Il papa e gli amici ebrei.

1.
Kippur, il Giorno dell’Espiazione di Riccardo Di Segni Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom ha Kippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, “il giorno” per eccellenza, che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole.
“Il giorno” cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico.
Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto.
Di qui l’espressione e il concetto di “capro espiatorio”.
Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché “in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore” (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno.
La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità.
La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà.
Letteralmente è il “ritorno” ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via.
Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva.
Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato.
In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini.
Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne.
Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi.
Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio.
Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle.
Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina.
La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali).
Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate [“L’Osservatore Romano”], può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano.
Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste.
In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo il 1 gennaio quella della Circoncisione).
Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato.
Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi.
I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria.
Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.
(Da “L’Osservatore Romano” dell’8 ottobre 2008).
Alla vigilia del Capodanno ebraico che quest’anno si è celebrato il 19 settembre, Benedetto XVI ha inviato al rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, un telegramma d’augurio e d’amicizia.
Nel quale ha confermato che visiterà presto la sinagoga di Roma, “animato dal vivo desiderio di manifestare la personale vicinanza mia e quella di tutta la Chiesa cattolica” alla comunità ebraica.
Quella di Roma è la terza sinagoga che Benedetto XVI visiterà, dopo quelle di Colonia nell’agosto 2005 e di Park East a New York nell’aprile del 2008.
Prima di lui, Giovanni Paolo II aveva visitato la sinagoga di Roma il 13 aprile 1986.
In questi stessi giorni un rinnovato gesto di amicizia si è avuto anche tra gli ebrei e la Chiesa cattolica italiana.
Il 22 settembre il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della conferenza episcopale, ha incontrato i rabbini Di Segni e Giuseppe Laras, quest’ultimo presidente dell’assemblea rabbinica d’Italia.
E insieme hanno deciso di riprendere la celebrazione comune della giornata di riflessione ebraico-cristiana del 17 gennaio, alla quale la volta scorsa gli ebrei avevano rifiutato di partecipare per le incomprensioni seguite al caso Williamson.
Il tema della prossima giornata di riflessione comune sarà il quarto comandamento nella numerazione ebraica: “Ricordati del giorno di Sabato per santificarlo”.
Il Capodanno, Rosh Ha Shanah, apre il ciclo delle feste ebraiche d’autunno.
Ad esso seguono lo Yom Kippur e la festa di Sukkot.
Lo Yom Kippur, o Giorno dell’Espiazione, è la più importante festa dell’intero anno liturgico ebraico.
Cadrà quest’anno il 28 settembre, terzo e ultimo giorno della visita che Benedetto XVI comincerà domani nella Repubblica Ceca.
A giudizio del rabbino Di Segni, la festa del Kippur non solo esprime il cuore della fede ebraica, ma anche riflette le “differenze inconciliabili” tra questa e la fede cristiana.
I simboli del Kippur, infatti – il sommo sacerdote, il tempio, il sacrificio, il capro espiatorio, la cancellazione delle colpe – hanno assunto nel cristianesimo un significato del tutto nuovo.
Di Segni ha spiegato il significato ebraico della festa e la sua inconciliabilità con la fede cristiana in un articolo pubblicato lo scorso anno sulla prima pagina de “L’Osservatore Romano”, in occasione dalla precedente festa del Kippur.
Ma successivamente “L’Osservatore Romano” ha dedicato spazio anche all’altra faccia della questione.
Cioè a come il Nuovo Testamento rivoluziona i simboli del Kippur.
Il testo neotestamentario chiave è la Lettera agli Ebrei.
In essa il nuovo e definitivo Giorno dell’Espiazione è il sacrificio di Cristo sulla croce.
L’autore dell’analisi pubblicata da “L’Osservatore Romano” è un sacerdote e biblista africano, Christopher Robert Abeynaike, monaco cistercense, che sullo stesso tema ha scritto la sua tesi di dottorato in Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, nel 2008.
La sua analisi è molto dotta ma anche di rara chiarezza.
E mette in luce il legame essenziale che la Lettera agli Ebrei stabilisce tra il sacrificio di Cristo, l’ultima cena e la liturgia eucaristica.
Ecco qui di seguito i due testi sul Giorno dell’Espiazione ebraico e cristiano, quello del rabbino Di Segni e quello di padre Abeynaike.
Un esempio di dialogo che va al cuore delle due fedi e proprio per questo non teme di illuminarne le differenze.
2.
L’essenza della celebrazione eucaristica secondo il Nuovo Testamento.
Ultima cena e sacrificio di Christopher Robert Abeynaike Nella Lettera agli Ebrei si trova quello che potrebbe essere considerato un vero e proprio commentario alle azioni e parole di Cristo nell’ultima cena.
Quest’affermazione potrebbe a prima vista, sorprendere, dato che l’autore della Lettera agli Ebrei non sembra fare riferimento esplicito e diretto all’ultima cena.
L’autore della Lettera agli Ebrei è l’unico scrittore del Nuovo Testamento che attribuisce a Cristo i titoli di “sacerdote” – o piuttosto, “sommo sacerdote” – e di “mediatore della Nuova Alleanza”.
L’autore, come ebreo imbevuto del pensiero dell’Antico Testamento, rilegge infatti l’azione salvifica di Cristo nel contesto di due importanti avvenimenti o cerimonie del passato: l’inaugurazione della prima alleanza da parte di Mosè sul monte Sinai e la cerimonia della purificazione dei peccati del popolo compiuta ogni anno dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione, il Kippur.
Entrambe le cerimonie erano basate sui sacrifici di animali.
Nella prima, Mosè ratificava l’alleanza di Dio con il popolo d’Israele aspergendo il popolo con il sangue delle vittime sacrificali e pronunciando le parole “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8; Ebrei 9, 18-22).
Nella seconda cerimonia invece, il sommo sacerdote, dopo aver sacrificato le vittime, prendeva del loro sangue ed entrava lui solo nel santuario – il “Santo dei Santi” dove aspergeva il sangue, compiendo così l’espiazione dei peccati del popolo (Levitico 16; Ebrei 9, 6-10).
Ma secondo quanto dice il nostro autore: “è impossibile eliminare i peccati con il sangue di tori e di capri” (Ebrei 10, 4) e quindi, questi sacrifici restavano inefficaci, non potendo dare al popolo il desiderato accesso a Dio, impedito dalla coscienza del peccato (Ebrei 9, 6-10).
L’autore della Lettera agli Ebrei a ogni modo trovava nelle Scritture il preannuncio di: – un nuovo sacerdote – “Il Signore ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchisedek” (Salmo 110, 4); – un nuovo sacrificio – “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato.
Allora ho detto: Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9); – una nuova alleanza – “Ecco vengono giorni, dice il Signore, quando io stipulerò con la casa d’Israele un’alleanza nuova; non come l’alleanza che feci con i loro padri.
Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Geremia 31, 31-34).
Egli vedeva appunto in Cristo questo nuovo sacerdote, che avrebbe offerto un nuovo sacrificio consistente nel suo proprio corpo, inaugurando così una nuova alleanza.
Quindi, riassumendo la sostanza della sua dottrina, dice: “Cristo invece, venuto come sommo sacerdote di beni futuri […] non con sangue di capri e vitelli, ma con il proprio sangue entrò una volta per sempre nel santuario [del cielo], procurandoci così una redenzione eterna.
[…] Il sangue di Cristo, che con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio, purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente.
Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza” (Ebrei 9, 11-15).
A questo punto dobbiamo porre una domanda.
Dove, nella vita di Cristo avrebbe potuto, il nostro autore, vederlo nel ruolo di sommo sacerdote nell’atto di offrire un sacrificio per l’espiazione dei peccati e, contemporaneamente, nel ruolo di mediatore di una Nuova Alleanza nell’atto di inaugurare tale alleanza? Con tutta probabilità nell’ultima cena, dove Cristo aveva pronunciato le parole: “Questo, è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26, 28).
Dicendo infatti le parole “Questo è il mio sangue dell’alleanza”, Cristo, si manifestava come il mediatore di un’alleanza fondata nel suo proprio sangue e quindi contrapposta a quella inaugurata da Mosè con le parole: “Ecco il sangue dell’alleanza” (Esodo 24, 8).
Aggiungendo le parole “versato per molti in remissione dei peccati”, egli faceva intendere che l’alleanza che stava inaugurando fosse appunto la Nuova Alleanza annunciata da Geremia in cui la remissione dei peccati sarebbe stata assicurata: “Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (31, 34).
