Testamento biologico: ragioni, nodi critici e prospettive

La questione del testamento biologico è divenuta, in questi ultimi anni, di grande attualità anche nel nostro Paese, a seguito soprattutto dell’esplosione di casi, come quelli di Welby e della Englaro, che hanno scosso profondamente l’opinione pubblica.
Non si può sottovalutare, tuttavia, il rischio che, proprio per questo motivo, le reazioni emotive prevalgano sulle argomentazioni razionali, favorendo pronunciamenti affrettati e improduttivi.
A questo genere di pronunciamenti va ascritto anche il testo relativo alle «dichiarazioni anticipate di trattamento», approvato dal Senato il 26 marzo dell’anno in corso e ripreso (e ci auguriamo largamente rivisto) dalla Camera probabilmente nel prossimo autunno.
La riflessione sul testamento biologico riveste – va detto fin dall’inizio – particolare importanza sul piano etico soprattutto per la varietà dei temi che attorno ad esso si condensano e che hanno a che fare con le frontiere della vita e della morte: dall’autodeterminazione del paziente nei confronti delle cure al ruolo del medico (e del personale sanitario in genere), dalle cure palliative alla terapia del dolore, dall’eutanasia all’accanimento terapeutico.
Si tratta di una sorta di crocevia, in cui convergono i più significativi nodi critici riguardanti le situazioni esistenziali di fine-vita.
Le rapide note, che qui svilupperemo, prendono anzitutto avvio da una sintetica rilevazione delle ragioni strutturali e culturali, che hanno fatto emergere in questi anni, in termini sempre più insistiti, la richiesta di dare statuto giuridico al testamento biologico; per mettere, successivamente, in evidenza le problematiche più rilevanti legate alla sua stesura e alla sua applicazione; e delineare, infine, alcuni orientamenti volti a favorirne una corretta utilizzazione.
Alla base della richiesta di legalizzazione del testamento biologico, in quanto strumento destinato a far valere le proprie volontà circa i trattamenti cui essere o non essere sottoposti nella fase di finevita qualora ci si trovi in stato di incoscienza, vi è senz’altro l’accresciuta consapevolezza della dignità della persona, e dunque del rispetto dei diritti che ad essa fanno capo lungo l’intero arco della sua esistenza.
La modernità è infatti coincisa con lo sviluppo della civiltà dei diritti, il cui raggio di esercizio è venuto progressivamente dilatandosi, soprattutto a partire dall’ultimo dopoguerra.
Le Costituzioni degli Stati democratici e le Carte delle istituzioni internazionali – è sufficiente ricordare qui la Carta dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite del 1948 – hanno assunto, come perno della vita collettiva e come limite all’intervento degli Stati, la salvaguardia dell’autonomia della persona e il riconoscimento (nonché la possibilità di espressione) dei suoi fondamentali diritti.
In questo contesto deve essere dunque inserito il «diritto a morire dignitosamente», diritto che implica particolare attenzione alla qualità del morire in quanto momento supremo dell’esistere.
E, in questo contesto, acquista soprattutto sempre maggiore consistenza il bisogno di decidere, in modo autonomo, a quali cure si desidera essere o non essere sottoposti.
ambivalenza del progresso tecnico A sollecitare tale attenzione e tale bisogno hanno contribuito, in misura determinante, gli sviluppi della tecnologia in campo biomedico; essa, accanto ad esiti altamente positivi – si pensi ai grandi successi ottenuti in campo terapeutico con la sconfitta di malattie un tempo letali – fa registrare l’emergenza di nuovi rischi, primo fra tutti quello dell’accanimento terapeutico.
La possibilità di prolungare oltre misura la vita biologica, mediante interventi sempre più sofisticati e pervasivi, provoca spesso la dequalificazione della vita personale con grave attentato alla dignità umana.
E ciò soprattutto in presenza di una cultura, nella quale l’enorme successo della tecnica alimenta la tentazione del tecnicismo abusivo; mentre, a sua volta, il dilagare della mentalità scientista spinge a coltivare una concezione rigidamente «biologica» della vita.
Si afferma così una forma di prometeismo, che ritiene eticamente legittimo (considerandolo umanizzante) tutto quanto è tecnicamente possibile, e che considera positivo ogni prolungamento artificiale della vita, prescindendo dalle pesanti ricadute che spesso l’accompagnano sul piano umano.
Il confronto quotidiano con casi, che rivelano la disumanità di alcuni trattamenti sanitari, rende trasparente l’ambivalenza del progresso tecnico, e concorre ad accentuare il bisogno di esternare la propria volontà circa le cure nel momento in cui ci si venisse a trovare nell’impossibilità di farlo direttamente.
rimozione della morte Accanto a queste motivazioni di grande rilievo sul piano umano va tuttavia aggiunto – e costituisce un elemento tutt’altro che secondario – l’atteggiamento disturbato con cui si vive oggi il rapporto con la morte.
Ad avere il sopravvento è infatti la rimozione della morte, causata da un insieme di fattori, quali la sua radicale separazione dalla vita – si muore sempre più in ospizi ed ospedali, al di fuori cioè dei luoghi nei quali si svolge l’ordinaria esistenza –, la sua spettacolarizzazione – la televisione e internet ci mettono ogni giorno di fronte ad episodi di morte, ma si tratta di eventi spersonalizzati, che determinano scarso coinvolgimento e producono assuefazione –, e infine la perdita del simbolismo, sia religioso che laico, che in passato contribuiva, in qualche misura, a riscattarla.
Rimozione e perdita di significati sono poi ulteriormente accentuati dalla presunzione dell’uomo di aver raggiunto il controllo e il dominio di tutti gli ambiti della realtà con la conseguente percezione della morte come scacco insopportabile, come l’irruzione del non controllabile o del non dominabile; in una parola, di ciò che non può essere razionalizzato.
Da questo punto di vista, eutanasia ed accanimento terapeutico, pur rimanendo fenomeni di segno opposto, possono venire ricondotti a una identica matrice: la volontà dell’uomo di esercitare la propria signoria sulla morte, trasformandola da evento «naturale», di fronte al quale egli risulta del tutto impotente, in evento «culturale» sottoposto alla propria volontà: nel primo caso – quello dell’eutanasia – dandosi la morte, scegliendo cioè il tempo e il modo secondo cui morire; nel secondo – quello dell’accanimento terapeutico – prolungando in maniera illimitata la vita nella (illusoria) speranza di poter vincere la morte.
Paura e rimozione finiscono così per sostenersi reciprocamente, entrando in una sorta di spirale o di circolo vizioso: la paura alimenta infatti la rimozione, la quale, a sua volta, non fa che accentuare la paura.
Se questo rende, da un lato, ragione della richiesta insistita di dare forma legislativa al testamento biologico come tutela della persona, spiega tuttavia, dall’altro, perché dove esso è già stato da tempo introdotto venga scarsamente utilizzato – la percentuale di chi se ne serve si aggira attorno al 10-20% – prevalendo la tendenza, psicologicamente comprensibile ma accentuata dal disagio ricordato, ad allontanare il più possibile il pensiero della propria morte.
i fondamentali nodi critici di ordine etico Le questioni di carattere etico che affiorano in riferimento al testamento biologico sono molte e di diversa consistenza: tre ci sembrano tuttavia quelle di maggiore importanza sulle quali è opportuno soffermarsi.
autodeterminazione ma non solo La prima riguarda anzitutto il principio di autodeterminazione, che è il presupposto in base al quale viene rivendicata l’istituzione del testamento biologico.
L’affermazione di tale principio ha trovato, nell’ambito della bioetica, concreta espressione nel «consenso informato», di cui il testamento biologico altro non è che il logico prolungamento in situazioni nelle quali il paziente si trova a vivere in stato di incoscienza.
Il principio di autodeterminazione è senza dubbio un principio fondamentale di riferimento per affrontare le questioni della bioetica, ma – è importante sottolinearlo – non può essere assunto come criterio esclusivo.
Esistono infatti altri principi – quello di non maleficità, quello di beneficità e quello di giustizia o di equità sociale – ai quali ispirare l’attività di cura.
La tutela dell’autonomia del paziente non può pertanto prescindere dalla ricerca del suo bene, che costituisce l’obiettivo dell’attività del medico, e dall’attenzione al contesto sociale, essendo le risorse a disposizione limitate e dovendole perciò ripartire equamente.
Si tratta, in altri termini, di mediare la libertà con il bene e con la giustizia, pervenendo a scelte, che spettano in ultima analisi al paziente (sia direttamente che attraverso il proprio fiduciario nel caso del testamento biologico) e che devono avere di mira il bene del singolo e quello della collettività.
L’interpretazione rigidamente individualista che talora si dà del principio di autodeterminazione è frutto di una visione liberista, derivante da un contesto come quello degli Usa dove – è bene non dimenticarlo – circa cinquanta milioni di persone sono tuttora escluse da qualsiasi forma di assistenza sanitaria.
chi per me? La seconda questione ha come oggetto la gestione del testamento biologico, cioè le concrete modalità della sua esecuzione.
Vi è, al riguardo, chi ritiene che esso abbia un preciso valore giuridico, e vada pertanto eseguito alla lettera, senza alcuna possibilità di mediazione, escludendo di conseguenza ogni spazio di intervento del medico.
E vi è chi, invece, ritiene che si tratti di indicazioni da tenere in seria considerazione, che vanno tuttavia fatte oggetto di ulteriore valutazione tra il medico e il fiduciario designato dal paziente.
In realtà tanto la stesura del testamento biologico quanto la sua esecuzione non sono (o non dovrebbero essere) atti puramente individuali, ma espressione di un processo che coinvolge il paziente (o chi lo rappresenta), in quanto portatore di bisogni e di diritti, e il medico in ragione della sua specifica competenza.
Il modello cui ispirare la condotta ci sembra possa essere dunque quello della «alleanza terapeutica» la cui attuazione comporta l’instaurarsi di un rapporto di reciproca fiducia, che sfocia nella volontà di collaborare alla comune ricerca del bene del paziente.
La giustificata reazione all’atteggiamento paternalistico del passato si traduce oggi spesso – per reazione – nell’opposta tendenza a fare del medico un mero esecutore tecnico della volontà del paziente, impedendogli di mettere a frutto la propria competenza con conseguente danno per lo stesso paziente.
La mutua cooperazione, oltre ad evitare l’estensione (altrimenti inevitabile) dell’obiezione di coscienza dei medici, consente di verificare con maggiore precisione la reale situazione, prendendo in considerazione le novità nel frattempo intervenute in campo terapeutico e interpretando la volontà del paziente anche in relazione a questi cambiamenti.
nutrizione e idratazione Infine la terza e ultima questione (non ultima in ordine di importanza) concerne il significato che si attribuisce alla nutrizione e all’idratazione, e perciò la possibilità o meno di deciderne la sospensione in alcune situazioni particolari.
Il dibattito, che si è sviluppato, in questo ultimo anno nel nostro Paese (in occasione soprattutto della vicenda di Eluana Englaro) ha visto la discesa in campo di due posizioni contrapposte, con punte a volte di forte tensione ideologica.
Da una parte, vi era chi sosteneva che nutrizione e idratazione in quanto «sostegni vitali» devono essere comunque sempre somministrate; dall’altra, chi, insistendo sulle modalità con cui la somministrazione avviene, riteneva che nutrizione e idratazione possano essere incluse nell’attività di «cura», e debbano pertanto essere in molti casi sospese.
Questa contrapposizione, soprattutto se radicalizzata, risulta, per molti aspetti, artificiosa.
È difficile infatti negare che nutrizione e idratazione siano, in senso antropologico, «sostegno vitale»; ma è altrettanto difficile misconoscere che, in alcune circostanze, siano a tutti gli effetti, per il modo con cui la somministrazione si realizza (intervento chirurgico e preparazione di sostanze chimiche) «atto medico » (e dunque curativo anche se non direttamente terapeutico).
Forse, per affrontare correttamente il problema, bisogna collocarlo in quella area di questioni di frontiera, che stanno sul crinale tra omissione di soccorso (in passato si diceva «eutanasia passiva») e accanimento terapeutico.
Questo implica che si debba di volta in volta decidere, tenendo conto della concretezza delle situazioni, con la consapevolezza che lo stesso intervento può, in taluni casi, se evitato, risultare omissione di soccorso; in altri casi, se effettuato, può invece comportare accanimento terapeutico.
In questa ottica, nutrizione e idratazione devono essere valutate caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del paziente.
L’inserimento del loro rifiuto nel testamento biologico implicherebbe perciò la circoscrizione entro una casistica dettagliata non facilmente definibile a priori; ma (forse) potrebbe bastare – ci sembra questa la via più praticabile, in linea del resto con quella forma di «diritto mite» da molti auspicato – l’espressione da parte del paziente di una generica volontà di rifiuto, che andrebbe poi verificata nella sua applicabilità mediante il confronto tra il proprio fiduciario e il medico.
orientamenti per una corretta utilizzazione L’acquisizione del significato proprio del testamento biologico e la disponibilità al suo corretto utilizzo esigono l’adempimento di alcune condizioni, che costituiscono la cornice entro cui il testamento va collocato.
La prima di tali condizioni consiste nel farsi strada di una concezione relazionale dell’umano.
Si è già detto dei rischi che si corrono quando ci si muove entro un orizzonte radicalmente individualista.
Ogni atto umano si sviluppa all’interno di una rete di relazioni, ed implica pertanto il ricorso a una condivisione di responsabilità che non può essere elusa.
Anche il testamento biologico, tanto nella fase di stesura che in quella esecutiva, comporta il concorso di altri soggetti (il medico di base o quello curante e successivamente il fiduciario) ed esige la convergenza di tutti attorno al bene del paziente.
La seconda condizione è costituita da una sempre maggiore estensione, a tutti i livelli, del concetto di cura proporzionata; concetto che laddove viene praticato, rappresenta il miglior antidoto tanto nei confronti dell’eutanasia che dell’accanimento terapeutico.
Da questo punto di vista, è importante che si potenzino, anche nel nostro Paese, le cosiddette «cure palliative», il cui obiettivo è quello di «prendersi cura» della persona nella sua globalità, offrendole i necessari supporti fisici – si pensi alla terapia del dolore – e psicologici per vivere anche i momenti più drammatici di avvicinamento alla morte con la maggiore serenità possibile.
Infine, la terza (e ultima) condizione è costituita dall’esigenza di dare vita a una nuova «cultura della morte», che ne faccia riscoprire il profondo legame con la vita e, pur senza rinnegare il carattere di tragicità che inevitabilmente la connota, non rinunci a renderne trasparente il significato di compimento dell’esistenza e, per chi crede, di «realtà penultima», che prelude – è questo il senso della speranza cristiana – a una vita che non ha termine.
L’adempimento di queste condizioni è la via per accedere a una visione più umanizzata della malattia e della morte e per togliere al testamento biologico il carattere, oggi prevalente, di strumento difensivo o rivendicativo dei diritti soggettivi, trasformandolo in un vero esercizio di collaborazione all’azione medica, che è tanto più corretta ed efficace quanto più è rispettosa della volontà dei pazienti e quanto più tende, nel contempo, a salvaguardarne, in tutte le fasi della malattia, la dignità umana.

