Baarìa

DOMANDE & RISPOSTE   Giuseppe Tornatore non ama particolarmente il termine kolossal per la sua nuova pellicola(ma lo è), Baarìa che ha aperto la 66° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.
Il  film è imponente e si percepisce dietro ogni scena l’immenso lavoro, lo sforzo duro che c’è stato nel realizzarlo.
Si ride molto, ci si commuove, dramma e comicità si alternano.
Perché come dice il regista: “Questo è un film dove ho messo tutto quello che ho imparato crescendo a Bagheria.
E uno degli insegnamenti principali è stato proprio quello che si può ridere di tutto nella vita”.
  Qui a Venezia abbiamo avuto la fortuna di vederlo in stretto dialetto baarìota, sottotitolato in italiano, quando il film uscirà nelle sale il 25 settembre distribuito da Medusa, avrà una doppia versione: quella dialettale e quella doppiata in un italiano con inflessioni sicule.
Baarìa che ha un prologo ambientato negli anni ’10 per terminare con un epilogo ai giorni nostri è incentrato negli anni dai ’30 agli ’80.
Impossibile raccontare la trama se non che la storia gira intorno a Peppino (Francesco Scianna, un attore bravissimo) e Mannina (Margareth Madè, splendida modella al suo esordio nel cinema), del loro grande amore che dura tutta la vita e di tutto un paese che gli ruota intorno.
“Se vuoi raccontare il mondo, racconta il tuo paese”, affermava Stendhal e questo ha fatto Tornatore.
Cosa c’è nel film, Tornatore? C’è la passione per la politica intesa come strumento per migliorare la propria esistenza, gli ideali, la lotta alla mafia, alla miseria, il duro lavoro, l’amore per il cinema, per il teatro, la magia, la fede, il comunismo, le illusioni, le delusioni.Tre anni ci sono voluti per realizzare Baarìa –quindi tutte le mie intenzioni le avete viste nel film, ci ho messo l’anima.
E’ stato il mio lavoro più duro e difficile ma ne sono fiero”.( 25 milioni di euro di budget, e 500 copie in arrivo.
La Medusa di Berliusconi si è “sprecata” alla grande).
Tornatore nel film Peppino alla fine dice “Vogliamo abbracciare il mondo ma abbiamo le braccia troppo corte per farlo”.
Si riferisce a qualcosa in particolare o è un suo modo di vedere la vita? E’ una frase che amo moltissimo perché solo una persona onesta la può dire.
Perché è ammettere i propri limiti, è quello che vorremmo fare ma che forse non siamo riusciti a fare.
E’ la consapevolezza anche della nostra superbia.
Ha una marea di significati, però positivi, non è una frase su una sconfitta.
Cosa ha significato per lei raccontare il microcosmo di Bagheria che diventa metafora del mondo? Tutti quelli che vivono in provincia vedono il loro paese come il centro del mondo.
E io penso che in parte sia giusto e vero perché un mondo ridotto ai minimi termini ti aiuta meglio a capire le cose, le rende più chiare.
I sogni e il vederli svanire, il bene e il male, le sorprese che ti riserva continuamente la vita… tutto si può raccontare attraverso le esistenze delle persone cresciute in piccolo paesello della Sicilia.
Nel film ci sono molte scene drammatiche, dovute soprattutto alla povertà, allo sfruttamento, alla violenza e alla durezza della vita ma si ride anche tanto… Fin dall’inizio, dalla stesura della sceneggiatura ho sempre pensato che l’ironia che a volte sfocia proprio nella comicità dovesse essere mischiata al dramma.
Un tempo i produttori dicevano:-Se vuoi che un film riesca bene devi sapere fare ridere e piangere-.
Ora, io non ho voluto applicare alla lettera questa massima ma l’ho trovata da sempre adatta alla storia che volevo raccontare.
Lo stile è quello, la filosofia è quella: per riuscire a superare, a sopravvivere alle ingiustizie e alla durezza dell’esistenza occorre essere capaci di riderci sopra.
Altrimenti è finita.
Peppino è un personaggio umile, di estrazione povera ma ha una eleganza nel vestire e nel portamento che lo identifica e lo distingue dagli altri.
E’ il simbolo della sua dignità come uomo? Assolutamente sì.
Per una persona con pochi mezzi, povera, la dignità arriva anche attraverso la sua eleganza, il suo amor proprio.
Peppino è una figura bellissima.
Un comunista che crede nella politica e nei suoi ideali, che viene deluso da questi, strapazzato dalla vita ma che continuerà come suo padre e il padre di suo padre a comportarsi da persona onesta.
Onestà nell’amore e in quello in cui si crede.
Ecco sotto questo aspetto il film è molto nostalgico perché oggigiorno è difficile trovare persone così limpide e la politica non rappresenta più un ideale, un modo per cambiare la propria vita.
E’ vista in tutt’altro modo e non c’è bisogno che ve lo spieghi io.
Alcune ore fa il  Presidente Silvio Berlusconi  ha definito il suo film un capolavoro.
Sottolineando il fatto che gli è piaciuto molto il momento in cui questo comunista va nell’allora Unione Sovietica e ne torna disgustato… Come commenta tutto ciò? Non sapevo che Berlusconi fosse anche un critico cinematografico… scherzi a parte, non ho letto queste dichiarazioni anche se mi sono state riportate.
Non nego che ogni volta che vengono fatti degli apprezzamenti al mio lavoro ne sono lusingato, quindi anche in questo caso.
Il film non è la storia di un comunista che va in URSS e torna deluso è molto di più, e tutto è molto più complicato di una lettura del genere.
Detto questo ho anche da ridire sul fatto che alcuni giornali abbiano insinuato che Berlusconi ha parlato bene del film perché è il mio produttore.
Non l’ho mai visto, mai incontrato in vita mia, quindi se è il produttore del film è un produttore davvero anomalo.
A cominciare dal fatto che raramente, davvero raramente i produttori parlano bene del film che hanno prodotto.(Ahi, ahi, Peppuccio, guidato da un ufficio stampa che è cresciuto sugli scandali cinematografici , non è che possiamo crederti molto!!!).
 Chi è  Regista famoso nel mondo, si è caratterizzato per il suo impegno civile e per alcune pellicole assai poetiche che hanno anche avuto notevole successo di pubblico.
Nato nel 1956 a Bagheria, un paesello nei pressi di Palermo, Tornatore si è sempre dimostrato attratto dalla recitazione e dalla regia.
All’età di soli sedici anni, cura la messa in scena, a teatro, di opere di giganti come Pirandello e De Filippo.
Si accosta invece al cinema, diversi anni dopo, attraverso alcune esperienze nell’ambito della produzione documentaristica e televisiva.
In questi campo ha esordito con opere assai significative.
Il suo documentario “Le minoranze etniche in Sicilia”, fra l’altro, ha vinto un premio al Festival di Salerno, mentre per la Rai ha realizzato una produzione importante come “Diario di Guttuso”.
A lui si devono inoltre, sempre per la Rai, programmi come “Ritratto di un rapinatore – Incontro con Francesco Rosi” o esplorazioni impegnate delle diverse realtà narrative italiane come “Scrittori siciliani e cinema: Verga, Pirandello, Brancati e Sciascia”.
Nel 1984 collabora con Giuseppe Ferrara nella realizzazione di “Cento giorni a Palermo”, assumendosi anche i costi e responsabilità della produzione.