Inoltre, le parole: “il mio sangue versato per molti in remissione dei peccati” – dove l’idea di un sacrificio per l’espiazione dei peccati del popolo è chiarissima – non avrebbero potuto non fare ricordare al nostro autore il sacrificio offerto dal sommo sacerdote levitico nel gran Giorno dell’Espiazione.
Con la successiva morte di Gesù e la sua ascensione nell’invisibilità del cielo – “Entrò una volta per sempre nel santuario” (Ebrei, 9, 12) – si sarebbe stagliato davanti agli occhi dell’autore il parallelo con l’azione del sommo sacerdote levitico, il quale dopo aver immolato le vittime entrava nell’invisibilità del santuario terrestre per compiere l’espiazione dei peccati aspergendovi il sangue sacrificale.
Potremmo, dunque, affermare che l’ultima cena fosse appunto il momento della vita di Cristo in cui l’autore della Lettera agli Ebrei avrebbe potuto riconoscerlo come nuovo sommo sacerdote e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza.
Le parole di Gesù sul solo calice sarebbero state sufficienti per questo.
Le parole, invece, sul pane – “Questo è il mio corpo” – avrebbero dovuto far tornare in mente all’autore la profezia dei salmi, di un nuovo tipo di sacrificio in contrasto con i sacrifici dell’Antica Alleanza: “Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato.
Ecco io vengo per fare, o Dio, la tua volontà” (Salmo 40, 7-9).
L’autore della Lettera infatti commenta al riguardo: “Ed è appunto per quella volontà che noi siamo stati santificati, per mezzo dell’offerta del corpo di Gesù Cristo, fatta una volta per sempre” (Ebrei, 10, 10).
Infine, il pane e il vino dell’ultima cena, gli stessi doni offerti da Melchisedek (Genesi 14, 18), avrebbero solo confermato al nostro autore che il nuovo sacerdote, manifestandosi nell’offerta del suo corpo alla cena, fosse appunto – in adempimento del vaticinio del salmo 110, 4 – il sacerdote “al modo di Melchisedek”.
In conclusione, possiamo dire che quando l’autore della Lettera agli Ebrei – nel cuore della sua epistola, ai versetti 9, 11-15 – parla della manifestazione di Cristo come nuovo sommo sacerdote, mediante l’offerta di se stesso a Dio per la purificazione dei peccati del popolo e, contemporaneamente, come mediatore della Nuova Alleanza, egli si riferisce alle parole e alle azioni di Gesù nell’ultima cena.
I versetti immediatamente seguenti lo confermano: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta per la redenzione delle colpe commesse sotto la prima alleanza, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa.
Dove, infatti, c’è un testamento (diathéke), è necessario che sia accertata la morte del testatore, perché un testamento (diathéke) ha valore solo dopo la morte e rimane senza effetto finché il testatore vive.
Per questo neanche la prima alleanza (diathéke) fu inaugurata senza sangue” (Ebrei, 9, 15-18).
In questi versetti l’autore effettivamente sta giocando sul duplice senso della parola greca “diathéke”, usata nella versione dei Settanta per tradurre la parola ebraica “berith”, alleanza, mentre nel greco contemporaneo significava testamento.
Egli infatti usa un esempio preso dalla vita d’ogni giorno.
Come una “diathéke”, un testamento, diventa valida solo alla morte del testatore, così pure la “diathéke”, l’alleanza proclamata da Gesù richiedeva di essere seguita dalla sua morte per la sua ratificazione, così come anche la prima alleanza era stata dedicata con lo spargimento del sangue delle vittime.
Ma oltre ad avere in comune la stessa parola greca “diathéke”, un’alleanza e un testamento hanno qualcos’altro in comune: il concetto di un’eredità.
L’eredità sotto la prima alleanza coincideva con il possesso della terra di Canaan.
L’eredità invece sotto la Nuova Alleanza diventa il possesso del regno di Dio.
Quindi, noi troviamo Cristo che nell’ultima cena si manifesta non solo nei ruoli di sacerdote e di mediatore di una Nuova Alleanza, ma anche in quello di testatore che dà ai suoi apostoli la promessa del possesso del regno di Dio: “Io vi dico che da ora non berrò più di questo frutto della vite fino al giorno in cui lo berrò nuovo con voi nel regno di mio Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Quindi, il nostro autore poteva dire con ragione: “Per questo egli è mediatore di una nuova alleanza (diathéke) di modo che, quando la sua morte fosse intervenuta, coloro che sono stati chiamati ricevano l’eredità eterna che è stata promessa (Ebrei 9, 15).
Come esito della nostra indagine possiamo affermare che l’ultima cena fu: – un sacrificio in cui Cristo “offrì se stesso a Dio” (Ebrei 9, 14) per la remissione dei peccati; – la promulgazione della Nuova Alleanza da parte di Cristo; – la disposizione di un testamento, in cui Gesù lasciava in “eredità eterna” (Ebrei 9, 15) ai suoi discepoli, il regno del suo Padre (Matteo 26, 29; Luca 22, 29-30).
Per tutti e tre i motivi la sua morte in croce doveva seguire ineluttabilmente.
Le parole e le azioni di Cristo all’ultima cena erano, infatti, tutte indirizzate verso il loro adempimento nella sua morte, senza la quale non avrebbero avuto nessun senso o valore.
Ma la morte di Gesù non doveva essere la fine della sua opera redentrice.
Come, infatti, il punto culminante della cerimonia del Giorno d’Espiazione era l’ingresso del sommo sacerdote levitico con il sangue sacrificale nel santuario terrestre per portare a compimento l’espiazione dei peccati, così anche Cristo nella sua ascensione è entrato nel santuario celeste “per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore” (Ebrei 9, 24), “procurandoci così una redenzione eterna” (Ebrei 9, 12).
Proprio perché Cristo “offrì se stesso con uno Spirito eterno” (Ebrei 9, 14), il suo sacrificio ha una eterna efficacia, ed Egli rimane “sommo sacerdote per sempre alla maniera di Melchisedek” (Ebrei 6, 20).
Abbiamo dunque, potremmo dire, un “Giorno di Espiazione” che dura per sempre, cui l’autore si riferisce quando dice: “Il sangue di Cristo purificherà la nostra coscienza dalle opere morte, per servire il Dio vivente” (Ebrei 9, 14).
E ancora: “Avendo dunque, fratelli, piena libertà di entrare nel santuario [celeste] per mezzo del sangue di Gesù e un sacerdote grande sopra la casa di Dio, accostiamoci…” (Ebrei, 10 19-22).
In un altra occasione l’autore parla di cristiani come di un popolo che si è accostato “al monte Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste, al Dio giudice di tutti e a Gesù, mediatore della nuova alleanza e al sangue dell’aspersione” (Ebrei 12, 22-24).
Il “sangue di Gesù” è per il nostro autore un simbolo plastico per indicare i frutti della redenzione, ossia quei beni a cui i cristiani hanno accesso, un accesso che dal contesto di questi passaggi si può intravedere appunto nella Celebrazione eucaristica.
Quel perdurare dell’opera redentrice di Cristo, che l’autore della Lettera agli Ebrei esprime con il simbolo della continua aspersione con il suo sangue, lo troviamo espresso in un altro modo nella preghiera liturgica in cui si afferma che ogni volta che la messa è celebrata “si effettua l’opera della nostra redenzione” (cfr.
“Presbyterorum ordinis” 13).
Nei suddetti passaggi notiamo inoltre che, durante la celebrazione eucaristica, i cristiani in un certo qual modo sembrano trascendere i confini di questo mondo e accostarsi, per mezzo di Cristo, a Dio e al mondo celeste.
Infine, l’eucaristia è anche un banchetto sacrificale, cui il nostro autore si riferisce dicendo: “Noi abbiamo un altare del quale abbiamo diritto di mangiare” (Ebrei 13, 10).
San Paolo chiarisce il senso di queste parole quando nella prima lettera ai Corinzi (10, 14-22) paragona l’eucaristia sia ai pasti sacrificali dell’Antico Testamento (Levitico 7), sia a quelli dei pagani, affermando che il mangiare della carne sacrificale implica necessariamente un entrare in comunione (koinonía) con la divinità cui il sacrificio è stato offerto.
Egli quindi, vieta ai cristiani di partecipare al corpo e sangue di Cristo alla mensa eucaristica e, allo stesso tempo, di continuare a partecipare ai pasti sacrificali dei pagani.
Giovanni, nel suo Vangelo, approfondisce il concetto paolino della comunione con il corpo e sangue di Cristo dicendo: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (6, 56-57).
Mangiando del corpo e bevendo del sangue di Gesù, il cristiano è assunto nella comunione di vita del Padre e Figlio, già adesso, su questa terra.
Pare che questo sia lo stesso concetto che l’autore della Lettera agli Ebrei cerca di esprimere quando dice – nel contesto della celebrazione eucaristica, usando il linguaggio dell’Antico Testamento – che i cristiani si accostano per mezzo di Cristo al santuario celeste e alla presenza di Dio.
Questa indagine sull’insegnamento del Nuovo Testamento riguardo alla celebrazione eucaristica ci fa capire quanto è grande e profondo il mistero che essa comprende.
Giustamente i padri orientali l’avevano chiamata “sacrificium tremendum”.
È chiaro che la maniera in cui l’eucaristia viene celebrata – la “ars celebrandi” – deve essere sempre in consonanza con il suo vero contenuto e deve rispecchiarlo integralmente ai partecipanti.
È questa, infatti, la suprema preoccupazione di Benedetto XVI, che deve essere anche la preoccupazione di tutti i pastori della Chiesa, vescovi e presbiteri, in modo particolare durante l’anno sacerdotale in corso, dato che, come ci ricorda il concilio Vaticano II: “I presbiteri esercitano il loro sacro ministero soprattutto nel culto eucaristico” (Lumen gentium 28).
(Da “L’Osservatore Romano” del 24 luglio 2009).