A Praga il papa in difesa della ricristianizzazione

Per il suo tredicesimo viaggio all’estero, papa Benedetto XVI arriva sabato 26 settembre in uno dei paesi più scristianizzati d’Europa.
La sua venuta nella Repubblica ceca coincide con il 20° anniversario della “rivoluzione di velluto” che vide il crollo del regime comunista.
Questa visita di tre giorni non avrà il carattere storico di quella che il suo predecessore Giovanni Paolo II aveva effettuato nel 1990, incontrando il presidente ceco di allora, Vaclav Havel.
Ma Benedetto XVI dovrebbe ricordare lì l’importanza delle radici cristiane e della democrazia in Europa.
La Repubblica ceca “che si trova geograficamente e storicamente nel cuore dell’Europa, dopo aver attraversato i drammi del secolo scorso, ha bisogno di ritrovare le ragioni della fede e della speranza, come tutto il continente”, ha detto Benedetto XVI domenica 20 settembre.
Questo viaggio dà anche l’occasione di ritornare sul ruolo, contrastato, delle Chiese cristiane nei processi di democratizzazione degli ex paesi dell’Est e sul loro posto attuale.
“Bisogna distinguere diverse situazioni”, avverte lo storico Krysztof Pomian.
“Le Chiese ortodosse sono sempre state delle Chiese ‘statalizzate’, tanto in Russia che in Romania o in Bulgaria.
E, se una forma di dissidenza religiosa” appare negli anni ’70, essa è portata avanti solo da individui, sconfessati dalla gerarchia”, spiega lo storico polacco.
Anche all’interno dei paesi cattolici, le situazioni variano.
Per ragioni storiche, la Chiesa è debole nella Repubblica ceca: la rivolta religiosa del XV secolo, condotta dal riformatore Jan Hus, condannato a morte, ha lasciato profonde tracce.
“Imposta dal potere imperiale germanofono, la Chiesa cattolica vi è percepita, soprattutto a partire dal risveglio nazionale, come una religione straniera”, ricorda Pomian.
“Questo substrato creerà d’altronde una certa ricettività alla corrente socialdemocratica poi al comunismo ceco dopo la prima guerra mondiale”, aggiunge.
Durante il periodo comunista, la Chiesa conoscerà forti persecuzioni e le sue possibilità d’azione saranno limitate.
Negli anni ’80, certe chiese diventeranno comunque luoghi di raccolta della dissidenza.
Durante tutto questo periodo, la Polonia cattolica resta un caso a parte.
“È rimasta una potenza che potere comunista ha cominciato col trattare con riguardo, spiega Krysztof Pomian.
Poi sono venute le persecuzioni e l’internamento nel 1953 del cardinale primate di Polonia.
Dopo la sua liberazione nel 1956, si è installata una sorta di coabitazione conflittuale.
A partire dagli anni ’70, cambiamento di politica: la Chiesa diventa un interlocutore quasi ufficiale del potere.
Ciò non le impedisce di criticarlo, in particolare attraverso delle lettere pastorali lette nelle chiese.
Nel contesto dell’epoca, la Chiesa incarna una forza liberatrice.” L’elezione del papa polacco, Giovanni Paolo II, nel 1978 accentuerà questa dimensione.
“Sostenuta da un laicato cattolico forte, si può dire che la Chiesa polacca abbia accompagnato il movimento di contestazione.
Ma sicuramente non lo ha preceduto.
Del resto ha svolto il ruolo di moderatrice e di mediatrice tra le parti in campo”, aggiunge Pomian.
Nella Germania protestante, le parrocchie accoglieranno la contestazione nella seconda metà degli anni ’80.
Ma, come sottolinea lo storico, “nel regime comunista, ogni manifestazione di credenza religiosa acquisiva un significato politico.
I pastori hanno quindi svolto un ruolo di opposizione spirituale al regime.” Vent’anni più tardi, sembra che le Chiese non abbiano profittato appieno dell’avvento della democrazia.
La Repubblica ceca, con il suo 40% di atei, ne è un esempio.
E, anche in Polonia, dove, secondo Pomian, “la Chiesa come istituzione ha beneficiato della transizione democratica oltre i suoi meriti reali e dove mantiene un’influenza politica in certe regioni, si constata un riflusso e in particolare una diminuzione del numero di seminaristi e della pratica domenicale”.
“Il rinnovamento religioso atteso dopo il 1989 non sembra essere avvenuto”, dichiara lo storico.
in “Le Monde” del 27 settembre 2009 (traduzione: www.finesettimana.org)