Infatti è presidente della cooperativa che produce il film nonché co- sceneggiatore e regista della seconda unità.
Due anni dopo debutta con  “Il camorrista”, in cui viene tratteggiata la losca figura di un della malavita napoletana (liberamente ispirata alla vita di Cutolo).
Il successo, sia di pubblico che di critica, è incoraggiante.
Il film si aggiudica oltretutto il Nastro d’Argento per la categoria regista esordiente.
Sulla sua strada capita Franco Cristaldi, il famoso produttore, che decide di affidargli la regia di un film a sua scelta.
Nasce in questo modo “Nuovo cinema Paradiso”, un clamoroso successo che proietterà Tornatore nello star system internazionale, tanto che gli verrà attribuito un premio a Cannes e l’Oscar per il miglior film straniero.
Inoltre, diventa il film estero più visto sul mercato americano degli ultimi anni.
Nel 1990 è quindi la volta di un’altro commovente lungometraggio quel “Stanno tutti bene” (viaggio di un padre siciliano alla volta dei suoi figli sparsi per la penisola), interpretato da un Mastroianni in una delle sue ultime interpretazioni.
L’anno successivo, invece, prende parte al film collettivo “La domenica specialmente”, per il quale gira l’episodio “Il cane blu”.
Del 1995 è “L’uomo delle stelle”, forse il film che maggiormente è stato apprezzato tra i suoi lavori.
Sergio Castellitto interpreta un singolare “ladro di sogni” mentre il film vince il David di Donatello per la regia ed il Nastro d’Argento per la stessa categoria.
Dopo questi successi, è la volta di una altro titolo da botteghino.
“La leggenda del pianista sull’oceano”.
Il protagonista è l’attore americano Tim Roth mentre come sempre Ennio Morricone compone delle bellissime musiche per la colonna sonora.
Una produzione che sfiora la dimensione del kolossal….
Anche questo titolo fa incetta di premi vincendo il Ciak d’Oro per la regia, il David di Donatello per la regia e due Nastri d’Argento uno per la regia ed uno per la sceneggiatura.
Esattamente dell’anno 2000 è invece la sua opera più recente “Maléna”, una coproduzione italo-americana con Monica Bellucci protagonista.
Nel 2000 ha anche prodotto un film del regista Roberto Andò dal titolo “Il manoscritto del principe”.
Filmografia essenziale: Camorrista, Il (1986) Nuovo cinema Paradiso (1987) Stanno tutti bene (1990) Domenica specialmente, La (1991) Pura formalità, Una (1994) Uomo delle stelle, L’ (1995) Leggenda del pianista sull’oceano, La (1998) Malèna (2000) La sconosciuta (2006)   Aforismi di Giuseppe Tornatore «I film che facciamo risentono del nostro percorso di formazione.» «Oggi deleghiamo tutto agli altri, anche la gestione degli affetti.» «Tra regista e attore protagonista, quando si cerca di dare il massimo, sono normali i momenti di confronto.
Questo nel gran cortile della comunicazione, della stampa, viene talvolta ingigantito.
Così nasce la leggenda dei rapporti difficili.» Una storia, divertente e malinconica, di grandi passioni e travolgenti utopie.
Una leggenda affollata di eroi…
Una famiglia siciliana raccontata attraverso tre generazioni: da Cicco al figlio Peppino al nipote Pietro…
Sfiorando le vicende private di questi personaggi e dei loro familiari, il film evoca gli amori, i sogni, le delusioni di un’intera comunità vissuta tra gli anni trenta e gli anni ottanta del secolo scorso nella provincia di Palermo.
Negli anni del fascismo Cicco è un modesto pecoraio che trova, però, il tempo di dedicarsi al proprio mito: i libri, i poemi cavallereschi, i grandi romanzi popolari.
Nelle stagioni della fame e della seconda guerra mondiale, suo figlio Peppino s’imbatte nell’ingiustizia e scopre la passione per la politica.
E poi… Il film “Baarìa” del  regista Giuseppe Tornatore è il nome siciliano di Bagheria, cittadina della provincia di Palermo, ha subito diviso la critica così come il pubblico per il tipo di struttura narrativa in cui la linea del tempo sembra improvvisamente piegarsi per cui il presente e il futuro si confondono fra loro attraverso la dimensione onirica e fantastica.
Ecco che ciò che era presente diviene futuro e il futuro diventa passato, un passato ricco di emozioni, sentimenti, sensazioni e, soprattutto, cambiamenti sociali.
Grazie ad un budget piuttosto elevato e alla possibilità di disporre a piacimento di circa 150 minuti il cineasta riesce a dar vita, anima e respiro ad un’epopea italiana in cui mescola immagini di fantasia con quelle di repertorio e autobiografiche che rendono la pellicola suggestiva e realistica.
“Baarìa” è come l’enciclopedia della storia della Sicilia e dell’Italia e, quindi, dello stesso autore che riversa nel film tutto l’amore per la sua terra natia, assolata, calda, spazzata dal vento i cui abitanti sono ancora oggi molto legati alla tradizione.
E’ un piccolo mondo fatto di speranze, sogni, disillusioni, ideali, è la vita stessa con la sua bellezza e la sua bruttura rappresentata dal regista con ridondanza ed arte.
Quello che colpisce fin da subito è la tecnica del cineasta che mostra la sua abilità e capacità di colpire lo spettatore/trice e di accompagnarlo/a attraverso la storia d’Italia utilizzando come punto di riferimento una famiglia di Bagheria.
La ricostruzione storica è perfetta nonostante le difficoltà legate al dover rappresentare un periodo così complesso costellato di grandi eventi e cambiamenti.
La cittadina di “Baarìa” lentamente si trasforma e cambia così come i suoi abitanti che vivono i grandi eventi della storia italiana.
Sono narrate le vicende di tre generazioni di una famiglia di Bagheria: l’occhio indiscreto della telecamera segue la vita di Peppino, interpretato da Francesco Scianna al suo esordio come attore, dalla sua infanzia fino al matrimonio con Mannina (l’esordiente Margareth Madé), e il suo impegno politico oltre che il rapporto con i figli.
Attraverso la vita del protagonista il regista cerca di raccontare quasi un secolo di storia italiana dalle due Guerre Mondiali, allo sbarco degli alleati, quindi il Fascismo che lascia il posto al Comunismo, alla Democrazia Cristiana e al Socialismo”Tutto scorre”(Eraclito, filosofo greco presocratico), è l’idea motrice del film che racconta e descrive, che cerca di guidare lo spettatore a rivivere quel periodo, le emozioni e la vita di quegli uomini e quelle donne.
 E’ un film corale che tocca diversi temi ed elementi: dal rapporto con i genitori, la morte, il lavoro, l’amore, la passione politica, la mafia, la corruzione ed altri sentimenti.
Titolo originale: Baarìa Nazione: Italia, Francia   Anno: 2009 Genere: Drammatico Durata: 1.50 Regia: Giuseppe Tornatore Cast:  Monica Bellucci( che fa la solita bellona di passaggio), Raoul Bova, Ángela Molina, Enrico Lo Verso, Luigi Lo Cascio, Laura Chiatti, Nicole Grimaudo, Nino Frassica, Aldo, Leo Gullotta, Beppe Fiorello, Vincenzo Salemme, Lina Sastri, Giorgio Faletti, Nino Frassica, Salvatore Ficarra, Valentino Picone Produzione: Medusa Film, Quinta Communications, Ministero per i Beni e le Attività Culturali Distribuzione: Medusa Data di uscita: Venezia 2009 25 Settembre 2009 (cinema)

