un progetto pastorale diocesano sempre più capace di aprirsi alle altre culture e al mondo, un progetto che sappia inviare i giovani all’Agorà e coinvolgerli al loro rientro con iniziative che li vedano operatori di pace verso i loro coetanei.
Sarebbe bello se ogni Diocesi italiana riuscisse ad inviare due giovani all’Agorà dei giovani del Mediterraneo per continuare un percorso di pastorale giovanile diocesana sempre più aperto all’accoglienza dello straniero e alla comunione tra giovani cristiani.
Se presenti, ti proponiamo di invitare anche giovani stranieri che risiedono stabilmente in Italia (per lavoro o studio) e sono in qualche modo inseriti nella vita della comunità cristiana.
Vitto alloggio al Centro Giovanni Paolo II di Loreto sono è GRATUITI; il viaggio è a carico dei partecipanti.
Programma dell’iniziativa Scheda di Iscrizione

Narrare la fede… coi gialli /3

  Puntata: “Homer l’eretico” (Stagione 4, puntata 3)   La trama: Come ogni domenica, Marge e i figli vanno in chiesa, ma questa volta Homer decide di restare a casa e ne approfitta per mangiare frittelle e guardare la tv: convinto di aver quindi vissuto “la giornata più bella della sua vita”, Homer stabilisce che starà a casa tutte le domeniche mattina e comunica a Marge la sua volontà di abbandonare la chiesa per seguire una propria religione.
Quello stesso giorno Homer sogna di incontrare Dio, che dà il suo benestare alla nuova religione.
La domenica successiva Homer resta nuovamente a casa, legge una rivista per adulti e si accende un sigaro che, cadendo mentre lui si è addormentato, fa divampare un incendio.
Ned Flanders corre in soccorso del vicino di casa e riesce a portarlo in salvo.
Nel frattempo una specie di Protezione Civile immediatamente attivatasi (composta, tra gli altri, dal reverendo Lovejoy, dal clown ebreo Krusty e dal commerciante induista Apu) spegne l’incendio, salvando così anche la casa.
Il Reverendo spiega a Homer che Dio non è contro di lui ma, piuttosto, è nel cuore delle persone che hanno salvato lui e la sua casa.
Il nostro pigro padre di famiglia torna sui suoi passi: abbandona la nuova religione fai-da-te e la domenica successiva torna in chiesa, dove però si addormenta subito e sogna un altro incontro con Dio, al quale chiede quale sia il significato della vita…
che però a noi non è dato di sapere! vedi nell’allegato: Spuntini di riflessione

Qui e ora (1984-1985)

LUIGI GIUSSANI, Qui e ora (1984-1985),  Editore: BUR Biblioteca Univ.
Rizzoli, Milano 2009,  EAN: 9788817028684, pp. 484, € 12,00 II quarto volume della serie “L’equipe”, in cui si riproducono le lezioni e i dialoghi di don Giussani con i responsabili degli universitari di Comunione e Liberazione.
“lo sono la resurrezione e la vita: credi tu questo?” Come si può rispondere alla domanda che Cristo rivolge a Marta, davanti a Lazzaro, il fratello morto? In altre parole, com’è possibile la fede oggi? L’uomo che ha detto: “lo sono la via, la verità e la vita” è risorto, cioè è contemporaneo alla storia.
“Sarò con voi fino alla fine dei secoli.” Dove lo si vede? Dove lo si tocca? Dove lo si ascolta? Ora, duemila anni fa come adesso, è l’appartenenza a Cristo presente e reale, che ci tocca attraverso determinate circostanze umane, a rendere possibile l’esperienza di una nuova consistenza, di una resurrezione dell’umano, in qualunque condizione.
Quella di metà anni Ottanta fu segnata dal rapido estendersi di un nichilismo gaio, sulle macerie di progetti e ideologie.
In quello scenario, che non fu solo universitario, spiccava ancor più la tenuta e la crescita di una presenza non determinata dalla volontà di un esito sociale e politico, ma dal riconoscimento di Cristo risorto e da una passione di testimonianza

Katyn

Quanti vedranno la pellicola, sappiano che quelle che li dividono dall’Agnus Dei composto da Krzysztof Penderecki – sconvolgente chiusura, su schermo nero, del film – sono poco meno di due ore di grande cinema.
E non è per un modo di dire.
«Meditate che questo è stato»: davanti all’opera di Wajda viene alla mente un passo dell’epigrafe che apre Se questo è un uomo di Primo Levi, anche perché questo racconto per immagini emerge – letteralmente – dalla nebbia, che non è solo quella dei libri di Storia.
Eppure, nonostante la palese bestialità, atrocità della vicenda che sta alla sua base, Katyn non è il prodotto partorito con spirito vendicativo o astio ideologico dal figlio di una delle vittime.
È tutt’altro, è sorprendentemente tutt’altro: Katyn è un’opera corale sull’accadere, sul porsi di un fatto, sulla verità di questo fatto e sul rapporto di ciascuno (e della sua libertà) con la verità di questo fatto.
Verità che durante il film vedremo negata, distorta o sminuita dal Potere, Potere inteso come affermazione di un’idea sulla realtà, cioè su quel che è accaduto.
Come ogni forma d’arte che valga questo nome, la pellicola è una forma di incontro: dietro quei 113 minuti c’è – ultimamente – qualcuno che chiede la nostra attenzione, la nostra pazienza.
Meglio, la carità della nostra attenzione e della nostra pazienza.
Per stare ad ascoltare quello che ha da dire, per stare a vedere quello che ha da mostrare.
E, come sempre, c’è più di un modo di “entrare” nel racconto: l’immedesimazione con uno dei personaggi, l’emozione per una certa sequenza, il moto d’animo per una delle figure di contorno…
Va detto che – almeno come esposizione temporale, cronologica dei fatti – il film è costruito in modo non immediato: Katyn abbraccia più storie personali e più personaggi lungo un periodo di circa sei anni che va dal settembre/novembre 1939 al 1945.
Non ci si faccia dunque spaventare dalle frequenti didascalie che lo scandiscono (17 settembre 1939, novembre 1939, primavera 1940, 13 aprile 1943, 1945, …) così come dalla presenza dei non pochi personaggi che lo animano (il capitano, il sott’ufficiale, il generale, l’ingegnere che progetta aerei, la moglie del capitano, la moglie e la figlia del generale, la sorella – anzi le sorelle – dell’ingegnere, …).
