Chiesa e Stato in Italia.

PERTICI ROBERTO,  Chiesa e Stato in Italia dalla grande guerra al nuovo concordato (1914-1984), Il Mulino 2009 ISBN: 8815132805, pp. 891, € 55.00.
Roberto Pertici ripercorre la storia dei rapporti tra Chiesa e Stato nell’Italia del Novecento, attraverso un’analisi approfondita delle discussioni parlamentari, del dibattito politico-culturale e dei rapporti diplomatici fra Italia e Santa Sede.
Dopo una premessa sulle radici risorgimentali della questione romana, lo studioso analizza la svolta rappresentata dalla prima guerra mondiale, che crea i presupposti per il superamento dell’antica contrapposizione, e poi la lunga trattativa approdata alla Conciliazione del 1929.
La sopravvivenza dei patti lateranensi nella crisi e dopo la caduta del regime fascista e il complesso percorso che porta all’articolo 7 della Costituzione: questo il problema ulteriore affrontato dall’autore, che infine segue il contrastato iter della riforma del Concordato nei decenni dell’Italia repubblicana, fino alla sua conclusione con gli accordi di Villa Madama del febbraio 1984.

Quel sogno fallito di Cavour

Il testamento biologico, la pillola Ru486, l’insegnamento religioso nelle scuole, il giudizio delle gerarchie ecclesiastiche sulle frequentazioni femminili del presidente del Consiglio e, naturalmente, il «caso Boffo» sono soltanto gli ultimi episodi di un problema, quello dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, che domina da centocinquant’anni, con fasi alterne, la vita nazionale.
Il punto di partenza potrebbero essere i due discorsi di Cavour alla Camera e al Senato nel marzo e nell’aprile del 1861.
Forte dei grandi successi ottenuti nei mesi precedenti, Cavour non esitò a porre il problema di Roma e a interpellare direttamente Pio IX: «Santo Padre, il potere temporale per voi non è più garanzia di indipendenza.
Rinunciate ad esso e noi vi daremo quella libertà che avete invano chiesta da tre secoli a tutte le grandi potenze cattoliche (…) noi siamo pronti a proclamare nell’Italia questo gran principio: libera Chiesa in libero Stato».
Come scrive Roberto Pertici in un libro edito dal Mulino — Chiesa e Stato in Italia.
Dalla Grande guerra al nuovo Concordato (1914-1984) — Cavour conosceva e apprezzava il ruolo della religione nelle società politiche, ma aveva letto Tocqueville ed era convinto che soltanto una netta separazione dello Stato dalla Chiesa, come negli Stati Uniti, avrebbe permesso al sentimento religioso di esprimersi con la massima libertà e spontaneità.
Occorreva quindi spogliare la Chiesa di tutti gli anacronistici privilegi accumulati nel corso dei secoli e al tempo stesso spogliare lo Stato di tutti i diritti d’ingerenza negli affari ecclesiastici che i re e gli imperatori avevano conquistato per se stessi soprattutto negli ultimi decenni dell’Ancien Régime e nell’era napoleonica.
Separazione, nel linguaggio politico di Cavour, era sinonimo di libertà.
Non credo che vi sia un altro programma politico, nella storia dell’Italia unita, che sia stato altrettanto citato, invocato, elogiato, ma sostanzialmente ignorato, bistrattato e spesso spudoratamente contraddetto.
Con qualche esagerazione si potrebbe affermare che il libro di Pertici è la storia di un progetto fallito o, per meglio dire, di tutto ciò che l’Italia ha fatto o tentato di fare per allontanarsi dalla generosa visione di Cavour.
Nata da una iniziativa del Senato e completata da un’appendice (circa 300 pagine) in cui sono riprodotti i dibattiti parlamentari (da quello sulla ratifica dei Patti Lateranensi a quello del 1984 sulla revisione del Concordato), questa opera è scritta nello stile e nello spirito di alcuni grandi predecessori dell’autore, da Francesco Ruffini a Stefano Jacini, da Arturo Carlo Jemolo a Francesco Margiotta Broglio; ed è l’opera di cui abbiamo bisogno per farci strada nella giungla dei nostri improvvisati dibattiti quotidiani.
Torniamo all’Italia del dopo Cavour.
La legge delle guarentigie, approvata dal Parlamento italiano dopo la presa di Roma, ebbe il merito di creare una cornice all’interno della quale Stato e Chiesa poterono convivere, più o meno bene, per quasi sessant’anni.
Ma fu piena di contraddizioni e incongruenze fra cui la principale fu quella di creare un sovrano senza territorio.
Il papa sarebbe stato trattato alla stregua di un re e avrebbe avuto, tra l’altro, il diritto d’inviare e ricevere ambasciatori, ma la terra su cui sorgevano i suoi palazzi sarebbe stata parte integrante del Regno d’Italia.
La Grande guerra, come ricorda Pertici, convinse la Chiesa che la formula era terribilmente scomoda, se non addirittura pericolosa; e la vittoria dell’Italia nel conflitto la persuase che era inutile attendere la morte naturale del regno blasfemo dei Savoia.
Cominciò da quel momento un negoziato decennale, che si concluse nel 1929 con la firma dei Patti Lateranensi.
Grazie al Trattato la Chiesa ebbe nuovamente uno Stato, anche se molto piccolo, e grazie al Concordato conquistò prerogative e privilegi che erano l’esatto opposto del grande disegno delineato da Cavour.
La Conciliazione ebbe molti padri ma il merito maggiore, come sempre accade in questi casi, andò a colui che ne gestì l’ultima fase, vale a dire all’«uomo inviato dalla Provvidenza ».
Dieci anni dopo, alla vigilia della Seconda guerra mondiale, la Chiesa capì che il ruolo avuto da Mussolini nei Lateranensi avrebbe potuto screditarli agli occhi degli antifascisti dopo la fine del regime e corse ai ripari cercando di stipulare qualche controassicurazione.
Rinvio il lettore alle pagine del libro in cui Pertici descrive un incontro in Svizzera nell’agosto del 1938 fra monsignor Mariano Rampolla, nipote del segretario di Stato di Leone XIII, e due comunisti (Ambrogio Donini ed Emilio Sereni).
Rampolla chiese quale fosse la posizione del loro partito e fu lieto di apprendere che il Pci non aveva alcuna intenzione di rimettere in discussione il Trattato del 1929.
Ma apprese anche con preoccupazione «che il crollo del fascismo avrebbe segnato la caduta del regime concordatario».
La linea della Chiesa da quel momento fu netta.
Il Trattato e il Concordato erano pezzi complementari di una stessa costruzione e la sorte dell’uno avrebbe inevitabilmente segnato la sorte dell’altro: simul stabunt, simul cadunt .
Questa posizione trionfò nell’Assemblea Costituente, grazie a Togliatti, e la vittoria della Chiesa rafforzò considerevolmente, negli anni seguenti, l’egemonia cattolica sulla società italiana.
Un nuovo capitolo si apre quando la legge sul divorzio comincia il suo difficile percorso parlamentare nella seconda metà degli anni Sessanta.
La Santa Sede sostenne che il divorzio avrebbe violato lo spirito e le norme del Concordato.
Aveva ragione giuridicamente ma, come sostenne Giuseppe Saragat, allora presidente della Repubblica, moralmente e politicamente torto: moralmente perché quelle norme erano state stipulate con Mussolini e salvate grazie a un accordo con i comunisti, politicamente perché «tutte le nazioni civili hanno il divorzio».
L’approvazione della legge e la sua conferma dopo il referendum del maggio 1974 ebbero l’effetto di convincere la Chiesa che la difesa del Concordato del 1929 era diventata impossibile e che un nuovo negoziato era ormai inevitabile.
Ma anche in questo caso le trattative durarono dieci anni.
Pertici ne descrive molto bene i passaggi e dimostra che il nuovo Concordato ha avuto almeno due meriti.
Ha valorizzato i comportamenti degli individui e il loro diritto di scegliere fra l’offerta della Chiesa e quella delle istituzioni statali; e ha affermato e salvaguardato il principio del pluralismo religioso.
Anche il Concordato, come ogni trattato, può essere tuttavia interpretato in un senso o nell’altro e risponde in ultima analisi ai rapporti di forza tra coloro che lo hanno firmato.
Oggi la Chiesa si serve della debolezza della politica italiana per affermare con vigore la propria interpretazione e piegarlo alle linee della propria politica.
Questa affermazione, beninteso, è mia, non di Pertici, che è in “Corriere della Sera” del 18 settembre 2009

XXV Domenica del Tempo Ordinario (B)