‘Italiano e Religione cattolica fanno identità e integrazione’

La scuola “ha sempre di più il compito di assolvere ad una funzione di integrazione, per questo stiamo puntando su insegnamento della lingua italiana ai bambini stranieri e sull’educazione alla cittadinanza”.
Lo afferma il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, intervenendo alla presentazione del rapporto curato dal comitato per il progetto culturale della Conferenza episcopale italiana, presieduto dal cardinale Camillo Ruini.
Ma la scuola “rappresenta anche un luogo in cui si difende l’identità del Paese”, continua Gelmini, “da qui deriva la mia difesa dell’ora di religione e della presenza del crocefisso”.
E si deve “difendere l’identità perchè  il rispetto dell’altro non significa un resa; su questo bisogna essere chiari, altrimenti non si garantisce l’integrazione nè si fornisce ai nostri ragazzi la possibilità di avere un patrimonio culturale che è quello del loro Paese”.

Terstimoni del nostro tempo: Adriano Olivetti

“Prima che i popoli dimentichino i crimini, i massacri, le rovine, la desolazione, chi è chiamato a stabilire il nuovo edificio sociale bene si accerti che la metafisica razzista non fu che odio, menzogna, avidità.
Soggiacendo a essa, intere collettività caddero nell’errore e nel peccato”.
Per questo, e altri motivi, sosteneva Adriano Olivetti (Ivrea, 1901- Aigle, 1960) in uno scritto del 1946, “la libertà vive soltanto in una società compiutamente cristiana”.
Lo scritto – con altri testi – figura in appendice alla biografia, oggi rinnovata e ampliata da Valerio Ochetto, che anni fa ne curò una prima versione: Adriano Olivetti, (Venezia, Marsilio, 2009, pagine 356, euro 12) dedicata all’imprenditore eporediese.
Era figlio del più noto Camillo (1868-1943), il fondatore dello storico gruppo industriale che partendo dalla produzione di macchine da scrivere sarebbe giunto a posizioni di assoluta preminenza internazionale nel settore informatico e nell’automazione da ufficio.
Imprenditore, intellettuale, politico, ma soprattutto uomo pratico e di pensiero a un tempo, Adriano Olivetti era dotato d’inventiva fervida e di passione per la giustizia, qualità cementate da un profondo spirito di servizio alla persona e al bene comune.
Nel 1946 egli stava fissando i punti preparatori alla realizzazione del nascituro Movimento Comunità, la sua personale repubblica di Utopia, basata sull’ideale di un’armonia possibile, e comunque sempre da perseguire, tra impresa, territorio e società umana.
Di fatto, nel 1945, aveva scritto L’ordine politico delle Comunità: la base teorica per una concezione federalista di Stato ove per l’appunto le comunità – entità territoriali culturalmente ben definite e in grado di esprimersi autonomamente sul piano economico – garantissero un armonico sviluppo sociale nell’industria come nell’agricoltura, salvaguardando i diritti umani e promuovendo forme di democrazia partecipativa.
La guerra era appena finita e Olivetti, che da antifascista militante aveva vissuto e sofferto in prima persona per la tragedia e per la rovina dell’Italia, avvertiva i rischi di una ricostruzione limitata alla sola dimensione superficiale e materiale.
Dopo un primo periodo d’interesse per le istanze mussoliniane si era opposto con forza al regime, talvolta in termini molto concreti come quando aveva partecipato con Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini alla liberazione di Filippo Turati.
Durante il conflitto era stato ricercato per attività sovversiva e si era dovuto rifugiare in Svizzera.
Ora che le armi tacevano si faceva la conta dei danni; non solo quelli materiali.
La devastazione bellica infatti era penetrata nelle fibre del tessuto sociale e non aveva risparmiato le coscienze.
Solo uno spirito autenticamente cristiano, “che è amore, verità, carità”, avrebbe potuto – nei vinti come nei vincitori – essere, un domani, forza animatrice di una civiltà più umana.
Nella visione di Olivetti “la società della Comunità, essenzialmente cristiana, per affermarsi compiutamente” avrebbe quindi dovuto apportare “una frattura definitiva al sistema basato su un duplice assurdo economico e morale: l’economia dei profitti e il regime feudale nell’industria e nell’agricoltura.
(La rivoluzione Francese – diceva Olivetti – proclamò l’uguaglianza, la fraternità, la libertà.
Ma essendole sfuggita quella trasformazione sociale che le imponeva la proclamata fratellanza, non seppe condurre né a vera libertà, né a vera a eguaglianza)”.
E quindi l’imprenditore d’Ivrea sottolineava con lungimiranza come “nemmeno la trasformazione sociale da sola potrebbe creare la libertà se all’egoismo dei pochi si sostituisse l’egoismo dei molti e se la struttura creata per eliminare la dominazione dell’uomo sull’uomo portasse a una dominazione dello Stato sulla persona” (p.
324).
Il primato della morale in economia come in politica doveva essere un punto fermo.
La democrazia basata esclusivamente sulla maggioranza e sul consenso dei molti qualora parta da presupposti egoistici, e vada covando interessi di parte, non può che produrre oppressione e ingiustizia.
La stessa Europa, per Olivetti, non avrebbe potuto accettare una comune legge morale diversa da quella cristiana dichiarandosi certo che “gli uomini politici che sentiranno nella loro vita interiore la luce della grazia e della rivelazione cristiana e agiranno nel suo impulso o accetteranno, pur senza riconoscerne la trascendenza, il contenuto umano e sociale dell’Evangelo, sono destinati ad avere in se stessi dei valori inesauribili e insostituibili” (p.
325).
In realtà l’idea di Comunità in Olivetti aveva radici antiche, ma si era evoluta e precisata proprio negli anni della dittatura e della guerra.
Nato in un contesto familiare dai caratteri culturali ben definiti, con il padre Camillo, ebreo, e socialista, e la madre Luisa Revel, valdese, Adriano Olivetti si era laureato nel 1924 in ingegneria chimica.
Dopo un soggiorno negli Stati Uniti dove aveva studiato pratica aziendale, entrò nella fabbrica familiare.
Prima come semplice operaio, per volontà del padre Camillo (1926); quindi nel 1933 divenne direttore della Società Olivetti e infine presidente, nel 1938.
L’esperienza del Movimento di Comunità nel canavese ebbe concreto inizio a partire dal 1952, quando gradualmente gli amministratori comunitari assunsero la guida di cinque comuni.
Poi, nelle elezioni del 1956, il Movimento Comunità risultò presente in settanta comuni canavesani, in quarantadue dei quali in posizione di maggioranza.
Tre componenti essenzialmente informavano questa realtà: il pensiero socialista e libertario, l’ideale cristiano e la visione personalistica di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain.
L’esperienza di Comunità, com’è noto, sopravvisse di pochi anni al suo fondatore.
Detto questo resta il complesso profilo di un uomo la cui storia – come scrive Ochetto – coincide con quella di discipline e di prospettive culturali che oggi in Italia sono esperienza comune, ma all’indomani della seconda guerra mondiale apparivano stramberie – o “americanate”, come le chiamava Benedetto Croce.
“Stramberie” che Olivetti “lottò per introdurre: la sociologia contemporanea, il management, l’urbanistica, la pianificazione territoriale” (p.
9).
Un dato non va sottovalutato e riguarda la dimensione interiore dell’uomo.
“Nel 1949 – ricorda Ochetto – Adriano si fa battezzare nella Chiesa cattolica”.
Olivetti si sarebbe poi sposato in seconde nozze, avendo ottenuto lo scioglimento da una prima unione matrimoniale contratta col solo rito civile.
Si potrebbe pensare quindi che dietro a questa scelta vi fosse un motivo strumentale: la possibilità di risposarsi, questa volta in chiesa, con la moglie credente.
In realtà la conversione era determinata dalla convinzione maturata della “superiorità teologica della Chiesa cattolica”.
La scelta di Adriano Olivetti veniva da lontano, come ebbe a dire un giorno a un conoscente: “Dopo la morte di mia Madre venne a cessare la ragione sentimentale e umana che mi tratteneva dall’entrare nella Chiesa che da un punto di vista teologico era nella mia coscienza certamente l’unica universale e quindi eterna: la Chiesa Cattolica” (p.
240).
(©L’Osservatore Romano – 24 settembre 2009)