Nel fare presente questo eventuale elemento di fatica, invitiamo quanti vorranno accostarsi alla visione del film a chiedere innanzitutto per sé la libertà, il coraggio di lasciarsi sfidare dal suo contenuto, il coraggio di lasciar emergere una domanda – anzi la domanda – sull’origine, sull’identità, sulla consistenza della speranza che anima i personaggi – donne e uomini; mogli, mariti e figli; fratelli e sorelle; civili e soldati (già, i “soldati”…) – che vedranno raccontati sul grande schermo.
Pensiamo soprattutto ai quindici minuti finali, chiusi dall’Agnus Dei di cui già si diceva.
Fosse solo per il balenare, l’emergere dei contorni di questa domanda, avremmo già di che ringraziare l’ottantatreenne regista.
E nel provare a rispondere, “meditiamo che questo è stato”.
Buona visione.
(Leonardo Locatelli) Katyn – Basati sul romanzo Post mortem di Andrzej Mularczyk, i rigorosi, potenti, “magistrali” 113 minuti di Katyn (2007) sono stati realizzati dal prolifico sceneggiatore e regista polacco Andrzej Wajda (classe 1926, premio Oscar 2000 e Orso d’Oro 2006, entrambi alla carriera) attingendo a diari, lettere, confessioni e analizzando anche i documenti ufficiali conservati negli archivi polacchi, statunitensi, inglesi e relativi a quello che in patria è tutt’ora considerato il più tragico lutto nazionale.
Non stupiscano quindi la lucidità e la pulizia non solo formali che caratterizzano questo film, nel quale è la Storia a fare capolino.
La pellicola ruota infatti attorno al massacro – avvenuto nella primavera del 1940 nel tentativo di cancellare l’intellighenzia di un intero Paese – di oltre 22.000 ufficiali, riservisti, medici, avvocati, professori e guardie di confine polacchi (tra i quali anche Jakub Wajda, il padre di Andrzej) fatti prigionieri dall’Armata Rossa al momento dell’invasione russa della Polonia, scattata sedici giorni dopo quella della Wehrmacht.
Decine di migliaia di persone eliminate con un colpo alla nuca per mano degli uomini della NKVD, la polizia politica di Stalin guidata da Lavrentij Berija, e sepolti in fosse comuni nelle foreste di Katyn (una collina coperta di abeti che domina il fiume Dnepr, nei pressi di Smolensk), Tver, Char’kov e Bykownia.

Un documento della Compagnia delle Opere sulla scuola

Con un approccio nuovo e veramente significativo il documento che la Compagnia delle Opere dedica alla scuola, e che qui presentiamo, evidenzia la stretta connessione che intercorre tra il tema educazione e il tema istruzione.
Le proposte che qui vengono avanzate per un cambiamento del sistema scolastico sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.
I punti sono noti: autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; reale valutazione del sistema scolastico; nuova professionalità e carriera per i docenti; personalizzazione dei percorsi; abolizione del valore legale del titolo di studio.
Sono tutti punti essenziali, la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male.
A tutti questi temi il nostro giornale ha già dedicato moltissimi interventi di approfondimento e continuerà a farlo.
Il punto caratterizzante del documento è un altro: non solo la centralità del tema educazione, ma la diretta consequenzialità e correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione.
Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico.
Non si creerà mai un sistema talmente perfetto da rendere superfluo il rapporto educativo tra docente e studente, elemento centrale della scuola; ma non si darà mai vera incidenza alla tensione educativa se la si lascerà a lato delle problematiche della scuola (riducendola di fatto a ciò che è lo svago del sabato sera rispetto alla settimana lavorativa).
Nel documento “Una scuola che parla al futuro” è segnata una stretta interdipendenza tra i due aspetti.
Basta confrontare i punti essenziali alla voce “Educazione” e le proposte programmatiche, e si vedrà che dai primi discendono le seconde: quando si dice che «la prima condizione che realizza l’educazione è la presenza di figure adulte autorevoli» significa, di conseguenza, che è necessario che ci siano «docenti e dirigenti come veri professionisti» (d’altronde, finché lo studente continuerà a guardare al professore come a un fallito nella scala sociale tutto resterà molto difficile); quando si dice che «l’autorevolezza deriva dalla partecipazione ad un cammino unitario di costruzione del proprio io» e che «gli alunni non sono da intendere come il terminale astratto di iniziative che li vedono passivi», ne deriva la necessità di avere «percorsi di studio flessibili e personalizzati».
E così via.
Le esigenze educative si concretano in scelte di politica scolastica, che non saranno mai la soluzione perfetta, ma permetteranno o di facilitare il processo educativo, o quanto meno (e già sarebbe molto!) di non ostacolarlo.
Questa è dunque la grande sfida che questo documento lancia nel dibattito sulla scuola.
In un momento in cui, per altro, l’emergenza educativa è sempre più evidente e centrale.
In questo senso, le molte indagini e ricerche (alcune recentissime) che testimoniano la totale indifferenza degli studenti verso la loro esperienza scolastica sono un dato drammatico e ineludibile: i docenti non sono un punto di riferimento, né umano né culturale; le cose che contano veramente le si imparano altrove; la scuola non è né buona né cattiva, ma semplicemente indifferente, perché da essa non ci si aspetta nulla.
Ecco come educazione e istruzione vengono allora a coincidere: nel momento in cui ci si rende pienamente conto che, come fu detto autorevolmente, non c’è cosa più assurda della risposta a una domanda che non si pone.
Far emergere la domanda di sapere e conoscenza è compito educativo, che si realizza dentro un’autorevole e riconosciuta professionalità didattica che abbia come fine l’istruzione.
Un ultimo appunto, che rende particolarmente importante e attuale il documento Cdo: proprio in questi giorni l’Assemblea della Conferenza episcopale italiana ha rilanciato il tema educazione come tema del prossimo decennio.
Significa che c’è una grande responsabilità, non solo per i cattolici, e un impegno per tutti, in termini di riflessione, approfondimento, lavoro concreto: l’educazione e la scuola dovranno essere i pilastri del dibattito politico-culturale nei prossimi anni.
Per consultare il documento: Scuola e futuroIl sussidiario Oggi il ministro Gelmini, attesa al meeting di Rimini per un suo intervento, è chiamata anche implicitamente a fornire risposte ad un documento predisposto dalla Compagnia delle Opere dedicato alla scuola e contenente una stretta interconnessione tra educazione e istruzione.
Ne parla sul proprio sito la testata on-line “Il sussidiario” che riporta il testo integrale del documento.
Le proposte avanzate dalla Compagnia delle Opera – osserva l’editoriale de “Il sussidiario” – per un cambiamento del sistema scolastico “sono per lo più riconosciute e condivise dai migliori centri di studio e di approfondimento sul tema istruzione, quali l’Associazione TreeLLLe, la Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo, la Fondazione Agnelli ecc.”.