“Ma lui non si lascia tirare per la giacca”

L’intervista Andrea Riccardi (storico e fondatore della Comunità di Sant’Egidio), il Papa a Praga fa il «tagliando» all’Europa a vent’anni dalla caduta del Muro? «Benedetto XVI sente che la sua missione è parlare al cuore e alla ragione d’Europa.
La battaglia di Wojtyla era rivolta all’Est comunista, la sua è impedire che il vecchio continente perda il suo sapore cristiano ed esca dalla storia per irrilevanza.
Ratzinger non punta a un nuovo imperialismo, ma affida all’Europa una missione vitale di fede e umanesimo».
Il colloquio con Berlusconi alla partenza per Praga ha fatto discutere.
Franceschini lo definisce un semplice saluto (“gli incontri importanti non avvengono davanti alle telecamere”), Di Pietro una “furbata del premier”.
Qual è la sua opinione? «Il Papa non si fa strumentalizzare, né tirare da una parte o dall’altra.
Poi, certo, Ratzinger stringe la mano, ti fissa negli occhi, ma guarda lontano.
Sa parlare al mondo, e in questi colloqui tocca problemi generali.
Benedetto XVI non è l’uomo della cronaca, però non è avulso né estraneo alle persone che incontra.
Non sta sull’ultimo avvenimento ed è concentrato sulle correnti profonde della storia.
Come papa e come uomo, però, non è strumentalizzabile, non si fa coinvolgere in strategie altrui.
Non è prigioniero del momento, mira oltre la situazione contingente per spingere a quello che conta, difendere i principi non negoziabili e comunicare il Vangelo».
E’ un Papa che teme il progresso scientifico? «No.
Vuole unire la scienza e l’economia all’umanesimo e al valore dell’elemento umano che non si compra e vende sul mercato.
Il suo messaggio è un orizzonte unitario.
Per questo scrive libri su Gesù, la porta d’accesso a tutto è l’annuncio, la passione cristiana.
Sia parlando pubblicamente al mondo accademico sia conversando privatamente con un capo di governo, non lo preoccupa negoziare posizioni o fissare paletti, ma proporre la sua testimonianza.
Non è un crociato, sa di parlare a società fortemente secolarizzate.
Però è consapevole che a cercare di spingere Dio fuori dall’Europa sono stati il nazismo e il comunismo ieri e oggi la ricerca selvaggia del profitto.
Non a caso ha scelto Praga per lanciare il suo monito e non Cracovia o Budapest».
Perché? «Le contraddizioni dell’angolo più secolarizzato d’Europa consentono a Ratzinger di dimostrare quanto le questioni di fede e la dimensione spirituale incidano sulla qualità della vita.
Lui chiama alla responsabilità, alla cooperazione internazionale contro la crisi, avverte che i destini sono legati e pone istanze a nome della Chiesa.
Per questo ha voluto un incontro ecumenico a Praga: per dire che la costruzione del futuro non può riguardare solo l’economia e la politica».
E’ troppo teologo e poco pastore? «E’ un Papa teologo ma appassionato all’umano.
Dopo la caduta del Muro, anche Ratzinger come Wojtyla, si è subito preoccupato della giustizia sociale e non ha mai pensato che bastasse il mercato per garantire la democrazia, la libertà e lo sviluppo.
Non lo hanno mai sfiorato il provvidenzialismo mercatista e la cieca fiducia nell’accumulo della ricchezza che si autogoverna, come dimostrano i forti messaggi lanciati a Praga e l’enciclica sociale.
Benedetto XVI si appella all’amore, al rispetto per l’altro e guida la Chiesa sulla strada del dialogo per favorire l’intesa tra diverse culture, tradizioni e sapienze religiose».
Qual è il senso dell’incontro a Praga con le altre confessioni? «Confrontarsi con esponenti di diverse Chiese, comunità ecclesiali e religioni è già un gran segno di pace.
Serve a parlare con realismo, a guardarsi in faccia, a superare le distanze, a fronteggiare l’allontanamento di Dio dalla vita dell’uomo.
Incontrarsi non risolve miracolosamente i problemi, ma crea una prospettiva nuova per vederli.
Trent’anni fa si pensava che magicamente le secolari lacerazioni tra cristiani si sarebbero composte, adesso sappiamo che serve gradualità.
E Benedetto XVI punta su un comune sentire, rifiuta la religione come pretesto per la violenza e indica la via del vivere insieme».
in “La Stampa” del 28 settembre 2009

Una risposta vera al desiderio di felicità dei giovani

Al termine della messa celebrata a Stará Boleslav nella mattina di lunedì 28 settembre, solennità di san Venceslao e festa nazionale della Repubblica Ceca, il Papa ha rivolto un messaggio ai numerosi giovani presenti nella spianata sulla via di Melnik.
Dopo il saluto di un ragazzo, Benedetto XVI ha pronunciato il discorso che pubblichiamo di seguito.
Cari giovani! Al termine di questa celebrazione, mi rivolgo direttamente a voi e innanzitutto vi saluto con affetto.
Siete venuti numerosi da tutto il Paese e anche dai Paesi vicini; vi siete “accampati” qui ieri sera e avete pernottato nelle tende, facendo insieme un’esperienza di fede e di fraternità.
Grazie per questa vostra presenza, che mi fa sentire l’entusiasmo e la generosità che sono propri della giovinezza.
Con voi anche il Papa si sente giovane! Un ringraziamento particolare rivolgo al vostro rappresentante per le sue parole e per il meraviglioso dono.
Cari amici, non è difficile costatare che in ogni giovane c’è un’aspirazione alla felicità, talvolta mescolata a un senso di inquietudine; un’aspirazione che spesso però l’attuale società dei consumi sfrutta in modo falso e alienante.
Occorre invece valutare seriamente l’anelito alla felicità che esige una risposta vera ed esaustiva.
Nella vostra età infatti si compiono le prime grandi scelte, capaci di orientare la vita verso il bene o verso il male.
Purtroppo non sono pochi i vostri coetanei che si lasciano attrarre da illusori miraggi di paradisi artificiali per ritrovarsi poi in una triste solitudine.
Ci sono però anche tanti ragazzi e ragazze che vogliono trasformare, come ha detto il vostro portavoce, la dottrina nell’azione per dare un senso pieno alla loro vita.
Vi invito tutti a guardare all’esperienza di sant’Agostino, il quale diceva che il cuore di ogni persona è inquieto fino a quando non trova ciò che veramente cerca.
Ed egli scoprì che solo Gesù Cristo era la risposta soddisfacente al desiderio, suo e di ogni uomo, di una vita felice, piena di significato e di valore (cfr.
Confessioni i, 1, 1).
Come ha fatto con lui, il Signore viene incontro a ciascuno di voi.
Bussa alla porta della vostra libertà e chiede di essere accolto come amico.
Vi vuole rendere felici, riempirvi di umanità e di dignità.
La fede cristiana è questo: l’incontro con Cristo, Persona viva che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva.
E quando il cuore di un giovane si apre ai suoi divini disegni, non fa troppa fatica a riconoscere e seguire la sua voce.
Il Signore infatti chiama ciascuno per nome e a ognuno vuole affidare una specifica missione nella Chiesa e nella società.
Cari giovani, prendete consapevolezza che il Battesimo vi ha resi figli di Dio e membri del suo Corpo che è la Chiesa.
Gesù vi rinnova costantemente l’invito a essere suoi discepoli e suoi testimoni.
Molti di voi li chiama al matrimonio e la preparazione a questo Sacramento costituisce un vero cammino vocazionale.
Considerate allora seriamente la chiamata divina a costituire una famiglia cristiana e la vostra giovinezza sia il tempo in cui costruire con senso di responsabilità il vostro futuro.
La società ha bisogno di famiglie cristiane, di famiglie sante! Se poi il Signore vi chiama a seguirlo nel sacerdozio ministeriale o nella vita consacrata, non esitate a rispondere al suo invito.
In particolare, in quest’Anno Sacerdotale, mi appello a voi, giovani: siate attenti e disponibili alla chiamata di Gesù a offrire la vita al servizio di Dio e del suo popolo.
La Chiesa, anche in questo Paese, ha bisogno di numerosi e santi sacerdoti e di persone totalmente consacrate al servizio di Cristo, Speranza del mondo.
La speranza! Questa parola, su cui torno spesso, si coniuga proprio con la giovinezza.
Voi, cari giovani, siete la speranza della Chiesa! Essa attende che voi vi facciate messaggeri della speranza, com’è avvenuto l’anno scorso, in Australia, per la Giornata Mondiale della Gioventù, grande manifestazione di fede giovanile, che ho potuto vivere personalmente e alla quale alcuni di voi hanno preso parte.
Molti di più potrete venire a Madrid, nell’agosto 2011.
Vi invito fin da ora a questo grande raduno dei giovani con Cristo nella Chiesa.
Cari amici, grazie ancora per la vostra presenza e grazie per il vostro dono: il libro con le foto che raccontano la vita dei giovani nelle vostre diocesi.
Grazie anche per il segno della vostra solidarietà verso i giovani dell’Africa, che mi avete voluto consegnare.
Il Papa vi chiede di vivere con gioia ed entusiasmo la vostra fede; di crescere nell’unità tra di voi e con Cristo; di pregare e di essere assidui nella pratica dei Sacramenti, in particolare dell’Eucaristia e della Confessione; di curare la vostra formazione cristiana rimanendo sempre docili agli insegnamenti dei vostri Pastori.
Vi guidi su questo cammino san Venceslao con il suo esempio e la sua intercessione, e sempre vi protegga la Vergine Maria, Madre di Gesù e Madre nostra.
Vi benedico tutti con affetto! (©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)