La sfida educativa

COMITATO PER IL PROGETTO CULTURALE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA (CEI), La sfida educativa, Editori Laterza, Roma-Bari, 2009, pagine 223, euro 14 In nome di una sterile ‘neutralità’, la nostra società ha abdicato al suo ruolo di formatrice delle nuove generazioni.
Nel rapporto del Comitato per il Progetto Culturale CEI, il tema centrale dell’educazione.
Stiamo vivendo una vera ‘emergenza educativa’.
Mentre per le società del passato l’educazione era un compito largamente condiviso, per la nostra sta diventando soprattutto una sfida.
Se fino a ieri sembrava quasi scontato che la generazione adulta dovesse farsi carico dell’educazione della nuova, ormai questo automatismo si sta dissolvendo.
Il rapporto curato dalla CEI vuole sollecitare una riflessione sullo stato dell’educazione e, più in generale, sulla realtà esistenziale e socioculturale dell’uomo d’oggi, alla luce dell’antropologia e dell’esperienza cristiane.
L’obiettivo è quello di promuovere una consapevolezza che possa dar luogo, nel nostro Paese, a una sorta di alleanza per l’educazione; un’alleanza che sia in grado di coinvolgere – con un raggio d’azione che vada ben oltre l’ambito del cosiddetto mondo cattolico – tutti i soggetti interessati al problema, dalla famiglia alla scuola, al mondo del lavoro, a quello dei media.
Attraverso l’individuazione di alcuni temi particolarmente sensibili allo stato di attuale ‘emergenza’ – dallo sviluppo affettivo e sessuale della persona al suo rapporto con le nuove forme di socialità, anche elettroniche, dall’educazione nell’ambito dello sport, della moda e dello spettacolo al vissuto scolastico delle giovani generazioni – il volume offre un quadro complessivo dei problemi più urgenti, e, anche sulla base di dati empirici, prospetta una serie di soluzioni operative.
Il Progetto Culturale promosso dalla Chiesa italiana viene costituito nel 1997 all’interno della Segreteria Generale della Conferenza Episcopale Italiana, su iniziativa del cardinale Camillo Ruini, come centro di raccordo tra le diocesi, i centri culturali cattolici, le associazioni e i movimenti, gli ordini religiosi, le Facoltà teologiche, le riviste e gli intellettuali di matrice cattolica.
Il Servizio collabora con gli Uffici della CEI per sviluppare l’aspetto culturale dell’evangelizzazione nei diversi settori della vita della Chiesa; svolge un’azione di monitoraggio, di osservatorio e di documentazione sulle iniziative volte a coniugare fede e cultura; organizza incontri di studio a carattere nazionale su temi di rilievo per il progetto culturale; coordina il Centro Universitario Cattolico.

Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale

ROGER LENAERS, Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale, Massari Editore, 2009, pp.
367, euro 15: Un catechismo, sì, nel senso di un’esposizione completa della dottrina cristiana.
Ma la definizione potrebbe essere fuorviante, perché Il sogno di Nabucodonosor o la fine della Chiesa medievale (Massari Editore, 2009, pp.
367, euro 15: il libro è acquistabile anche presso la nostra agenzia, telefonando allo 06/6868692, inviando una mail ad abbonamenti@adista.it o collegandosi a www.adistaonline.it/index.php?op=adistalibri) è un testo scritto con un linguaggio diverso dall’“ecclesialese” di cui sono infarciti tanti documenti del magistero cattolico e tante prediche, accessibili solo ad un pubblico di “iniziati”; un libro lontano da una visione della Chiesa e della società che l’autore stesso definisce “medievale” e “irrimediabilmente passata”; un libro, soprattutto, che non proclama verità immutabili attraverso decreti autoritari, ma scardina alla radice dogmi secolari riformulando l’intera fede cattolica attraverso parole “viventi” ed in una prospettiva radicalmente nuova (Adista aveva già pubblicato ampi stralci del testo in una nostra traduzione dallo spagnolo, v.
n.
44/09).
L’autore, l’85enne gesuita belga Roger Lenaers, si pone infatti l’obiettivo di esprimere “la fede unica ed eterna in Gesù Cristo e nel suo Dio nel linguaggio della modernità”, nella consapevolezza che il “monumento grandioso” della vecchia Chiesa istituzionale finirà come l’imponente statua dai piedi d’argilla sognata da Nabucodonosor: “Una statua, una statua enorme, di straordinario splendore”, racconta la Bibbia (Dn 2,31-35), con “la testa d’oro puro, il petto e le braccia d’argento, il ventre e le cosce di bronzo, le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte di creta”.
Una grande pietra si staccò dal monte dove si trovava, “ma non per mano di uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e di argilla, e li frantumò.
Allora si frantumarono anche il ferro, l’argilla, il bronzo, l’argento e l’oro e divennero come la pula sulle aie d’estate; il vento li portò via senza lasciar traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta quella regione”.
Ecco: secondo Lenaers le “verità” tradizionali fanno la fine di quella statua quando vengono a contatto con la luce dirompente del messaggio evangelico.
Nella presentazione del suo libro, il gesuita belga – che dal 1995 (dopo il pensionamento) ha scelto di fare il parroco a Vorderhornbach, sulle montagne tirolesi – spiega che se “per l’uomo occidentale del terzo millennio il linguaggio della tradizione cristiana è diventato un idioma estraneo”, diventa improrogabile il compito di tradurre il messaggio cristiano in un linguaggio in cui l’uomo e la donna moderni possano riconoscersi.
E spiega: “Non abbiamo ricevuto la nostra fede per tenerla sepolta nel campo del passato, ma per spargerla e seminarla”.
E per farlo Lenaers opera una revisione totale del catechismo cattolico, rileggendo ad uno ad uno tutti i temi della dottrina nella chiave del passaggio dall’“eteronomia” alla “teonomia”, una operazione che intende operare una “riconciliazione tra l’autonomia dell’essere umano e la fede in Dio”.
Eteronomo, secondo l’autore, è l’universo mentale delle rappresentazioni cristiane tradizionali, secondo cui il nostro mondo sarebbe completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni.
Un universo mentale che attraversa l’Antico e il Nuovo Testamento, l’eredità dei Padri della Chiesa, la scolastica, i concili, la liturgia, i dogmi e alla loro elaborazione teologica, tutti basati sull’“assioma dei due mondi paralleli”.
La teonomia, invece, “riconosce in Dio la dimensione più profonda di ogni cosa e pertanto anche la legge (dal greco: nomos) interna del cosmo e dell’umanità”.
In questo pensiero “esiste un solo mondo: il nostro.
Ma questo mondo è sacro poiché è la costante autorivelazione di quel mistero santo che intendiamo con la parola Dio”, un Dio che “non è mai fuori ma che è stato sempre al centro”, come la più profonda essenza di tutte le cose, la legge interna del cosmo e dell’umanità.
È nella prospettiva della teonomia, quindi, che Lenaers rilegge le formulazioni eteronome della dottrina relativamente alle Sacre Scritture, alla Tradizione, alla gerarchia, alla cristologia, alla Trinità, a Maria madre di Dio, alla resurrezione, alla vita dopo la morte, ai sacramenti.
Anche perché “molte delle rappresentazioni tradizionali non sono così antiche come per lo più si afferma pertanto non appartengono alla ‘buona novella’ originaria”: “La confessione della divinità di Gesù ricorda ad esempio Lenaers – ha impiegato vari secoli per entrare a far parte del deposito della fede; tre secoli sono trascorsi prima che lo spirito di Dio venisse visto come una persona divina; ce ne sono voluti quattro per la dottrina del peccato originale ereditario; mille per riconoscere il matrimonio come sacramento; e molti di più per l’infallibilità papale e i dogmi mariani.
Era forse impossibile essere veramente cristiani nei tempi precedenti a queste formulazioni?” di Valerio Gigante in “Adista” – Notizie – n.
94 del 26 settembre 2009

Scuola: Gli ebook?

Un fenomeno ancora marginale, per il quale si attendono pero’ sviluppi interessanti nel medio termine.
Questo il mercato dell’e-book visto dagli esperti, in Italia ma anche nei Paesi piu’ all’avanguardia nella produzione e lettura di e-libri, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa.
Gli e-book possono essere sia libri di narrativa sia testi per l’editoria professionale e educativa, visualizzabili sugli appositi device come il Kindle di Amazon oppure scaricabili da Internet e fruibili su computer, telefonino o palmare.
Enormi le potenzialita’ del mercato per i libri scolastici o conservati nelle biblioteche tanto che anche l’Italia ha deciso di aprire le porte, come altri Paesi europei, al controverso progetto di digitalizzazione dei libri capitanato da Google.
Al momento in Italia, secondo i dati dell’Ufficio studi dell’Aie, il mercato degli audiolibri e dell’ebook congiunti non pesano oltre lo 0,03% del mercato complessivo del libro.
”Quello che ci manca e’ l’hardware”, sottolinea Cristina Mussinelli, responsabile del settore tecnologie dell’Aie.
”Sul mercato italiano non sono ancora in vendita i lettori di e-book che hanno conquistato l’America, come Kindle della Amazon, che conta gia’ su 300mila titoli, e Reader della Sony che ne vanta 100mila.
Anche se ci fossero questi device, occorrerebbe poi creare un ricco catalogo come e’ stato fatto all’estero”.
Un forte impulso potrebbe arrivare dal settore education: l’art 15 del decreto 112 del 2008 prevede che siano disponibili entro l’anno scolastico 2011-12 ”libri scaricabili da Internet”.
Ma la Mussinelli frena: ”Le caratteristiche tecnologiche non sono state definite.
Si tratta non esattamente di ebook, ma probabilmente di libri misti (carta piu’ file digitale) oppure di integrazioni interattive su Internet o di materiale per lavagne interattive multimediali, pero’ diffuse a macchia di leopardo.
Certo, se per ebook a scuola si intende leggere i libri digitali su Kindle, si profila un problema, visto il costo sui 300-350 dollari”.
Gli editori lo sanno ma ancora molti restano alla finestra, in attesa di vedere come evolvera’ il mercato e se il governo concedera’ un contributo di start-up, temendo di dover ”pagare di tasca propria l’innovazione”, secondo le parole di Ulisse Jacomuzzi, amministratore delegato della Sei.
”Alcune case editrici si stanno apprestando a mettere su pdf i loro testi in modo che si possano scaricare dal computer.
Anche la Sei sta aumentando la quantita’ di materiale online e gia’ dal prossimo anno tutte le nostre novita’ editoriali per la scuola saranno nella forma di libro misto.
Tuttavia cio’ comporta un enorme investimento e ci chiediamo se ci sia un mercato pronto ad assorbire le nostre proposte.
Occorrerebbe che tutte le scuole fossero dotate di banda larga e che i docenti fossero preparati”.
”Nel settore scolastico gli e-book non costituiscono ancora un vero mercato.
Possiamo prevedere uno sviluppo nei prossimi anni se gli studenti avranno strumenti adeguati per fruirne”, concorda Sergio Saviori, direttore editoriale di Mondadori Education.
”Ad ogni modo, tutti i nuovi libri del 2009 di Mondadori Education hanno contenuti online (esercizi per il ripasso, test di verifica, interrogazioni simulate, riassunti, karaoke) aggiuntivi rispetto ai volumi cartacei”.
Ma per pensare davvero all’avvento dell’ebook nella scuola, ”sarebbe necessario disporre di dispositivi a basso costo”, conclude Saviori, ”a colori e con sufficiente autonomia nella carica elettrica.
Questa soluzione al momento non e’ disponibile”.
Insomma, l’ebook a scuola non e’ per l’immediato futuro.
Anche gli studenti della nuova generazione non hanno scampo: tocca studiare sui libri, quelli veri.
red/rf/ss