I punti trattati dal documento e che chiamano in causa la Gelmini sono: – autonomia (nuova governance) e parità, contro lo statalismo ipercentralista; – reale valutazione del sistema scolastico; – nuova professionalità e carriera per i docenti; – personalizzazione dei percorsi; – abolizione del valore legale del titolo di studio.
“Sono tutti punti essenziali – fa notare Il sussidiario – la cui importanza è anche in un certo senso sistemica: una cosa senza l’altra (ad esempio, autonomia senza valutazione) sarebbe una cosa fatta a metà, e quindi fatta male”.
“Il punto caratterizzante del documento è la diretta correlazione tra la tensione educativa e la ricerca di risposte concrete a livello di sistema di istruzione.
Non c’è educazione che non entri nel merito anche delle scelte concrete, sia nella didattica che nella politica scolastica; e d’altro canto parlare di istruzione senza porsi il problema educativo sarebbe ridurre tutto a un vacuo tecnicismo utopistico.”

Adozione dei libri di testo

Con Ordinanza n.
4328 dell’8 agosto, il Consiglio di Stato ha respinto l’appello del Ministero dell’istruzione che aveva chiesto di sospendere la sentenza del Tar Lazio sui libri di testo.
La sentenza, originata da un ricorso di docenti lombardi sostenuti dalla Cgil-scuola territoriale, aveva ritenuta non legittima la disposizione ministeriale per l’adozione dei libri di testo nella parte in cui non prevedeva la deroga al vincolo quinquennale o sessennale dei testi adottati, qualora un nuovo docente assegnato alla classe avesse ritenuto opportuna una scelta diversa.
Il Consiglio di Stato, nel respingere qualche giorno fa, per mancanza dei motivi di urgenza, la richiesta del Miur di sospendere l’applicazione della sentenza del Tar Lazio che riconosce il diritto di docenti neo-trasferiti di derogare dal blocco quinquennale dei libri di testo adottati, ha richiamato una sua recente ordinanza in merito che sembra porre fine alla questione.
Il 19 maggio scorso, infatti, lo stesso Consiglio di Stato ha emesso l’ordinanza n.
2540 con la quale in modo inequivocabile chiarisce l’eventuale diritto dei docenti neo-assegnati ad una scuola di derogare dal blocco di adozione quinquennale dei libri di testo e di rivendicare il diritto di modificare l’adozione.
“l’impostazione seguita dall’amministrazione nella circolare impugnata – recita l’ordinanza –  secondo la quale il trasferimento dell’insegnante non costituisce specifica e motivata esigenza che consente, ai sensi dall’art.
5 del D.
L.  1 settembre 2008, n.137, il cambio di libri di testo prima del decorso del quinquennio, appare conforme al dettato normativo, che sottolinea l’eccezionalità dei casi nei quali è consentito il suddetto cambio, e non appare irrazionale, in quanto le valutazioni del docente subentrante non costituiscono evento obiettivo, tale da imporsi come eccezione alla volontà del legislatore”.    

XXII Domenica del tempo ordinario anno B

Questo popolo mi onora con le labbra Fratelli, siamo umili, deponendo ogni vanagloria, vanità, stoltezza, ira e adempiamo ciò che sta scritto; lo Spirito santo dice, infatti: «Il saggio non si vanti della sua saggezza, né il forte della sua forza, né il ricco della sua ricchezza, ma chi si vanta si vanti nel Signo-re, di cercarlo e di praticare il diritto e la giustizia» (cfr.
Ger 9,22-23; 1Re 2,10; 1Cor 1,31; 2Cor 10,17).
Ricordiamoci soprattutto delle parole del Signore Gesù, quando ci insegnava la benevolenza e la grandezza d’animo.
Così diceva: «Siate misericordiosi per ottenere mi-sericordia; perdonate per essere perdonati, come farete, così sarà fatto a voi; come date, co-sì sarà dato a voi; come giudicate, così sarete giudicati; la bontà che usate, sarà usata con voi; la misura con la quale misurate, verrà usata con voi» (cfr.
Mt 6,14-15; 7,1-2; Lc 6,31.36-38).
Attacchiamoci saldamente a questo comandamento e a questi precetti per procedere umili e obbedienti nelle sue sante parole; dice infatti la sua santa Parola: «A chi rivolgerò lo sguardo, se non al mite, al pacifico e che teme le mie parole?» (Is 66,2).
Uniamoci, dunque, a quelli che vivono la pace nella fede, non a quelli che fingono di volerla con ipocrisia.
Dice infatti: «Questo popolo mi onora con le labbra e il suo cuore è lontano da me» (Is 29,13; Mc 7,6).
E ancora: «Con la loro bocca benedicono, con il loro cuo-re maledicono» (Sal 61 [62] ,5).
E ancora: «Lo amavano con la bocca e con la lingua gli mentivano, il loro cuore non era retto con lui, né rimanevano fedeli alla sua alleanza» (Sal 77 [78] , 36-37).
[…] Cristo appartiene agli umili e non a quelli che si elevano sopra il suo gregge.
Lo scettro della maestà di Dio, il Signore Gesù Cristo, non è venuto nella vanaglo-ria e nell’orgoglio, anche se avrebbe potuto, ma nell’umiltà, come lo Spirito santo aveva detto di lui.
Sta scritto infatti: «Signore, chi ha creduto alla nostra predicazione? E il brac-cio del Signore a chi fu rivelato? Noi l’abbiamo annunciato in sua presenza: è come un bambino, come una radice in terra arida; non ha apparenza, né gloria» (Is 53,1-2).
Vedete, carissimi, quale modello ci è dato! (CLEMENTE DI ROMA, Lettera ai Corinti 13.15-16, SC 167, pp.
120-126).
L’umiltà «Che abbiamo di buono che non lo abbiamo ricevuto? e se l’abbiamo ricevuto, perché vogliamo riportarne orgoglio? Al contrario, la viva considerazione delle grazie ricevute ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza» (Introduction à la vie dévote [Filotea], V, 5).
«Il punto forte di tale umiltà sta non solo nel riconoscere volontariamente la nostra a-biezione, ma nell’amarla e compiacervisi, e non per mancanza di coraggio e di generosità, ma piuttosto per esaltare tanto più la Maestà divina e stimare molto di più il prossimo a paragone di noi stessi» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 6).
Verità e umiltà Ci sono degli istanti in cui Dio ci conduce all’estremo limite della nostra impotenza ed è allora e solo allora che comprendiamo fino in fondo il nostro nulla.