Bisogna sottrarre la cultura alle pressioni di interessi ideologici o economici

I rappresentanti accademici e delle istituzioni culturali della Repubblica Ceca hanno partecipato all’incontro con il Papa svoltosi nella serata di domenica 27 settembre, nel castello di Praga.
Dopo il saluto di uno studente e del rettore dell’Università Carlo, il Pontefice ha pronunciato in inglese il discorso che pubblichiamo di seguito.
Questa traduzione italiana del discorso del Papa è dell’Osservatore Romano.
Signor Presidente, Illustri Rettori e Professori, Cari Studenti ed Amici, L’incontro di questa sera mi offre la gradita opportunità di manifestare la mia stima per il ruolo indispensabile che svolgono nella società le università e gli istituti di studi accademici.
Ringrazio lo studente che mi ha gentilmente salutato in vostro nome, i membri del coro universitario per la loro ottima interpretazione e l’illustre Rettore dell’Università Carlo, il Professor Václav Hampl, per le sue profonde parole.
Il mondo accademico, sostenendo i valori culturali e spirituali della società e insieme offrendo a essi il proprio contributo, svolge il prezioso servizio di arricchire il patrimonio intellettuale della nazione e di fortificare le fondamenta del suo futuro sviluppo.
I grandi cambiamenti che venti anni fa trasformarono la società ceca furono causati, non da ultimo, dai movimenti di riforma che si originarono nelle università e nei circoli studenteschi.
Quella ricerca di libertà ha continuato a guidare il lavoro degli studiosi: la loro diakonia alla verità è indispensabile al benessere di qualsiasi nazione.
Chi vi parla è stato un professore, attento al diritto della libertà accademica e alla responsabilità per l’uso autentico della ragione, e ora è il Papa che, nel suo ruolo di Pastore, è riconosciuto come voce autorevole per la riflessione etica dell’umanità.
Se è vero che alcuni ritengono che le domande sollevate dalla religione, dalla fede e dall’etica non abbiano posto nell’ambito della ragione pubblica, tale visione non è per nulla evidente.
La libertà che è alla base dell’esercizio della ragione – in una università come nella Chiesa – ha uno scopo preciso: essa è diretta alla ricerca della verità, e come tale esprime una dimensione propria del Cristianesimo, che non per nulla ha portato alla nascita dell’università.
In verità, la sete di conoscenza dell’uomo spinge ogni generazione ad ampliare il concetto di ragione e ad abbeverarsi alle fonti della fede.
È stata proprio la ricca eredità della sapienza classica, assimilata e posta a servizio del Vangelo, che i primi missionari cristiani hanno portato in queste terre e stabilita come fondamento di un’unità spirituale e culturale che dura fino a oggi.
La medesima convinzione condusse il mio predecessore, Papa Clemente vi, a istituire nel 1347 questa famosa Università Carlo, che continua ad offrire un importante contributo al più vasto mondo accademico, religioso e culturale europeo.
L’autonomia propria di una università, anzi di qualsiasi istituzione scolastica, trova significato nella capacità di rendersi responsabile di fronte alla verità.
Ciononostante, quell’autonomia può essere resa vana in diversi modi.
La grande tradizione formativa, aperta al trascendente, che è all’origine delle università in tutta Europa, è stata sistematicamente sovvertita, qui in questa terra e altrove, dalla riduttiva ideologia del materialismo, dalla repressione della religione e dall’oppressione dello spirito umano.
Nel 1989, tuttavia, il mondo è stato testimone in maniera drammatica del rovesciamento di una ideologia totalitaria fallita e del trionfo dello spirito umano.
L’anelito per la libertà e la verità è parte inalienabile della nostra comune umanità.
Esso non può mai essere eliminato e, come la storia ha dimostrato, può essere negato solo mettendo in pericolo l’umanità stessa.
È a questo anelito che cercano di rispondere la fede religiosa, le varie arti, la filosofia, la teologia e le altre discipline scientifiche, ciascuna col proprio metodo, sia sul piano di un’attenta riflessione che su quello di una buona prassi.
Illustri Rettori e Professori, assieme alla vostra ricerca c’è un ulteriore essenziale aspetto della missione dell’università in cui siete impegnati, vale a dire la responsabilità di illuminare le menti e i cuori dei giovani e delle giovani di oggi.
Questo grave compito non è certamente nuovo.
Sin dai tempi di Platone, l’istruzione non consiste nel mero accumulo di conoscenze o di abilità, bensì in una paideia, una formazione umana nelle ricchezze di una tradizione intellettuale finalizzata a una vita virtuosa.
Se è vero che le grandi università, che nel medioevo nascevano in tutta Europa, tendevano con fiducia all’ideale della sintesi di ogni sapere, ciò era sempre a servizio di un’autentica humanitas, ossia di una perfezione dell’individuo all’interno dell’unità di una società bene ordinata.
Allo stesso modo oggi: una volta che la comprensione della pienezza e unità della verità viene risvegliata nei giovani, essi provano il piacere di scoprire che la domanda su ciò che essi possono conoscere dispiega loro l’orizzonte della grande avventura su come debbano essere e cosa debbano compiere.
Deve essere riguadagnata l’idea di una formazione integrale, basata sull’unità della conoscenza radicata nella verità.
Ciò può contrastare la tendenza, così evidente nella società contemporanea, verso la frammentazione del sapere.
Con la massiccia crescita dell’informazione e della tecnologia nasce la tentazione di separare la ragione dalla ricerca della verità.
La ragione però, una volta separata dal fondamentale orientamento umano verso la verità, comincia a perdere la propria direzione.
Essa finisce per inaridire o sotto la parvenza di modestia, quando si accontenta di ciò che è puramente parziale o provvisorio, oppure sotto l’apparenza di certezza, quando impone la resa alle richieste di quanti danno in maniera indiscriminata uguale valore praticamente a tutto.
Il relativismo che ne deriva genera un camuffamento, dietro cui possono nascondersi nuove minacce all’autonomia delle istituzioni accademiche.
Se per un verso è passato il periodo di ingerenza derivante dal totalitarismo politico, non è forse vero, dall’altro, che di frequente oggi nel mondo l’esercizio della ragione e la ricerca accademica sono costretti – in maniera sottile e a volte nemmeno tanto sottile – a piegarsi alle pressioni di gruppi di interesse ideologici e al richiamo di obiettivi utilitaristici a breve termine o solo pragmatici? Cosa potrà accadere se la nostra cultura dovesse costruire se stessa solamente su argomenti alla moda, con scarso riferimento a una tradizione intellettuale storica genuina o sulle convinzioni che vengono promosse facendo molto rumore e che sono fortemente finanziate? Cosa potrà accadere se, nell’ansia di mantenere una secolarizzazione radicale, finisse per separarsi dalle radici che le danno vita? Le nostre società non diventeranno più ragionevoli o tolleranti o duttili, ma saranno piuttosto più fragili e meno inclusive, e dovranno faticare sempre di più per riconoscere quello che è vero, nobile e buono.
Cari amici, desidero incoraggiarvi in tutto quello che fate per andare incontro all’idealismo e alla generosità dei giovani di oggi, non solo con programmi di studio che li aiutino a eccellere, ma anche mediante l’esperienza di ideali condivisi e di aiuto reciproco nella grande impresa dell’apprendere.
Le abilità di analisi e quelle richieste per formulare un’ipotesi scientifica, unite alla prudente arte del discernimento, offrono un antidoto efficace agli atteggiamenti di ripiegamento su se stessi, di disimpegno e persino di alienazione che talvolta si trovano nelle nostre società del benessere e che possono colpire soprattutto i giovani.
In questo contesto di una visione eminentemente umanistica della missione dell’università, vorrei accennare brevemente al superamento di quella frattura tra scienza e religione che fu una preoccupazione centrale del mio predecessore, il Papa Giovanni Paolo II.
Egli, come sapete, ha promosso una più piena comprensione della relazione tra fede e ragione, intese come le due ali con le quali lo spirito umano è innalzato alla contemplazione della verità (cfr.
Fides et ratio, Proemio) L’una sostiene l’altra e ognuna ha il suo proprio ambito di azione (cfr.
ibid., 17), nonostante vi siano ancora quelli che vorrebbero disgiungere l’una dall’altra.
Coloro che propongono questa esclusione positivistica del divino dall’universalità della ragione non solo negano quella che è una delle più profonde convinzioni dei credenti: essi finiscono per contrastare proprio quel dialogo delle culture che loro stessi propongono.
Una comprensione della ragione sorda al divino, che relega le religioni nel regno delle subculture, è incapace di entrare in quel dialogo delle culture di cui il nostro mondo ha così urgente bisogno.
Alla fine, la “fedeltà all’uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà” (Caritas in veritate, 9).
Questa fiducia nella capacità umana di cercare la verità, di trovare la verità e di vivere secondo la verità portò alla fondazione delle grandi università europee.
Certamente noi dobbiamo riaffermare questo oggi per donare al mondo intellettuale il coraggio necessario per lo sviluppo di un futuro di autentico benessere, un futuro veramente degno dell’uomo.
Con queste riflessioni, cari amici, formulo nella preghiera i migliori auspici per il vostro impegnativo lavoro.
Prego affinché esso sia sempre ispirato e diretto da una sapienza umana che ricerca sinceramente la verità che ci rende liberi (cfr.
8, 28).
Su di voi e sulle vostre famiglie invoco la benedizione della gioia e della pace di Dio.
(©L’Osservatore Romano – 28-29 settembre 2009)

“In-finitum”