In mitezza e umiltà «Essi però non comprendevano quelle parole e avevano timore di chiedergli spiegazioni» (Mc 9,32).
Tale ignoranza da parte dei discepoli non nasce tanto dalla limitatezza della loro mente, quanto dall’amore che essi nutrivano per il Salvatore.
Questi uomini che vive-vano ancora secondo la carne ed erano ignari del mistero della croce, si rifiutavano di credere che colui che essi avevano riconosciuto quale Dio vero sarebbe morto ed essendo abituati a sentirlo parlare in parabole, poiché inorridivano alla sola idea della sua morte, cercavano di attribuire un senso figurato anche a quello che diceva apertamente a proposito della sua cattura e della sua passione.
«E giunsero a Cafarnao.
Entrati in casa chiese loro: “Di che cosa stavate discutendo lungo la via?”.
Ed essi tacevano.
Per la via infatti avevano discusso tra loro chi fosse il più grande» (Mc 9,33-34).
Sembra che la discussione tra i discepoli a proposito del primo posto fosse nata perché avevano visto che Pietro, Giacomo e Giovanni erano stati condotti in disparte sul monte e che qui era stato affidato loro qualcosa di segreto.
Ma già da prima erano convinti, come racconta Matteo (cfr.
Mt 16,18-19), che a Pietro erano state date le chiavi del Regno dei cieli, e che la chiesa del Signore doveva essere edificata sulla pietra della fede, dalla quale egli stesso aveva ricevuto il nome.
Ne concludevano o che quei tre apostoli dovevano essere superiori agli altri o che Pietro era superiore a tutti.
Il Signore, vedendo i pensieri dei discepoli, cerca di correggere il loro desiderio di gloria col freno dell’umiltà e fa loro intendere che non si deve cercare di essere primi; così, dapprima li esorta con il semplice comandamento dell’umiltà e, subito dopo, li ammaestra con l’esempio dell’innocenza del bambino.
Dicendo infatti: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me» (Mc 9,37) […] li esorta, a motivo della loro malizia, a essere anche loro come bambini, cioè a conservare la semplicità senza arroganza, la carità senza invidia e la devozione senza ira.
Prendendo poi in braccio il bambino, indica che sono degni del suo abbraccio e del suo amore gli umili e che, quando avranno messo in pratica il suo comandamento: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29), solo allora potranno gloriarsi.
(BEDA IL VENERABILE, Commento al vangelo di Marco, CCL 120.n.
551).
Soprattutto un viaggio di ricerca “Io sono un navigatore e un viaggiatore, e ogni giorno scopro una nuova regione della mia anima” … Queste semplici ma straordinariamente parole di Kahil Gibran (Sabbia e onda) possono ben attagliarsi al tema di queste pagine, poiché pongono in rilievo un fatto fondamentale: l’uomo scopre nel mondo solo quello che ha già dentro di sé.
Il viaggio deve essere soprattutto uno strumento di approfondimento interiore, un mezzo per andare oltre le secche della quotidianità e far sì che l’anima respiri nuova aria, si alimenti con nuove energie spirituali.
Viaggiare è conoscere, ma è anche conferma della conoscenza acquisita e anche un modo per essere nella storia, senza distorsioni, linearmente, forse partendo dalle origini.
(Massimo CENTINI, Il cammino di Santiago, Xenia, Milano, 2009, 10-11).
Collaboratori della gioia di tutti Chiamato a servire, nell’impegno di ogni giorno, nella specificità dei servizi d’amore cui Dio lo chiama, il cristiano non deve mai perdersi d’animo, né cedere alla tentazione della disperazione e dello scetticismo.
Il segreto che gli permette di mantenere intatta la sua capacità di leggere giorno dopo giorno i segni della salvezza di Dio, che è all’opera, sta nell’incontro fedele e perseverante con Cristo, sorgente di vera gioia.
Questa gioia dell’incontro col Signore accompagna la vita del cristiano: anche nella prova e nella persecuzione i discepoli restano “pieni di gioia e di Spirito Santo” (Atti 13,52).
La gioia è un frutto dello Spirito, conseguenza del dimorare in Dio nella preghiera e nella celebrazione del suo amore per noi, sperimentato nella fede e nella speranza: “Siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie: questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi” (1Tessalonicesi 5,16-18).
La gioia si coniuga così alla carità, vissuta nel portare con Cristo il peso della sofferenza propria e altrui.
Servire è farsi collaboratori della gioia di tutti: “Noi non intendiamo fare da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia” (2Corinzi 1,24).
(Bruno FORTE, Lettera ai cercatori di Dio, EDB, Bologna, 2009, 71).
Rinascere dalle ceneri del tuo dolore Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vivere la vita che volevi.
La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale.
Il vero successo, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato.
Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti capita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione.
Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore.
Non sentirti sopraffatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza.
Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande degli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino.
Dentro di te c’è un essere capace di ogni cosa.
Guardati allo specchio.
Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune.
Se impari a conoscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.
Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti.
Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisioni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua.
Sei parte della forza della vita stessa.
Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano.
Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il servizio”.
(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).
Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Rendici umili servi di tutti! Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quello che ti chiediamo».
Non siamo infatti migliori dei due discepoli.
Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.
Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte eterna noi, peccatori.
Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.
Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa.
Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti! Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cura di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Sapienza 2,12.17-20 «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo e si oppone alle nostre azioni; ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta.
Vediamo se le sue parole sono vere, consideriamo ciò che gli accadrà alla fine.
Se infatti il giusto è figlio di Dio, egli verrà in suo aiuto e lo libererà dalle mani dei suoi avversari.
Mettiamolo alla prova con violenze e tormenti, per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione.
Condanniamolo a una morte infamante, perché, secondo le sue parole, il soccorso gli verrà».
Presentazione generale: a) Il contesto – I capp.
1-5 del libro della Sapienza presentano la figura del «sapiente» e dello «stolto» (chiamati anche «giusto» e «empio»): chi sono, cosa fanno, come concepiscono la vita; quali valori privilegiano, a quali cose e persone danno il primato.
Nella tradizione biblica «giusto» (o «sapiente») è l’uomo che sa riferire tutto a Dio e sa leggere la storia, gli avvenimenti, la stessa vita di ogni giorno alla luce della dimensione religiosa e nell’atteggiamento di chi sa accogliere ogni cosa come dono del suo Signore.
«Empio» o «stolto» è l’uomo che pone al centro del suo vivere se stesso, le cose, il successo.
È l’uomo incapace di cogliere la presenza di Dio nel suo mondo e nella sua vita.
L’empio, comunque, non è l’ateo, nel senso che noi oggi diamo a questo termine.
La Bibbia non conosce la figura moderna dell’ateo, ma solo l’uomo che di fronte al male, al dolore o a qualsiasi altro elemento che provoca differenza e disagio, si interroga sulla certezza della presenza di Dio «qui» e «adesso», proprio come fanno gli «empi» di questa lettura (cf.
Sal 13,1: «Lo stolto pensa: ‘Non c’è Dio’»).
b) Il tema – È il contrasto tra la concezione del vivere propria degli empi e quella dei giusti.
In questo contrasto vengono evidenziate le reazioni degli empi nei confronti di quanti vivono alla luce della Parola di Dio e dei valori che ad essa si ispirano.
Questo testo è stato applicato alla Passione di Gesù e alla sua vita apparentemente abbandonata da Dio sulla croce.
Gli evangelisti pongono sulle labbra di coloro che assistono alla sua crocifissione le ultime parole di questo brano («Ha confidato in Dio; lo liberi lui ora, se gli vuole bene», cf.
Mt 27,43).
In Gesù, giusto per eccellenza, si rivela non l’abbandono di Dio, ma il suo amore e la sua vicinanza all’uomo.
Dalle sue sofferenze e dalla sua croce, infatti, ha origine la salvezza degli uomini.
Per la chiesa primitiva il nostro brano (come pure il Sal 21,9 che contiene le medesime espressioni) sono stati considerati profezie riguardanti Gesù, il Giusto consegnato nelle mani degli empi e morto per la nostra salvezza.
Annotazioni — v.
17: «Tendiamo insidie al giusto, che per noi è d’incomodo…
ci rimprovera le colpe contro la legge e ci rinfaccia le trasgressioni contro l’educazione ricevuta»; queste parole vanno collocate nel contesto generale del libro della Sapienza, che contiene una forte critica nei confronti degli Israeliti che avevano rinnegato la loro formazione religiosa ed erano passati alla cultura ellenistica.
Dall’ellenismo (introdotto in Oriente da Alessandro Magno, nel 333 a.C.) avevano accettato anche le mode e le abitudini (palestre, teatri, spettacoli, terme ecc.) e anche l’invito a non farsi più circoncidere.
Quest’ultimo elemento era da sempre considerato caratteristico della formazione e della religiosità ebraiche.
— v.
19: «Mettiamolo alla prova…
per conoscere la sua mitezza e saggiare il suo spirito di sopportazione»: questi verbi che si riferiscono alla «tentazione» — e che la Bibbia ama attribuire a Dio — sono qui attribuiti agli empi, i quali si propongono non di rafforzare la fede e la fiducia dei giusti (secondo il significato che la Bibbia dà alla tentazione), ma di farli deviare dalla via del bene e di scoraggiarli dal compiere ogni cosa secondo Dio e nella fedeltà alla sua Parola.
Seconda lettura: Giacomo 3,16-4,3 Fratelli miei, dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni.
Invece la sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera.
Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni.
Presentazione generale: La Lettera di Giacomo comprende una serie di esortazioni senza un ordine logico, che si ispirano all’idea fondamentale di un’esistenza cristiana da vivere nella fedeltà al vangelo, nella carità e nella solidarietà (a questo si rifanno le severe espressioni che la Lettera usa contro i ricchi, incapaci di solidarietà e chiusi alle necessità del prossimo bisognoso).
Una vita così vissuta esprime anche la ricchezza interiore dell’uomo che, opponendosi ai vizi, alle passioni cattive e alle suggestioni del potere e del denaro, manifesta padronanza di sé e fedeltà al progetto di Dio sull’uomo e sulla creazione.
Il nostro brano comprende due temi: a) la qualità della vera sapienza, quella che conduce a vivere secondo il progetto di Dio (Gc 3,13-18); b) la riflessione sulle cause delle ostilità nel cuore dell’uomo e nel mondo e i loro rimedi (Gc 4,1-12).
Annotazioni — v.
16: «C’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni»: queste espressioni fanno parte del cosiddetto «catalogo dei vizi» che spesso la predicazione degli apostoli richiamava per mettere in guardia chi non accoglieva l’invito del vangelo a convertirsi dalle opere cattive e a vivere con attenzione e impegno (cf.
2Cor 12,20).
— v.
17: «La sapienza che viene dall’alto anzitutto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera»: questa descrizione della «vera» sapienza si ispira alla concezione che di essa hanno i Sinottici e Paolo (cf.
Gal 5,22-23).
In particolare è da sottolineare l’affinità di questi termini con il resto delle Beatitudini (Mt 5,1 ss), un testo che nell’evangelista Matteo diventa il programma di vita del cristiano.
Vivere secondo questo programma è anche per Giacomo un segno della vera sapienza cristiana che vede, giudica, illumina tutto alla luce del vangelo e della persona di Gesù.
Anche l’espressione «buoni frutti» richiama il Vangelo (cf.
Mt 7.16-20): «Dai loro frutti li riconoscerete») 4,1: «Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? »: alla ricerca dei rimedi da contrapporre ai mali dell’uomo (guerre, liti, contese), Giacomo propone atteggiamenti e comportamenti che, sanando l’interno dell’uomo («il cuore») hanno poi la capacità di influire positivamente anche sul mondo esteriore.
Per questo sono importanti il dominio delle passioni, la forza della preghiera e l’attenzione a vivere secondo le virtù che caratterizzano e distinguono il cristiano (vv.
2-3).
Vangelo: Marco 9,30-37 In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse.
Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà».
Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo.
Giunsero a Cafàrnao.
Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?».
Ed essi tacevano.
Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande.
Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti».
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato».
Esegesi Presentazione generale: a) Il contesto – È quello che caratterizza la seconda parte del vangelo di Marco.
Secondo lo schema di questo evangelista, la prima parte contiene il racconto dei miracoli di Gesù (cc.
1-8) per orientare il lettore alla comprensione della sua identità di Messia e Figlio di Dio (come farà Pietro in 8,27-29, che è «il centro» del vangelo di Marco).
La seconda parte (cc.
9-16) è tutta impostata sulle esigenze radicali che Gesù chiede ai discepoli e ai cristiani di ogni tempo che lo vogliono seguire.
Con il nostro brano ha inizio la descrizione di queste esigenze.
Esse vengono collocate in questa seconda sezione perché solo chi ha riconosciuto la vera identità di Gesù (in tutto obbediente al Padre fino ad accettare la croce) sa anche accettare il suo destino di morte e di risurrezione.
b) Il tema – È la presentazione della missione di Gesù alla luce del progetto di salvezza di Dio (che passa attraverso la croce e la morte) e la richiesta al discepolo di ogni tempo di partecipare a questo progetto nella totale obbedienza che ha caratterizzato Gesù.
Annotazioni — v.
30: «Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse»: questa frase è da collocare nel contesto del cosiddetto «segreto messianico»: Gesù cioè vuole essere riconosciuto come Messia e Figlio di Dio non nell’esteriorità dei miracoli (che aveva finora compiuti in Galilea), ma nella obbedienza a Dio che lo consegna alla croce e alla morte.
— v.
31: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini»: «Figlio dell’uomo» è uno dei titoli messianici di Gesù, che si ispira a Dan 7,14 (testo ritenuto messianico nell’interpretazione biblica) e al profeta Ezechiele (che inizia sempre i suoi oracoli con l’espressione «Figlio dell’uomo», tuttavia senza significato messianico, ma con il significato comune di «uomo»).
Il verbo «consegnare» è molto ricco teologicamente.
Esso indica il progetto che Dio ha pensato per gli uomini: per la loro salvezza Dio «consegna» Gesù nelle loro mani.
Gesù, infatti, non è stato tradito («tradire» è un secondo significato dello stesso verbo paradìdomi, che traduciamo con «consegnare») solo da Giuda o dagli Anziani, ma è stato «consegnato» a morte da Dio stesso.
Gesù non è stato ucciso (nel senso teologico) dai contemporanei (anche se storicamente essi hanno preso parte al consumarsi di questa morte), ma dalle «mani» di ogni uomo (= dai suoi peccati) alle quali Dio ha «consegnato» Gesù.
— v.
34: «Avevano discusso tra loro chi fosse più grande»: i discepoli si aspettavano da un momento all’altro che Gesù inaugurasse il Regno messianico (che essi vedevano erroneamente anticipato dai miracoli da Lui compiuti), nel quale pensavano di essere favoriti con un posto di particolare prestigio.
— v.
35: «Sedutosi…
preso un bambino…
chi accoglie uno solo di questi bambini»: il verbo «sedersi» indicava l’attività di insegnamento del maestro o del rabbino.
Il verbo da anche l’idea della profondità e della gravità degli insegnamenti che Gesù sta per dare ai discepoli («essere l’ultimo…
essere il servo di tutti»).
«Bambini» e «piccoli» nel vangelo (oltre al loro proprio significato letterale) indicano anche i membri più deboli della comunità cristiana, le persone più dimenticate e per le quali nessuno ha uno sguardo o un’attenzione particolare.
Di esse deve farsi carico il discepolo di Gesù, come Lui si è fatto carico dell’umanità debole e fragile sotto il dominio del peccato.
Meditazione C’è un’immagine, nel racconto di Marco, che ritorna spesso e che ritma un po’ tutta la narrazione: è l’immagine della via, immagine allo stesso tempo reale e simbolica.
È la strada che conduce a Gerusalemme e che Gesù percorre con i suoi discepoli, ma è anche il simbolo dell’itinerario che ogni discepolo deve compiere nella misura in cui sceglie di seguire Gesù.
Lungo la via il discepolo impara a posare la pianta dei suoi piedi nell’orma che Gesù lascia; lungo la via il discepolo impara a conoscere il volto di Gesù, il segreto del suo cammino, la meta a cui tende tutta la sua vita; lungo la via il discepolo scopre anche la sua debolezza, la sua incapacità a seguire il Signore Gesù, la sua durezza di cuore, la sua cecità; lungo la via, infine, il discepolo comprende che solo riconoscendo la sua povertà può avere la grazia della sequela, il dono di scoprire che è sempre Gesù a camminare avanti, mentre egli può solo e sempre stare dietro.
Nella pericope del racconto di Marco proposta in questa domenica, lungo la via ascoltiamo ora una parola di Gesù che il discepolo ha già udito (cfr.
Mc 8,31), ma che al suo orecchio appare sempre dura, addirittura estranea: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (9,31).
Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi che offrono la sequenza di una storia drammatica e paradossale, inaudita, la vicenda ‘pasquale’ di Gesù.
Una vicenda già contenuta in filigrana nella storia dei profeti, di coloro che Dio invia per comunicare la sua parola di giudizio e di salvezza sulla storia degli uomini.
La storia del profeta, del giusto, è sempre una storia drammatica, contraddittoria e violenta, e in questi termini la rilegge il libro della Sapienza (cfr.
la prima lettura).
«Tendiamo insidie al giusto…
mettiamolo alla prova con violenze…
condanniamolo ad una morte infamante» (Sap 2,12.17-20): è questa la risposta degli empi a una parola di Dio, comunicata dal profeta, una parola che suona come accusa a una logica di ingiustizia e di violenza (quella logica condannata in Gc 3,16-4,3).
Il profeta diventa segno di contraddizione, odiosa pietra di scandalo («per noi è di incomodo e si oppone alle nostre azioni»: 2,12) per un sistema sociale e religioso basato sulla ipocrisia, ma nascosto dietro una apparente legalità.
Ecco perché la sua parola deve essere neutralizzata dimostrandone l’inefficacia ridicola e malefica, o più semplicemente deve essere eliminato.
Ma tra i tre verbi che caratterizzano la vicenda del ‘profeta’ Gesù, uno in particolare offre una luce per raggiungere il cuore di avvenimenti di per sé incomprensibili.
Si tratta del verbo consegnare («viene consegnato nelle mani…»: paradidotai eis cheiras), un verbo che domina tutta la via crucis del Figlio dell’uomo: Giuda, il discepolo che lo tradisce, lo consegna ai soldati; i soldati ai capi del popolo; i capi del popolo a Pilato e questi ai crocefissori.
Ma il paradosso è che il Padre stesso consegna il Figlio alla morte e in questa morte è Dio stesso a consegnarsi all’uomo, a donarsi, a offrire per l’uomo la sua stessa vita.
Consegnare, uccidere, risorgere: tre verbi oscuri per il discepolo che insegue i suoi pensieri, che cerca un volto di Gesù molto diverso da quello che lui ora gli sta presentando.
Il discepolo non comprende questa logica che gli pare assurda.
Ma pur non comprendendo, ha paura di domandare: «…non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo» (Mc 9,32).
È veramente paradossale questa reazione.
Chi non capisce, chiede.
E perché il discepolo non osa chiedere? Forse perché ha paura della risposta: o meglio, ha paura di un confronto con la parola di Gesù.
Il discepolo preferisce nascondersi dietro le proprie molte parole, le quali offrono cammini più facili, indicano desideri più gratificanti, immediati: «Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande» (9,34).
Lungo la strada allora Gesù fa fare una sosta al discepolo, ponendo anzitutto una domanda, che però resta senza risposta: «Di che cosa stavate discutendo lungo la strada?» (9,33).
Sembra quasi che di fronte a Gesù il discepolo non sappia usare la parola.
Ed è veramente così: il discepolo non sa usare la parola, resta muto, perché non ha ascoltato la Parola, quella parola che è il cammino di Gesù, quella parola dura che è la croce.
Solo Gesù può dare una risposta alle molte parole e ai silenzi del discepolo.
E la sua risposta è sconcertante e vera allo stesso tempo.
Essa ha come due momenti, due angolature attraverso cui si può rileggere la vicenda di Gesù, ma che diventano anche altrettante scelte concrete per il discepolo.
«Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (9,35).
Gesù prende sul serio il desiderio del discepolo, essere il primo, cioè realizzarsi pienamente, poter emergere nella vita.
Ma la risposta che Gesù offre è sconcertante: inverte quella strada che il discepolo credeva di poter percorrere per essere il più grande.
Per Gesù essere il più grande non è porsi sull’altro, prevalere sull’altro, cercare tutto ciò che è primo; essere grandi è stare ai piedi dell’altro, essere per l’altro dono, consegnarsi all’altro perché esso possa vivere.
In una parola, il discepolo deve capire che c’è una sola via che realizza pienamente il desiderio più vero di vita che abita in lui: è proprio quella via da cui il discepolo ha distolto lo sguardo, la via di Gesù, «il quale da ricco che era si fece povero…
che non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso…» (cfr.
2Cor 8,9; Fil 2,6.7); la via dell’umiltà, la via del servizio, la via del dono.
Ma c’è un passo ulteriore, un salto di qualità che Gesù fa compiere al discepolo.
«E preso un bambino lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: “Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie…
colui che mi ha mandato”» (9,36-37).
Questo gesto di Gesù, pieno di compassione e di tenerezza, libera il discepolo da un’ultima tentazione.
Essere all’ultimo posto, essere il servo di tutti, significa essere liberati dalla tentazione del potere.
Ma il discepolo può ancora essere attratto dalla pretesa di essere sempre lui quello che deve fare o deve dare agli altri.
Scoprire che al centro non c’è tanto il suo servizio all’altro, ma l’altro come persona, anzi il piccolo, l’ultimo come un dono da accogliere, significa essere veramente liberi e poveri.
Chi veramente dona, chi si fa ultimo, chi si fa nostro servo è il Signore Gesù: è lui il piccolo che sta in mezzo a noi come servo, è lui che ci dona tutto rivelandoci il volto misericordioso del Padre.
Di fronte al piccolo, qualunque esso sia, non possiamo fare altro che aprire le nostre mani per ricevere il dono della compassione del Padre, nel volto di Gesù.