Al presbiterio, una famiglia “in missione

Tutte le mattine, Émilie de Lepinau si alza al suono delle campane a pochi metri dalle sue finestre.
Aprendo le imposte, la giovane ventinovenne si concede qualche momento di ammirazione per la vista panoramica, dall’alto del presbiterio, sulla chiesa Saint-Maxime d’Antony (Hauts-de-Seine), a sud di Parigi.
Mentre lei fa far colazione ai suoi quattro figli, suo marito Marco, 31 anni, attraversa il cortile per andare ad aprire il portone della chiesa prima di recarsi al lavoro.
Da cinque anni, la coppia abita sopra le sale del catechismo, nel presbiterio.
“Siamo una ‘famiglia   d’accoglienza’, spiega Émilie.
Il nostro ruolo è innanzitutto quello di rendere vivo il luogo,   abitandovi.” Nella diocesi di Nanterre, come loro, una quindicina di famiglie hanno ricevuto una   missione dal vescovo: essere “una presenza cristiana nel quartiere”, aggiunge.
Le modalità sono   state definite con il parroco della parrocchia quando sono arrivati, padre Didier Berthet, secondo i bisogni del luogo e i desideri dei Lepinau.
Si tratta di partecipare alla manutenzione quotidiana, di impegnarsi nei gruppi di catechesi e nell’animazione della preparazione al battesimo…, quindi non di sostituire il prete o di incaricarsi del lavoro dell’équipe dei laici.
Émilie non dimentica che a lei spetta portare “solo una piccola pietra alla costruzione.
Mio marito vuota le pattumiere delle   chiesa, io assicuro la presenza per l’accoglienza il sabato mattina, e partecipiamo ad alcune attività.
Ma se sento che è meglio occupare la serata stando con i miei bambini, non esito a trascurare una riunione che si svolge al piano di sotto.” La vita della loro famiglia risente comunque del ritmo della parrocchia.
Come per il Natale, che passano nel presbiterio, invitando spesso il parroco e dei preti che insegnano all’università e che non conoscono nessuno.
E avere una chiesa in fondo al giardino influenza continuamente il loro vissuto quotidiano, dandogli una forte dimensione spirituale.
“Quando Marc chiude il portone alla sera,   porta con sé i figli più grandi per pregare con loro.” Durante la giornata, quando Émilie gioca con   suoi bambini nel cortile del presbiterio, i parrocchiani vengono spesso a sedersi accanto a lei.
“Si   deve accogliere, essere in ascolto, constata Émilie.
Ma nel limite del rispetto della nostra intimità.”   Alle tre del mattino, quando un senzatetto o un ubriaco viene a suonare, Marc dà informazioni su dove rivolgersi, ma “il nostro ruolo non è quello di ospitarli”, aggiunge Émilie.
  “Non è un lavoro, è una missione”, insiste.
Le sue giornate sono sempre molto piene, e lei   approfitta in ogni istante di questa “situazione di lusso” spirituale.
“Potersi raccogliere davanti   all’altare, da sola, conclude la giornata in bellezza e permette di relativizzare, continua.
Da   giovani, eravamo dei cristiani nomadi.
Qui, siamo immersi nella realtà di una parrocchia.
Quando prendo un caffè sul mio balcone, vedo le persone che vengono a pregare durante la giornata e, ogni volta, sono sorpresa nello scoprire persone così diverse.
Mi chiedo sempre come certi trovino il tempo di venire così spesso.” Odile e Aranud Sesboüé, impegnati in un’avventura simile, possono ormai giudicare con maggiore distacco: per quattro anni hanno abitato in una parrocchia di Indre-et-Loire.
Oggi stabilito a Le Mans (Sarthe), Arnaud, farmacista cinquantenne, ammette del resto di aver “fatto fatica a partire”.
  Eppure, quando sono arrivati nella grande casa “di vecchie pietre” accanto alla chiesa Notre-Dame   de Richelieu (Indre-et-Loire), con quattro figli tra cui un neonato, non sono stati accolto a braccia aperte.
“La parrocchia era divisa e a certi dispiaceva molto che non fosse un prete ad occupare il   presbiterio, vuoto da cinque anni”, ricorda Arnaud.
Dopo un periodo di adattamento, i rapporti sono   stati più facili, “quando la gente ha capito che eravamo una famiglia come le altre, solo desiderosa   di mettersi a servizio della Chiesa”, aggiunge Odile, 45 anni.
  “Ben presto, i nostri figli hanno animato il giardino, attirando una banda di ragazzini a giocare con loro, racconta.
Eravamo al centro della città, e di fronte c’era la scuola.
Allora, quando una   mamma tardava a recuperare il figlio all’uscita da scuola, la maestra mi chiedeva se potevo occuparmene nell’attesa.” La cittadina, dove San Vincenzo de Paoli abitò per un po’ nel XVII   secolo, attira molti gruppi di pellegrini che passano dalla chiesa, ma anche dalla casa dei Sesboüé.
    “Abbiamo fatto degli incontri molto belli, racconta Arnaud.
Un pomeriggio d’inverno, due religiose,   una canadese ed un’australiana, hanno bussato alla porta del presbiterio.
Volevano solo visitare la sacrestia, ma ci siamo ritrovati a bere un caffè e a discutere in cucina fino alla sera” Nella vita   quotidiana, Arnaud e Odile erano diventati una vera “presenza di e nella Chiesa”, qualcuno a cui   rivolgersi in occasioni speciali.
“Dopo un decesso, le famiglie venivano da noi, cercando il   parroco.
Siccome non era di nostra competenza, servivamo da tramite verso i servizi appropriati.
Ma eravamo i primi a cui rivolgersi anche in caso di problemi .” Come in quella domenica, in cui   dei parrocchiani hanno fatto irruzione nella loro cucina per avvertirli che il tabernacolo era stato profanato.
La maggior difficoltà di queste coppie, sottoposte ad una sorta di vita pubblica è quella di sapersi proteggere.
“È anche successo che ci chiedessero di fare di più, sempre piccole cose, ma che   avrebbero potuto invadere e destabilizzare il nostro equilibrio familiare”, ricorda Arnaud.
Il prete   referente ha sempre chiaramente definito la loro missione, opponendosi al fatto che si accollassero troppe responsabilità.
“Se padre Xavier Malle non avesse insistito sui limiti del nostro ruolo, non   avremmo resistito”, aggiunge Odile.
  Era solo “una missione sul nostro cammino di fede”.
Eppure, lasciare il presbiterio è stato difficile   per la famiglia Sesboüé.
“C’è un grande vuoto, dopo, ammette Odile.
Era anche un grosso   impegno, allora nell’anno successivo al nostro trasloco abbiamo assunto degli impegni meno gravosi.” Prima di lanciarsi nel loro prossimo progetto: una formazione per degli adolescenti che   stanno seguendo attualmente.
Ad Antony, anche Émilie e Marc sono coscienti del fatto che è solo     “per un periodo”.
“Resteremo sempre legati a questo presbiterio, perché due dei nostri figli sono nati qui e per ora è il posto dove abbiamo abitato più a lungo, confida Émilie.
Sapere che non sarà   per tutta la vita ci spinge a viverlo al massimo.
Anche se siamo riconoscenti di aver la fiducia dei preti per essere ‘immagine di Chiesa’, a volte mi piacerebbe andare a messa in incognito!” in “La Croix” del 12 settembre 2009 (traduzione.
www.finesettimana.org)

Dialogo tra chiesa e governo Italiano

L’INTERVISTA Cosa vede, professor de Rita, dal suo osservatorio? Cosa sta accadendo nei rapporti tra politica e Chiesa in Italia? «Penso semplicemente, per dirla col mio amico Antonio Polito, che non sono i giornali a dettare l’agenda politica.
E per fortuna.
Soprattutto quando si tratta di giornalismo spesso militante».
Quindi, pensando al caso Boffo e alle sue dimissioni? «Quindi non è Vittorio Feltri a dettare l’agenda a Silvio Berlusconi così come non è Dino Boffo, né il suo caso, a dettarla al cardinal Bertone.
La politica ecclesiale proseguirà, così come sempre: si riparlerà di scuole cattoliche, di questioni etiche.
Si tratta di rapporti tra due poteri forti.
Andranno inevitabilmente avanti.
Magari Gianni Letta getterà molta acqua sul fuoco.
E lo stesso farà il cardinal Bertone.
Ma parliamo di contingenza.
Di immediatezza.
Il vero problema riguarderà un futuro non lontano…» Di quale problema si tratta, professor De Rita? «Lo chiamerei del ‘policentrismo parallelo’».
Urge una spiegazione per una formula che già appare molto complessa…
«La spiegazione arriva e non è complessa.
Da una parte c’è la dimensione dello Stato italiano unitario che non c’è più, così come l’abbiamo conosciuto, e non ci sarà per molto tempo: il centralismo, l’amministrazione, l’élite.
Stiamo assistendo a un progressivo policentrismo che non è solo localismo politico ma anche riscoperta di culture articolate, del dialetto, di un diverso modo di interpretare, nelle singole città, avvenimenti come l’Expò a Milano o le Olimpiadi a Torino».
E lo stesso, lei dice, starebbe avvenendo nella Chiesa? «Il mio vecchio e buon amico Francesco Cossiga si infuria quando assiste alle tante dichiarazioni di vescovi italiani.
Ma deve darsi pace.
Perché anche la Chiesa, fatalmente come lo Stato italiano, si sta avviando al policentrismo.
L’allora cardinale Ratzinger richiamò la Chiesa, prima di essere eletto Pontefice, alla sua ‘verticalità’, ricordando che le conferenze episcopali nazionali non hanno una base teologica.
In effetti non potrà mai perdere questa sua ‘verticalità’…
Ma bisognerà insieme fare i conti con la realtà che vive ora la Chiesa nel quotidiano: i parroci, i vescovi attivi nelle diocesi, le associazioni.
E i vescovi parlano, hanno opinioni diversificate, lo abbiamo visto e sentito in questi giorni.
Anche qui, con buona pace di padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, la ‘vera’ Chiesa italiana sono quei cento vescovi che intervengono e dicono la loro, ben più di un comunicato ufficiale.
Comunque basta leggere certi testi del professor Paolo Prodi per capire quanto la Chiesa, storicamente, abbia rispettato il localismo.» Quindi in prospettiva questa Chiesa policentrica dovrà dialogare con un potere italiano sempre più «locale»….
«La Chiesa non rinuncerà mai alla Curia né alle conferenze episcopali locali, altrimenti sarà impossibile governare un miliardo di cattolici.
Però si assisterà sempre di più a due concezioni della Chiesa: il centralismo e le realtà locali, spesso effervescenti e vitalissime.
È un problema che riguarda il destino stesso del cattolicesimo » In questa prospettiva come si colloca per esempio una realtà politica come la Lega di Umberto Bossi? «Tra vent’anni e in quest’ottica, una realtà come la Lega avrà più facilità a dialogare con la Chiesa, da localismo a localismo.
Nessuno negherà l’autorità teologica del Papa.
Ma se si vorrà ragionare in termini di territorio, un movimento come la Lega non avrà più bisogno di un Letta che media tra Berlusconi e la Chiesa o di un Pecchioli ‘ambasciatore’ del Pci presso la Santa Sede».
Allora le mosse di Umberto Bossi di questi giorni…
«No, no.
Insisto.
Non parlo dell’oggi.
Ma penso in prospettiva».
.in “Corriere della Sera” dell’8 settembre 2009 «Tra i vescovi idee diverse Per la Lega dialogo più facile» La frattura tra governo italiano e vertici della Santa Sede si ricomporrà presto.
Così come presto riprenderà il confronto su questioni etiche e scuole confessionali.
Parola di Giuseppe de Rita, sociologo cattolico, attento osservatore di ciò che accade nella Chiesa italiana, soprattutto nella sua base.