Recita la cartella stampa: “Un’opera d’arte può restare incompiuta per cause di ordine pratico, o intellettuali o filosofiche: si possono avere opere “inconsapevolmente incompiute” come accade, ad esempio, anche nei grandi del Rinascimento italiano, Michelangelo, Leonardo e Tiziano”.
Il sottotesto più plausibile di questa mostra veneziana a palazzo Fortuny, intitolata “In-finitum” (e aperta fino al 15 novembre)allude sia alle opere incompiute di artisti del passato o tutt’ora viventi, sia al rapporto con l’infinito che molti pittori e scultori hanno o hanno avuto.
Quando si dice una mostra sofisticata, snob fino al parossismo.
Per visitarla, rigorosamente in fila indiana e a piccoli gruppi, pare sia consigliabile non aver superato i cinquanta ed essere in ottime condizioni psicofisiche.
Ovvero bisogna vederci bene, non soffrire di claustrofobia, essere super aggiornati sulle novità dell’arte contemporanea.
Solo con tali accorgimenti si potranno evitare quei moti di spaesamento e di irritazione che hanno colpito molti visitatori, chiamati a confrontarsi con un eccesso di penombra e la totale assenza di didascalie.
Ma estrapoliamo ancora una citazione dalla cartella stampa.
“Molti sono gli artisti che si sono misurati con il tema dell’infinito, interpretandolo secondo concetti e rappresentazioni proprie della cultura di appartenenza”.
In effetti l’elenco di duecentoquattordici nomi non è solo nutrito, ma apparentemente senza logica.
Perché c’è il neoclassico Canova accanto al metafisico De Chirico? Non solo, ma Malevic con la Nevelson, Duchamp con Dubuffet.
E che dire di un Giulio Paolini con Piranesi e Rothko con Schifano? Più comprensibile Lucio Fontana con Mariano Fortuny, entrambi maghi dello spazio.
Questi, alcuni degli esempi più significativi dell'”improbabile-impossibile” tema svolto dalla rassegna.
Dunque una mostra complessa per non dire laboriosa.
Ma non certo da bocciare, ottima l’idea, eccellenti i nomi.
Inoltre, al termine del percorso, si ha il regalo aggiuntivo di godere di un attico recentemente recuperato ed aperto al pubblico per l’occasione.
Ogni singolo visitatore se lo conquista salendo lentamente le ripidissime ed impervie scale; inesprimibile l’emozione di chi, dopo tanta oscurità e percorsi accidentati, si ritrova all’improvviso al centro di un ambiente circondato di finestre affacciate, a trecentosessanta gradi, sui tetti, sulle altane, sui canali e su quell’indescrivibile riverbero di luce e mare che fanno del panorama di Venezia qualcosa di unico al mondo.
All’interno dell’open-space, Tatsuro Miki e Axel Vervoordt hanno realizzato un Santuario del Silenzio, installazione che recupera uno spazio realizzato con oggetti trovati, dipinti col fango della laguna.
L’ambizione degli artisti è quella di scoprire la bellezza in luoghi e cose apparentemente insignificanti e rispettare la natura così com’è.
In questa stanza, comunque, ci sono altre installazioni difficili da decodificare, come quella dei quattromila aquiloni in miniatura, in seta e bambù, dell’artista Hashimoto.
Forte, allusiva, spirituale, la presenza dei giapponesi, tanto da banalizzare quasi altri nomi altisonanti come Rothko, Picasso, Fontana, Mirò e Kounellis.
Comunque è proprio l’impatto altamente scenografico di questa “camera con vista” che ci spinge a porci un interrogativo.
Perché non ricordare al grande pubblico i meriti del poliedrico talento di Mariano Fortuny? Mariano, infatti, non ha solo dato il proprio nome all’antico palazzo gotico appartenuto alla famiglia Pesaro, ma è stato un grande innovatore nel campo della scenografia e della scenotecnica, della fotografia e della pittura, nonché della creazione di tessuti stampati ispirati all’antica arte veneziana.
Il palazzo doveva servire per poter lavorare a tutte queste discipline che, per la sperimentazione, avevano bisogno di molto spazio per contenere telai, presse e tamponi lignei, alambicchi, colori e solventi, nonché un’infinita varietà di antichi galloni, passamanerie, stoffe, pezze, vesti, provenienti da ogni angolo della terra.
Mariano Fortuny y Madrazo, nato a Granada nel 1871 era figlio d’arte.
A diciott’anni si stabilì a Venezia ove perfezionò i propri studi artistici tra circoli e accademie e dove frequentò amicizie illustri come Gabriele D’Annunzio, la marchesa Casati, Hugo von Hofmannsthal.
Si inserì molto presto anche nel gran mondo parigino, dove ebbe modo di lavorare ad alcune scenografie teatrali per le quali cominciò a studiare soluzioni innovative.
È sua l’idea della Cupola, un particolare sistema di illuminazione della scena che riesce a servirsi della luce indiretta e diffusa.
Anche se il mondo parigino gli presta ammirata attenzione – è l’epoca di Sarah Bernardt – è soltanto con l’entrata nella sua vita di una mecenate, la contessa di Bearn, che la rivoluzione scenotecnica firmata Fortuny trova la sua completa applicazione.
Tra il 1903 e il 1906, il teatro privato della contessa si avvale non solo di luce indiretta, ma di proiezioni di cieli colorati e nuvole.
La fama esplode subito e il sistema di Fortuny viene adottato dai maggiori teatri europei.
Mariano però non si sente ancora appagato e si dedica alla creazione di stoffe, tessuti stampati e non solo.
Infatti negli anni Trenta inventò la carta da stampa fotografica e gli speciali colori a tempera Fortuny.
Una via di mezzo tra un artista, un mago ed un alchimista, come amavano definirlo gli amici Proust e D’Annunzio, alla sua morte, nel 1949, venne sepolto nel cimitero romano del Verano accanto al padre Mariano Fortuny y Marsal (1838-1874).
Negli anni Cinquanta il fascinoso palazzo veneziano fu donato dalla vedova Henriette alla città di Venezia con un ricco fondo di opere che illustrano la ricerca dell’artista tra Otto e Novecento.
Oltre che per le periodiche mostre, Palazzo Fortuny resta un luogo da esplorare quale specchio del fare inesauribile del suo ispiratore.
Basti pensare all’affascinante salone del piano nobile, con la raccolta dei dipinti, dei tessuti preziosi che rivestono le pareti, delle celebri lampade, che diventa anche uno spazio in cui il vuoto riesce a parlare.
Attraverso i muri e le finestre, le luci e i volumi percepiamo sia la storia del palazzo, che quella dell’operosa attività del suo atelier.
L’itinerario all’interno di questo palazzo-opera d’arte si può concludere nella biblioteca ancora pressoché intatta, dove, volendo fermarsi, ci sarebbero nuovi percorsi da meditare.
All'”In-finito”, ovviamente…
(©L’Osservatore Romano – 26 settembre 2009)

Un ponte tra scuola e lavoro

Il “Piano per l’occupabilità dei giovani”, presentato ieri alla stampa, punta all’integrazione tra apprendimento e lavoro.
Ai giovani «non dobbiamo offrire pesci ma canne per pescare», ha esemplificato Sacconi, e cioé strumenti di formazione effettivamente spendibili nell’impiego.
Invece in Italia oggi si sommano due patologie: da un lato il precoce abbandono delle attività educative, la dispersione scolastica, dall’altro il tardivo ingresso nel mondo del lavoro.
«Noi vogliamo agire – ha detto – per riempire la vita dei giovani sotto i 25 anni di attività utili al loro futuro.
Basta con la generazione né-né, vale a dire quella di chi né studia proficuamente, né lavora».
Il ministro Gelmini ha sottolineato poi come l’Italia sia in coda in Europa per l’abbandono scolastico: nel 1997 la dispersione in Europa era del 19% e in Italia del 30%, oggi la media Ue è scesa al 10% mentre l’Italia si attesta al 19%.
I dati non sono confortanti neanche per quanto riguarda l’età di uscita dall’università: erano 28 anni con il vecchio ordinamento, sono 27 oggi.
I due ministeri costituiranno una «cabina di regia» (costituita da tre rappresentanti ognuno) con il compito di coordinare le iniziative per l’occupabilità dei giovani e monitorare i risultati.
Ma quali sono le sei linee di intervento messe in cantiere? La prima vuole «facilitare la transizione dalla scuola al lavoro», che rappresenta oggi una delle «principali criticità» del nostro Paese per i suoi tempi troppo lunghi e per le sue modalità «non di rado ai limiti della legalità».
In secondo luogo occorre «rilanciare l’istruzione tecnico-professionale».
Terzo, «rilanciare il contratto di apprendistato».
 Poi bisogna «ripensare l’utilizzo dei tirocini formativi, promuovere le esperienze di lavoro nel corso degli studi, educare alla sicurezza sul lavoro, costruire sin da scuola e Università la tutela pensionistica».
Quindi va «ripensato il ruolo della formazione universitaria».
Infine, sesto e ultimo obiettivo, «aprire i dottorati di ricerca al sistema produttivo e al mercato del lavoro».
Il piano governativo punta a investire sulla mobilità degli studenti, «superando la logica della moltiplicazione delle sedi, ampliando il numero delle borse di studio e delle residenze legate al merito» e mettendo in campo strumenti di finanziamento per gli studenti.
Il tutto con l’obiettivo di superare gradualmente il valore legale del titolo di studio, come ha ripetuto lo stesso ministro dell’Istruzione.
Bisogna voltare pagina, spiegano Sacconi e Gelmini nel documento presentato, perché «i già precari equilibri del mercato del lavoro e del sistema previdenziale saranno sempre più messi in discussione dall’invecchiamento della popolazione e dagli squilibri territoriali che produrranno un aumento della pressione migratoria e un progressivo inurbamento.
«Se non introdurremo correttivi – avvertono – persisteranno gli attuali alti livelli di dispersione scolastica e universitaria che non possiamo più permetterci di tollerare».
Un piano d’azione in sei mosse per ricomporre «la frattura tutta italiana fra istituzioni educative e mercato del lavoro».
Per i ministri del Welfare Maurizio Sacconi e dell’Istruzione, Mariastella Gelmini bisogna cambiare rapidamente rotta: l’obiettivo è ribaltare il pronostico negativo che per il 2020 vede «il nostro Paese in una posizione di grave difficoltà rispetto alle prospettive demografiche, occupazionali e di crescita».
Si prevede, infatti, secondo i due stessi ministri, «una forte carenza di competenze elevate e intermedie legate ai nuovi lavori e un disallineamento complessivo della offerta formativa rispetto alle richieste del mercato del lavoro».
In pratica le imprese troveranno sempre meno le professionalità che cercano e i giovani il lavoro per cui hanno studiato.
Già oggi del resto la situazione è molto seria: sul mercato non si trovano 180mila tecnici intermedi.