Il primo e principale fattore di sviluppo

La terza enciclica di Benedetto XVI si snoda con coerente linearità rispetto alle due precedenti (Deus caritas est e Spe salvi) e porta alla luce una connessione che è presente già nello stesso titolo e cioè che “solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta” (n.
3).
Come è noto, il Papa parte da questa persuasione per rileggere in modo critico la res sociale di oggi, che va sotto il nome di globalizzazione e che pone una sfida inedita.
Infatti “il rischio del nostro tempo è che all’interdipendenza di fatto tra gli uomini non corrisponda l’interazione etica delle coscienze e delle intelligenze” (n.
9).
Per questo si richiede non solo una volontà determinata, ma ancor prima un pensiero lucido che sappia proporre “una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali e spirituali” (n.
31) dello sviluppo.
Insomma si richiede “l’allargamento del nostro concetto di ragione e dell’uso di essa”, secondo il pressante appello che muove – sin dal suo inizio – il magistero di Benedetto XVI (cfr.
Discorso di Ratisbona).
Il richiamo esplicito a Paolo vi e alla Populorum Progressio (1967), così come quello indiretto alla Sollicitudo rei socialis (1987) di Giovanni Paolo ii, diventa nella riflessione di Benedetto XVI lo spunto per una importante affermazione di carattere generale e cioè la riaffermazione della Dottrina sociale come un “corpus dottrinale” (n.
12), che affonda le sue radici nella fede apostolica e si colloca a pieno titolo nell’alveo della Tradizione, secondo un processo di rigorosa continuità.
Così facendo il Santo Padre intende chiarire il suo punto di vista, che non è ispirato da alcuna situazione sociologicamente intesa, ma rispecchia una precisa prospettiva teologica e cioè che “l’annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo” (n.
8).
La percezione della sfida e l’esigenza di un nuovo pensiero (non solo economico-sociale) in grado di dire al meglio la novità dei fatti che sono sotto gli occhi di tutti e che proprio la recente crisi finanziaria ha ancor più aggravato, spinge a riconsiderare luoghi comuni e pregiudizi inveterati per addentrarci dentro una interpretazione originale del fatto umano della globalizzazione.
Guidano la riflessione della Caritas in veritate due presupposti, da cui scaturisce una prospettiva di grande respiro per la vita della società e della Chiesa.
I due presupposti di fondo sono da un lato la convinzione che lo sviluppo non è solo una questione quantitativa, ma risponde piuttosto a una vocazione e dall’altra il fatto che la giustizia, pure necessaria, non è autosufficiente perché esige la carità, così come la ragione ha bisogno della fede.
La prospettiva che emerge è dunque “una visione articolata dello sviluppo” (n.
21), che porta a ritenere come la questione sociale sia oggi inscindibilmente legata alla questione antropologica.
Vorrei ora, sia pure brevemente, sviluppare questi tre aspetti per giungere a una osservazione di fondo conclusiva.
Affermare che “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l’uomo, la persona, nella sua integrità: l’uomo infatti è l’autore, il centro e il fine di tutta la vita economico-sociale” (n.
25) significa sottrarre a un cieco determinismo la lettura della globalizzazione e ribadire che anche questo complesso fenomeno è legato alla variabile umana.
Non si dà cioè la fatalità di attenersi solo a dati ritenuti oggettivi e scientifici dimenticando quanto la componente umana giochi un ruolo decisivo nelle scelte che di volta in volta vengono prese.
Ciò fa comprendere che lo sviluppo non è un processo rettilineo, quasi automatico e di per sé illimitato, ma è determinato dalla qualità umana degli attori chiamati in causa.
Per questo Benedetto XVI invita a una interpretazione che non si accontenta della semplice analisi delle strutture umane, ma rimanda a un livello più profondo.
“In realtà – egli scrive – le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione di responsabilità da parte di tutti.
Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato o viene affidato unicamente alle mani dell’uomo, che cade nella presunzione dell’autosalvezza e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato” (n.
11).
Ciò richiede un preciso esame di coscienza, cui l’enciclica non si sottrae, facendo riferimento ai progressi effettivamente fatti o non fatti nella direzione auspicata dalla Populorum Progressio.
Certamente molti risultati sono stati raggiunti, ma la Fao – ancora lo scorso 19 giugno – ha comunicato le sue nuove stime: la fame nel mondo raggiungerà un livello storico nel 2009 con 1,02 miliardi di persone in stato di sotto nutrizione.
La pericolosa combinazione della recessione economica mondiale e dei persistenti alti prezzi dei beni alimentari in molti Paesi ha portato circa 100 milioni di persone in più rispetto all’anno scorso oltre la soglia della denutrizione e delle povertà croniche.
L’enciclica rende avvertiti che “gli attori e le cause sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono differenziati”.
Per poi aggiungere: “Questo dato dovrebbe spingersi a liberarsi dalle ideologie, che semplificano in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore umano dei problemi” (n.
21).
Infatti “i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani” (n.
32).
Non si fatica d’altra parte a capire che “l’aumento massiccio della povertà…
non solo tende a erodere la coesione sociale, e per questa via mette in crisi la democrazia, ma ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del “capitale sociale”, ossia quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile” (ibidem).
Solo se lo sviluppo è una vocazione e non un destino si può sperare di avere ancora margini di cambiamento e soprattutto di trasformazione.
Infatti “nonostante alcune sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, “la globalizzazione, a priori, non è né buona né cattiva.
Sarà ciò che le persone ne faranno”.
Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati dalla carità e dalla verità” (n.
42).
Ma come aiutare la ragione a non cedere a una lettura rassegnata della realtà e soprattutto come aiutarla a far emergere le potenzialità che sono dentro la risorsa che è l’uomo? Una risposta sta certamente nel fatto che già nella Deus caritas est (n.
28), la Dottrina sociale della Chiesa venga presentata come il luogo in cui la carità purifica la giustizia.
Questa purificazione, peraltro, non è altro che un momento di quella più ampia purificazione che la fede è chiamata a esercitare nei riguardi della ragione.
Il concetto di “purificazione” è tutt’altro che negativo, come potrebbe sembrare a prima vista ed è agli antipodi della semplice negazione o della pura condanna.
Ciò vuol dire che la giustizia è assunta ma allo stesso tempo potenziata dalla carità.
Tra queste due realtà c’è insomma una relazione che va in entrambe le direzioni: per un verso non c’è carità senza giustizia perché si tratterebbe di semplice assistenzialismo, per altro verso non si dà giustizia senza carità perché si finirebbe nelle secche di un arido legalismo.
Arrivare a intuire l’eccedenza e ancor prima la necessità della carità, vista l’insufficienza della giustizia, è però il frutto di una intuizione che va ben oltre la semplice ragione.
Si richiede il recupero di una categoria, quella della fraternità, che, non a caso, Benedetto XVI pone in testa alla relazione tra sviluppo economico e società civile al capitolo terzo della Veritas in caritate.
La grande sfida che abbiamo davanti “è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti, che non solo i tradizionali principi dell’etica sociale, quali la trasparenza, l’onestà e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma che anche nei rapporti mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità devono trovare posto entro la normale attività economica” (n.