Per tanti anni, per troppi anni, mi sono battuto contro la mia impotenza, contro la mia debolezza.
Il più sovente l’ho nascosta, preferendo apparire in pubblico con una bella ma-schera di sicurezza.
E’ l’orgoglio che non vuole accettare l’impotenza, è la superbia che non fa accettare di essere piccolo; e Dio, poco alla volta, me l’ha fatto capire.
Ora non mi batto più, cerco di accettarmi, di considerare la mia realtà senza veli, senza sogni, senza romanzi.
E’ un passo innanzi, credo; e se l’avessi fatto subito, quando imparavo a memoria il ca-techismo, avrei guadagnato quarant’anni.
Ora l’impotenza mia la metto tutta in faccia al-l’onnipotenza di Dio: il cumulo dei miei peccati sotto il sole della sua misericordia, l’abisso della mia piccolezza in verticale sotto l’abisso della sua grandezza.
E mi pare essere giunto il momento d’un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora, uno stare insieme come mai avevo provato, uno spandersi del suo amore come mai avevo sentito.
Sì, è proprio la mia miseria che attira la sua potenza, le mie piaghe che lo chiamano urlando, il mio nulla che fa precipitare a cateratte su di me il suo Tutto.
E in questo incontro fra il Tutto di Dio e il nulla dell’uomo sta la meraviglia più grande del creato.
E’ lo sposalizio più bello perché fatto da un Amore gratuito che si dona e da un Amore gratuito che accetta.
E’, in fondo, tutta la verità di Dio e dell’uomo.
E l’accettazione di questa verità è dovuta all’umiltà ed è per questo che senza umiltà non c’ è verità, e senza verità non c’ è umiltà.
(Carlo Carretto) Preghiera Signore Gesù, liberaci dall’ipocrisia.
Desideriamo con l’aiuto del tuo Santo Spirito per-seguire quello stile di vita che ci qualifica come tuoi veri discepoli.
Permettici di riconosce-re le nostre incoerenze, che offuscano lo splendore del tuo vangelo, e di vegliare sull’au-tenticità della nostra relazione con te e fra di noi.
Ti ringraziamo perché nella tua Pasqua tu ci hai generati a nuova vita, manifestando l’amore del Padre verso di noi.
Per questo c’impegniamo davanti a te a non permettere che nei nostri rapporti comunitari prevalga la ricerca dell’apparire e del dominare.
Ci impe-gniamo a custodire la consapevolezza della nostra immeritata figliolanza divina e della fraternità che deve regnare tra noi, nostro compito ma soprattutto tuo inestimabile dono.
Signore Gesù, desideriamo restare radicalmente tuoi discepoli, senza pretendere di di-ventare maestri di altri, perché dalla bocca tua, o solo Maestro, potremo comprendere, con sempre rinnovata gioia, l’amore di Dio Padre per noi suoi figli.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Deuteronomio 4,1-2.6-8 Mosè parlò al popolo dicendo: «Ora, Israele, ascolta le leggi e le norme che io vi insegno, affinché le mettiate in pratica, perché viviate ed entriate in possesso della terra che il Signo-re, Dio dei vostri padri, sta per darvi.
Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla; ma osservere-te i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo.
Le osserverete dunque, e le metterete in pratica, perché quella sa-rà la vostra saggezza e la vostra intelligenza agli occhi dei popoli, i quali, udendo parlare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente”.
Infatti quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invo-chiamo? E quale grande nazione ha leggi e norme giuste come è tutta questa legislazione che io oggi vi do?».
La prima lettura ci presenta Mosè che parla al popolo e lo esorta a mettere in pratica la legge del Signore: esortazione, che costituisce il tema fondamentale del Deuteronomio (Dt 4,l; cf.
5,1; 6,1; 8,1; 11.
8-9).
I versetti iniziali del capitolo quattro sono costruiti con termini e forme linguistiche tipi-che dello stile deuteronomistico: «Ora, Israele (Shemá Israel); «Signore, Dio dei vostri padri»; «i comandi del Signore, vostro Dio, che io vi prescrivo».
Questi versetti sono come un preludio musicale, nel quale vengono anticipati i motivi dell’intera composizione (cf.
N.
Lohfink, Ascolta Israele, Esegesi di testi del Deuteronomio, Paideia Brescia 1965, p.
106).
Mosè invita con insistenza il popolo a mettere in pratica gli ordinamenti che egli ha ri-cevuto da Dio ed insegna al popolo.
La conseguenza della pratica dei comandamenti è la vita: Israele, attraverso l’obbedienza ai comandamenti è introdotto nella sfera della vita del Signore.
La libertà piena sarà raggiunta nella terra «che il Signore ha giurato di dare ai vo-stri padri e alla loro discendenza» (Dt 11,9; cf.
Dt 8,1).
Anche la vita libera e serena nella terra è legata all’obbedienza ai precetti.
La disobbedienza può comportare la perdita della terra, come è il caso di Israele in esilio, quando il Deuteronomio viene scritto.
Allora sorge una domanda angosciante; Israele che non ha più la terra, non ha più il tempio, può anco-ra distinguersi come popolo di fronte alle altre nazioni? I versetti 6-8 del capitolo 4, insie-me con tutto il libro del Deuteronomio, rispondono: «Israele senza terra e senza tempio è ancora una nazione distinta dalle altre, perché la sua identità di popolo di Dio gli è data dalla Tôrà del Signore, che contiene ordinamenti più saggi e più giusti di tutti quelli degli altri popoli.
Questa risposta del Deuteronomio sarà molto preziosa anche dopo la distru-zione del secondo tempio e di Gerusalemme nel 70 d.C.
da parte dei romani.
Intorno alla Tôrà si ricostituirà l’identità del popolo e la testimonianza al Dio unico, peculiare missione di Israele fra le genti, si esprimerà nella pratica dei precetti, l’osservanza dei precetti della Tôrà costituisce la saggezza e l’intelligenza di Israele «agli occhi dei popoli, i quali, udendo par-lare di tutte queste leggi, diranno: “Questa grande nazione è il solo popolo saggio e intelligente» (Dt 4,6).
Israele, oltre che per gli ordinamenti, si distingue per la particolare vicinanza a Dio.
In ebraico c’è un gioco di parole fra «vicino» (qarob) e «invocare» (qarà).
Israele, in esilio, apparentemente abbandonato dal suo Dio, lo ha ancora così vicino, che lo ascolta ogni volta che lo invoca, la vicinanza di Dio non è per Israele legata a un luogo, ma all’ascolto della sua Parola, che deve essere messa in pratica sempre e dovunque.