Simeone il Nuovo Teologo

Simeone il Nuovo Teologo nacque nel 949 a Galatai, in Paflagonia (Asia Minore), da una nobile famiglia di provincia.
Ancora giovane, si trasferì a Costantinopoli per intraprendere gli studi ed entrare al servizio dell’imperatore.
Ma si sentì poco attratto dalla carriera civile che gli si prospettava e, sotto l’influsso delle illuminazioni interiori che andava sperimentando, si mise alla ricerca di una persona che lo orientasse nel momento pieno di dubbi e di perplessità che stava vivendo, e che lo aiutasse a progredire nel cammino dell’unione con Dio.
Trovò questa guida spirituale in Simeone il Pio (Eulabes), un semplice monaco del monastero di Studios, a Costantinopoli, che gli diede da leggere il trattato La legge spirituale di Marco il Monaco.
In questo testo Simeone il Nuovo Teologo trovò un insegnamento che lo impressionò molto: “Se cerchi la guarigione spirituale – vi lesse – sii attento alla tua coscienza.
Tutto ciò che essa ti dice fallo e troverai ciò che ti è utile”.
Da quel momento – riferisce egli stesso – mai si coricò senza chiedersi se la coscienza non avesse qualche cosa da rimproverargli.
Simeone entrò nel monastero degli Studiti, dove, però, le sue esperienze mistiche e la sua straordinaria devozione verso il Padre spirituale gli causarono difficoltà.
Si trasferì nel piccolo convento di San Mamas, sempre a Costantinopoli, del quale, dopo tre anni, divenne il capo, l’igumeno.
Lì condusse un’intensa ricerca di unione spirituale con Cristo, che gli conferì grande autorità.
È interessante notare che gli fu dato l’appellativo di “Nuovo Teologo”, nonostante la tradizione riservasse il titolo di “Teologo” a due personalità: all’evangelista Giovanni e a Gregorio di Nazianzo.
Soffrì incomprensioni e l’esilio, ma fu riabilitato dal Patriarca di Costantinopoli, Sergio II.
Simeone il Nuovo Teologo passò l’ultima fase della sua esistenza nel monastero di Santa Marina, dove scrisse gran parte delle sue opere, divenendo sempre più celebre per i suoi insegnamenti e per i suoi miracoli.
Morì il 12 marzo 1022.
Il più noto dei suoi discepoli, Niceta Stetatos, che ha raccolto e ricopiato gli scritti di Simeone, ne curò un’edizione postuma, redigendo in seguito la biografia.
L’opera di Simeone comprende nove volumi, che si dividono in Capitoli teologici, gnostici e pratici, tre volumi di Catechesi indirizzate a monaci, due volumi di Trattati teologici ed etici e un volume di Inni.
Non vanno poi dimenticate le numerose Lettere.
Tutte queste opere hanno trovato un posto di rilievo nella tradizione monastica orientale sino ai nostri giorni.
Simeone concentra la sua riflessione sulla presenza dello Spirito Santo nei battezzati e sulla consapevolezza che essi devono avere di tale realtà spirituale.
La vita cristiana – egli sottolinea – è comunione intima e personale con Dio, la grazia divina illumina il cuore del credente e lo conduce alla visione mistica del Signore.
In questa linea, Simeone il Nuovo Teologo insiste sul fatto che la vera conoscenza di Dio non viene dai libri, ma dall’esperienza spirituale, dalla vita spirituale.
La conoscenza di Dio nasce da un cammino di purificazione interiore, che ha inizio con la conversione del cuore, grazie alla forza della fede e dell’amore; passa attraverso un profondo pentimento e dolore sincero per i propri peccati, per giungere all’unione con Cristo, fonte di gioia e di pace, invasi dalla luce della sua presenza in noi.
Per Simeone tale esperienza della grazia divina non costituisce un dono eccezionale per alcuni mistici, ma è il frutto del Battesimo nell’esistenza di ogni fedele seriamente impegnato.
Un punto su cui riflettere, cari fratelli e sorelle! Questo santo monaco orientale ci richiama tutti ad un’attenzione alla vita spirituale, alla presenza nascosta di Dio in noi, alla sincerità della coscienza e alla purificazione, alla conversione del cuore, così che realmente lo Spirito Santo divenga presente in noi e ci guidi.
Se infatti giustamente ci si preoccupa di curare la nostra crescita fisica, umana ed intellettuale, è ancor più importante non trascurare la crescita interiore, che consiste nella conoscenza di Dio, nella vera conoscenza, non solo appresa dai libri, ma interiore, e nella comunione con Dio, per sperimentare il suo aiuto in ogni momento e in ogni circostanza.
In fondo, è ciò che Simeone descrive quando narra la propria esperienza mistica.
Già da giovane, prima di entrare in monastero, mentre una notte in casa prolungava le sue preghiere, invocando l’aiuto di Dio per lottare contro le tentazioni, aveva visto la stanza piena di luce.
Quando poi entrò in monastero, gli furono offerti libri spirituali per istruirsi, ma la loro lettura non gli procurava la pace che cercava.
Si sentiva – egli racconta – come un povero uccellino senza le ali.
Accettò con umiltà questa situazione, senza ribellarsi, e allora cominciarono a moltiplicarsi di nuovo le visioni di luce.
Volendo assicurarsi della loro autenticità, Simeone chiese direttamente a Cristo: “Signore, sei davvero tu stesso qui?”.
Sentì risuonare nel cuore la risposta affermativa e ne fu sommamente consolato.
“Fu quella, Signore – scriverà in seguito – la prima volta che giudicasti me, figlio prodigo, degno di ascoltare la tua voce”.
Tuttavia, neanche questa rivelazione lo lasciò totalmente quieto.
Si interrogava piuttosto se pure quell’esperienza non fosse da ritenersi un’illusione.
Un giorno, finalmente, accadde un fatto fondamentale per la sua esperienza mistica.
Egli cominciò a sentirsi come “un povero che ama i fratelli” (ptochós philádelphos).
Vedeva intorno a sé tanti nemici che volevano tendergli insidie e fargli del male, ma nonostante ciò avvertì in se stesso un intenso trasporto d’amore per loro.
Come spiegarlo? Evidentemente non poteva venire da lui stesso un tale amore, ma doveva sgorgare da un’altra fonte.
Simeone capì che proveniva da Cristo presente in lui e tutto gli divenne chiaro: ebbe la prova sicura che la fonte dell’amore in lui era la presenza di Cristo e che avere in sé un amore che va oltre le mie personali intenzioni indica che la fonte dell’amore sta in me.
Così, da una parte possiamo dire che senza una certa apertura all’amore Cristo non entra in noi, ma, dall’altra, Cristo diventa fonte di amore e ci trasforma.
Cari amici, questa esperienza resta quanto mai importante per noi, oggi, per trovare i criteri che ci indicano se siamo realmente vicini a Dio, se Dio c’è e vive in noi.
L’amore di Dio cresce in noi se rimaniamo uniti a Lui con la preghiera e con l’ascolto della sua parola, con l’apertura del cuore.
Solamente l’amore divino ci fa aprire il cuore agli altri e ci rende sensibili alle loro necessità, facendoci considerare tutti come fratelli e sorelle e invitandoci a rispondere con l’amore all’odio e con il perdono all’offesa.
Riflettendo su questa figura di Simeone il Nuovo Teologo, possiamo rilevare ancora un ulteriore elemento della sua spiritualità.
Nel cammino di vita ascetica da lui proposto e percorso, la forte attenzione e concentrazione del monaco sull’esperienza interiore conferisce al Padre spirituale del monastero un’importanza essenziale.
Lo stesso giovane Simeone, come s’è detto, aveva trovato un direttore spirituale, che ebbe ad aiutarlo molto e del quale conservò grandissima stima, tanto da riservargli, dopo la morte, una venerazione anche pubblica.
E vorrei dire che rimane valido per tutti – sacerdoti, persone consacrate e laici, e specialmente per i giovani – l’invito a ricorrere ai consigli di un buon padre spirituale, capace di accompagnare ciascuno nella conoscenza profonda di se stesso, e condurlo all’unione con il Signore, affinché la sua esistenza si conformi sempre più al Vangelo.
Per andare verso il Signore abbiamo sempre bisogno di una guida, di un dialogo.
Non possiamo farlo solamente con le nostre riflessioni.
E questo è anche il senso della ecclesialità della nostra fede, di trovare questa guida.
Concludendo, possiamo sintetizzare così l’insegnamento e l’esperienza mistica di Simeone il Nuovo Teologo: nella sua incessante ricerca di Dio, pur nelle difficoltà che incontrò e nelle critiche di cui fu oggetto, egli, in fin dei conti, si lasciò guidare dall’amore.
Seppe vivere lui stesso e insegnare ai suoi monaci che l’essenziale per ogni discepolo di Gesù è crescere nell’amore e così cresciamo nella conoscenza di Cristo stesso, per poter affermare con san Paolo: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 20).
(©L’Osservatore Romano – 17 settembre 2009)