36).
Nasce da qui una interessante serie di riflessioni che spaziano dentro il ruolo del non profit e alludono all’ibridazione dei comportamenti economici e delle imprese, aprendo ad approcci inabituali nell’interpretazione dei rapporti internazionali.
Per arrivare a un’affermazione forte: “Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal riconoscimento di essere una sola famiglia” (n.
53).
Questa chiara affermazione che dal Vaticano ii (Gaudium et spes, n.
77) è un punto fermo richiede in realtà “un nuovo slancio del pensiero” e obbliga “a un approfondimento critico e valoriale della categoria della relazione.
Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze sociali, in quanto richiede l’apporto di saperi come la metafisica e la teologia, per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell’uomo” (n.
53).
In tal modo il Papa si fa carico, ancora una volta, di restituire dignità alla domanda su Dio e di riaprire all’interno del dibattito pubblico la questione della fede (cfr.
n.
56), che è chiamata a purificare la ragione, così come la carità orienta e finalizza la giustizia, se il mondo non vuole soccombere alle sue logiche disumanizzanti.
Si comprende allora perché il Vangelo si riveli il maggior fattore di sviluppo e, di conseguenza, perché la Chiesa dia il proprio apporto allo sviluppo anzitutto quando annuncia, celebra e testimonia Cristo, quando, cioè, adempie alla propria missione di evangelizzazione.
Il punto di approdo di quanto detto sul rapporto tra giustizia e carità e la prospettiva più originale del testo pontificio è ricondurre la questione sociale alla questione antropologica, marcando la necessaria correlazione che esiste tra queste due dimensioni che stanno o cadono insieme.
Per questo Benedetto XVI propone con forza il collegamento tra etica della vita ed etica sociale, dal momento che non può “avere solide basi una società che – mentre afferma valori quali la dignità della persona, la giustizia e la pace – si contraddice radicalmente accettando e tollerando le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole ed emarginata” (n.
15).
In concreto, questo vuol dire che lo sviluppo vero non può tenere separati i temi della giustizia sociale da quelli del rispetto della vita e della famiglia e che sbagliano quanti in questi anni, anche nel nostro Paese, si sono contrapposti tra difensori dell’etica individuale e propugnatori dell’etica sociale.
In realtà le due cose stanno insieme.
Un esempio eloquente è dato dalla crescente consapevolezza che la questione demografica, che attiene certamente alla dinamica affettiva e familiare, rappresenti pure uno snodo decisivo delle politiche economiche e perfino del Welfare.
Aver sottovalutato l’impatto della famiglia sul piano sociale ed economico riconducendola a una questione privata, quando non addirittura ad un retaggio culturale del passato, è stata una miopia di cui oggi pagano le conseguenze soprattutto le generazioni più giovani, sempre meno numerose e sempre meno importanti.
La saldatura tra etica sociale ed etica della vita è un imperativo categorico anche in altri ambiti sensibili e porta a convincersi ad esempio che l’eugenetica è molto più preoccupante della perdita della biodiversità nell’ecosistema o che l’aborto e l’eutanasia corrodono il senso della legge e impediscono all’origine l’accoglienza dei più deboli, rappresentando una ferita alla comunità umana dalle enormi conseguenze di degrado.
Come sottolinea con vigore il Papa: “Se si perde la sensibilità personale e sociale verso l’accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza utili alla vita sociale si inaridiscono” (n.
28).
Ancora una volta l’enciclica aiuta a far emergere un più profondo senso dello sviluppo che sa porre in relazione i diritti individuali con un quadro di doveri più ampio, aiutando così ad intendere correttamente la libertà individuale che deve sempre fare i conti anche con la responsabilità sociale.
Taluni fenomeni di degrado politico cui assistiamo oggi e che rivelano mancanza di progettualità e resa ad interessi di corto respiro, così come recenti episodi di abbruttimento finanziario che hanno portato al collasso del sistema economico, colpendo le fasce più deboli dei risparmiatori, confermano che l’etica sociale si regge soltanto sulla base della qualità delle singole persone.
Lo dice espressamente il Papa: “Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici e uomini politici che vivano fortemente nelle coscienze l’appello del bene comune” (n.
71).
Concludo, facendo riferimento a un tema che ha colpito la pubblica opinione e che può rappresentare una sorta di controprova sperimentale della validità della lettura dello “sviluppo integrale”, che Benedetto XVI propone a tutti gli uomini di buona volontà, sulla scia della grande intuizione della Populorum progressio di Paolo vi.
Mi riferisco al tema dell’ambiente, cui è espressamente dedicata una parte significativa del capitolo IV (nn.
48-52) e che rileva una ricorrente preoccupazione nel magistero dell’attuale Pontefice.
Scrive Benedetto XVI: “La Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità anche in pubblico.
E facendolo deve difendere non solo la terra, l’acqua e l’aria come doni della creazione appartenenti a tutti.
Deve proteggere soprattutto l’uomo contro la distruzione di se stesso.
È necessario che ci sia qualcosa come un’ecologia dell’uomo, intesa in senso giusto.
Il degrado della natura è infatti strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l’ecologia umana è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio” (n.
51).
La crisi ecologica dunque non può essere interpretata come un fatto esclusivamente tecnico, ma rimanda ad una crisi più profonda perché ai “deserti esteriori” corrispondono “i deserti interiori” (cfr.
Benedetto XVI, Omelia per l’inizio del Ministero petrino, 24 aprile 2005), così come alla morte dei boschi “attorno a noi” fanno da pendant le nevrosi psichiche e spirituali “dentro di noi”, all’inquinamento delle acque corrisponde l’atteggiamento nichilistico nei confronti della vita.
Quando infatti l’uomo non viene considerato nell’integralità della sua vocazione e non si rispettano le esigenze di una vera “ecologia umana” si scatenano le dinamiche perverse delle povertà, compromettendo fatalmente anche l’equilibrio della Terra.
Una prova ulteriore, se ce ne fosse ancora bisogno, che “il problema decisivo dello sviluppo è la complessiva tenuta morale della società” (n.
51).
La crisi in atto mette in evidenza dunque la necessità di ripensare il modello economico cosiddetto “occidentale”, come, del resto, già auspicato nella Centesimus annus (1991).
Ma lo sguardo dell’enciclica è tutt’altro che pessimista o fatalista.
Al contrario con realismo apre al futuro con il seguente invito che intendo fare mio: “La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative.
La crisi diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità.
In questa chiave, fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento presente” (n.
21).
(©L’Osservatore Romano – 20 settembre 2009) Pubblichiamo integralmente il testo della lectio magistralis che il cardinale arcivescovo di Genova, presidente della Conferenza episcopale italiana, ha tenuto sabato 19 settembre nel Palazzo della Borsa Valori di Genova in occasione del convegno “Caritas in veritate.
Lettera enciclica di Papa Benedetto XVI”.
All’incontro, introdotto da Davide Viziano, presidente dell’Unione cristiana imprenditori dirigenti, e da Paolo Odone, presidente della Camera di Commercio di Genova, sono intervenuti anche Bernard Scholz, presidente della Compagnia delle opere, e l’economista Ettore Gotti Tedeschi.