Dopo la colpa, c’è la possibilità del ritorno (teshuvà) «perché il Signore tuo Dio è un Dio mise-ricordioso, non ti abbandonerà e non ti distruggerà, non dimenticherà l’alleanza che ha giurato ai tuoi padri» (Dt 4,31).
In questa luce si capisce l’entusiasmo del Deuteronomio e di altre pagine bibliche, in particolare i Salmi, per i decreti e gli ordinamenti della Tôrà, che costituisce il patrimonio prezioso di Israele, che lo distingue dagli altri popoli e lo rende vicino a Dio in un modo del tutto peculiare.
Seconda lettura: Giacomo 1,17-18.21-22.27 Fratelli miei carissimi, ogni buon regalo e ogni dono perfetto vengono dall’alto e discendono dal Padre, creatore della luce: presso di lui non c’è variazione né ombra di cambiamento.
Per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di veri-tà, per essere una primizia delle sue creature.
Accogliete con docilità la Parola che è stata piantata in voi e può portarvi alla salvezza.
Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi.
Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfa-ni e le vedove nelle sofferenze e non lasciarsi contaminare da questo mondo.
I quattro versetti del primo capitolo della lettera di Giacomo (17-18.21.27) che la liturgia ci fa leggere oggi fanno parte della pericope 1,17-27, che è un’esortazione ad ascoltare e mettere in pratica la parola di Dio, perfettamente in linea con la prima lettura.
Giacomo si rivolge a discepoli di Gesù ebrei con un linguaggio a loro familiare.
Dio è Padre della luce e Padre di coloro che «per sua volontà egli ci ha generati per mezzo della parola di verità» (Gc 1,18).
I figli da lui scelti devono rispondergli con l’obbedienza, segno dell’ac-cettazione dei suoi doni, che sono permanenti e perfetti, non caduchi come quelli degli uomini (Gc 1,17).
Perfetta è la legge, che è il dono di Dio per eccellenza; essa è «la legge della libertà» (Gc 1,25).
La lettera di Giacomo, entrata nel canone allo stesso titolo delle lettere paoline, può aiu-tarci a mantenere un atteggiamento equilibrato nei confronti della Tôrà di Mosè, che gli e-brei religiosi del tempo di Gesù e dei secoli posteriori fino ad oggi hanno sempre cercato di mettere in pratica e di insegnare ai figli di generazione in generazione.
La presenza della lettera di Giacomo nel canone, ci ricorda che non possiamo farci una rivelazione su misura.
La Bibbia presenta spesso pagine che sembrano a una prima lettura in contraddizione, non dobbiamo di fronte alle difficoltà scegliere una pagina, ignorando l’altra.
Non possiamo parlare di grazia senza la legge; la legge (Tôrà) è il dono gratuito di Dio per eccellenza, come dice il Deuteronomio, il segno del patto di alleanza, che costitui-sce Israele nella realtà di popolo di Dio e lo fa vivere come tale.
I cristiani, se provenienti dal giudaismo, come dovevano essere quelli a cui Giacomo scriveva, devono continuare a seguire la legge di Dio «perfetta e legge della libertà», come ha dato l’esempio Gesù stesso.
Paolo stesso, nella lettera ai Romani dice: «Non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati» (Rom 2,13).
Anche i cristiani venuti dal paganesimo, non sono esonerati dal mettere in pratica la Paro-la di Dio, l’esempio di Gesù vale anche per loro.
Resta la problematica dell’interpretazione e del modo di applicazione, che si fa acuto per i cristiani provenienti dal paganesimo, co-me ne costatiamo il riflesso nella pagina evangelica.
Vangelo: Marco 7,1-8.14-15.21-23 In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme.
Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate – i farisei infatti e tutti i Giudei non mangiano se non si sono lavati accuratamente le mani, attenendosi alla tradizione degli antichi e, tornando dal mercato, non mangiano senza aver fatto le abluzioni, e osservano molte altre cose per tradizione, come lavature di bicchieri, di stoviglie, di oggetti di rame e di letti –, quei farisei e scribi lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?».
Ed egli rispose loro: «Bene ha profetato Isaìa di voi, ipocriti, come sta scritto: “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me.
Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini”.
Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini».
Chiamata di nuovo la folla, diceva lo-ro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro.
Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro».
E diceva [ai suoi discepoli]: «Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza.
Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Esegesi La pericope evangelica Mc 7,1-23, di cui leggiamo oggi i versetti 1-8, 14-15.21-23 è co-struita intorno alla problematica fondamentale di come distinguere il «comandamento di Dio», dal «precetti degli uomini».
Non è messa in discussione la Tôrà (insegnamento, leg-ge) data da Dio a Mosè sul Sinai, ma la sua interpretazione e le modalità della sua messa in pratica.
Gesù si scaglia in maniera molto polemica contro «le tradizioni degli uomini», che possono far dimenticare le esigenze fondamentali dei precetti divini, non contro que-st’ultimi, che invece devono essere eseguiti, come lui stesso da l’esempio.
I personaggi messi in scena dal brano sono nel primo quadro: i farisei e alcuni scribi ve-nuti da Gerusalemme, Gesù e i suoi discepoli (vv.
1-13); nel secondo: Gesù e la folla, chia-mata da lui (14-15.[16]); nel terzo: Gesù e i discepoli rientrati in casa (17-23).
La cornice è poco attendibile storicamente, è un pretesto per fissare l’attenzione sulle problematiche discusse.
Farisei e scribi, infatti, arrivati addirittura da Gerusalemme, pon-gono a Gesù una domanda: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione de-gli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (Mc 7,5) e poi scompaiono di scena, senza ri-spondere all’invettiva polemica di Gesù, nei loro confronti.
Dobbiamo rilevare che non è Gesù a commettere un’infrazione rituale (cf.
Mc 2,23), ma solo i discepoli non seguono la regola, presentata come facente parte della «tradizione de-gli antichi» (Mc 7,3).
Il desiderio di purificazione, che si manifestava nei bagni rituali, nelle immersioni, a-spersioni e abluzioni varie era diffuso nelle popolazioni antiche, non solo in Israele.
Il Vangelo di Marco presenta la regola di lavarsi le mani prima di prendere cibo come co-mune sia ai farisei sia a tutti i giudei (Mc 7,1-3).
Una affermazione, dice Piero Stefani nel suo commento al brano, che «appare difficilmente valida se situata all’epoca di Gesù.
Il la-vaggio delle mani (e dei piedi) si presenta, infatti, come esplicito precetto biblico solo nel caso del sacerdote che deve seguirlo prima di entrare nel luogo sacro per compiervi un’of-ferta (Es 30,17-21; cf.