«Guerra alla guerra»

Il mondo è lacerato.
Le ferite sembrano insanabili.
La speranza è crollata sotto i bombardamenti, che non hanno risparmiato nazioni, persone e cose.
La ricostruzione latita.
Un tale orrore non deve ripetersi.
Ora è necessario iniziare una nuova guerra che faccia guerra a se stessa, perché troppo fragile è l’animo umano, troppo volubile il suo cuore.
Nel clima di propaganda, all’indomani della fine dei combattimenti, il cinema si inserisce come uno degli strumenti meno vulnerabili e capaci di penetrare maggiormente una società in bilico, spaesata, avvilita.
Riconoscono questa grande opportunità anche i cattolici, soprattutto la riconosce Pio XII.
Nasce in questo contesto, nel 1948, uno dei documenti cinematografici più interessanti nella storia del Novecento e certamente meno visti dal pubblico di ieri e di oggi:  Guerra alla guerra.
Prodotto dalla Orbis con il sostegno del Centro Cattolico Cinematografico, diretto da due registi italiani piuttosto sconosciuti, Romolo Marcellini – già autore del precedente e più famoso Pastor Angelicus girato nel 1942 – e Giorgio Simonelli, il film è stato proiettato a Venezia per la sezione “Questi Fantasmi” curata da Sergio Toffetti.
“Di Guerra alla guerra si è parlato tanto – precisa il curatore – ma quasi nessuno ebbe la possibilità di vederlo perché la sua distribuzione fu quasi inesistente.
Si è deciso il restauro, in collaborazione con la Filmoteca Vaticana, lavorando sul positivo e sul controtipo conservati nell’archivio della Cineteca Nazionale, cercando di recuperare quei materiali in grado di farci ottenere la copia migliore possibile”.
La sceneggiatura si deve a Diego Fabbri, Turi Vasile e Cesare Zavattini.
“Fabbri e Vasile furono le teste pensanti alla base della fondazione della casa di produzione Orbis.
Era un tentativo di competere nell’ambito del cinema d’autore, del cinema di regia, con gli altri nascenti poli cinematografici italiani, facendo sì che il cattolicesimo potesse avere in questo settore della comunicazione e dell’arte una sua voce di riferimento, un suo strumento.
In questo clima e con queste finalità nasce Guerra alla guerra, che indirettamente ebbe l’approvazione di Papa Pacelli”.
Il film è costruito incastrando abilmente documenti visivi dell’epoca entro una narrazione molto chiara, appositamente girata e dal sapore neorealista.
Una famiglia felice soffre la perdita di un figlio a causa di un bombardamento, che distrugge completamente anche la loro casa.
Le scene di guerra, quelle di morte, violenza, orrore sono, invece, tutte reali e più che mai esplicite e impressionanti per l’epoca, quando la guerra forse la si voleva dimenticare più che rivedere sullo schermo. La fase bellica è preparata contrapponendo alla natura pacifica e idilliaca nella quale l’uomo lavora quotidianamente per la sua necessaria sussistenza, la realtà delle fabbriche nelle quali, come fucine di morte, si costruiscono armi.
In questo modo si degrada, si snatura il lavoro umano che cambia la sua finalità, che crea morte anziché vita.
“In qualche modo direi che il film è animato da un pensiero fichtiano – precisa Toffetti.
Come all'”io” si contrappone un “non-io”, così nel film l’uomo crea manufatti e oggetti che servono alla sua vita quotidiana e per il bene, ma anche strumenti per la sua morte e per il male.
Inoltre, siamo in quella particolare stagione della storia italiana in cui il Paese, uscito dalla guerra, sta per passare da un’economia prevalentemente agricola a una industriale e proprio l’industria deve convertirsi definitivamente al bene dell’umanità, contrapponendosi alla stagione precedente in cui era dedita alla distruzione”.
Nel film, chiunque tiene in mano un’arma o manovri una macchina da guerra o sganci una bomba sulla popolazione innocente e inerme – vediamo anche l’esplosione dell’atomica – è additato come nemico dell’umanità.
Per questo non ci sono divise ed eserciti identificabili, non si fa distinzione tra Paesi, né tra vincitori e vinti.
Nel moltiplicarsi delle distruzioni e degli orrori, mentre nel film ci si domanda:  “mansueti e pacifici, dove sono?”, si leva una voce che assomiglia a quella di colui che “grida nel deserto”.
È la voce di Pio XII, che vediamo ripreso in momenti famosi – l’arrivo al quartiere di San Lorenzo a Roma dopo il bombardamento, quando il Papa è descritto come “la bianca colomba che vola per portare a termine la sua opera di carità” – e in atteggiamenti pastorali meno noti.
L’invocazione alla pace, a mano a mano che le atrocità crescono, si fa più insistente:  “Venga la pace”, “Servire la pace” e Pio XII diventa il protagonista.
Lo scorgiamo in profonda preghiera, mentre conforta e benedice.
Quando la logica delle armi prevale sulla ragione, quando il “veleno” circola ovunque e la stessa Roma è in pericolo, la voce fuori campo esclama:  “Vogliono far tacere Cristo”.
Ma il Padre – così è chiamato il Papa – non tace:  riceve in udienza i potenti del mondo, quelli che ne detengono le sorti prima e dopo la guerra; organizza l’allestimento dei campi di raccolta e di soccorso, ordina di aprire la residenza di Castel Gandolfo e i conventi di Roma per dare rifugio ai dispersi; accoglie, benedice, esorta alla pace e al perdono.
“Non sappiamo se Pio XII sia stato direttamente coinvolto nella produzione e fino a che punto l’abbia sostenuta personalmente – spiega Toffetti – ma l’aver concesso l’uso copioso della sua immagine è un implicito avallo del film”.
“Per questo motivo era importante acquisire la pellicola – aggiunge Claudia Di Giovanni, direttore della Filmoteca Vaticana – e la collaborazione con la Cineteca Nazionale l’ha reso possibile.
Ora è nostro desiderio organizzare una speciale proiezione da offrire alla Curia romana, per l’importanza che nel film occupa la figura di Papa Pacelli, per come sono descritti i suoi sforzi per la pace”.
La proiezione veneziana è stata introdotta dal breve I figli delle macerie commissionato ad Amedeo Castellazzi, sempre nel 1948, dall’Associazione nazionale combattenti e reduci, squarcio intenso di vita nel quale la voce di una mamma morta invoca la protezione del suo bambino rimasto orfano e abbandonato.
Molti dei suoi piccoli compagni abbrutiti e soli si aggirano nei paesi distrutti mentre le bambine sono fortunatamente accolte nei madrinati provinciali gestiti da alcune Congregazioni di religiose.
La speranza rinasce da qui e il cinema se ne fa interprete.
(©L’Osservatore Romano – 7-8 settembre 2009)