Veri cristiani si diventa nel territorio

Viviamo in un’epoca di profondi e rapidi mutamenti, un mondo in cui il più grave smarrimento deriva dal non riuscire a percepire un orientamento chiaro e lineare nell’evolversi delle situazioni e nel modo di collocarsi in esse anche da parte di istituzioni solitamente capaci di fornire senso e direzione all’agire umano.
In queste ultime settimane un elemento purtroppo quasi assente nel dibattito mediatico attorno alla Chiesa e alla sua presenza nella società italiana è stato quello dei rapporti tra cristiani e territorio vissuti soprattutto attraverso quella entità locale che, con la fine dell’assetto sociale contadino e con l’imporsi della società industriale, ha dovuto cercare – e ancora non ha trovato pienamente – nuove forme per manifestare la collocazione dei cristiani nella polis e per la loro missione: la «parrocchia».
Il territorio, infatti, non è lo scenario asettico della vita cristiana bensì lo spazio in cui i cristiani ascoltano il mondo – gli uomini e le donne con le loro sofferenze, le speranze e le fatiche; il creato, l’ambiente e la terra…
– vivendo la storia senza evasioni, perseguendo responsabilmente il bene comune insieme con gli altri uomini ed esercitando la propria responsabilità.
Il territorio è il luogo in cui i cristiani sono innestati nella comune vicenda culturale di un popolo e dove devono ogni giorno discernere i «segni dei tempi», che spesso si manifestano anche come «segni dei luoghi».
Oggi si è più consapevoli che lo spazio è, insieme al tempo, una coordinata essenziale, che predispone quanto è necessario all’edificazione di una comunità cristiana nella realtà locale: c’è bisogno di uno spazio per credere, di un luogo in cui diventare cristiani, in cui radicarsi e, con un riferimento a un preciso habitat umano, poter vivere la comunità e accrescere la comunione.
Il sociologo francese Michel Maffesoli osservava che «come la modernità metteva l’accento sul tempo, la post-modernità mette l’accento sullo spazio-territorio».
Ne consegue che occorre reinventare un legame tra comunità cristiana e territorio, tenendo conto che i concetti di spazio e tempo sono in continuo mutamento, a causa dell’universo di Internet, della cultura soggettivista, della pluralità e della complessità di presenze umane, religiose, etiche ed etniche di cui è composta la polis.
Quali possono essere allora le vie di rinnovamento dei legami necessari alla testimonianza della fede e alla costruzione della comunità cristiana? Il primo compito di un cristiano resta quello di conformare la propria vita umana alla vita umana di Gesù, una vita che ha saputo «narrare» Dio nella storia.
Del resto oggi il cammino degli uomini verso la fede non è più quello di qualche decennio fa: un tempo la Chiesa nutriva il fedele e lo faceva crescere fino a quando questi, con maturità, faceva propria la fede ereditata dalle generazioni precedenti e accedeva all’adesione a Dio, quindi a Gesù Cristo.
Oggi per moltissime persone, anche nei paesi di radicata tradizione cristiana come l’Italia, non è più così: Dio è diventata una parola ambigua e a volte scandalosa, sovente «la Chiesa – osservò già quarant’anni fa Joseph Ratzinger – è per molti l’ostacolo principale alla fede», mentre continua a salire dall’umanità quel grido che l’evangelista Giovanni mette in bocca ai greci saliti a Gerusalemme: «Vogliamo vedere Gesù!».
È un grido che chiede a uomini e donne di mostrare Gesù, facendo vedere la loro vita ispirata dal Vangelo e a esso conformata, testimoniando la prassi di servizio, di amore, di riconciliazione e di libertà vissuta da Gesù.
Occorrerebbe allora presentare agli uomini un cammino umano: far vedere Gesù, collocare Gesù in Dio, colui che lo ha inviato, e quindi introdurli progressivamente nella comunità cristiana fino a far loro amare la Chiesa.
Nel far questo non ci si dovrebbe fermare a confini stabiliti in precedenza tra comunità cristiana e battezzati non praticanti o addirittura in contraddizione con la fede: il cristiano deve avere in qualche modo una fede anche per quelli che l’hanno più debole, e deve sentire questa solidarietà profonda in cui può pulsare la grazia battesimale anche quando non è visibilmente operante.
In questo senso un cristiano che cerca di vivere evangelicamente il rapporto con la storia dovrebbe, soprattutto oggi, essere disponibile allo scambio, al confronto, al dialogo all’interno e all’esterno della comunità cristiana: non diffidenza, arroccamento, intransigenza, non lo stare su posizioni difensive, non il cedimento alla tentazione di ripagare con la stessa moneta l’ostilità e il disprezzo da parte della società non cristiana bensì, come diceva Paolo VI, «guardare al mondo con immensa simpatia».
Se il mondo si sente estraneo al cristianesimo, il cristianesimo non si sente estraneo al mondo.
Inoltre occorre ribadire che i cristiani, proprio perché appartenenti alla città e alla società degli uomini, devono essere soggetti responsabili, e la loro coscienza deve essere l’istanza mediatrice tra fede e azione socio-politica.
Noi dovremmo ancora oggi comprendere e progettare la modalità con cui i cristiani, da cittadini veri, leali e solidali con gli altri con-cittadini, possono dare il loro contributo alla polis.
Non ci deve essere alcuna diffidenza o contraddizione rispetto all’appartenenza alla società e alla cittadinanza: essi sono realmente cristiani, discepoli del Signore Gesù Cristo, se si lasciano ispirare dal Vangelo e se, attraverso l’istanza mediatrice della loro coscienza, danno il loro contributo sotto la forma dell’azione politica la quale resta, come già diceva Pio XI, «il campo della più vasta carità».
Come ha più volte ricordato anche Benedetto XVI, «la Chiesa non è né intende essere un agente politico», ma spetta ai cristiani un doveroso impegno in ordine all’umanizzazione della convivenza civile e alla realizzazione di una società sempre più segnata da giustizia, rispetto della dignità della persona, pace.
Dunque per la Chiesa vi è una funzione «mediata» nei confronti della società, soprattutto attraverso la purificazione della ragione e il risveglio di forze morali; per i fedeli laici vi è una funzione «immediata» nel partecipare in prima persona alla vita pubblica senza «abdicare – sono parole dell’enciclica Deus caritas est – alla molteplice e svariata azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere il bene comune».
in “La Stampa” del 20 settembre 2009

Caritas in veritate: Ideario

L’Ideario dell’Enciclica “Caritas in Veritate”   si compone in totale di 67 pagine ed è un riuscito tentativo di sminuzzare in “idee” il complesso testo dell’Enciclica, non certo di facile lettura.
Nel pieno rispetto del testo, che viene riportato integralmente, si opera una scomposizione fra le idee portanti (421) e ogni altra idea sussidiaria e complementare.
Il testo conserva così tutta la sua integrità per chi lo volesse leggere di seguito, ma offre in più una scansione ed una modalità di lettura diversa, consentendo di focalizzare la “spina dorsale” del discorso del Papa ed incentivando nel lettore quella cadenza di approccio più sereno e tranquillo, necessario alla meditazione.
Ecco perchè si parla di “Enciclica…in pillole”.
La grafica utilizzata, consente infine all’Insegnante di Religione, soprattutto nella classe finale di Liceo, ove è necessario affrontare passi importanti della dottrina sociale della Chiesa, di selezionare e collegare fra loro con più efficacia e sicurezza le diverse parti del discorso pontificio.
Per la consultazione: Caritas in veritateideario

Lettera ai cercatori di Dio nella prospettiva della educazione religiosa scolastica