Dt 21,6-7), (ma nulla era richiesto, neppure al sacerdote, in relazione alla consumazione del cibo comune).
All’epoca di Gesù, però, particolari gruppi di ebrei (detti chaverini), che si proponevano di realizzare la santificazione di ogni aspetto della vi-ta, e che perciò tendevano a comportarsi nelle loro case come i sacerdoti nel tempio, adot-tarono la prassi di lavarsi ritualmente le mani prima di mangiare.
È proprio quest’esten-sione della sacralità, tanto accentuata da farla in un certo senso coincidere con la profanità, indicò una delle vie che consentiranno all’ebraismo di proseguire la propria vicenda anche dopo la distruzione del secondo tempio.
Tuttavia questi gruppi (di cui non è neppure uni-versalmente condivisa l’identificazione con i farisei) rappresentavano solo una piccola mi-noranza della popolazione, non certo «tutti i giudei» (Mc 7,3).
Solo dopo la distruzione del tempio (in una data incerta, ma anteriore alla metà del II secolo), tale norma fu estesa a tut-ti e integrata nella codificazione della Mishná; in tal modo essa, secondo lo spirito proprio della tradizione ebraica, divenne, nonostante fosse stata promulgata dai maestri, tanto va-lida come se provenisse direttamente dal Signore, cosicché tuttora, quando si compie que-sta abluzione (detta notilat judalm), si recita la seguente benedizione: «Benedetto sei tu, o Signore Dio nostro re del mondo, che ci hai santificato con i tuoi precetti e ci hai comanda-to il lavaggio delle mani».
È però assai difficile ritenere che all’epoca di Gesù qualcuno po-tesse recitare una simile benedizione.
Sullo sfondo di queste precisazioni, risulta quanto meno strano che in Marco (ma non in Matteo 15,1-20) il discorso sulla purità prosegue fino a sfociare in una presa di posizione relativa alla stessa esistenza di cibi ritualmente puri (kasher).
«Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può contaminarlo, perché non entra nel cuore, ma nel ventre e va fino alla fogna?.
Dichiarava così mondi tutti gli alimenti» (Mc 7,18-19).
Non vi è dubbio infatti che le norme sulle purità del cibo non possono in alcun modo ritenersi «tradizioni degli uomini» (o degli antichi) (cf.
Mt 15,2.2.6; Mc 7,8.9.13); al contrario, esse devono venir considerate solidamente fondate sulla Tôrà scritta (Pentateuco) (cf.
Lv 11; Dt 14,3-20).
Né vi è alcuna indicazione che Gesù e i suoi discepoli (almeno prima della pa-squa) non si attenessero a questi precetti (stando a quanto pronunciato da Pietro nel libro degli Atti se ne dedurrebbe anzi il contrario, cf.
At 10,14; 11,8).
La disputa sui cibi divenne argomento di dibattito e tensione entro le comunità cristiane di origine pagana (cf.
Gai 2,11-14; Rm 14,1-6), perciò si è ragionevolmente proposto di veder proiettati sulle pagine evangeliche i motivi propri di tali dispute.
Subito dopo la discussione sull’impurità, Marco afferma che Gesù «partito di là, andò nel territorio di Tiro e Sidone» (Mc 7,24; cf.
Mt 15,21); espressione quest’ultima che nel suo indicare una terra pagana assume un significato non tanto geografico quanto teologico (cf.
1Re 17,8-16; Le 4,25-26).
Nella grande sezione del libro degli Atti (10, 1- 11,18), le tre volte avvenuta e le due volte raccontata visione di Pietro indicano chiaramente che il non consi-derare più impuro nessun cibo, in quanto tutto è purificato, deve ritenersi come grande metafora del rapporto (profondamente mutato dalla vicenda pasquale) tra figli d’Israele e figli delle genti; tant’è vero che Pietro stesso riassume il senso della sua visione con queste parole: «Ma a me Dio ha insegnato a non chiamare nessun uomo profano (koinos) e im-mondo (kathartos) (At 10,28).
Ai nostri giorni perciò, quando le polemiche interne a quelle primitive comunità sono ormai lontane, è legittimo (o addirittura richiesto) sostenere che la possibile partecipazione universale, attraverso la fede in Cristo, alla discendenza di A-bramo da parte dei figli delle genti (cf.
Gal 4,29) non solo non esclude, ma anzi addirittura comporta che i figli di Israele, popolo sacerdotale (Es 19,6), la cui elezione non è stata tolta (Rom 11,29), continuino ad essere assoggettati a norme più rigide a motivo della propria e altrui santificazione.
Si è detto che il giudaismo, così come vissuto dai farisei (e/o dai chaverim), affrontava il problema della santificazione d’Israele (e santificare qui significa separare), e questo com-pito si distingue marcatamente dalla dinamica tipica della predicazione del regno e del buon annuncio di salvezza tipico di Gesù e degli apostoli.
Per più aspetti tale affermazione appare convincente, ma ciò non dovrebbe impedire di comprendere adeguatamente le re-gole insite in tale santificazione, che non coincidono affatto, come una superficiale lettura di qualche passo evangelico indurrebbe a credere (cf.
Mt 15,1-20; 23,1-36; Mc 7,1-23; Lc 15,38-52), con un ipocrita tentativo di sostituire un’osservanza puramente esteriore all’ese-cuzione di più gravi e precisi precetti etici.
Per comprenderlo basterebbe tenere presente l’ovvia quanto dimenticata distinzione che «ritualmente impuro» non equivale affatto a «moralmente riprovevole».
Non a caso la maggior parte delle regole bibliche sulla purità indicano la maniera di purificare un’impu-rità contratta in modo inevitabile (e quindi moralmente neutro), come ad esempio quelle derivate dalle mestruazioni o dal parto (cf.
ad es.
Lv 12,1-8; 15,1-27; Num 19,11-22; Lc 2,22).
Una tipica espressione rabbinica per indicare la canonicità di un testo sacro è quella di sostenere che esso «rende impure le mani» (cf.
m.
Jadaim 3,5); tale espressione sarebbe da sola sufficiente ad indicare l’ambito in cui il giudaismo colloca la sfera dell’impurità o della purità, sfera che ha a che fare non con l’eticità (e ancor meno con l’igiene), bensì con una santificazione della vita compiuta secondo una procedura che non dovrebbe venir schernita, non foss’altro a motivo della millenaria fedeltà con cui è stata osservata da Israe-le» (P.
STEFANI, Sia santificato il tuo nome.
Commenti ai Vangeli della domenica.
Anno B, Marietti Genova 1987, p.
163-166).