La sfida educativa

E’ on line la nuova sezione del sito www.progettoculturale.it dedicata al tema centrale degli orientamenti pastorali della CEI per il prossimo decennio, quello dell’emergenza educativa www.progettoculturale.it/lasfidaeducativa: questa la chiave d’accesso verso una nuova preziosa risorsa che dal 1° settembre è a disposizione, in rete, di quanti vorranno iniziare ad approfondire il tema che la Conferenza Episcopale Italiana ha deciso di porre al centro degli orientamenti pastorali per il decennio 2010-2020: quello della sfida educativa.
Punto di partenza di questa fase del lavoro sarà certamente il primo rapporto-proposta dedicato a questo tema dal Comitato per il progetto culturale della Chiesa Italiana, presieduto dal Card.
Camillo Ruini.
Un testo che verrà presentato a Roma il prossimo 22 settembre (maggiori dettagli sul sito) e di lì inizierà un piccolo giro d’Italia le cui prime tappe già in calendario (cui molte altre ne seguiranno) sono Perugia, Bologna, Venezia e Firenze.
 Primo Rapporto-Proposta sull’Educazione COMUNICATO STAMPA Avrà la forma del Rapporto-Proposta e verterà sull’emergenza educativa la prima indagine pluridisciplinare promossa dal nuovo Comitato per il Progetto culturale della Conferenza episcopale italiana affidato di recente alle cure del cardinale Camillo Ruini.
E’ questo il senso delle prime scelte maturate nel corso delle iniziali sedute del Comitato stesso, il quale ha deciso anche che l’indagine con al centro la «questione educativa» verrà presentata già nel corso del 2009.
«L’emergenza educativa costituisce la motivazione principale del Rapporto/Proposta alla luce della nuova “questione antropologica” e dell’idea che abbiamo dell’uomo, della sua libertà e del futuro stesso della nostra comunità nazionale – spiega il cardinale Camillo Ruini −.
Occorre avere chiaro il traguardo dell’educazione, che è la persona umana.
Quando si è consapevoli che l’uomo non è semplicemente una parte della natura, ma è immagine di Dio con una sua propria responsabilità morale, allora si può concepire l’educazione come un processo che mira a formare la persona ai grandi valori che le sono costitutivi.
Se fino a ieri era quasi scontato che una generazione dovesse farsi carico dell’educazione dei più giovani, oggi non sembra più così.
Siamo davanti alla dissoluzione di questo automatismo con i gravi rischi le sono connessi, ma anche con le opportunità che si possono aprire all’orizzonte.
Il Rapporto/Proposta che si sta elaborando è una di queste opportunità, in quanto si propone di leggere e interpretare i processi in atto nella nostra società secondo il punto di vista cattolico, anche alla luce delle ricerche teoriche ed empiriche che, negli ultimi quindici anni, il Progetto culturale orientato in senso cristiano ha prodotto nell’ambito proprio dell’educazione”.
La famiglia, la scuola, la comunità cristiana, la vita sociale e i mass media saranno i capitoli portanti dell’indagine: «Cercheremo di offrire una rappresentazione realistica della situazione dell’educazione in Italia, che tenga conto certo dei problemi, ma anche delle risorse – sottolinea il sociologo Sergio Belardinelli, coordinatore dello staff di lavoro -.
Si tratta di promuovere una consapevolezza che possa dar luogo nel nostro Paese ad una sorta di alleanza per l’educazione.
Credo sia questa la finalità più forte del Rapporto/Proposta da articolare in varie forme concrete, con il coinvolgimento e la collaborazione del maggior numero possibile di interlocutori, nei diversi luoghi in cui sappiamo che l’istanza educativa si fa cruciale».
Roma, 2 dicembre 2008 COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE

Una nuova carriera per gli insegnanti

Le anticipazioni dell’ampia intervista rilasciata dal ministro Gelmini al mensile Tuttoscuola, che la pubblicherà integralmente nel numero di settembre, hanno suscitato vivo interesse nei media e nel mondo della scuola, tra gli insegnanti e i sindacati.
Per i nostri lettori riportiamo qui di seguito una parte del comunicato stampa di Tuttoscuola, contenente le citate anticipazioni, quella riguardante il tema della carriera degli insegnanti.
Successivamente pubblicheremo anche le altre due parti del comunicato, relative al tema del merito e a quello dei precari.
In corsivo le considerazioni, in neretto le domande di Tuttoscuola, tra virgolette le risposte del ministro Gelmini.
 Di carriera per i docenti si parla da anni, ma finora non si è realizzato nulla di concreto.
La Gelmini rompe gli indugi, scavalca l’iniziativa parlamentare (DDL Aprea in Parlamento), e lancia una sfida al sindacato che ha il sapore di un’ultima chiamata.
Annuncia a Tuttoscuola: “Entro sei mesi intendo definire le regole per la carriera dei docenti.
Vorrei farlo con il coinvolgimento dei sindacati e delle associazioni professionali.
Apriamo un tavolo, sono aperta a consigli, suggerimenti, proposte, non ad una contrattazione sindacale.
Se dopo sei mesi si sarà pervenuti a una soluzione condivisa bene, altrimenti il Governo andrà avanti per la propria strada prendendosi tutte le responsabilità.
E’ una cosa troppo importante, un passaggio fondamentale per arrivare a quella valorizzazione dei docenti che tutti vogliamo”.
Insomma, un’apertura importante al sindacato, ma con un termine ben preciso.
Dopo il quale, la Gelmini intende procedere comunque, con o senza la condivisione delle parti sociali.
Sei mesi sembrano un traguardo ambizioso, se non ottimistico.
L’ultima volta che si è aperto un tavolo su questo argomento non sono bastati cinque anni per arrivare a qualcosa di concreto…
“Se ci si vuole arrivare, sei mesi sono più che sufficienti, non perderò e non farò perdere questo treno alla scuola.
Del resto siamo tutti d’accordo, ritengo, sul fatto che la qualità della scuola è data prima di tutto dalla qualità delle persone che la rappresentano.
Ebbene dobbiamo essere tutti consapevoli che se la carriera resta quella che è, o mi lasci dire quella che non è, non avremo mai le migliori risorse sulle nostre cattedre.
Dobbiamo attrarre verso l’insegnamento le risorse migliori, i cervelli più brillanti, quelli in grado di accendere la scintilla della conoscenza nei nostri studenti.
Come farlo? Discutiamo di questo”.
 “Io dico che prospettare un percorso in cui chi dà di più può raggiungere uno status e dei riconoscimenti anche economici di tutto rispetto possa rendere più appetibile una professione che è in se stessa affascinante, ma che oggi presenta troppi fattori disincentivanti per i giovani più motivati.
Mi chiedo se ci può essere oggi qualche giovane brillante e ambizioso che possa essere attratto dalla prospettiva di entrare in ruolo a 40 anni per guadagnare 1.300 euro al mese.
Lo chiedo ai sindacati, ci può essere? Lo dico chiaramente: l’insegnamento non può essere una professione di serie B, non può essere il ripiego nel caso non siano andate bene altre strade o per chi vuole conciliare un impiego a mezzo servizio con altri impegni.
Oggi in troppi casi, non nascondiamolo, è così”.