Scoperto il testo originale del discorso di Mosè al popolo ebraico

IL DEUTERONOMIO – Il libro del Deuteronomio consiste principalmente di tre discorsi che sarebbero stati pronunciati da Mosè, poco prima della sua morte, agli Israeliti.
Il primo discorso è una ricostruzione storica.
Il secondo discorso, che occupa la parte centrale del libro, contiene i Dieci Comandamenti dettati sul monte Sinai e il cosiddetto codice Deuteronomico, formato da una serie di dettami.
Questa sezione è costituita in gran parte da leggi, ammonizioni ed ingiunzioni relative alla condotta che il popolo eletto deve osservare per entrare nella terra promessa.
Il terzo discorso tratta delle solenni disposizioni della legge divina, adempiendo alle quali è garantita la prosperità futura del popolo d’Israele.
LA SCOPERTA A sostenere l’esistenza di un testo originario e precedente a tutti quelli finora conosciuti è James Charlesworth, un professore di studi neotestamentari presso il Princeton Theological Seminary, il quale ha analizzato finora almeno un piccolo frammento proveniente dai rotoli del Mar Morto acquistato recentemente dalla Azusa Pacific University.
Si tratta di un passo del ventisettesimo capitolo del libro.
Nel frammento analizzato da Charlesworth, Mosè prescrive a chi sarebbe entrato nella Terra Promessa (privilegio che a lui non sarà accordato) di erigere un altare di pietra in onore dell’unico Dio al di là della riva destra del Giordano.
E, parlando su ispirazione diretta di Dio, ordina che l’altare sorga sul Monte Gerizim.
Ora, è proprio questo il particolare che suggerisce la tesi dell’originalità del testo di Qumran: in tutte le versioni ufficiali, redatte successivamente, il luogo indicato sarebbe un altro, vale a dire il Monte Ebal.
Quanto basta al professor Charlesworth per affermare che, vista non solo la veridicità della versione dei manoscritti, appurata in centinaia di pubblicazioni, ma anche la loro generale correttezza si tratta delle vere parole di Mosè.
O di Dio, visto per appunto che Mosè parlava su ispirazione divina.
La versione successiva, presente nel testo canonico, dovrebbe essere invece frutto di una soluzione di compromesso imposta nel corso di un vero e proprio scontro tra gruppi religiosi.
Il fatto che solo ora si venga a conoscenza di un testo originale diverso da quello biblico attuale non deve sorprendere.
Dei 15000 frammenti conosciuti risalenti ai rotoli del Mar Morto la maggior parte infatti è in mano a privati ed è spesso inaccessibile agli studiosi.
TESTO ORIGINALE «Finalmente il testo originale del Deuteronomio», ha dichiarato Charlesworth al Los Angeles Times, «si tratta di una scoperta di importanza sensazionale».
Il frammento oggetto del suo entusiamo è stato mostrato, rigorosamente in fotografia, dal board dell’università californiana che lo ha acquistato insieme ad altri quattro venduti da un mercante specializzato in testi antichi.
Si tratta, anche in questi casi, di parti dell’ultimo libro del Pentateuco ad eccezione di un papiro che riporta parte del Libro di Daniele.
Tutti hanno raggiunto la cassaforte dell’Azusa Pacific University al termine di un percorso che li ha portati dalle grotte di Qumran nelle mani di collezionisti privati.
Ora resteranno in California e potrebbero riservare ancora delle sorprese.
14 settembre 2009 Dopo oltre 2000 anni sarebbe ora possibile conoscere le parole originarie pronunciate da Mosè al popolo ebraico.
Sarebbe infatti nascosto in alcuni frammenti dei rotoli del Mar Morto (la serie di rotoli e frammenti trovati nel 1947 in undici grotte nell’area di Qumran e che contengono la versione più antica finora conosciuta del testo biblico), il testo autentico del Deuteronomio, una delle parti più importanti della Bibbia ed il quinto dei libri che formano la Torah ebraica.
E la versione originale sarebbe diversa da quelle delle raccolte posteriori, che hanno risentito delle dispute teologiche delle varie scuole rabbiniche.