Se è dall’interno di noi che hanno inizio gli impulsi malvagi o quelli buoni, nel nostro stato di creature corporee abbiamo bisogno anche di segni esterni; proprio il gesto del la-vaggio rituale delle dita, con la recita di un versetto di un salmo («Lavami Signore da ogni colpa, purificami da ogni peccato».
Sal 51,4) è il gesto che il sacerdote compie nel rito della messa subito dopo la preparazione delle offerte, prima di iniziare la grande preghiera eu-caristica.
Meditazione Spesso, nei racconti evangelici, ci imbattiamo in lunghe ed aspre polemiche che vedono a confronto Gesù, il suo comportamento e la sua parola, con l’élite più rappresentativa e impegnata della cultura religiosa ebraica, i farisei e gli scribi.
Questi, alcune volte conte-stano a Gesù o ai suoi discepoli un comportamento non conforme alle pratiche religiose comunemente e tradizionalmente accolte nel mondo giudaico; altre volte, invece lo inter-rogano su questo o quell’aspetto della Scrittura per sapere ciò che realmente pensa.
In ogni caso questi incontri producono sempre tensione, scontro e si rimane stupiti dalla durezza con cui spesso Gesù reagisce di fronte a quel mondo spirituale e giuridico di cui i farisei erano rappresentanti.
Soprattutto ciò che sembra irritare maggiormente Gesù non è tanto l’interpretazione della Scrittura che caratterizzava la visione religiosa di questi uomini, quanto piuttosto la loro sfacciata incoerenza che nascondeva, sotto una apparenza di per-fezione, una autosufficienza idolatrica, quella radicale doppiezza di vita che si concentra nel titolo con cui spesso i farisei sono chiamati: ipocriti.
È il caso della situazione presentata nel capitolo 7 di Marco il brano proposto in questa domenica (anche se la liturgia presenta solo una scelta di versetti per dare maggiore unita-rietà al contenuto).
«Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?» (v.
5).
L’interrogativo stupito e irritato che gli scribi e i farisei pongono a Gesù è dunque motivato da un comportamento ‘spavaldo’ dei discepoli, i quali sembrano non tener in nessun conto le prescrizioni della legge.
Il rap-porto tra Scrittura e Tradizione/tradizioni (vv.
6-13) e la relazione tra puro e impuro (vv.
14-23) che caratterizzano il dibattito che segue a questa domanda, mettono a fuoco un aspetto fondamentale.
Ciò che è in questione in questa polemica, non sono tanto delle pratiche re-ligiose, la loro validità o meno.
Al centro c’è la relazione con Dio, la scoperta del luogo profondo e vero in cui questa relazione prende forma e da qualità a tutta la vita.
Ma, proprio a partire da questo testo di Marco, ci si può domandare: erano realmente così i farisei? Citando il testo di Isaia 29,13, Gesù si rivolge ai farisei in questi termini: «Be-ne ha profetato Isaia di voi, ipocriti…
Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuo-re è lontano da me» (v.
6).
L’ipocrisia è una prerogativa dei farisei oppure è qualcosa che si nasconde nel cuore dell’uomo? E perché, in ogni caso, l’ipocrisia poteva essere un rischio di questa categoria dei persone? Farisei e scribi di fatto rappresentavano la parte religio-samente più impegnata di Israele, seriamente preoccupata di tradurre nella vita concreta quel rapporto con Dio, quella saggezza che sgorgava dalla parola e che caratterizzava l’u-nicità del popolo dell’Alleanza.
La responsabilità personale, l’interiorità della decisione morale, il profondo senso della santità e dell’alterità di Dio, la consapevolezza del dono ricevuto nella Legge orientavano questi uomini nella ricerca di una sincera e radicale fedeltà alla volontà di Dio.
Ma corre-vano un rischio: credevano di essere fedeli alla legge ‘ripetendola’ e pensavano di essere attuali frantumandola in una casistica sempre più complicata.
È il rischio che porta a una illusione: la pretesa di programmare il rapporto con Dio, la ricerca della sua volontà attra-verso una serie di comportamenti che danno sicurezza e in qualche modo fanno sentire a posto nella relazione con Dio o con gli altri.
La gratuità di una relazione, lo stupore di un Dio che sempre è al di là delle immagini che l’uomo ha di lui, la novità del dono, il cuore e l’essenziale della parola, tutto questo viene soffocato e annullato dalla pretesa dell’uomo di conoscere Dio e la sua volontà.
Gesù smaschera questo pericolo mettendo a confronto ciò che l’uomo cerca (in questo caso ciò che i farisei difendono) e ciò che Dio desidera dal-l’uomo.
E c’è un primo confronto che colpisce.
Il testo del Deuteronomio mette in bocca a Mosè queste parole: «…quale grande nazione ha gli dèi così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (Dt 4,7).
Colui che è il Santo, la cui tra-scendenza sembra rendere la creatura molto lontana da un incontro, è il Dio vicino, sem-pre disponibile quando lo si invoca, è il Dio che ha deciso di fare storia con l’uomo, di camminare con lui.
Pur restando irriducibile alla creatura, si lascia trovare ogni giorno e la sua vicinanza si trasforma in fedeltà all’uomo e alla sua storia.
Dio non è lontano; è l’uomo che spesso cammina per altre vie e colloca il suo cuore in luoghi diversi da quelli in cui può scoprire il volto di Dio.
E Gesù ricorda la parola di Isaia: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me» (Mc 7,6).
Ecco il pericolo: la pretesa di accostarsi a Dio, rimanendo tuttavia estranei a Lui, lontani.
E questo avviene quando il cuore della vita non aderisce veramente a Dio e alla sua parola, anche se si pretende di rendere un culto che è, alla fine, pura appa-renza.
Ma c’è un luogo in cui questa vicinanza si fa presenza efficace, parlante: è la Parola stes-sa di Dio contenuta nella Scrittura.
Ancora Mosè ricorda al popolo di Israele: «Israele, a-scolta le leggi e le norme che io vi insegno affinché le mettiate in pratica , perché viviate…
quella sarà la vostra saggezza e la vostra intelligenza» (Dt 4,1.6).
A Israele, il Signore chiede di ricambiare la fedeltà di cui Egli ha dato prova lungo il cammino di liberazione attra-verso il deserto, con l’obbedienza e l’ascolto di una Parola di vita e di saggezza.
Ed ecco al-lora un altro contrasto: «Trascurando il comandamento di Dio, voi osservate la tradizione degli uomini…
Annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi» (Mc 7,8.13).
L’uomo ha bisogno di attualizzare una obbedienza alla parola di Dio: è la legge della In-carnazione.