XXVI Domenica del tempo ordinario (Anno B).

LECTIO – ANNO B Prima lettura: Numeri 11,25-29 In quei giorni, il Signore scese nella nube e parlò a Mo-sè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose sopra i settanta uomini anziani; quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fecero più in seguito.
Ma erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad.
E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda.
Si misero a profetizza-re nell’accampamento.
Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento».
Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mo-sè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mo-sè, mio signore, impediscili!».
Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!».
Il c.
10 dei Numeri ha concluso la raccolta dei testi dedicati alla rivelazione del Sinai e col c.
11 riprende il viaggio faticoso e pieno di imprevisti verso la terra promessa.
Mosè, dopo l’ennesimo lamento del popolo, scoraggiato davanti alla vastità del compito a lui affidato, si lamenta a sua volta col Signore.
«Perché hai agito così male verso il tuo servo? E perché non ho trovato grazia presso di te, così che tu mi abbia messo addosso tut-to il peso di questo popolo? Ho forse concepito io tutto questo popolo? L’ho forse generato io, perché tu mi dica: portalo in collo, come una balia un lattante…
Non posso io solo reg-gere tutto questo popolo…
Ma se tu vuoi trattarmi in tal modo, deh uccidimi» (Num 11,10-12.14-15).
È venuto il momento di non affidarsi più al solo carisma di un capo, ma di perfezionare le istituzioni per assicurare la sopravvivenza del popolo.
Dio viene incontro alla richiesta di Mosè e gli ordina di radunare settanta anziani.
Mosè allora compila la lista degli anziani e li invita intorno alla tenda del convegno.
Siamo così al brano di oggi che si snoda in tre quadri: 1.
«Il Signore scese nella nube e parlò a Mosè: tolse parte dello spirito che era su di lui e lo pose so-pra i settanta uomini anziani» (Num 11,25).
Essi ricevono lo spirito di Mosè.
Il loro carisma, diremmo con la parola moderna, è lo stesso dato alla loro guida.
Essi hanno, per così dire, un potere delegato, che vale se esercitato insieme con Mosè.
All’autore biblico, però, non interessa tanto il problema dell’istituzione di un consiglio in aiuto di Mosè, quanto quello dell’esercizio della profezia.
Egli annota che «quando lo spirito si fu posato su di loro, quelli profetizzarono, ma non lo fece-ro più in seguito» (v.
25).
Il compito di governo e quello profetico non sono legati automati-camente.
2.
«Erano rimasti due uomini nell’accampamento, uno chiamato Eldad e l’altro Medad.
E lo spirito si posò su di loro; erano fra gli iscritti, ma non erano usciti per andare alla tenda.
Si misero a profe-tizzare nell’accampamento» (cf.
v.
26).
Il redattore non dice come per gli altri che «Dio prese lo spirito di Mosè».
Eldad e Me-dad hanno direttamente da Dio senza mediazioni il dono dello spirito, che li abilita a pro-fetizzare.
Non c’è nemmeno l’annotazione, come per gli altri, che «non lo fecero più in segui-to» (v.
25): essi diventano profeti e lo rimangono, anche se non hanno accolto l’incarico di aiutare Mosè nel governo del popolo.
3.
Giosuè allora si fa in dovere di avvertire Mosè e gli consiglia di impedire loro di profeta-re.
Egli non riesce a concepire un rapporto personale e libero con Dio senza la mediazione dell’istituzione e un potere che non sia un’emanazione di quello del capo (cf.
v.
27-28).
Mosè, invece, risponde dimostrando grande umiltà e grandezza d’animo: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spiri-to!», (v.
29).
Mosè, potremmo dire, è aperto a una partecipazione democratica di tutto il popolo al suo governo e, soprattutto, riconosce la libertà di Dio e sa apprezzare i suoi doni in chiun-que li abbia ricevuti.
Seconda lettura: Giacomo 5,1-6 Ora a voi, ricchi: piangete e gridate per le sciagure che cadranno su di voi! Le vostre ricchezze sono marce, i vo-stri vestiti sono mangiati dalle tarme.
Il vostro oro e il vostro argento sono consumati dalla ruggine, la loro ruggi-ne si alzerà ad accusarvi e divorerà le vostre carni come un fuoco.
Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni! Ecco, il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vo-stre terre, e che voi non avete pagato, grida, e le prote-ste dei mietitori sono giunte alle orecchie del Signore on-nipotente.
Sulla terra avete vissuto in mezzo a piaceri e delizie, e vi siete ingrassati per il giorno della strage.
Avete condannato e ucciso il giusto ed egli non vi ha oppo-sto resistenza.
I primi tre versetti del brano del c.
5 della lettera di Giacomo, che leggiamo oggi, sono un avvertimento ai ricchi fatto con immagini costruite per impressionare, risvegliare dal-l’illusione del benessere egoista e distogliere dall’ingiustizia: beni imputriditi, vestiti invasi dalle tarme, oro e argento addirittura arrugginiti! Le ricchezze si tramuteranno in «fuoco» per i proprietari, che le hanno accumulate ingiustamente e che sono insensibili ai bisogni altrui, saranno cioè causa della loro distruzione.
Il fuoco del v.
3 fa pensare non solo a un castigo terreno, ma anche a quello escatologico (cf.
ad es.
Am 1,12-14:7,4; Mt 18,8; Mc 9,43.48).
Siamo ormai entrati nel tempo del giudizio, ma i ricchi non se ne sono accorti: «Avete accumulato tesori per gli ultimi giorni!» (v.
3), «vi siete ingrassati per il giorno della strage».
Le colpe gravissime dei ricchi, enunciate nei vv.
4-6 sono aggravate dall’essere commes-se con continuità, fino all’ultimo giorno di vita, senza badare che la vita è in realtà già fug-gita.
In mezzo alle gozzoviglie non si sono accorti che le grida dei mietitori defraudati «so-no giunte alle orecchie del Signore onnipotente» (v.
4) e si sono fidati, nell’uccidere il giusto, che egli non poteva opporre resistenza (v.
6) e nessuno avrebbe preso le sue difese: la con-danna di chi agisce in questo modo non può che essere definitiva.
Vangelo: Marco 9,38-43.45.47-48 In quel tempo, Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo im-pedirglielo, perché non ci seguiva».
Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un mira-colo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cri-sto, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa.
Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare.
Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala: è meglio per te entrare nella vita con una mano sola, anziché con le due mani anda-re nella Geènna, nel fuoco inestinguibile.
E se il tuo pie-de ti è motivo di scandalo, taglialo: è meglio per te en-trare nella vita con un piede solo, anziché con i due piedi essere gettato nella Geènna.
E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, anziché con due occhi essere gettato nella Geènna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue».
Esegesi L’episodio riportato nei versetti 38-39 del cap.
9 di Marco ha il suo parallelo in Lc 9,49-50, mentre non è riportato da Matteo.
Del v.
38 esistono due lezioni, questa «Maestro, ab-biamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché (oti) non ci se-guiva» assimilata a Lc 9,49 e un’altra: «abbiamo visto uno che scacciava i demoni nel tuo nome e che (os) non era dei nostri e…».
Si tratta di una sfumatura interessante per fare la storia della redazione del testo e per cogliere l’atteggiamento dei discepoli, ma che non muta la sostanza del fatto.
La proibizione da parte dei discepoli è un sopruso che Gesù stigmatizza nella sua risposta «Non glielo impedite».
I discepoli non sono padroni della potenza del nome di Gesù; essa è data da Dio e solo Dio ne dispone nei tempi e nei modi che egli ha deciso.
L’avvenuto miracolo attesta che chi l’ha operato ha agito con corretta intenzione: «non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me».
Nella chiesa primitiva, secondo il racconto degli Atti (cf.
19,13), si verificavano usi di-storti del nome di Gesù, ma il fallimento smaschera colui che ha tentato di appropriarsi della sua potenza in modo magico o superstizioso.
Il detto ripreso da Gesù: «chi non è contro di noi è per noi» sottolinea lo spirito di apertu-ra e di accoglienza della risposta di Gesù nei confronti dell’atteggiamento precedente dei discepoli.
Non dobbiamo leggere queste parole di Gesù nella forma contraria dell’altro detto: «Chi non è con me è contro di me» (Mt 12,30; Lc 11,23) e così farne una bandiera per escludere.
C’è infatti una enorme differenza fra il «noi» (Lc 9,50 ha addirittura «voi») e il «me», vale a dire fra il gruppo dei discepoli e Gesù stesso.
È da tenere presente poi che l’e-spressione di Gesù «Chi non è con me è contro di me», va letta anche con il seguito: «chi non raccoglie con me disperde», che fa capire che si tratta di una constatazione, non di un giudizio.
Senza Gesù i discepoli non possono far niente, ma la potenza di Dio manifestata in Gesù non è possesso esclusivo dei discepoli.
L’accostamento fatto dalla liturgia di oggi al brano dei Numeri accentua questa inter-pretazione: Gesù rimprovera i discepoli, come Mosè fa con Giosuè, che vuole impedire la profezia non autorizzata.
Il dono dello Spirito di Dio, la profezia, e la potenza dello Spirito che agisce vanno riconosciuti, non autorizzati dai discepoli.
Anzi, come testimonia l’episo-dio dell’incapacità dei discepoli a guarire un indemoniato (cf.
Mc 9,17s) narrato da Marco nello stesso capitolo, non è l’appartenere alla cerchia dei discepoli, che abilita a «cacciare i demoni», ma il dono di Dio e le disposizioni adatte ad accogliere questo dono.
Il detto del versetto 41 è probabilmente inserito a questo punto per la formula «nel no-me».
Luca non lo riporta e Matteo lo inserisce nell’episodio della missione (Mt 10,42).
I detti che seguono sono accumunati dall’espressione: «essere di intralcio» scandalizzo.
Essi sembrano essere stati compilati con un intento catechetico, con formule che aiutano ad essere ritenute a memoria (cf.
V.
TAYLOR, Marco.
Commento al Vangelo messianico, Assisi 1977, 474-476).
Le rinunce sono in vista di «entrare nella vita» zoê distinta da bios, che indica in genere nel Nuovo Testamento la vita in comunione con Dio.
La Geenna era originariamente il nome di una valle ad ovest di Gerusalemme, dove ve-nivano offerti bambini in sacrificio a Moloch (cf.
2Re 23,10; Ger 7,31; 19,5s), sconsacrata da Giosia venne adibita alla bruciatura dei rifiuti.
Essa divenne in seguito simbolo di luogo di pena.
«Essere gettato nella Geenna» in contrasto con «entrare nella vita» significa la rovina spiri-tuale e forse anche la distruzione.
La precisazione «nel fuoco inestinguibile» è fatta per rendere chiaro il simbolo della «Ge-enna» agli ascoltatori che non conoscevano la tradizione legata alla valle di Gerusalemme; insieme con l’aggiunta, «dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue» è un riferi-mento a Is 66,24: «E vedranno i cadaveri degli uomini a me ribelli, che il loro verme non muore e il loro fuoco non si spegne» (cf.
V.