XXIII Domenica del tempo ordinario anno B

Effatà «A tante domande sulla malattia del comunicare umano contrapponiamo ora una scena di risanamento.
Contempliamo Gesù nel momento in cui sta facendo uscire un uomo dalla sua incapacità a comunicare.
Si tratta della guarigione del sordomuto raccontata in Mc 7, 31-37.
S.
Ambrogio chiama questo episodio -e la sua ripetizione nel rito battesimale – “il mistero dell’apertura”: “Cristo ha celebrato questo mistero nel Vangelo, come leggiamo, quando guarì il sordomuto” (I misteri, I, 3).
Dividiamo il racconto in tre tempi: la descrizione del sordomuto, i segni e gesti di aper-tura, il miracolo e le sue conseguenze.
1.
La narrazione evangelica precisa anzitutto il disagio comunicativo di quest’uomo.
E’ uno che non sente e che sì esprime con suoni gutturali, quasi con mugolìi, di cui non si co-glie il senso.
Non sa neanche bene cosa vuole, perché è necessario che gli altri lo portino da Gesù.
Il caso è in sé disperato (7, 31-32).
2.
Ma Gesù non compie subito il miracolo.
Vuole anzitutto far capire a quest’uomo che gli vuol bene, che si interessa del suo caso, che può e vuole prendersi cura di lui.
Per que-sto lo separa dalla folla, dal luogo del vociferare convulso e delle attese miracolistiche.
Lo porta in disparte e con simboli e segni incisivi gli indica ciò che gli vuol fare: gli introduce le dita nelle orecchie come per riaprire i canali della comunicazione, gli unge la lingua con la saliva per comunicargli la sua scioltezza.
Sono segni corporei che ci appaiono persino rozzi, scioccanti.
Ma come comunicare altrimenti con chi si è chiuso nel proprio mondo e nella propria inerzia ? come esprimere l’amore a chi è bloccato e irrigidito in sé, se non con qualche gesto fisico? Notiamo anche che Gesù comincia, sia nei segni come poi nel co-mando successivo, con il risanare l’ascolto, le orecchie.
Il risanamento della lingua sarà conseguente.
A questi segni Gesù aggiunge lo sguardo verso l’alto e un sospiro che indica la sua sof-ferenza e la sua partecipazione a una così dolorosa condizione umana.
Segue il comando vero e proprio, che abbiamo scelto come titolo di questa lettera: “Effatà” cioè “Apriti!” (7, 34).
E’ il comando che la liturgia ripete prima del Battesimo degli adulti: il celebrante, toc-cando con il pollice l’orecchio destro e sinistro dei singoli eletti e la loro bocca chiusa, dice: “Effatà, cioè: apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio” (Rito del-l’Iniziazione Cristiana degli Adulti, n.
202).
3.
Ciò che avviene a seguito del comando di Gesù è descritto come apertura (“gli si a-prirono le orecchie”), come scioglimento (“si sciolse il nodo della sua lingua”) e come ritro-vata correttezza espressiva (“e parlava correttamente”).
Tale capacità di esprimersi diviene contagiosa e comunicativa: “E comandò loro di non dirlo a nessuno.
Ma più egli lo racco-mandava, più essi ne parlavano”.
La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga.
Lo stupore e la gioia si diffon-dono per le valli e le cittadine della Galilea: “E, pieni di stupore, dicevano: “Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti”” (7, 35-37).
In quest’uomo, che non sa comunicare e viene rilanciato da Gesù nel vortice gioioso di una comunicazione autentica, noi possiamo leggere la parabola del nostro faticoso comu-nicare interpersonale, ecclesiale, sociale.
Possiamo anche individuare le tre parti di questa Lettera: 1.
rendersi conto delle proprie difficoltà comunicative; 2.
lasciarsi toccare e risana-re da Gesù; 3.
riaprire i canali della comunicazione a tutti i livelli.
Il comunicare autentico non è solo una necessità per la sopravvivenza di una comunità civile, familiare, religiosa.
E’ anche un dono, un traguardo da raggiungere, una partecipa-zione al mistero di Dio che è comunicazione».
(Card.
C.M.
MARTINI, Lettera pastorale: Effatà, apriti, 1990-1991).
Dal silenzio alla parola Vivere è percorrere la stessa avventura del sordomuto della Decapoli: ognuno è un uomo che non sa parlare, un uomo che non sa ascoltare.
Un nodo in gola, un nodo in cuo-re.
Penso alle mie sordità, al mio ascoltare senza partecipazione; penso alla mia lingua an-nodata, all’insignificanza dei miei messaggi e delle mie parole.
E ne comprendo la causa.
Non so ascoltare chi è appena fuori del mio spazio vitale, dall’ambito della famiglia o delle amicizie; o ascolto distrattamente, “a mezzo orecchio”, sperando solo che l’altro finisca in fretta, perché ho cose più intelligenti da dire, osservazioni più acute, idee più importanti.
E la parola si fa dura e vuota.
«Il primo servizio che dobbiamo rendere ai fratelli è quel-lo dell’ascolto.
Chi non sa ascoltare il proprio fratello presto non saprà neppure ascoltare Dio, sarà sempre lui a parlare, anche con il Signore» (Bonhoeffer), come il fariseo nel tempio: «Io, Signore, io e i miei digiuni, io e le decime, io…».
In quante famiglie si parla tra sordi.
E diventano culle di silenzio e di solitudini.
Quanti figli perduti nelle nostre case, e bastava forse solo ascoltarli.
Chi non sa ascoltare perderà la parola, perché parlerà senza toccare il cuore dell’altro.
Guariremo tutti dalla povertà delle parole solo quando ci sarà donato un cuore che a-scolta.
È ciò che fa Gesù: porta in disparte il sordomuto, lo tocca con le sue dita, con il se-gno intimo e vitale della saliva.
È ciò che continua a fare con me: mi tocca in ogni gioia e in ogni prova, i giorni vibrano della sua presenza, mi tocca in ogni fratello che mi viene incontro, nei poveri senza voce, negli anziani soli che nessuno ascolta.
Mi tocca e mi restituisce il dono di ascoltare e di “parlare correttamente”, che non è l’e-loquenza ma una nuova capacità di comunicare, di indovinare quelle parole che toccano il nervo della vita, bruciano le ipocrisie, hanno il gusto dell’amicizia.
Gesù ripete anche a me: «Effatà, apriti! Esci dal tuo nodo di silenzi e di paure; apriti ad accogliere vite nella tua vi-ta, spalanca le tue porte a Cristo».
Se rimani chiuso in te, non scoprirai mai, diceva un tormentato scrittore, «un Dio che gioisce e ride con l’uomo davanti ai caldi giochi del sole o del mare» (Pasolini) o che versa le sue lacrime nelle tue lacrime, ma solo distanza e solitudine.
«E comandò loro di non dirlo a nessuno».
Gesù aiuta senza condizioni.
Per lui è più importante la gioia del sordomuto, che non la sua gratitudine; la felicità dell’uomo conta più della fedeltà.
Quanti miracolati del Vangelo sembrano scomparire nel nulla, rapiti nel gorgo della lo-ro felicità.
Invece stanno fecondando in silenzio la storia con una nuova capacità di vere relazioni.
(Ermes Ronchi) La tua Parola La tua Parola, Signore, non l’hai scritta perché io la studiassi e la spiegassi.
La tua Paro-la, Signore, mi è giunta perché l’amassi, perché mi sforzassi di calarla nel mio intimo, per-ché anch’io potessi diventare una tua parola.
(E.
OLIVERO, L’amore ha già vinto Pensieri e lettere spirituali, Cinisello Balsamo, San Pao-lo, 2005, 119).
«Apri la tua bocca» Sia sempre nel nostro cuore e sulla nostra bocca la meditazione della sapienza e la no-stra lingua esprima la giustizia.
La legge del nostro Dio sia nel nostro cuore.
Per questo la Scrittura ci dice: «Parlerai di queste cose quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai» (Dt 6,7).
Parliamo dunque del Signore Gesù, per-ché egli è la Sapienza, egli è la Parola, è la parola di Dio.
Infatti è stato scritto anche questo: «Apri la tua bocca alla parola di Dio».
Tu la apri, egli parla.
Per questo Davide ha detto: «Ascolterò che cosa dice in me il Signore» (cfr.
Sal 84,9) e lo stesso Figlio di Dio dice: «Apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80,11).
Ma non tutti pos-sono ricevere la perfezione della sapienza come Salomone e come Daniele.
A tutti però viene infuso lo spirito della sapienza secondo la capacità di ciascuno, perché tutti abbiano la fede.
Se credi, hai lo spirito di sapienza.
Perciò medita sempre, parla sempre delle cose di Dio «quando sarai seduto in casa tua» (Dt 6,7).