CEI – Commissione Episcopale per la Dottrina della Fede, l’Annuncio e la catechesi, Lettera ai cercatori di Dio, ed.
San Paolo, Torino  2009 A modo di premessa, la presentazione della lettura analitica della Lettera ai cercatori di Dio, in tempi di declamata e controversa “emergenza educativa”, intende proporsi con discrezione e pacatezza per un servizio di informazione critica, al fine di favorire l’interesse generale sul rapporto tra cultura religiosa ed educazione-scuola, e specificamente a beneficio degli Insegnanti di Religione (IdR).
Molti degli IdR risultano coinvolti sul piano della ricerca teorica, della sperimentazione didattica e dell’innovazione dei linguaggi, oltre che impegnati in varie attività ed esperienze formative di tipo scolastico, comunitario o associativo, e troppo spesso si vedono paternalisticamente sollecitati ad iniziative continue dall’attivismo degli uffici scuola o investiti da facili ironie e discredito sulla presunta fase di “imborghesimento” e “demotivazione” dopo la immissione in ruolo della categoria.
 In profondità, oltre le ricorrenti polemiche giudiziarie e giornalistiche sull’Insegnamento della Religione Cattolica (IRC) in Italia, vengono chiamati in questione e vanno affrontati alle radici la fragilità della legittimazione giuridica concordataria, una certa indefinitezza epistemologica, la trasformazione in senso pluralistico e multireligioso della società europea, le incertezze della “via” italiana alla “laicità”, la indefinita dinamica tra l’educazione religiosa ecclesiale e del sistema scolastico civile, l’evoluzione del rapporto tra cultura religiosa con le sue scienze di riferimento e progetto educativo pubblico, il “sospetto” ancora gravante sul ruolo della teologia nei saperi e nelle istituzioni culturali pubbliche.
       Il collegamento estrinseco con l’attività dell’IRC emerge dichiaratamente nei “Suggerimenti per l’utilizzazione” forniti da mons.
Bruno Forte, curatore e firmatario nella qualità di Presidente della Commissione CEI, all’annuale Convegno Nazionale degli Uffici Catechistici Diocesani (“Ascoltare le domande, comunicare il Vangelo, condividere l’incontro con il Cristo”, UCN, Reggio Calabria 15-18 giugno 2009), articolati in più direzioni: dove si individua l’IR tra gli interlocutori privilegiati; si sottolinea l’esigenza di “promuoverne la conoscenza tra Catechisti e Insegnanti di Religione”; se ne sottolineano le potenzialità dell’impiego come “strumento sussidiario” nella scuola.
L’utilizzo nell’ambito scolastico s’inquadra poi in orizzonti più ampi, che negli auspici degli estensori possono interessare ad es.
l’apostolato biblico per la riscoperta della Bibbia come “grande codice”; gli itinerari del Catecumenato degli adulti o di preparazione alla Cresima ed al Matrimonio, quali occasioni di nuova evangelizzazione ove si apportino le dovute mediazioni; la diffusione nel mondo universitario e della pastorale della cultura, per il dialogo e l’introduzione alla conoscenza basilare del cristianesimo; un’offerta credibile di strumento per la ricerca personale, da accompagnare con la elaborazione di qualche forma di ipertesto e di collegamento ad altre fonti ed ad altri linguaggi.
 Implicitamente l’Educazione Religiosa scolastica, richiamata più volte – ora positivamente ora criticamente –  dagli interventi in assemblea e nei gruppi di lavoro, viene chiamata in causa sullo sfondo della ricerca e della prassi del “progetto educativo ecclesiale” e del “progetto culturale”; mentre rimane, a parere di molti, da precisare e ridefinire in termini corretti e adeguati ai segni dei tempi nuovi, la natura della relazione (unità dell’oggetto, finalità, strumenti, ambiti, processo, soggetto, persona del destinatario, laicità e confessionalità…) tra “Catechesi” (“testimonianza”, educazione religiosa-cristiana ecclesiale, familiare, associativa…) e Ir (“disciplina”, pedagogia religiosa scolastica), evolutasi storicamente dalla confusione alla correlazione, alla complementarità nella distinzione, alla integrazione…                 Il piccolo Testo,  propedeutico ad ulteriori approfondimenti (ai quali rinvia la sintetica bibliografia in appendice) e non inteso ad esaurire l’integralità del discorso religioso-cristiano, ma a “suggerire, evocare, attrarre”, si indirizza sia ai credenti aperti a domande sempre nuove, che ai non credenti (“pensanti”) che continuano ad interrogarsi sulla fede, sia a “chi non si sente in ricerca” rispettandone con atteggiamento di “amicizia e simpatia” la libertà e la coscienza.
Accostandosi a tutti coloro che chiedono le “ragioni della speranza”,  con la “dolcezza e rispetto” raccomandati dall’Epistola di Pietro 3,15-16.
Volto perciò a provocare reazioni, suscitare nuove domande, integrazioni e critiche, si ispira dichiaratamente al dinamismo della comunicazione interattiva configurandosi, fin dalla intitolazione inconsueta ai “Cercatori”, nella tensione a nuovi approcci fin dalla scelta d’impronta antropologica della categoria culturale applicata ai destinatari, appartenenti ad un orizzonte molto vasto  tendenzialmente di adulti, rispetto alle formulazioni più classiche di “primo annuncio”, “un mondo che cambia”…   Concepito in tre sezioni:  a partire dal terreno umano-sociale comune del vissuto quotidiano-storico sui grandi perché “che ci uniscono”(p.
I);  per proseguire (p.
II) con la proposta (“testimonianza” e “ragioni della speranza”) essenziale del messaggio cristiano e della risposta di fede, imperniata nella chiave cristologica (volto umano del Mistero e della Presenza), di Dio Trinità e relazione d’amore, fino alla Chiesa quale comunità di fratelli e icona dell’amore trinitario, presentati con il ricorso al linguaggio narrativo; e concludere propositivamente (p.
III) con l’ipotesi di un itinerario sul dove e come, segnato dai “luoghi” (preghiera, ascolto della Parola, sacramenti e vita nuova, servizio e dono di sé, attesa della vita eterna, desiderio della bellezza divina…), per aiutare a passare dalla ricerca alla pienezza dell’incontro “vero” con il “Dio di Gesù Cristo”, in cui l’incontro si pone nel senso dell’ospitalità, dell’ascolto, dello stimolo alla reciprocità, della serietà dell’esperienza di una relazione tra persone.
  Nella sua genesi risulta prodotto da un lavoro collegiale svolto a livello di cooperazione tra episcopato, teologi, pastoralisti, catecheti, esperti della comunicazione,… (e perché non anche di IdR qualificati?).
Il sobrio corredo  delle immagini si presenta di un certo interesse educativo.
Tratto dalle opere artistiche di V.
Vitali, in copertina, S.
Di Stasio e M.
Paladino all’interno, già ricorrenti e sperimentati in altre pubblicazioni ufficiali della CEI (Nuovo Lezionario ecc.), rappresenta il tentativo di contribuire a rinnovare il genere espressivo delle miniature tipiche dei testi religiosi e magisteriali.  Nei capitoli si ripropongono unitamente a rappresentazioni pittoriche significative dell’esperienza umana-religiosa, delle “perle” costituite da brani  biblici, letterari e del pensiero tratte dalla sapienza di autori pure non cristiani (es.
G.
Marcel, E.
Montale, S.
Kierkegaard, insieme a S.
Francesco, S.
Agostino, T.
Bello…), presentati in funzione “ermeneutica” simile a quanto avvertono necessario per la comprensione  e comunicazione del discorso religioso, anche gli educatori religiosi attraverso il ricorso al “documento”.
  Rispetto ad altri Documenti magisteriali e pastorali che iniziano con una ricognizione sulla realtà storico-socio-culturale del nostro tempo, con qualche attenzione alla situazione, contesto, realtà, bisogni, istanze, la Lettera (genere di respiro biblico, originale ed efficace nella comunicazione religiosa e pastorale della Chiesa Italiana) più incisivamente dedica la Prima Parte (la più interessante ed intrigante per l’attività degli IdR) all’ascolto degli interrogativi che attraversano eventi e persone, esperienze di gioia e di limite riconoscibili nella vita di ognuno a livello individuale e collettivo, ed in particolare imperniate sull’esperienze vitali positive di felicità e speranza, apertura al futuro ed alla “Terra promessa” o negative di fragilità, problemi di convivenza giusta e pacifica con la natura e la società… Si viene così a recepire la categoria della “inquietudine”, di agostiniana memoria ed elemento caratterizzante di tanta antropologia e filosofia contemporanea, e dell’”invocazione” come cifra dell’esistenza e del cammino dell’uomo.
Confrontandosi da ultimo e con franchezza (oltre la cd.
“morte di Dio” e il “tramonto del sacro” da un lato e il bisogno di “segni ad ogni costo” e di “riti” di certa spiritualità dall’altro) con la questione capitale della trascendenza “presente nel cuore di molti”: “Dio chi sei per me? E io chi sono per Te?”.
L’importanza di sapere “ascoltare le domande” (tema del XLIII Convegno dell’UCN) che ci rendono tutti “pellegrini e cercatori dell’Altro”, manifestazioni della tensione e riflesso dell’alterità che definisce e costruisce l’identità della persona, fa da guida e da anima dell’intero  percorso del Documento della CEI, memore dell’assunto del pensatore ebraico E.
Jabès, rappresentante del “pensiero nomade” e citato da B.
Forte: “Il mio nome è una domanda, e la mia libertà è nella propensione alle domande”.
Così delineando un profilo essenziale dell’identità umana, che riguarda l’essere prima che l’agire, colto nella sua esistenza di “mendicante del cielo” e di “lottatore” per  riuscire a dare un senso ed una verità alle cose di ogni giorno e della storia.
L’impostazione dialogica, cerca di farsi carico di istanze diffuse nella mentalità corrente e nella cultura, ponendosi il problema di non cadere nel corto circuito dell’affermazione dottrinale e assertiva, nella logica delle risposte semplificatorie e preconfezionate, delle ricette spirituali rassicuranti, sempre incombenti.
Davanti alla problematicità ed al travaglio di coscienza su tante questioni “ultime”, matura la convinzione che la fede non sia “dare risposte già pronte, ma contagiare “l’inquietudine della ricerca”, non risolvere tante possibili oscurità ma aiutare a “portarle ad un Altro e insieme con lui”.
Pur presentandosi nello stile ancora troppo “ecclesiastico” e poco “laico”, da Chiesa “docente” piuttosto che compagna di strada, di certi passaggi ed affermazioni legate a concezioni dottrinali tradizionali, oggi messe a prova dalla discussione della ricerca teologica  (es.
p.
24: “Perché allora, permette il dolore, l’invecchiamento, la morte?”, laddove il verbo “permettere” – sulla questione della teodicea – risente di una concezione improntata ad un’idea assoluta di onnipotenza…), il Testo costituisce  un interessante, anche se incompiuto, paradigma Kerygmatico, in materia del cd.
“primo annuncio” e incontro tra fede e culture.
Mira infatti a farsi carico della interiorità profonda e della sensibilità spirituale di chi  attualmente in  maniera esplicita o implicita avverta l’importanza della ricerca di senso, “laicamente” non si chiuda aprioristicamente all’ipotesi della trascendenza ed all’esperienza del Mistero, rimanendo nella sostanza “cercatori di Dio” e desiderosi di vedere il Suo volto, pur percorrendo le vie religiose differenti offerte nella realtà del villaggio globale.
  Sulla problematica delle “domande”, l’impostazione della ricerca ermeneutica nell’educazione religiosa potrà misurarsi e confrontarsi utilmente, nell’ordine del metodo, del processo psico-pedagogico e della tipologia delle esperienze privilegiate (felicità e dolore, amore e fallimenti, lavoro e festa, sfide della fede), come più rispondenti alla radicale domanda religiosa e dell’orientamento umano verso il mistero, portando il discorso ancora “oltre la domanda di senso e di speranza” , verificando la “ragionevolezza” del “credere”  e le potenzialità della sua elaborazione culturale, pedagogica, didattica.
  A conclusione dell’excursus va ribadito che la Lettera si propone quindi non come punto d’arrivo ma stimolo e strumento per l’inizio di cammini auspicabilmente plurimi, a servizio della vita spirituale nascente (sorta di “aurora”dell’anima) di coloro che sanno aprirsi all’oltre e al nuovo di Dio; o di chi si pone alla ricerca, anche se credente che riconosce di sentirsi “un povero ateo, che ogni giorno si sforza di cominciare a credere”.
Consapevoli tutti, pastori ed educatori o comunità ecclesiale e civile, che oggi le vere questioni di senso della vita e della storia o di fede non contrappongono “ideologie” né dividono gli uomini in “laici e cattolici” nel modo tradizionale e standard, ma segnano il crinale tra “pensanti e non pensanti”, tra uomini e donne con il coraggio di vivere la fragilità e continuare a cercare per credere, sperare ed amare, e uomini e donne rinunciatari a lottare, rinchiusi nell’”orizzonte penultimo”, incapaci di accendersi di desiderio, speranza e nostalgia dell’Altro.
Verso questi nostri contemporanei, di tutte le età della vita e specie nei confronti delle nuove generazioni, in superficie apparentemente indifferenti, nelle quali suscitare per potere educare la maturazione della “domanda”, l’Educazione Religiosa deve sentirsi empaticamente debitrice di “verità” intesa come significatività umana della fede e nella prospettiva di“carità intellettuale” a servizio della libertà, non come detentrice di “risposte”,  sapendosi fare compagna di viaggio discreta e paziente.
  Giorgio Bellieni