Barack Obama parla agli studenti

So che per molti di voi questo è il primo giorno di scuola.
E per chi è all’asilo o all’inizio delle medie o delle superiori è l’inizio di una nuova scuola, così un minimo di nervosismo è comprensibile.
Immagino che tra voi ci siano dei veterani a cui manca solo un anno per concludere gli studi e quindi contenti.
E, non importa a quale classe siate iscritti, qualcuno tra voi probabilmente sta pensando con nostalgia all’estate e rimpiange di non aver potuto dormire un po’ di più stamattina.
So cosa vuol dire.
Quando ero giovane la mia famiglia visse in Indonesia per qualche anno e mia madre non aveva abbastanza denaro per mandarmi alla scuola che frequentavano tutti i ragazzini americani.
Così decise di darmi lei stessa delle lezioni extra, dal lunedì al venerdì alle 4,30 di mattina.
Ora, io non ero proprio felice di alzarmi così presto.
Il più delle volte mi addormentavo al tavolo della cucina.
Ma ogni volta quando mi lamentavo mia madre mi dava un’occhiata delle sue e diceva: «Anche per me non è un picnic, ragazzo».
Ora, io ho fatto un sacco di discorsi sull’istruzione.
E ho molto parlato di responsabilità.
Della responsabilità degli insegnanti che devono motivarvi all’apprendimento e ispirarvi.
Della responsabilità dei genitori che devono tenervi sulla giusta via e farvi fare i compiti e non lasciarvi passare la giornata davanti alla tv.
Ho parlato della responsabilità del governo che deve fissare standard adeguati, dare sostegno agli insegnanti e togliere di mezzo le scuole che non funzionano, dove i ragazzi non hanno le opportunità che meritano.
Ma alla fine noi possiamo avere gli insegnanti più appassionati, i genitori più attenti e le scuole migliori del mondo: nulla basta se voi non tenete fede alle vostre responsabilità.
Andando in queste scuole ogni giorno, prestando attenzione a questi maestri, dando ascolto ai genitori, ai nonni e agli altri adulti, lavorando sodo, condizione necessaria per riuscire.
Questo è quello che voglio sottolineare oggi: la responsabilità di ciascuno di voi nella vostra educazione.
Parto da quella che avete nei confronti di voi stessi.
Ognuno di voi sa far bene qualcosa, ha qualcosa da offrire.
Avete la responsabilità di scoprirlo.
Questa è l’opportunità offerta dall’istruzione.
Magari sapete scrivere bene, abbastanza bene per diventare autori di un libro o giornalisti, ma per saperlo dovete scrivere qualcosa per la vostra classe d’inglese.
Oppure avete la vocazione dell’innovatore o dell’inventore, magari tanto da saper mettere a punto il prossimo i Phone o una nuova medicina o un vaccino, ma non potete saperlo fino a quando non farete un progetto per la vostra classe di scienze.
Oppure potreste diventare un sindaco o un senatore o un giudice della Corte suprema ma lo scoprirete solo se parteciperete a un dibattito studentesco.
Non è solo importante per voi e per il vostro futuro.
Che cosa farete della vostra possibilità di ricevere un’istruzione deciderà il futuro di questo Paese, nulla di meno.
Ciò che oggi imparate a scuola domani sarà decisivo per decidere se noi come nazione sapremo raccogliere le sfide che ci riserva il futuro.
Avrete bisogno della conoscenza e della capacità di risolvere i problemi che imparate con le scienze e la matematica per curare malattie come il cancro e l’Aids e per sviluppare nuove tecnologie ed energie e proteggere l’ambiente.
Avrete bisogno delle capacità di analisi e di critica che si ottengono con lo studio della storia e delle scienze sociali per combattere la povertà e il disagio, il crimine e la discriminazione e rendere la nostra nazione più corretta e più libera.
Vi occorreranno la creatività e l’ingegno che vengono coltivati in tutti i corsi di studio per fondare nuove imprese che creeranno posti di lavoro e faranno fiorire l’economia.
So che non è sempre facile far bene a scuola.
So che molti di voi devono affrontare sfide tali da rendere difficile concentrarsi sui compiti e sull’apprendimento.
Mi è successo, so com’è.
Mio padre lasciò la famiglia quando avevo due anni e sono stato allevato da una madre single che lottava ogni girono per pagare i conti e non sempre riusciva a darci quello che avevano gli altri ragazzi.
Spesso sentivo la mancanza di mio padre.
A volte mi sentivo solo e pensavo che non ce l’avrei fatta.
Non ero sempre così concentrato come avrei dovuto.
Ho fatto cose di cui non vado fiero e sono finito nei guai.
E la mia vita avrebbe potuto facilmente prendere una brutta piega.
Ma sono stato fortunato.
Ho avuto un sacco di seconde possibilità e l’opportunità di andare al college e alla scuola di legge e seguire i miei sogni.
Qualcuno di voi potrebbe non godere di questi vantaggi.
Può essere che nella vostra vita non ci siano adulti che vi appoggiano quanto avete bisogno.
Magari nelle vostre famiglie qualcuno ha perso il lavoro e il denaro manca.
O vivete in un quartiere poco sicuro, o avete amici che cercano di convincervi a fare cose sbagliate.
Ma, alla fine dei conti, le circostanze della vostra vita – il vostro aspetto, le vostre origini, la vostra condizione economica e familiare – non sono una scusa per trascurare i compiti o avere un atteggiamento negativo.
Non ci sono scuse per rispondere male al proprio insegnante, o saltare le lezioni, o smettere di andare a scuola.
Non c’è scusa per chi non ci prova.
Il vostro obiettivo può essere molto semplice: fare tutti i compiti, fare attenzione a lezione o leggere ogni giorno qualche pagina di un libro.
Potreste decidere di intraprendere qualche attività extracurricolare o fare del volontariato.
Potreste decidere di difendere i ragazzi che vengono presi in giro o che sono vittime di atti di bullismo per via del loro aspetto o delle loro origini perché, come me, credete che tutti i bambini abbiano diritto a un ambiente sicuro per studiare e imparare.
Potreste decidere di avere più cura di voi stessi per rendere di più e imparare meglio.
E in tutto questo, spero vi laviate molto le mani e ve ne stiate a casa se non state bene in modo da evitare il più possibile il contagio dell’influenza quest’inverno.
Qualunque cosa facciate voglio che vi ci dedichiate.
So che a volte la tv vi dà l’impressione di poter diventare ricchi e famosi senza dover davvero lavorare, diventando una star del basket o un rapper, o protagonista di un reality.
Ma è poco probabile, la verità è che il successo è duro da conquistare.
Non vi piacerà tutto quello che studiate.
Non farete amicizia con tutti i professori.
Non tutti i compiti vi sembreranno così fondamentali.
E non avrete necessariamente successo al primo tentativo.
È giusto così.
Alcune tra le persone di maggior successo nel mondo hanno collezionato i più enormi fallimenti.
Il primo Harry Potter di JK Rowling è stato rifiutato dodici volte prima di essere finalmente pubblicato.
Michael Jordan fu espulso dalla squadra di basket alle superiori e perse centinaia di incontri e mancò migliaia di canestri durante la sua carriera.
Ma una volta disse: «Ho fallito più e più volte nella mia vita.
Ecco perché ce l’ho fatta».
Nessuno è nato capace di fare le cose, si impara sgobbando.
Non sei mai un grande atleta la prima volta che tenti un nuovo sport.
Non azzecchi mai ogni nota la prima volta che canti una canzone.
Occorre fare esercizio.
Con la scuola è lo stesso.
Può capitare di dover fare e rifare un esercizio di matematica prima di risolverlo o di dover leggere e rileggere qualcosa prima di capirlo, o dover scrivere e riscrivere qualcosa prima che vada bene.
La storia dell’America non è stata fatta da gente che ha lasciato perdere quando il gioco si faceva duro ma da chi è andato avanti, ci ha provato di nuovo e con più impegno e ha amato troppo il proprio Paese per fare qualcosa di meno che il proprio meglio.
È la storia degli studenti che sedevano ai vostri posti 250 anni fa e fecero una rivoluzione per fondare questa nazione.
Di quelli che sedevano al vostro posto 75 anni fa e superarono la Depressione e vinsero una guerra mondiale.
Che combatterono per i diritti civili e mandarono un uomo sulla Luna.
Di quelli che sedevano al vostro posto 20 anni fa e hanno creato Google, Twitter e Facebook cambiando il modo di comunicare.
Così, vi chiedo, quale sarà il vostro contributo? Quali problemi risolverete? Quali scoperte farete? Il presidente che verrà di qui a 20, 50 o 100 anni cosa dirà che avrete fatto per questo Paese? Le vostre famiglie, i vostri insegnanti e io stiamo facendo di tutto per fare sì che voi abbiate l’istruzione necessaria per saper rispondere a queste domande.
Mi sto dando da fare per garantirvi classi e libri e accessori e computer, tutto il necessario al vostro apprendimento.
Ma anche voi dovete fare la vostra parte.
Quindi da voi quest’anno mi aspetto serietà.
Mi aspetto il massimo dell’impegno in qualsiasi cosa facciate.
Mi aspetto grandi cose, da ognuno di voi.
Quindi non deludeteci, non deludete le vostre famiglie, il vostro Paese e voi stessi.
Rendeteci orgogliosi di voi.
So che potete farlo.

Ora di religione, in arrivo il voto

Anche il giudizio dei prof di religione potrebbe essere presto trasformato in un voto vero, dall’1 al 10.
L’intenzione del governo è stata oggi confermata nella sostanza dal ministro Maristella Gelmini: “Credo che l’ora di religione debba avere la stessa dignità delle altre materie, e credo anche che l’Italia non possa non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione”.
Secondo il ministro, va “garantita agli insegnanti della religione cattolica la stessa situazione, le stesse condizioni degli altri insegnanti”.
Alla fattibilità dell’intera operazione starebbe lavorando da circa tre mesi una commissione voluta dal ministro.
Sulla composizione della stessa vige il più stretto riserbo e le riunioni si sono finora svolte in gran segreto, ma si sa che il gruppo di lavoro è presieduto dal direttore generale per gli Ordinamenti, Mario Dutto.
Il passo ulteriore è di pochi giorni fa: da viale Trastevere è partita la richiesta di parere di fattibilità al Consiglio di stato.
Se la cosa dovesse andare in porto, si riaccenderebbe la guerra tra laici e cattolici scoppiata un paio di settimane fa, quando il Tar Lazio ha estromesso dall’attribuzione dei crediti scolastici alle superiori proprio i prof di Religione.
Contro quella decisione, Gelmini prima ha annunciato un ricorso al Consiglio di stato, ma poi ha pubblicato il Regolamento sulla valutazione degli alunni che, di fatto, ha sospeso il provvedimento del tribunale amministrativo.
Attualmente, in tutti i gradi della scuola italiana (dalle elementari alle superiori), nei confronti degli alunni che hanno optato per l’ora di religione cattolica l’insegnante esprime un giudizio sintetico: sufficiente, discreto, buono, ottimo.
Niente voto, insomma.
Neppure dall’anno scorso, quando ad ottobre è stata approvata la legge 169 che ripristinava i voti in decimi al posto dei giudizi sintetici alla scuola primaria (l’ex elementare) ed alla media.
“Per l’insegnamento della religione cattolica – recita il testo unico in materia di istruzione – , in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Ma nel regolamento sulla valutazione, pubblicato il 19 agosto scorso, a proposito dei voti in decimi si legge che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica (…) è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche” al Concordato stato-chiesa.
A cosa porterebbe una eventuale trasformazione del giudizio in voto numerico? Darebbe alla Religione pari dignità rispetto a tutte le altre discipline.
Perché rientrerebbe nella media dei voti per l’attribuzione del credito scolastico alle superiori e contribuirebbe all’ammissione alla maturità così come agli esami di terza media.
Il provvedimento sarebbe certamente accolto positivamente dai quasi 26mila insegnanti di Religione in servizio nelle scuole italiane perché avrebbe il significato di una promozione a tutti gli effetti.
Dal punto di vista politico, invece, servirebbe a ricucire i rapporti tra governo e Vaticano dopo le tensioni nate sui respingimenti dei migranti e in seguito al caso Boffo.
da Repubblica 14 settembre 2009