Per casa possiamo intendere il nostro intimo, per parlare all’interno di noi stessi.
Parla con saggezza per sfuggire al peccato e per non cadere con il troppo parlare.
Quando stai seduto parla con te stesso, quasi come se dovessi giudicarti.
Parla per strada, per non essere mai ozioso.
Tu parli per strada se parli secondo Cristo, perché Cristo è la via.
In cammino parla a tè stesso, parla a Cristo.
Quando ti alzi, parlagli per eseguire ciò che ti è comandato.
Senti come Cristo ti sveglia.
La tua anima dice: «Un rumore! È il mio diletto che bussa», e Cristo dice: «Aprimi sorella mia, mia amica» (Ct 5,2).
Senti come tu devi svegliare Cristo.
L’anima dice: «Io vi scongiuro, figlio di Gerusalemme, svegliate, ridestate l’amore» (Ct 3,5).
L’amore è Cristo.
(S.
Ambrogio di Milano).
Preghiera Benedetto sei Tu, Signore nostro Dio, per l’amore che hai mostrato a noi in Gesù Cristo nostro Signore.
In Lui, che ci ha amati sino alla fine, noi siamo vincitori sul dolore, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la miseria, e pericoli e la morte violenta.
Nel silenzio dell’abbandono e della solitudine Tu elargisci le ricchezze della tua benedizione e sfami la fame di compagnia con l’abbondanza della Tua Parola e del Tuo Corpo.
Ti rendiamo grazie, perché Tu ascolti il silenzio dei nostri cuori, Tu agisci in noi con la tua potenza, ci guarisci dall’incomunicabilità, sciogli la nostra lingua e metti sulle nostre labbra il nome di Gesù tuo Figlio.
Fa’ che possiamo testimoniarTi come nostro unico Salvatore, sempre più uniti in una sola fede e in un solo Battesimo.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 35,4-7a Dite agli smarriti di cuore: «Coraggio, non temete! Ecco il vostro Dio, giunge la vendetta, la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi».
Allora si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto, perché scaturiranno acque nel deserto, scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una pa-lude, il suolo riarso sorgenti d’acqua.
I capitoli 34-35 costituiscono la cosiddetta «Piccola Apocalisse» del libro di Isaia.
Com-posti probabilmente dopo l’esilio, contengono una serie di oracoli di giudizio contro i ne-mici d’Israele (34), contrapposti a oracoli di salvezza (35).
Un inno di gioia (35, 1-3) introduce l’oracolo di consolazione rivolto agli «smarriti di cuore»: l’intervento del Signore è insieme vendetta, ricompensa e salvezza.
La giustizia si pre-senta con due facce, il castigo degli empi e la retribuzione dei giusti.
All’annuncio del v.
4 segue la descrizione del giorno della salvezza (vv.
5 e ss.), per mezzo delle immagini tradizionali che rappresentano i tempi messianici.
Ciechi, sordi, zoppi e muti saranno sanati: le diverse situazioni di schiavitù, i diversi impedimenti che incatenano il popolo credente cadono come per incanto.
Sono guarigioni reali e simboliche a un tempo: aprire gli occhi, schiudere gli orecchi significa anche dare la vera conoscenza spirituale e convertire i cuori all’ascolto della parola del Signore: saltare come cervi e gridare di gioia rappresenta la libertà e l’entusiasmo di confessare la fede.
La salvezza coinvolge non solo gli esseri umani, ma anche la natura, il cui ritorno alla vita è rappresentato con le immagini dell’acqua che rigenera il deserto e feconda la terra.
Il paese inaridito che simboleggiava il castigo divino (34, 10ss.) torna qui a fiorire: scaturi-ranno acque, torrenti nella steppa, la terra bruciata sarà una palude e il suolo riarso si a-nimerà di sorgenti.
Seconda lettura: Giacomo 2,1-5 Fratelli miei, la vostra fede nel Signore nostro Gesù Cristo, Signore della gloria, sia immune da favoritismi personali.
Supponiamo che, in una delle vostre riunioni, entri qualcuno con un anello d’oro al dito, vestito lussuo-samente, ed entri anche un povero con un vestito logoro.
Se guardate colui che è vestito lussuosamente e gli dite: «Tu siediti qui, comodamente», e al povero dite: «Tu mettiti là, in piedi», oppure: «Siediti qui ai piedi del mio sga-bello», non fate forse discriminazioni e non siete giudici dai giudizi perversi? Ascoltate, fratelli miei carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri agli occhi del mondo, che sono ricchi nella fede ed eredi del Regno, promesso a quel-li che lo amano? La lettera di Giacomo entra nel quotidiano della vita di comunità, con chiare indicazioni di comportamento.
Le conseguenze pratiche della fede sono estremamente chiare fin dall’inizio della lette-ra.
Il secondo capitolo si apre con un’affermazione categorica: esiste una contraddizione insanabile tra la fede nel Signore Gesù e gli interessi personali, egoistici e transitori.
I tre versetti successivi (2-4) chiariscono l’affermazione con un esempio.
La descrizione dell’uomo ricco e del povero accolti nell’assemblea con evidente disparità di trattamento è vivace e realistica, tanto da far pensare che già nella comunità delle origini esistessero que-sti problemi.
L’interrogativo finale lascia alla coscienza della persona la decisione: ma l’ac-cusa è forte e fa riflettere.
Si tratta infatti non semplicemente di discriminare (diakrinô), ma addirittura di giudizi perversi (kritaì dialigismôn ponêrôn).
Non è quindi solo una fede debo-le e incerta, ma una vera e propria ingiustizia nei confronti dei fratelli, qualcosa che ferisce profondamente la comunità.
Potremmo dire, con linguaggio moderno, che i favoritismi dettati dall’attenzione al denaro e ai privilegi sociali non sono semplicemente un «peccato veniale».
Segue infatti un ragionamento stringato che ribadisce il pensiero dell’Apostolo.
Il v.
5, che introduce l’argomentazione, è una domanda retorica che, nella linea del pensiero dei profeti d’Israele e dello stesso Paolo, ricorda la scelta preferenziale di Dio a favore dei po-veri.
I poveri agli occhi del mondo sono ricchi nella fede ed eredi del regno: i criteri umani sono quindi completamente capovolti dalla logica di Dio, e se preferenza deve esserci nella co-munità cristiana, questa deve andare proprio a coloro che dal mondo sono emarginati e respinti.
Vangelo: Marco 7,31-37 In quel tempo, Gesù, uscito dalla regione di Tiro, pas-sando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano.
Lo prese in disparte, lonta-no dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la sa-liva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo del-la sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno.
Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Esegesi La guarigione del sordomuto, narrata solo in Marco, è localizzata in territorio pagano (la Decapoli), dove tuttavia sembra essere già giunta la fama di Gesù taumaturgo.
Il primo versetto (31) offre una precisa indicazione geografica, anche se non appare chiaro l’itinerario seguito da Gesù per giungere da Tiro e Sidone (sulla costa fenicia) fino alla Decapoli, a est del lago di Tiberiade.
Il v.
32 presenta la situazione, senza indugiare sui preamboli: la gente del posto chiede a Gesù di imporre le mani sul malato, credendo forse che la sua potenza passi come un flui-do magnetico.
Non è ancora fede, ma ingenua fiducia, forse mista a superstizione, nei con-fronti di un uomo che opera prodigi.
I tre versetti centrali (33-35) descrivono il miracolo, con alcune notazioni importanti che introducono il tema del «segreto messianico».
Gesù prende in disparte l’uomo, lontano dalla folla, come a voler dissipare ogni fraintendimento propagandistico in quello che sta per fa-re; eppure indulge alla semplicità della gente e compie anche dei gesti concreti (le dita nel-le orecchie, la saliva) che potrebbero farlo assomigliare ai maghi e taumaturghi del tempo.
Il prodigio tuttavia non si compie direttamente in conseguenza dei gesti, ma appare piut-tosto effetto dell’invocazione di Gesù e della sua parola, non a caso nel versetto centrale (34): egli alza gli occhi al cielo, rivolto palesemente a Dio, e dice in aramaico «Apriti!».