TAYLOR, o.c., 478).
Meditazione Un brano evangelico composito, con espressioni pronunciate da Gesù in varie occasioni e qui raccolte per fornire indicazioni sulla qualità del proprio essere discepoli nella dimen-sione comunitaria.
Il tema del primo avvertimento – il tono generale del testo vuole spiccatamente mettere in guardia da alcuni ‘eccessi’ – viene trattato anche nella prima lettura, tratta dal libro dei Numeri e inerente un fatto avvenuto nel corso del cammino nel deserto, mentre il popolo usciva dall’Egitto per andare verso la terra promessa.
Quando una comunità si struttura e si organizza, manifesta ed evidenzia la propria volontà di crescere, di camminare lungo un itinerario di maturazione.
Non è un cammino facile né immediato: richiede tempo, ascolto, conoscenza e stima reciproche, capacità di valorizzazione delle caratteristiche di ogni per-sona, accoglienza e sopportazione delle inevitabili fragilità, soprattutto il ‘miracolo’ di riu-scire ad armonizzare, con un impiego notevole di energie, tutte le componenti della co-munità stessa.
La testimonianza di Paolo, riportata nei capitoli 12-14 della prima lettera ai Corinzi, è di una attualità e di una concretezza sorprendenti.
Si intuisce – e lo sperimenta immediatamente chi vive in una comunità, a partire da quella familiare – che l’auspicata armonia è sempre precaria e necessita di attenta vigilanza e premurosa cura da parte di tutti i suoi membri, nessuno escluso.
Ma con la grazia del Signore e tanta buona volontà si possono raggiungere buoni, addirittura ottimi risultati! In queste comunità si potrebbe dire che la vita funzioni tanto bene che…
tutto diviene intoccabile, è tanto perfetta che non la si può più modificare in nulla.
Ognuno ha il suo spazio, il suo incarico – che svolge con grande diligenza e professionalità, indipendente-mente che si tratti di liturgia, carità, educazione…
– e la sua azione non può essere intralcia-ta o sostituita da nessun altro.
Quello che era nato come servizio gratuito nell’ambito di una comune sequela del Signore, diviene possesso geloso e intollerante.
Se qualcuno, dal-l’esterno, tenta di entrare nella comunità, viene sottoposto ad un processo di ‘istruzione’ per fargli riconoscere tutta e sola la positività della vita comunitaria.
Figuriamoci cosa può succedere a costui se si azzarda a ipotizzare dei cambiamenti, magari a paventare delle cri-tiche…
Se giunge addirittura – non sia mai! – a fare del bene, magari dello stesso tipo di quello svolto dalla comunità, ma senza il benestare e l’autorizzazione della comunità stes-sa, si può arrivare all’interdizione pubblica…! (cfr.
v.
38).
E allora ci si accorge che non si è poi così lontani da stili e modalità sempre più spesso espressi da entità politiche, sociali, agonistiche.
È vero, queste forse non si fregiano del titolo – davvero qualificativo – di co-munità ma forse anche nelle prime si è un po’ smarrito il senso di questo termine.
C’è chi ha scritto ‘Dio è con noi’ sulle cinture dei soldati, affermando implicitamente che non era pertanto con quanti stavano dall’altra parte della barricata: auguriamoci che queste volgari e indecenti strumentalizzazioni del nome di Dio non raggiungano anche le comunità dei credenti in Cristo.
Ma se ciò avviene, non spaventiamoci: le forze egocentriche dell’uomo rialzano conti-nuamente la testa e davvero la vigilanza e la revisione si impongono a tutti i livelli.
Certo è che se l’efficienza – anche quella del bene – scalza il ruolo delle persone e diviene strumen-to per imporsi sugli altri, allora anche l’altra, severissima, parola di Gesù, riportata al v.
42 e nei versetti seguenti, «chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, sarebbe meglio per lui che gli si mettesse una mola d’asino al collo e fosse gettato nel mare», ci risulta forse meno strana e incomprensibile.
Certamente un paradosso, da non prendere alla lettera, ma, appunto, un serio avvertimento.
Non c’è ‘opera di bene’ che possa calpestare con diritto qualcuno! Quando si smarrisce l’attenzione ai più fragili, esposti, poco istruiti, umili – que-sto il senso del termine piccoli, tali quindi non solo per età – è necessario riaprirsi alla forza vivificante del vangelo per ritrovare la grazia della salvezza, per ricordare innanzi tutto che siamo dei salvati dall’amore del Signore.
Allora anche il gesto semplice e alla portata di tutti del bicchiere d’acqua offerto nel nome di Gesù (cfr.
v.
41), ovvero dato nella gratui-tà rispettosa e attenta alla singola persona, diviene epifania del Regno, speranza di un mondo migliore già qui sulla terra.
 Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica   – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
Il Dio-con-noi «Chiunque voglia fare all’uomo d’oggi un discorso efficace su Dio, deve muovere dai problemi umani e tenerli sempre presenti nell’esporre il messaggio.
È questa, del resto, e-sigenza intrinseca per ogni discorso cristiano su Dio.
Il Dio della Rivelazione, infatti, è il Dio-con-noi, il Dio che chiama e salva e dà senso alla nostra vita; e la sua parola è destinata ad irrompere nella storia, per rivelare a ogni uomo la sua vera vocazione e dargli modo di realizzarla» (Rdc 77).
[…] «Dio stesso, quando si rivela personalmente, lo fa servendosi delle categorie dell’uomo.
Così egli si rivela Padre, Figlio, Spirito d’amore; e si rivela supremamente nell’umanità di Gesù Cristo.
Per questo, non è ardito affermare che bisogna conoscere l’uomo per conosce-re Dio; bisogna amare l’uomo per amare Dio».
(RdC 122).
Amici e amiche di Paolo Ho sempre immaginato il volontariato – senza conoscerlo, naturalmente, solo la non- conoscenza favorisce la certezza – un punto di intersezione tra la vocazione mancata e la consolazione di sé.
Finché ho conosciuto “amici e amiche di Paolo”.
Questi giovani che lo accompagnano nelle pizzerie, nei cinema, nei negozi di dischi usati, dove acquista, a prez-zo di amatore, canzoni e canti popolari di altri tempi, sono gentili, misurati discreti.
In cambio non si aspettano nulla.
Non si aspettano doni né ringraziamenti.
E danno non solo un aiuto, ma ciò di cui gli uomini hanno più bisogno quando non la sentono mai, la simpa-tia.
Paolo passa le vacanze con noi, ma non le considera vacanze.
Non ho ancora capito co-me le consideri e non intendo approfondire.
Immagino che abbia solide ragioni.
Quando ancora gli si dice, dopo quindici anni di ingiunzioni, “Cammina dritto!”, che cosa gli si comunica? Un ordine, un richiamo, una esortazione, un alibi per continuare noi a sperare, una delusione, un rimprovero, una punizione? Spesso ho notato nel suo sguardo qualcosa di diverso dalla insofferenza, una atroce noia dissimulata dalla pazienza.
Se finalmente in vacanza si diverte con il suo gruppo di volontari, dove lo accettano con allegria, senza volerlo cambiare, dobbiamo chiederci il perché? L’imperativo occulto dell’educatore, secondo Droysen, viene compendiato da poche, silenziose, concilianti pa-role: “Tu devi essere come io ti voglio, perché solo così io posso avere un rapporto con te”.
C’è da stupirsi che Paolo sia felice quando non viene più educato? (Giuseppe PONTIGIA, Nati due volte, Mondadori, Milano, 2000, 247-248).
Dio è presente ovunque Non vi è altro sacramento di Dio se non il Cristo, nel quale devono essere vivificati quelli che sono morti in Adamo, poiché «come tutti muoiono in Adamo, così pure tutti ri-cevono la vita in Cristo» (1Cor 15,22), come abbiamo spiegato più sopra.
Perciò Dio, che è ovunque presente e ovunque nella sua totalità, non abita in tutti, ma soltanto in quelli che egli fa diventare suo tempio santissimo o come suoi templi santissimi, strappandoli dal potere delle tenebre e trasferendoli nel Regno del Figlio del suo amore (cfr.
Col 1,13), Re-gno che ha inizio con la rigenerazione.
Da una parte si parla di tempio di Dio in senso sim-bolico, a proposito di quello che viene costruito dalle mani degli uomini servendosi di ma-teriale inanimato, come era il tabernacolo fatto con legno, veli, pelli e altri simili arredi o come anche lo stesso tempio costruito dal re Salomone con pietre, legno e metalli; ma si parla di tempio di Dio anche a proposito della vera realtà figurata da quei templi.
Perciò si dice: «E voi come pietre vive, siete edificati come dimora spirituale» (1Pt 2,5); per lo stesso motivo sta scritto: «Noi infatti siamo templi del Dio vivente, come dice Dio: “Abiterò in lo-ro e camminerò con loro, e sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo”» (cfr.
2Cor 6,16; Lv 26,12).
Non ci deve stupire che Dio compia qualche miracolo attraverso alcuni che non appartengono o non appartengono ancora al tempio [del Signore], cioè in quelli in cui non abita o non abita ancora Dio, come li compiva per mezzo di quel tale che in nome di Cristo scacciava i demoni sebbene non fosse suo discepolo; il Signore ordinò che gli si permettes-se di farlo a lode del suo nome, cosa utile a molti (cfr.
Mc 9,37-39).
Egli afferma che molti nell’ultimo giorno gli diranno: «Abbiamo fatto molti miracoli nel tuo nome» e a costoro non risponderà: «Non vi conosco» (cfr.
Mt 7,22-23) se apparterranno al tempio di Dio che egli santifica abitando in essi.
Anche il centurione Cornelio, prima di essere incorporato in questo tempio mediante la rigenerazione, vide un angelo che gli era stato inviato da Dio e lo sentì dire che le sue preghiere erano state esaudite e le sue elemosine gradite (cfr.
At 10,4).
Dio opera queste cose o da sé, poiché è ovunque presente, o per mezzo dei suoi an-geli.
(AGOSTINO DI IPPONA, Lettere 187,12,34-36, NBA XXIII, pp.
166-168).
«Io appartengo ad altri» Questi occhi, che non sono più miei, non debbono più vedere il mio proprio interesse.
Queste mani, che sono ora di altri, non debbono più fare il mio proprio interesse…
Io appartengo ad altri! Questa dev’essere la tua convinzione, o mio cuore! Tu non devi avere ormai altro pensiero se non il bene di tutte le creature.
(Santideva, buddista).
Essere profeti Il profeta, Signore, non è un depositario di verità, ma un testimone di bene.
Non sa dire cose sublimi, ma le compie.
Annuncia la speranza nella disperazione, la misericordia nel peccato, l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.
Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza, dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza, ma è anche sereno e coraggioso, perché Dio lo ha scelto e amato.
Il profeta fa la scelta di Dio, vive la comunione intima con lui.
Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione ad una pastorale missionaria, significa essere presenti là dove la gente vive, lavora, soffre, gioisce.
Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza che dobbiamo ascoltare e accogliere.
Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi, i monti, le strade.
Ogni cristiano è profeta, è la tua bocca che evangelizza, che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.
Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera là dove scorre la vita della gente.
(A.
Merico)