La religione ha un ruolo centrale e unico nella società e per il suo sviluppo

L’INTERVISTA  Partiamo dal suo recente ingresso nella Chiesa cattolica.
Due anni fa, dopo la visita al Papa in giugno, il mondo cominciò a parlare apertamente della sua conversione al cattolicesimo.
Ci può raccontare come nacque questa decisione? Il mio viaggio spirituale è cominciato quando ho iniziato ad andare a messa con mia moglie.
Poi, quando abbiamo deciso di battezzare i nostri figli nella fede cattolica.
È un cammino che è proseguito per 25 anni, e forse anche di più.
Nel tempo, emotivamente, intellettualmente e razionalmente mi è sembrato che quella cattolica fosse la casa giusta per me.
Ma è successo durante un lungo intervallo di tempo.
Quando ho lasciato l’incarico politico, e attorno non avevo più tutto il contesto legato all’essere primo ministro, è stato qualcosa che ho voluto davvero fare.
La sua era una famiglia religiosa? In realtà non molto.
Mia madre, una protestante proveniente dall’Irlanda, andava occasionalmente in chiesa.
Mio padre, invece, era un ateo militante.
Ma, a Durham, sono andato a scuola alla Chorister School, adiacente alla cattedrale, quindi la religione è stata parte integrante della mia educazione scolastica.
La vera svolta, però, l’ho vissuta all’università, quando ho iniziato a pensare seriamente alla mia fede cristiana, a pensarvi in modo più profondo.
È stato allora che ho realizzato che era un aspetto non solo importante, ma assolutamente centrale della mia vita.
Come è noto, da sempre Cherie Booth è una cattolica praticante.
Che significato ha avuto la religione nel vostro matrimonio? La religione è stata qualcosa che ci ha fatto avvicinare.
Non ci siamo conosciuti a motivo della religione, ma è stato molto interessante scoprire che la mia futura moglie era estremamente attiva nella organizzazione studentesca cattolica e in altre organizzazioni giovanili.
Per dei giovani di 23 o 24 anni – come noi eravamo quando ci siamo conosciuti – era piuttosto inusuale scoprire di condividere questo interesse per la religione.
Durante la sua ultima visita da primo ministro, lei ha donato a Benedetto XVI tre foto di John Henry Newman.
La scelta è stata motivata dal fatto che la figura del cardinale Newman aveva avuto un ruolo nel suo cammino di conversione? Oppure vi sono state altre figure che vi hanno contribuito? In realtà no, non è stata questa la ragione.
Anche se ovviamente conoscevo la storia del cardinale Newman, e avevo letto i suoi scritti.
Le foto erano semplicemente un regalo appropriato.
Riguardo ad altre figure, ho avuto la fortuna di partecipare nel 2003 con la mia famiglia, a una messa che Giovanni Paolo II celebrò nella sua cappella privata:  è un ricordo ancora molto vivido, un episodio che mi ha estremamente colpito.
Certo, molto probabilmente sarei giunto comunque alla conversione, ma indubbiamente si è trattato di una tappa importante che ha ulteriormente rafforzato la mia decisione.
Una delle cose che mi ha più attratto della Chiesa cattolica è la sua natura universale.
Se sei un cattolico, puoi andare ovunque nel mondo e partecipare alla messa in ogni Paese.
Sono stato a messa a Kigali, a Pechino, a Singapore.
Ricordo la volta in cui seguii una funzione a Tokyo:  ero entrato in incognito, senza farmi notare, ma al termine della celebrazione una signora invitò i numerosi visitatori a presentarsi, alzandosi in piedi.
Lo feci:  sono Tony da Londra.
È stata una bella sorpresa! (ride).
Ecco, il fatto che, ovunque tu sia nel mondo, sei in comunione con gli altri, è veramente formidabile.
È qualcosa che mi affascina.
La Chiesa universale è essa stessa un importante modello di istituzione globale.  La società e la politica inglesi sono molto diverse da quelle statunitensi:  in Gran Bretagna è raro parlare ad alta voce della propria fede e gli inglesi si sorprendono dinnanzi a quanti raccontano apertamente il loro credo.
Pensa che vi siano motivi culturali per questa differenza? Personalmente credo che questo sia un problema dei media, piuttosto che della gente comune.
Non ho mai fatto una gran questione attorno alla mia fede, nonostante fosse assolutamente evidente il fatto che l’avessi:  per anni sono andato a messa ogni settimana, quindi non stavo certo nascondendo nulla.
E debbo dire che non ho mai avuto problemi con la gente.
Anzi, forse, è vero il contrario.
Penso però che, a causa della nostra cultura mediatica, se inizi a parlare pubblicamente di fede come leader politico, la prima reazione della gente è di sospetto, piuttosto che di interesse.
Invece, negli Stati Uniti parlarne è semplicemente dato per scontato.
È un peccato che sia così, ma questa è la realtà.
Posso però dire che per la gente comune, a differenza di quanti parlano in televisione o scrivono sui giornali, non c’è mai stato problema.
Sono sempre stato consapevole del fatto che se avessi cominciato a parlare troppo di fede, mi sarebbero state richieste tante spiegazioni.
Questo sicuramente non sarebbe successo negli Stati Uniti.
Non saprei dire se vi siano differenze culturali dietro questi diversi atteggiamenti.
Forse in America andare in chiesa fa parte della vita quotidiana molto più di quanto non avvenga oggi in Europa.
Inclusa la Gran Bretagna.
Resta comunque il fatto che io ho affrontato temi politici con le comunità religiose più di quanto mi risulta abbia mai fatto nessun altro.
Per un europeo, è impossibile non notare quanto la politica americana parli di Dio, quanto lo citi.
È vero.
A essere onesti, però, penso che ciò che preoccupa gli inglesi è il fatto che il politico possa voler prendere in prestito Dio per la campagna elettorale.
Gli americani, al contrario, non la pensano affatto così, e lo ritengono del tutto naturale.
Personalmente credo che sia importante aprirsi alla fede e che le persone si sentano libere di farlo.
Non possiamo ignorare che nei Paesi anglosassoni – ma non solo! – esiste un forte pregiudizio verso i cattolici che fanno politica.
L’idea è che il politico cattolico non sia libero e che le sue decisioni vengano prese in Vaticano.
È verissimo.
In realtà non ero esattamente cosciente di questo pregiudizio prima della conversione, e debbo dire che sono rimasto scioccato nel prenderne atto.
È interessante che una delle cene a cui partecipai subito dopo aver lasciato l’incarico di primo ministro fu l’Alfred E.
Smith Memorial Foundation Dinner a New York, una cena annuale organizzata dalla comunità cattolica (precisamente dall’omonima fondazione insieme all’arcidiocesi di New York).
Al Smith, che per quattro volte venne eletto governatore di New York battendosi per la giustizia sociale – sconfiggere la povertà e aiutare la causa  del  progresso – era cattolico.
È stato il  primo  cattolico a candidarsi alla Casa Bianca nel 1928.
Per scrivere il mio discorso,  mi  sono  documentato sul personaggio, ed è stato sorprendente scoprire  che il  suo  essere cattolico fu il vero tema della campagna elettorale.
La preoccupazione  che  emergeva dalla stampa era che, se Al Smith avesse vinto le elezioni, il Papa si sarebbe trasferito dal Vaticano alla Casa Bianca! (ride).
L’incubo era che il Paese sarebbe stato governato dalla Chiesa cattolica.
Questo spiega la celebre dottrina Kennedy secondo cui il credo religioso del presidente non dovrebbe giocare alcun ruolo nelle scelte degli elettori.
Già.
Kennedy finalmente infranse il mito.
Certo, sapevo del pregiudizio, anche perché la famiglia di mia madre era protestante e fortemente anticattolica.
Ma, pur sapendolo, non ne avevo del tutto compreso la reale portata finché non sono stato “educato” meglio.
Bede Griffiths, che si convertì nel 1931, era consapevole che la sua decisione di aderire alla Chiesa cattolica avrebbe causato sofferenza ai suoi cari, e specialmente a sua madre.
La preoccupazione di chi lo circondava era che egli avrebbe finito per perdere le sue radici.
In uno dei rari momenti di lucidità durante la malattia, la mia bisnonna, una donna per molti versi fantastica, mi disse:  fai quel che vuoi, ma non sposare una cattolica.
Esattamente ciò che poi ho fatto, temo (ride).
Più in generale, crede che nelle moderne democrazie, un politico abbia il diritto di parlare in nome della sua fede – dichiarandosi, ad esempio, contro l’aborto perché viola il quinto comandamento – o abbia invece il dovere di tacere sul suo credo personale?  Ho sempre sostenuto che le persone hanno il diritto di parlare.
Ho insistito molto su questo in Gran Bretagna.
Anche perché si tratta di temi che le persone sentono molto, che sono importanti per loro.
La gente la pensa diversamente su questi argomenti, e se una persona crede qualcosa che è assolutamente centrale per lui, ha il diritto di parlarne.
Tornando a lei, è mutato qualcosa dopo la conversione nella sua vita personale (ad esempio, come padre), nella sua attività politica in Gran Bretagna e, infine, nel suo nuovo ruolo sullo scenario internazionale? Come padre, c’è stata solo una continuazione.
I miei tre figli maggiori, ormai cresciuti, sono cattolici praticanti (e lo sono ancora, fortunatamente!).
Li abbiamo battezzati, hanno studiato in scuole cattoliche – anche Leo oggi studia in una scuola cattolica – e continuano a essere cattolici.
La fede è sempre stata una parte importante nella nostra vita come famiglia.
In questo senso, dunque, la mia conversione non ha cambiato le cose.
Quanto alla politica inglese, personalmente ho cercato di chiamarmene fuori da quando ho lasciato Downing Street.
Infine, circa il mio impegno internazionale, ovviamente la fede mi rende particolarmente sensibile e attento rispetto ad alcune tematiche specifiche.
Pensiamo al Medio Oriente.
Il fatto di essere lì, per un credente è emozionante e oltremodo stimolante.
Visitare i luoghi santi è stato meraviglioso:  andare in posti come Gerico, la riva del Giordano dove avvenne il battesimo di Gesù, e ovviamente a Gerusalemme, dov’è il mio ufficio.
Il fatto di essere una persona di fede dà a questo impegno un significato speciale.
In Africa la mia fondazione per il dialogo fra le religioni è molto attiva:  ad esempio, abbiamo un programma che vede le diverse religioni unite per sconfiggere la malaria, che ogni anno uccide nel continente un milione di persone, prevalentemente bambini.
Ci occupiamo anche del cambiamento climatico:  sono convinto che il rispetto dell’ambiente per le generazioni future rientri nella nostra responsabilità di cristiani.
Insomma, sono tutti temi dominati dalla mia fede.
La Tony Blair Faith Foundation intende promuovere il rispetto e la conoscenza delle maggiori religioni – cristiana, musulmana, hindu, buddista, sikh ed ebraica – e dimostrare come la fede sia per il mondo moderno una forza potente che spinge verso il bene.
Ricordo che la presentai alla cattedrale di Westminster, dinnanzi a un uditorio cattolico.
Crede che il suo essere cattolico sia un vantaggio o uno svantaggio per la sua attività in Medio Oriente? Onestamente non l’ho mai trovato un problema.
Mai.
Anzi, penso spesso che, nel mondo moderno, il fatto di essere una persona di fede incrementi la capacità di mettersi in relazione con persone di un altro credo.
Certo, a volte è vero anche il contrario, per cui ci si trova in forte opposizione.
Ma giacché oggi fattori di secolarizzazione sottopongono la fede a un duro e aggressivo attacco, finisce che persone di fedi diverse a volte si alleino.
Nella “Caritas in veritate” il Papa scrive che “la religione Cristiana e le altre religioni possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto nella sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica e, in particolare, politica” (n.
56).
Lei crede che il mondo di oggi abbia desiderio di ascoltare la religione, oppure voglia ignorarla? Trovo che vi sia un conflitto.
Personalmente, condivido totalmente quello che scrive il Papa nell’enciclica, un testo brillante che deve essere letto e riletto.
Ritengo che la religione abbia un ruolo centrale, unico all’interno della società e per il suo sviluppo.
Pensiamo, ad esempio, al modo in cui utilizziamo la tecnologia.
Ma è anche vero che c’è un conflitto, perché molte persone vogliono tenere la religione fuori dalla sfera pubblica.
Sostenere, come sostengo, che la religione abbia un ruolo importante, non significa ritenere che finiranno i dibattiti e le contrapposizioni.
Questi, al contrario, proseguiranno su molti temi rispetto ai quali, probabilmente, la Chiesa starà da una parte e i leader politici dall’altra.
Ma non credo sia questo il punto:  il punto è che la fede ha pieno diritto di entrare in questo spazio e di parlare.
Non deve tacere.
Non è quindi solo importante che le cose si risolvano nel modo giusto, ma anche che la voce della fede non sia assente dal dibattito pubblico (pensiamo a temi come la giustizia e la solidarietà tra i popoli e le nazioni).
Sono appena tornato dalla Cina, dove ora passo molto tempo, ed è affascinante vedere il modo in cui questo Paese si sta impegnando per trovare la sua strada verso il futuro.
Non è solo un impegno sul versante del progresso economico e sociale, ma qualcosa che riguarda anche la riscoperta delle loro fedi e tradizioni.
Ho ascoltato molte relazioni in Cina:  si parla moltissimo di confucianesimo, taoismo e buddismo.
E perfino la comunità cristiana oggi in Cina si sta aprendo di più.
Per molti aspetti, la Cina si trova a un grado diverso di sviluppo rispetto alle nostre società, quindi si potrebbe pensare che nel Paese prevalga la tendenza a dire:  se vogliamo essere veramente avanzati, moderni e sviluppati dobbiamo mettere la religione da parte.
Invece è interessante scoprire che, sebbene vi siano persone che si augurano esattamente questo, oggi si odono anche voci del tutto opposte.
Voci che ricordano come la Cina sia una civiltà antica con forti tradizioni religiose e filosofiche le quali non si occupano solo dello Stato e dell’individuo, ma anche della sfera religiosa.
Credo che questa sia per noi una lezione davvero importante.  Personalmente ritengo che la recente entrata in scena dell’islam abbia stravolto il ruolo, lo spazio che oggi diamo alla religione in politica, il modo in cui pensiamo alla loro interrelazione.
Sono assolutamente d’accordo.
Per certi versi, è il punto nodale della mia fondazione.
Anche se una persona non è credente, può comunque capire l’importanza della fede, può comprendere che la fede conta.
Abbiamo visto ciò che è accaduto nel mondo islamico:  ci sono persone che sostengono che è qualcosa che non ha nulla a che fare con la religione.
È una completa assurdità.
Certo che ha a che fare con la religione.
Sempre nell’enciclica, Benedetto XVI scrive che “volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità” (n.
7).
Lei cosa ne pensa come cattolico, come ex primo ministro inglese, come protagonista attuale della politica internazionale e come probabile futuro Presidente europeo? Concordo (sorride).
Credo che un leader politico sia soggetto ad alcuni vincoli, e debba lavorare per raccogliere voti.
Perché questa è la democrazia.
Ma è proprio qui che trovo che la fede abbia un ruolo unico.
La Chiesa cattolica segue la verità di Dio, e credo che ciò su cui il Papa si impegna tanto è cercare di far comprendere che questo è un obbligo cristiano.
Certo, a volte ciò può entrare in conflitto con il mondo politico, e io l’ho sperimentato come leader politico.
Eppure è estremamente importante che vi sia l’aspetto religioso:  non a caso il Papa scrive che un umanesimo senza Dio è disumano.
E credo che egli intenda con questo che le azioni umane e la ragione umana sono sempre limitate se non sono pervase dalla fede.
A volte, possono essere addirittura pericolose.
Certo, difficilmente si potrà realizzare la politica  che  il  Papa  tratteggia  nell’enciclica.
La gente spesso fraintende la politica.
La politica è l’interazione tra idealismo e realismo:  solitamente, non è il trionfo dell’uno sull’altro.
Quando, nel 2005, abbiamo deciso di mettere la povertà in Africa al centro del G8 a Gleneagles, questo era fortemente sostenuto dalla Chiesa cattolica e da Giovanni Paolo II.
E fu cruciale.
Si creano difficili nodi politici quando si arriva a dover decidere quanti soldi si daranno, se si deve fare di più, se si può fare di più.
Nodi che possono portare anche a forti contrapposizioni.
Ma il fatto che se ne parli, e che la posizione venga fortemente sostenuta dalla Chiesa, può effettivamente aiutare il politico a fare la scelta giusta.
Certo, non elimina il problema, ma aiuta.
Quando ho detto agli inglesi che dovevamo incrementare sostanzialmente il nostro aiuto all’Africa, mi aiutò moltissimo il fatto che la Chiesa dicesse pubblicamente che era la scelta giusta da fare, che era una cosa moralmente buona.
Certo, ciò non toglie che vi sia sempre chi critica il fatto di usare i nostri soldi per aiutare gente diversa da noi.
In effetti in Gran Bretagna avete seri nodi sociali:  non deve essere stato facile.
È vero, li abbiamo.
Ma li hanno tutti.
Sì, ma è più facile vedere quelli degli altri, piuttosto che i propri! Già! (ride).
Come padre di quattro figli, cosa pensa del ruolo paterno? Come vede il futuro della paternità nel mondo di oggi? In primo luogo, penso che la paternità sia un ruolo da affrontare con responsabilità e senza arroganza.
Per quanto bravo o intelligente pensassi di essere, ho sempre trovato che essere padre fosse qualcosa di estremamente difficile.
E lo penso tuttora.
Secondo, ovviamente ritengo che anche il padre sia una figura cruciale nella famiglia, che anch’egli sia fondamentale per la crescita e la formazione del bambino.
In terzo luogo, credo che, per certi versi, si stia recuperando l’idea di famiglia.
Anche in questo campo ritengo che le comunità religiose e la Chiesa abbiano un ruolo da giocare.
Certo, le famiglie hanno i loro problemi, le famiglie si sfasciano, cosa che temo continuerà ad accadere.
Ma ho sempre pensato che le indicazioni della Chiesa in materia di famiglia fossero utili.
Sia chiaro, far funzionare un matrimonio richiede impegno.
E credo che lo richieda anche la paternità.
Ma penso davvero che, tra i grandi cambiamenti che stanno avvenendo anche sul versante sociale, sia necessario riscoprire che la paternità è una responsabilità e una necessità.
Che impressione Le fa sapere che i suoi pronipoti studieranno il suo lavoro nei loro libri di scuola? Qualcuno me lo ha fatto notare l’altro giorno, ed è stata la prima volta che ci ho pensato.
So che suona strano, ma è davvero così! Non penso mai a me stesso in questi termini.
E poi, certo, dipende molto da quello che leggeranno! (ride).
Beh, lei di cose ne ha fatte parecchie…
Sì.
Però la mia personale inclinazione è quella di concentrarmi sempre sul futuro.
Non perché io non rifletta sul passato – vi sono ovviamente molte questioni sulle quali rifletto e ritorno – ma sento di avere ancora qualcosa da dare.
Sento che ho ancora una vita davanti a me, oltre che dietro di me.
Chissà poi quali saranno i giudizi storici sulle diverse imprese in cui sono stato coinvolto, in particolare i tanti conflitti bellici come l’Iraq, l’Afghanistan, il Kosovo, Sarajevo.
Semplicemente, non avendo idea di quali giudizi verranno dati, trovo che non abbia assolutamente senso l’ossessione di pensarci.
Mi colpisce questa sua enfasi sul futuro.
Certo, Lei, che è arrivato alla guida del governo a 44 anni, oggi è ancora giovane:  ha finito il suo lavoro come primo ministro avendo ancora tantissimo tempo davanti a sé.
Invece, per esempio, l’Italia ha una classe politica tradizionalmente molto più avanti con gli anni:  è perciò inusuale un politico che, al termine di un decennio di governo, sia così proiettato sul suo futuro professionale.
Sì, ma ritengo che, in realtà, sia una cosa buona.
Devo dire che credo di aver imparato tantissime cose negli anni.
Il fatto di avere politici che terminano il loro incarico quando sono ancora giovani, può tornare veramente utile.
Penso a politici come Bill Clinton o Aznar:  hanno davvero molta esperienza da far fruttare.
E sua moglie non scenderà in politica, come è capitato in altri Paesi? No, non credo proprio che le interessi! (ride).
Eppure abbiamo davvero bisogno delle donne in politica.  È vero:  abbiamo bisogno delle donne in politica.
Bisogna insistere! Del resto il suo Paese è stato a lungo guidato da una donna che, tra l’altro, è stata un esempio interessante di donna politica.
Certamente.
Credo, però, che i pregiudizi contro le donne siano in realtà molto meno diffusi di quanto generalmente si creda.
Ricordo che mio padre mi diceva sempre – era un uomo della vecchia guardia – che gli inglesi non avrebbero mai eletto una donna primo ministro.
E invece l’hanno fatto per ben tre volte! Quale era il sogno di Tony Blair quando era bambino? Le mie ambizioni? Temo proprio che fossero estremamente ordinarie e banali:  volevo diventare un calciatore o una rock-star! (ride).
Non ha mai pensato che le sarebbe piaciuto diventare primo ministro? No! Sarei assolutamente inorridito se qualcuno mi avesse detto che sarei diventato  un politico.
E questo fino all’età di 20 o 21 anni.
I miei primi due anni  all’università  sono  stati  più  a base di feste e rock and roll che di politica.
Eppure si ricorderà della prima volta in cui ha votato? Ricordo che io quel giorno mi sono sentita importante:  sentivo che il mio Paese aveva bisogno di me.
Sì che mi ricordo! Erano le elezioni del 1974, e io ero all’università.
Direi, però, che il voto che ha segnato una netta differenza nella mia vita, è stato quello al referendum sull’Europa del 1975.
Ricordo perfettamente di aver votato sì:  e fu un voto estremamente consapevole.
Ero convinto che fosse una  scelta importante per il futuro della Gran Bretagna.
Lo ricordo bene:  è stato un momento davvero interessante.
E così, terminiamo con l’Europa.
Un involontario ponte verso il futuro.
Ancora strette di mano, e sorrisi.
Quando lo saluto, non so più se sto salutando il politico che ha abitato per un decennio al 10 di Downing Street riformulando la politica inglese, il credente che ha camminato a lungo verso la Chiesa cattolica, o lo statista di cui ancora si parlerà.
In effetti, forse non è nemmeno un gran problema:  beneath all, questo è Mister Tony Blair, come lo definisce il suo assistente Matthew Doyle.
All’ultimo momento salendo le scale verso la sua stanza, ero stata presa da un brivido di terrore su come avrei dovuto chiamarlo.
Ma il problema non s’è posto.
(©L’Osservatore Romano – 14-15 settembre 2009)