Il collegamento parola-evento è chiaramente sottolineato dall’avverbio «e subito».
Il prodigio è espresso con verbi che adombrano anche un significato di conversione interio-re: gli orecchi «si aprono», il cuore e la mente dell’uomo sono quindi aperti ad accogliere la Parola del Signore; la lingua «si scioglie», l’uomo è quindi liberato dai legami del male che lo tenevano prigioniero.
Viene poi la raccomandazione del segreto, caratteristica di Marco (v.
36): l’ora non è an-cora giunta, e tuttavia la notizia del prodigio viene diffusa nonostante il divieto di Gesù.
La reazione (v.
37) è di stupore, il miracolo risveglia qualcosa di più della superstizione che lo aveva preceduto.
Queste persone credevano possibili guarigioni prodigiose, ma l’a-zione di Gesù li sorprende: ancora adesso non è fede, ma un passo ulteriore si è compiuto, ci si interroga su chi sia quest’uomo che fa udire i sordi e fa parlare i muti.
Meditazione Il passo evangelico di questa domenica inizia con una breve introduzione di carattere geografico.
Sono nominate le città di Tiro e Sidone, il territorio della Decàpoli: l’evangelista Marco ha cura di farci sapere che Gesù, dopo l’episodio della donna siro-fenicia (cfr.
7,24-30), rimane nella regione pagana del paese e quindi anche il personaggio che tra poco in-contrerà è un pagano.
«Gli portarono un sordomuto…» (v.
32).
Sulla scena compaiono all’improvviso alcune persone anonime che si preoccupano di condurre a Gesù un uomo gravemente colpito nel-la sua dimensione comunicativa (è infatti «sordo» e «muto», cioè incapace di ascoltare e di parlare) per chiederne la guarigione.
È da notare che il termine impiegato da Marco per connotare il mutismo di quest’uomo (in greco: mogilálon, «che parla a fatica, con difficol-tà») si trova solo qui in tutto il NT e ricorre un’altra volta soltanto nell’AT, precisamente nel testo di Is 35,6 (vedi il brano proposto come prima lettura).
Con ciò l’evangelista vuole invitare i suoi lettori a comprendere questo episodio come il compimento di una profezia, come uno dei segni messianici che Gesù realizza.
Subito, senza perdere tempo e senza troppi discorsi, Gesù mette in atto la sua ‘terapia’ (vv.
33-34).
E per prima cosa «prende con sé» il sordomuto (il verbo evidenzia un tratto di delicata accoglienza da non trascurare, soprattutto nel difficile rapporto che a volte si in-staura tra malato e guaritore) e lo porta «in disparte».
Per un incontro vero e personale con Gesù è necessario separarsi dalla folla, allontanarsi dagli umori sempre ambigui e volubili di essa.
Poi Gesù compie due gesti molto concreti (all’apparenza quasi rozzi e poco elegan-ti) che esprimono la volontà di stabilire un contatto con il malato – anche fisico, corporeo -, di stabilire una comunicazione che prende avvio proprio dagli organi malati: gli orecchi e la lingua.
È un «toccare» che mira a riaprire i canali chiusi della comunicazione alla loro sorgente, là dove ogni suono e ogni voce entra nel corpo (gli orecchi) e là dove ogni parola prende forma per uscire verso l’esterno (la lingua).
Gesù quindi prosegue levando gli occhi al cielo, in un gesto di preghiera, ed emettendo un sospiro, un «gemito», quasi a esprimere un appello, un’invocazione muta e silenziosa a quel Dio che può donargli la forza di vince-re ogni resistenza insita nel corpo dell’infermo.
Un sospiro che dice la sua pena e, insieme, la sua partecipazione a una tale condizione umana.
Da ultimo pronuncia un comando, for-te e imperioso, che è la parola centrale e decisiva di tutto il racconto: «Effatà».
È una parola in aramaico, come altre parole cruciali e decisive riportate da Marco nel suo vangelo.
È cu-rioso che qui Gesù parli al singolare: «Apriti!»: è anzitutto l’uomo come tale, nella sua tota-lità, che deve aprirsi, che deve lasciare che questa parola rompa, infranga, vinca la sua chiusura.
Prima che essere rivolta alle sue orecchie, questa parola di Gesù è rivolta al suo cuore, al centro interiore dell’intera sua persona.
Ed ecco il risultato immediato di tutta questa opera di guarigione: «E subito gli si apri-rono gli orecchi…» (v.
35).
C’è un’«apertura», c’è uno «scioglimento», c’è un parlare ritrova-to e «corretto», che manifestano l’efficacia della ‘cura’ di Gesù e diventano altresì contagio-si, tanto che i presenti non riescono a ubbidire al comando di Gesù, che ingiungeva loro il silenzio, ma «più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano…» (v.
36).
Con una bella im-magine, il card.
C.M.
Martini nella sua lettera pastorale «Effatà, Apriti» così commenta: «La barriera della comunicazione è caduta, la parola si espande come l’acqua che ha rotto le barriere di una diga.
Lo stupore e la gioia si diffondono per le valli e le cittadine della Gali-lea…».
L’esclamazione conclusiva (v.
37), pronunciata al colmo dello stupore, rievoca la fi-nale del racconto della creazione: «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31).
Siamo dunque in presenza di un evento che dischiude di nuovo la real-tà originaria, un evento in grado di ricreare quell’umanità così come Dio l’aveva voluta a-gli inizi della creazione.
S.
Ambrogio, nella sua spiegazione al rito dell’ Effatà che si celebrava durante la liturgia battesimale (reinserito ora nella celebrazione del Battesimo degli adulti), chiama questo episodio evangelico: «il mistero dell’apertura».
In un contesto di iniziazione è fondamenta-le che qualcosa venga ‘aperto’ ed è nondimeno fondamentale la consapevolezza del biso-gno di ‘lasciarsi aprire’.
Tutto il vangelo di Marco è attraversato da questa ‘apertura’ (dai cieli che si aprono al battesimo di Gesù fino al velo del tempio che si squarcia «da cima a fondo» al momento della sua morte) e forse non è un caso che questo racconto di guari-gione sia stato collocato a questo punto della narrazione evangelica: la sua valenza simbo-lica in ordine al cammino di sequela dei discepoli può essere illuminante.
Ricordiamo che siamo nel contesto della cosiddetta «sezione dei pani» (Mc 6,30-8,21) in cui è più volte sot-tolineata l’ottusità dei discepoli, la loro lentezza di mente, la loro durezza di cuore: di fron-te a sempre nuove e più grandi rivelazioni di Gesù corrisponde da parte loro un’incom-prensione sempre maggiore.
I discepoli appaiono come ciechi e sordi, incapaci di vedere e udire la novità del vangelo.
Ecco allora che la fatica impiegata da Gesù per guarire quel sordomuto (la molteplicità dei dettagli è indicativa di tutta la laboriosità e lo sforzo com-piuto per risolvere il caso) diventa segno della fatica usata a guarire i discepoli dalla loro cecità e sordità spirituale (riguardo alla cecità, l’episodio del cieco di Betsàida, in 8,22-26, svolge una funzione analoga).
Ma, nello stesso tempo, l’’apertura’ del sordomuto diventa anche segno della possibilità offerta a tutti (discepoli compresi!) di ottenere la guarigione, di ritrovare una capacità nuova di ascolto e comprensione del mistero di Gesù.
Ed è pro-prio questo il vero miracolo a cui tende tutto il vangelo…
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

Cultura e Religione: Unità 1

Schema  Per introdurci 1.
Esperienza di riferimento
                                 Elaborazione                  L’esperienza di Anna  – Integrazioni Autori   Esperienza Marco Esperienza Chiara – integrazioni dei collaboratori OF:  lo studente impara a leggere nella natura i segni che parlano della presenza di Dio           e partecipa alle suggestioni che l’ambiente gli offre.
2.
Intepretazione
            Il mistero della vita: Tagore              Il cielo stellato: Eliade – Integrazioni Autori  – integrazioni dei collaboratori      3.
suggestioni per un progetto  il confronto                  Dalla creatura al creatore  – Integrazioni Autori   salmo 83      – integrazioni dei collaboratori 4.
Inserisci un tuo commento     Nel riquadro in fondo:      Osservazioni, suggerimenti, critiche all’elaborazione proposta Per consultare l’intera unità:            UdA 1.