Il “progetto culturale” ideato e realizzato dai cardinali Ruini e Scola.

Uno di questi segnali è la diffusione a largo raggio in Italia, a partire dal 17 settembre, di un libro curato dal comitato per il progetto culturale della CEI, dal titolo: “La sfida educativa”.
Il libro si presenta come un rapporto su quella che è stata chiamata, anche da Benedetto XVI, “emergenza educativa”.
Un rapporto, cioè, sulla drammatica incapacità che la società di oggi mostra nell’educare le nuove generazioni.
Ma il libro, oltre che un rapporto descrittivo e analitico, è anche una proposta su come affrontare questa emergenza e vincere la sfida.
Il cardinale Ruini, nella prefazione, scrive che in gioco sono “i fondamentali dell’esistenza dell’uomo e della donna, il senso stesso che attribuiamo all’uomo e alla nostra civiltà”.
La sfida educativa non riguarda dunque solo la famiglia, la scuola, la Chiesa, ma la società nel suo insieme.
Capitolo dopo capitolo, il libro la esamina nei diversi ambiti e ad opera di diversi specialisti: anche nel lavoro, nell’impresa, nei consumi, nei mass media, nello spettacolo, nello sport.
La questione dell’educazione sarà l’asse portante dell’azione pastorale della Chiesa italiana nel decennio 2010-2020, come stabilito dalla conferenza episcopale.
Ma col progetto culturale si vuole arrivare a coinvolgere l’intera nazione.
Una prova è che la stampa de “La sfida educativa” è stata affidata a una casa editrice non cattolica ma “laica” per antonomasia, la Laterza.
E proprio nella sede di Roma della Laterza sarà fatta, martedì 22 settembre, la presentazione ufficiale del libro.
Con il cardinale Ruini, con il ministro dell’istruzione, Mariastella Gelmini, con la presidente della confederazione degli industriali, Emma Marcegaglia, e col presidente della casa editrice, Giuseppe Laterza, a fare da moderatore.
Pochi giorni prima, il 10 dicembre, lo stesso Spaemann parlerà a un grande convegno promosso a Roma dal comitato per il progetto culturale della CEI, cioè dallo stesso Ruini.
E siamo a un terzo segnale.
Il convegno avrà per titolo: “Dio oggi.
Con lui o senza di lui cambia tutto”.
Di esso www.chiesa ha già dato notizia.
È impressionante la coincidenza tra il tema di questo convegno e quella che Joseph Ratzinger ha indicato come la “priorità” del suo pontificato: “rendere Dio presente in questo mondo e aprire agli uomini l’accesso a Dio”.
A maggior ragione in un tempo “in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento”.
Lo scorso 9 settembre il cardinale Ruini – presentando a Milano un libro nel quale egli dialoga con l’intellettuale laico Ernesto Galli della Loggia – ha sottolineato l’importanza di questo prossimo convegno su Dio.
In quell’occasione, al suo stesso tavolo, il direttore de “L’Osservatore Romano”, Giovanni Maria Vian, ricordò come al suo inizio, dieci, quindici anni fa, il progetto culturale lanciato da Ruini appariva come “un’araba fenice”, che nessuno capiva cosa fosse, e dove.
Il rettore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Lorenzo Ornaghi, gli ribatté che in realtà il progetto culturale si è poi rivelato “uno sforzo gigantesco di trasformare il messaggio cristiano in cultura popolare”.
L’Università Cattolica è stata ed è una fucina di questo progetto.
Non a caso la nomina e poi la riconferma del “ruiniano” Ornaghi come suo rettore sono stati tra i capitoli più aspramente combattuti della Chiesa italiana negli ultimi anni.
Un’altro strumento cruciale del progetto culturale è stato ed è “Avvenire”.
Non a caso gli avversari di Ornaghi sono stati gli stessi che in questi anni hanno osteggiato anche Boffo come direttore del giornale dei vescovi, facendo circolare contro entrambi false accuse infamanti.
Anche di questo www.chiesa ha dato conto in recenti servizi.
La scelta del successore di Boffo alla direzione di “Avvenire” sarà quindi rivelatrice della volontà o no della conferenza episcopale italiana di continuare nel solco del progetto di Ruini.
Di certo, il cardinale Ruini ha sempre operato in lampante sintonia e col pieno sostegno dell’attuale papa, oltre che del suo predecessore.
E così l’attuale presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco.
Che è stato a colloquio venerdì scorso con papa Benedetto XVI, in vista del consiglio permanente che comincia questa sera con la sua attesa prolusione.
La posta in gioco è il “progetto culturale” ideato e realizzato dai cardinali Ruini e Scola.
C’è chi lo dà per morto.
Ma i fatti provano che è più vivo che mai.
Con tre grosse novità: una proposta al paese su “l’emergenza educativa”, una nuova scuola di teologia applicata a una società “plurale”, un convegno internazionale su “Dio oggi” Un secondo segnale ha per epicentro Venezia ed ha anch’esso un cardinale come suo alto ispiratore: non Ruini ma Angelo Scola, patriarca della città.
I due porporati – non a caso – fanno parte del comitato per il progetto culturale istituito dalla CEI nel 2008, con Ruini presidente.
Scola, a Venezia, è la prova vivente di come il progetto culturale può essere realizzato in forme originali, creativamente e con frutto, in una diocesi tipo.
Il 15 settembre il cardinale Scola ha aperto a Venezia un congresso internazionale dal titolo: “La società plurale”, con relatori studiosi italiani e stranieri di diverse discipline, cattolici e non, da Massimo Cacciari a David Novak, da Ottfried Höffe a Cesare Mirabelli, da Ignazio Musu a Steve Schneck.
Il congresso ha segnato l’avvio a Venezia di un nuovo centro di studi denominato “Alta Scuola Società Economia Teologia”, in sigla ASSET, che ha la finalità di far interagire le diverse discipline, teologia compresa, nell’affrontare le questioni cruciali di un mondo culturalmente “plurale”.
Scola, nell’introdurre il congresso, ha invitato i cristiani a individuare e proporre il “terreno comune” sul quale compiere “compromessi nobili” tra posizioni diverse.
Fermo restando il dovere degli stessi cristiani, qualora il compromesso non fosse possibile, come nel caso dell’aborto o della famiglia, di ricorrere all’obiezione di coscienza e comunque di proseguire la loro “narrazione” a voce alta nella società, nella speranza di un mutamento positivo.
La nuova Alta Scuola è l’ultima nata di una costellazione di iniziative promosse negli ultimi cinque anni dal cardinale Scola e raccolte sotto l’egida dello Studium Marcianum, dal nome del santo patrono di Venezia, l’evangelista Marco, tra le quali la rivista internazionale “Oasis”.
Opererà con seminari, laboratori culturali, corsi estivi, pubblicazioni, lezioni annuali.
La lezione inaugurale, il prossimo 17 dicembre, sarà tenuta dal filosofo Robert Spaemann, dell’università di Monaco.