Confini

CAMILLO RUINI, ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA, Confini.
Dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo, Mondadori.
Mialano  2009, pp.  204, ISBN: 978880458310, €  18.00.  Una delle domande di fondo poste dall’attuale dibattito sull’identità culturale dell’Europa è se il cristianesimo, storicamente radicato in un Occidente sempre più secolarizzato e sollecitato dal problematico incontro con altre fedi e civiltà, riuscirà a conservare la sua dimensione profetica, e se l’Occidente laico potrà ancora riconoscere nella parola di Gesù un punto di riferimento etico e spirituale privilegiato.
Sul futuro della democrazia e sul ruolo del cristianesimo – e, in Italia, della Chiesa cattolica – due acuti osservatori del nostro tempo, lo storico Ernesto Galli della Loggia, di formazione laica, e il teologo Camillo Ruini, si confrontano in un serrato contraddittorio ricco di spunti di riflessione e acute intuizioni.
Un sintetico excursus dall’illuminismo ai giorni nostri, necessario per individuare i momenti più significativi nell’evoluzione dei rapporti tra società civile e istituzione ecclesiastica, introduce all’analisi della situazione del nostro paese, dove il cattolicesimo ha trovato la sua massima espressione politica nei quarant’anni di governo della Democrazia cristiana e dove il Concordato rappresenta tuttora un motivo di scontro ideologico.
Nella discussione entrano inevitabilmente questioni decisive per la nostra epoca, e spesso oggetto di roventi polemiche, come i limiti da porre alla scienza e alla tecnologia nella manipolazione della natura, o le istanze etiche che discendono da concezioni della vita e della morte agli antipodi.
Ma l’attenzione dei due interlocutori si rivolge anche alle grandi civiltà di matrice non cristiana (in primo luogo quella islamica), rispetto alle quali la Chiesa, come sostiene Ruini, «deve riaffermare la specificità dell’identità cristiana, la sua singolarità, che forse nel tumulto dei tempi minaccia talvolta di appannarsi agli occhi degli stessi fedeli».
Se, dunque, la strada da percorrere per raggiungere reali punti d’incontro tra la cultura laica e quella cristiana appare ancora lunga e tortuosa, non mancano segnali positivi in questa direzione, a cominciare dal messaggio del Concilio Vaticano II e dalla sua interpretazione a opera di pontefici come Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, entrambi strenui difensori del concetto di dignità della persona e delle sue attese di giustizia, libertà e pace.
Senza la presunzione di fornire risposte definitive, questo dialogo apre nuovi orizzonti per chiunque desideri approfondire la conoscenza della realtà in cui vive e sia davvero tentato di attraversare i propri «confini», un passo che, prima o poi, ciascuno sarà chiamato a compiere.