Ma deve sempre tenere presente questo: che la parola di Dio resta continua-mente aperta, anzi è la porta per un incontro vivo e personale con il Signore.
Non basta os-servare un precetto, se poi non si incontra veramente il volto del Signore.
E questo avviene quando si va al cuore della Parola, al luogo dove si rivela ciò che Dio vuole da noi.
E su questo punto Gesù è molto chiaro: il rischio che si incontra nell’assolutizzare un modo concreto di tradurre la Parola, è quello di non riuscire più ad andare al cuore di essa.
Come il cuore della Parola ci rivela la volontà di Dio, ce lo fa incontrare, così è il cuore dell’uomo il luogo che deve essere custodito nella verità e nella purezza.
Ecco il terzo con-trasto che Gesù ci presenta.
L’impurità che ci impedisce di accostarci a Dio o la purezza che ci permette di entrare nel luogo dove abita, non sono da ricercare fuori dell’uomo.
E se c’è un comportamento esterno che ostacola il nostro rapporto con Dio o con i fratelli, in ogni caso il punto di partenza è sempre nel cuore dell’uomo: «Dal di dentro, cioè dal cuore degli uomini escono i propositi di male…»(v.
21).
Il cuore dell’uomo non purificato è il covo di vizi che causano la rovina (cfr.
Lc 6,45).
E Gesù ci offre anche un elenco di ‘propositi di male’ (dialogismoi kakoi): dodici vizi, sei al plurale e sei al singolare che manifestano lo stato negativo del cuore attraverso un errato rapporto con sé stessi, con il proprio corpo, con gli altri.
L’ultimo vizio, la stoltezza, e la sintesi di un cuore intaccato dalla impurità e la fonte di ogni altro vizio: lo stolto è l’uomo che «non conosce Dio», l’uomo che dimentica e di-sprezza Dio, l’uomo lontano da Dio.
«Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo» (v.
20): non ci si purifica dalla vita quotidiana per incontrare Dio in chissà quale luogo perfetto e irreale; ci si deve purificare dal peccato che portiamo dentro di noi.
È il cuore malvagio che ci rende incapaci di avvicinarci a Dio; ciò che unisce ed avvicina a Dio è il cuore nuovo, il cuore puro che Dio stesso crea nell’uomo, in tutti, peccatori e giusti, giudei e pagani.
I farisei si accontentavano di prendere il pane con mani lavate; Gesù ci di-ce che per ‘afferrare’ il pane non servono mani pure, ma il cuore ‘secondo il Signore’.
Il pa-ne, il cibo, sono i simboli della vita, il simbolo della parola che è vita e che Gesù stesso ci dona.
Per ricevere da lui questo pane di vita si deve avere un cuore nella verità, un cuore che ama, un cuore buono, che desidera la vita.
Subito dopo questa disputa, Marco colloca l’episodio della donna siro-fenicia (Mc 7,24-30).
A questa donna, pagana e perciò impura, Gesù dirà: «Non è bene prendere il pane di figli e gettarlo ai cagnolini» (v.
27).
Così ri-sponderà la donna: «Signore, anche i cagnolini sotto la tavola mangiano le briciole dei fi-gli».
La consapevolezza umile di una lontananza da Dio rende il cuore di quella donna pu-ro e lo avvicina a Dio: può sedersi alla mensa ed afferrare il pane che vi è posto sopra, il pane del Figlio.
Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Le nuove regole di valutazione

Giro di vite sull’ammissione alla maturità, superbravi alla media in via d’estinzione e docenti di religione che dopo lo stop del Tar Lazio ritornano in pista per l’attribuzione del credito scolastico.
Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale del decreto del presidente della Repubblica numero 122, il Regolamento sulla Valutazione degli alunni è legge.
Un provvedimento che conferma una serie di cambiamenti introdotti già quest’anno (come i voti numerici sin dalla scuola primaria e il voto di condotta) ma che contiene almeno tre importanti novità.
La prima, che susciterà certamente polemiche, è quella sui docenti di religione, recentemente estromessi dal Tar Lazio dal computo del credito.
Il regolamento non tiene affatto conto della sentenza e siccome ha valore di legge a tutti gli effetti potrebbe “sanare” definitivamente la questione relativa ai crediti e rendere superfluo anche il ricorso al Consiglio di stato annunciato dal ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini.
Se così fosse la frequenza della religione cattolica potrebbe garantire agli alunni che se ne sono avvalsi, alla stessa stregua di altre attività anche extrascolatiche, un punticino di credito in più.
Il tutto, a partire dai prossimi esami di riparazione di settembre e a discrezione dei singoli collegi dei docenti.
In questo modo, le insistenti pressioni dei vescovi sul ministero dell’Istruzione, con buona pace di coloro che hanno sostenuto a gran voce la laicità dello Stato e dell’istruzione pubblica, avrebbero ottenuto il risultato sperato.
E l’impegno della Gelmini sarebbe stato mantenuto.
Altra novità che è destinata a fare discutere è la stretta, peraltro annunciata, sull’ammissione agli esami di stato della scuola secondaria superiore.
Dal prossimo mese di giugno, per essere ammessi alla maturità occorrerà avere almeno 6 in ogni disciplina.
Cosicché un buon voto in condotta o in educazione fisica non servirà a colmare lacune e brutti voti in altre materie.
Già quest’anno, con l’introduzione soft della media del 6 per l’ammissione, il numero di “caduti” prima delle prove d’esame è cresciuto del 25 per cento.
E l’ulteriore stretta rischia di decimare gli aspiranti agli esami.
Novità in vista anche per la scuola media.
Dal prossimo anno scolastico, il voto finale degli esami di licenza scaturirà da un conteggio matematico: la media aritmetica dei voti conseguiti all’ammissione, nelle singole prove scritte (tre o quattro), nelle prove Invalsi (i due test di italiano e matematica) e nel colloquio.
Tanto per avere un’idea, quest’anno i licenziati con dieci decimi sono stati quasi otto su 100.
Ma dalla prossima tornata avere il massimo dei voti diventerà quasi impossibile, perché basta avere soltanto quattro 9 e per il resto tutti 10 per vedersi sfuggire il diploma con 10.
E per i più bravi le commissioni avranno a disposizione anche la lode.
(20 agosto 2009) Pubblicato in Gazzetta ufficiale il decreto del presidente della Repubblica.
La normativa non tiene conto della recente sentenza del Tar del Lazio.
Nelle nuove regole di valutazione i prof di religione daranno i crediti.
Per l’ammissione alla maturità servirà la sufficienza in tutte le materie.
All’esame di terza media sarà quasi impossibile ottenere il massimo dei voti.