Una laicità positiva per il futuro

Una laicità positiva per il futuro di Camillo Ruini Quello della laicità è un grande tema, del quale si discute da anni con un interesse che sembra inesauribile.
È difficile, pertanto, proporre in merito “idee innovative”, come è auspicato per questo incontro.
In rapporto all’emergere di qualcosa di nuovo vorrei segnalare anzitutto il rischio insito nella parola “laicità”, non per se stessa ma perché, nel dibattito culturale e politico italiano, essa risente facilmente della parentela con il termine francese “laicité”, portatore, storicamente, di un significato assai preciso e, a mio avviso, abbastanza angusto, rispetto alle problematiche attuali oltre che alla rilevanza dell’altro filone, che per intenderci chiameremo “nord-americano”.
Affinché una “nuova” laicità sia elaborata concettualmente, e soprattutto possa prendere piede nella realtà, la matrice americana mi sembra assai più utile di quella francese, ma soprattutto occorre misurarsi seriamente con il rilievo assunto dalla presenza delle diverse religioni sulla scena pubblica, oltre che con le questioni poste sia dalla trasformazione dei costumi e modi di vivere sia dagli sviluppi scientifici e tecnologici, in particolare nell’ambito delle biotecnologie.
Mi preme inoltre inserire una considerazione della quale di solito non si parla, ma che mi sembra indispensabile per impostare correttamente, o se vogliamo con onestà intellettuale, tutto il discorso sulla laicità e sul ruolo pubblico delle religioni.
Questa considerazione è contenuta nel sottotitolo del convegno internazionale su Dio, promosso per il prossimo dicembre [a Roma] dal comitato per il progetto culturale [della conferenza episcopale italiana]: “Con Lui o senza di Lui cambia tutto”.
Robert Spaemann, nel 2001, ha illustrato in maniera molto sintetica ma altrettanto magistrale il significato di questa affermazione, precisando che la risposta all’interrogativo: fa differenza che Dio esista o non esista? cambia profondamente a seconda che si tratti dei credenti o dei non credenti, sia atei sia agnostici.
I credenti autentici rispondono che la differenza non solo esiste ma è grande e radicale – anzi, è la prima e la più grande –, riguardo sia al modo di concepire la realtà sia all’orientamento da dare alla nostra vita: per loro infatti Dio è l’origine, il senso e il fine dell’uomo e dell’universo.
I non credenti invece possono differenziarsi nelle loro risposte, a seconda che ritengano la fede in Dio negativa, positiva o irrilevante per la vita dell’uomo e della società, ma propriamente parlando si riferiscono soltanto alla nostra fede in Dio, non alla realtà stessa di Dio, dato che secondo loro Dio non esiste, o comunque non possiamo sapere niente di lui, nemmeno se egli esista.
Il riconoscimento di questa profonda diversità di approccio tra credenti e non credenti sgombra il terreno dagli equivoci delle false uniformità, ma non implica affatto una impossibilità di convergere su obiettivi concreti e importanti: anzi, nelle attuali circostanze storiche, importantissimi.
Evidenzierò in seguito alcuni di questi.
*** Ritornando alla questione della laicità, distinguerei tra gli aspetti sui quali oggi esiste un consenso sostanziale, anche se spesso mascherato da polemiche piuttosto strumentali, e i punti sui quali invece il contrasto è profondo, anzi, tende forse ad acuirsi.
Seguendo da una parte la voce “Laicismo”, redatta da Giovanni Fornero nella terza edizione del “Dizionario di filosofia” dell’Abbagnano, e dall’altra i documenti “Gaudium et spes” e “Dignitatis humanae” del Concilio Vaticano II, possiamo individuare gli aspetti su cui c’è consenso anzitutto nel principio dell’autonomia delle attività umane, cioè nell’esigenza che esse si svolgano secondo regole proprie, non imposte loro dall’esterno.
Dietro questo consenso rimane anche qui la diversità tra credenti e non credenti: i primi ritengono infatti che questa autonomia abbia in Dio creatore la propria origine e la propria ultima condizione di legittimità (“Gaudium et spes” 36).
Un secondo elemento di consenso è costituito, contrariamente a molte apparenze, dall’affermazione della libertà religiosa, come diritto inalienabile di ogni persona e, almeno secondo la Chiesa cattolica, di ogni comunità.
Decisiva è stata, al riguardo, la svolta operata dal Vaticano II con la dichiarazione “Dignitatis humanae”, rispetto alle posizioni precedenti della Chiesa in materia.
Una differenza nei confronti di opinioni diffuse nel mondo laico riguarda il fondamento ultimo di tale libertà, che il Concilio intende in modo da escludere un approccio relativistico incompatibile con la rivendicazione di verità del cristianesimo.
Aggiungo che la “Dignitatis humanae” (n.
7) afferma nettamente che la libertà dell’uomo nella società va riconosciuta nella maniera più ampia possibile, limitandola soltanto se e in quanto ciò sia necessario.
Sulla base dei due principi condivisi dell’autonomia delle attività umane e della libertà, in particolare della libertà religiosa, un ampio consenso sussiste inoltre – di nuovo, contrariamente alle apparenze – sulle norme o i criteri di fondo che devono regolare i rapporti tra lo Stato e le comunità religiose, compresi quelli tra lo Stato e la Chiesa in Italia.
Si tratta in concreto della loro distinzione e autonomia reciproca, oltre che dell’apertura pluralistica degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse – comprese quelle di matrice religiosa e anche confessionale –, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità.
Le motivazioni e le dimensioni di questa apertura sono però assai diverse, a seconda dei punti di vista degli interlocutori, come vedremo tra breve.
L’ostacolo che si frapponeva in Italia, e che ancora in qualche modo sopravvive in vari altri paesi, anche europei, cioè la “religione di Stato” o il carattere confessionale dello Stato, è stato superato istituzionalmente con l’accordo del 1984 di revisione del Concordato, che, nel protocollo addizionale, in relazione all’art.
1, recita: “Si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
Alla base della revisione del Concordato stanno, come è noto, da una parte la Costituzione della Repubblica e dall’altra il Concilio Vaticano II con il riconoscimento della libertà religiosa.
L’obiezione che la sussistenza stessa del Concordato rappresenti un privilegio, contrario al principio dell’apertura pluralista e paritaria dello Stato alle diverse confessioni religiose e posizioni culturali, dopo l’accordo di revisione non sembra insuperabile: le relazioni concrete tra uno Stato e le diverse confessioni religiose presenti nel corpo sociale non possono infatti non tener conto della situazione storica e dei modi nei quali, all’interno di essa, lo Stato può riconoscere un carattere pubblico, e non soltanto privato, alle varie confessioni, con gli effetti concreti che conseguono da un tale riconoscimento.
*** Venendo ora agli aspetti della laicità su cui esistono divergenze profonde, ossia ai problemi oggi realmente aperti, essi si concentrano principalmente, nei paesi di democrazia liberale ai quali limito il mio discorso, sul ruolo pubblico che le religioni possono o non possono esercitare e sulle condizioni alle quali possono eventualmente esercitarlo.
La gamma delle opinioni e posizioni al riguardo è ampia e variegata, ma sembra possibile individuare due orientamenti, e direi due sensibilità, di fondo.
Uno di essi tende a ridurre il ruolo pubblico delle religioni, talvolta fin quasi a sopprimerlo, e viene motivato sottolineando, da una parte, il carattere personale, spirituale e intimo, piuttosto che sociale e istituzionale, della religiosità autentica; privilegiando, d’altra parte, nella vita di una nazione, la sfera propriamente politica rispetto a quella del sociale.
L’altro orientamento tende invece a favorire, o comunque ad accogliere senza riserve mentali, il ruolo pubblico delle religioni, ritenendo anche le dimensioni sociali e istituzionali essenziali per le religioni e insistendo sull’autonomia e la rilevanza irriducibile della sfera del sociale.
Va detto qui chiaramente che queste diversità di orientamenti si pongono oggi in maniera trasversale rispetto alla distinzione, consueta in Italia, tra cattolici e laici, come anche tra credenti e non credenti.
Tra i cattolici si trovano infatti non pochi sostenitori di una religiosità concentrata sul suo aspetto spirituale, che sono facilmente critici del ruolo pubblico delle religioni e in particolare del cattolicesimo, mentre tra i laici, specialmente dopo l’emergere delle nuove e grandi questioni etiche e antropologiche, e dopo la rinnovata presenza delle religioni non cristiane sulla scena mondiale, sono numerosi quelli che riconoscono volentieri un tale ruolo, e non di rado lo auspicano.
*** Su questa problematica tenterò ora di esporre sinteticamente il mio punto di vista.
I fenomeni religiosi, in concreto tutte le religioni, compreso evidentemente il cristianesimo, hanno di per sé non minori titoli che ogni altra realtà o fenomeno sociale ad influire sulla scena pubblica, ivi compresa la dimensione propriamente politica.
Ciò naturalmente nel rispetto delle regole della democrazia e dello Stato di diritto o, per usare una terminologia oggi in voga, delle procedure attraverso le quali si formano e si esprimono le decisioni politiche.
Non vi è quindi ragione per porre alle religioni speciali condizioni per esercitare un ruolo pubblico: ad esempio condizioni riguardanti la razionalità del loro argomentare.
La decisione se un modo di argomentare sia razionale, o forse più precisamente plausibile e convincente, in un sistema democratico è affidata infatti, in ultima analisi, soltanto alla valutazione che ne dà la generalità dei cittadini nelle sedi appropriate, anzitutto quelle elettorali.
Vorrei indicare infine i motivi per i quali il ruolo pubblico delle religioni – in particolare del cristianesimo – è importante e può rendere un servizio positivo alla vita della società.
In altri termini, vorrei indicare le ragioni pratiche di quella laicità “sana” o “positiva” di cui ha parlato a più riprese Benedetto XVI, aperta cioè alle fondamentali istanze etiche e al senso religioso che portiamo dentro di noi.
Una motivazione assai rilevante è stata indicata da E.-W.
Böckenförde già molti anni fa, nel suo classico saggio su “La formazione dello Stato come processo di secolarizzazione”: lo Stato liberale secolarizzato vive infatti di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi, come già sosteneva Hegel, sembrano svolgere un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague, in un intervento su “Fede e democrazia” pubblicato sulla rivista “Aspenia” nel 2008, ha proposto un aggiornamento interessante, e a mio parere nella sostanza condivisibile, della tesi di Böckenförde.
In primo luogo ha esteso questa tesi dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa di quella tendenza a ridurre l’uomo stesso a un fenomeno della natura e di quel totale relativismo che sono alla base delle attuali interpretazioni della laicità contrarie all’apertura sollecitata da Benedetto XVI.
È l’uomo, dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi – ma, a mio avviso, sostanzialmente sempre – di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici.
Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita.
Proprio questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
Il libro “Confini” è, come precisa il suo sottotitolo, un esercizio di “dialogo sul cristianesimo e il mondo contemporaneo”, che cerca di approfondire nelle sue motivazioni e di rivestire di concretezza quella laicità non ostile al cristianesimo, anzi alimentata in buona misura da esso, nella quale il professor Galli della Loggia ed io, pur con tutti i nostri diversi punti di vista, individuiamo concordemente un presidio essenziale dell’ispirazione umanistica della nostra civiltà.
__________ Il rapporto tra religione e politica è una classica questione di “confini”, come dice anche il titolo di un dialogo, divenuto un libro, tra il pensatore laico Ernesto Galli della Loggia e il cardinale Camillo Ruini.
Presentando il libro a Milano, a Palazzo Marino, lo scorso 9 settembre, Ruini ha trovato occasione per dire in sintesi come lui vede il ruolo pubblico della religione nelle moderne democrazie e i punti d’accordo e di disaccordo tra la Chiesa e la visione laica.
Il suo intervento, riprodotto integralmente più sotto, è tanto più interessante in quanto va ai “fondamentali” della controversia sulla laicità.
È una controversia che implica inevitabilmente la domanda suprema su Dio.
Perché “con Dio o senza Dio cambia tutto”, ha detto il cardinale, che proprio alla questione di Dio ha dedicato un grande convegno che si terrà a Roma dal 10 al 12 dicembre, promosso dalla conferenza episcopale italiana e in particolare dal suo comitato per il “progetto culturale”, di cui lo stesso Ruini è presidente.
Il convegno non sarà strettamente “di Chiesa”.
Spazierà dalla filosofia alla teologia, dall’arte alla musica, dalla letteratura alla scienza.
E gli oratori saranno di assoluto rilievo internazionale nei rispettivi campi: siano essi cattolici o no, credenti od agnostici, da Robert Spaemann ad Aharon Appelfeld, da Roger Scruton a Rémi Brague, da Martin Nowak a Peter van Inwagen.
Non sarà neppure una sfilata di opinioni giustapposte, tanto meno una sorta di “cattedra dei non credenti” del tipo di quelle promosse anni fa dal cardinale Carlo Maria Martini.
Il disegno è mirato.
Punta deciso a mettere a fuoco quella “priorità” che per Benedetto XVI “sta al di sopra di tutte”, in un tempo “in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento”.
La priorità cioè – come ha scritto papa Joseph Ratzinger nella sua lettera ai vescovi del 10 marzo 2009 – “di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio.
Non a un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine, in Gesù Cristo crocifisso e risorto”.
Per la conferenza episcopale italiana un convegno di tale portata è una prima assoluta.
Il “progetto culturale” di cui Ruini è stato ideatore trova in esso una delle sue esplicazioni maggiori.
Perché tale progetto non è altro che “uno sforzo per trasformare il messaggio della Chiesa in cultura popolare”, come ha detto il rettore dell’Università Cattolica di Milano, Lorenzo Ornaghi, nel commentare il libro di Ruini e Galli della Loggia.
Uno sforzo che ha avuto e ha nel quotidiano “Avvenire” una delle sue tribune più importanti.
Ma lasciamo la parola al cardinale.
Sandro Magister