
BUONE VACANZE

La redazione della Rivista di Religione sospende le sue pubblicazioni fino al 21agosto ed augura a tutti i suoi lettori vancanze serene e distensive.
La Redazione
Intervista ad Hans Küng

L’intervista Signor Küng, ho una zia novantottenne che ha un grosso problema: lei è certa di andare in paradiso e di trovarvi là marito, figli e conoscenti, ma si chiede in che stato siano: giovani, vecchi, malati, sani? Capisco che sua zia abbia tale preoccupazione.
Non si sa che cosa ci si può aspettare al di là della porta della morte, personalmente non posso e non voglio immaginare come sia il paradiso.
Ogni persona ama immaginare, ma deve sapere che sono solo sue immagini.
Viviamo in un’epoca successiva a Copernico e a Darwin – e quindi non possiamo più immaginarci il paradiso come hanno fatto ad esempio Michelangelo o i pittori del Medio Evo o del Barocco.
Io non credo a queste semplicistiche rappresentazioni del paradiso, secondo le quali staremmo seduti su una seggiolina d’oro a cantare “alleluia”.
Papa Benedetto crede sicuramente che in qualche modo nell’aldilà si sta seduti tutt’intorno.
Non molto tempo fa diceva che il suo predecessore, Giovanni Paolo II, era affacciato al balcone della casa del Signore a guardarci: allora c’è un morto che guarda giù.
Questa è una rappresentazione sorprendentemente ingenua.
Il Papa si esprime a volte in maniera premoderna e popolare – un’eredità della sua fede bavarese contadina.
Naturalmente anche lui sa che il paradiso non è una dimora al di sopra delle nuvole con finestre dal cielo.
I cristiani illuminati capiscono che nell’aldilà non viene risvegliata alcuna salma, ma che – come diciamo nella liturgia – avviene una totale trasformazione del modo di essere.
Sono curioso di scoprire come sarà nell’aldilà.
Signor Küng, della sua vita nell’aldiqua lei è sicuramente deluso.
Perché mai? Ha scritto più di 60 libri, più di 30 000 pagine e…
Lavoro molto volentieri.
In tutta modestia, credo di aver prodotto qualcosa che rende il cristianesimo, la religione, l’etica nuovamente comprensibili all’uomo moderno.
Nonostante il suo ardore…
Non sono stato e non sono un fanatico, né un santo, scrivo per le persone che sono in ricerca.
Malgrado il suo impegno, dal 1989 le due maggiori Chiese [in Germania] hanno perso più di sette milioni di fedeli, e alla preghiera del mercoledì a Roma partecipano annualmente due milioni e mezzo di persone in meno rispetto ad alcuni anni fa con Giovanni Paolo II.
Lei si è consumato le dita a scrivere, però inutilmente.
No, ho avuto successo! Un numero incalcolabile di persone mi scrive – quotidianamente -, che io sono stato per loro un aiuto.
Io sono diventato, involontariamente, un portavoce della leale opposizione a sua santità.
Un portavoce che viene preso sul serio – anche dallo stesso papa.
Sono presente dentro e fuori la Chiesa.
Senza di me molti avrebbero abbandonato la Chiesa, molti mi dicono: “Finché resiste lei dentro la Chiesa, resisto anch’io”.
Cionondimeno, la sua battaglia l’ha persa.
Il suo antagonista Ratzinger…
Non è il mio antagonista, e la mia professione non è critico del papa.
Sono un riformatore, non un sovversivo.
E non sopporto di essere sempre chiamato ribelle della Chiesa o…
Il suo antagonista è diventato papa, entra nella storia.
Lei sarà solo una nota a piè di pagina.
È piuttosto sfacciato quello che sta dicendo, lei non può vedere nel futuro, lei…
Ma sarà così! Crede? Come una persona entri nella storia, lo decide solo la storia stessa.
Non è importante la funzione, e neanche il potere.
Un esempio: Tommaso d’Aquino – non voglio mettermi alla sua altezza – aveva volontariamente rinunciato a qualsiasi incarico importante nella Chiesa.
Papa Innocenzo III, suo coltissimo contemporaneo, fu il più potente di tutti i papi – lei conosce Innocenzo III? No.
Questo papa, un tempo potentissimo, oggi è una nota a piè di pagina, comunque ancora importante per gli storici.
Però Tommaso d’Aquino viene costantemente citato ancor oggi come un’autorità.
No, non mi sento un perdente.
È chiaro che lei deve dire e la deve vedere così.
Certo che la vedo così! Ma c’è un’altra cosa che mi rattrista nella vita: che Joseph Ratzinger, che nel 1966 ho chiamato all’università di Tubinga, non abbia proseguito sulla stessa via della riforma come ho fatto io.
Allora non avremmo probabilmente oggi questa spaccatura della Chiesa cattolica in Chiesa alta e Chiesa bassa.
Io rappresento la Chiesa bassa, lui tiene alla Chiesa alta.
Tutto il mio lavoro era indirizzato a che la Chiesa alta cambiasse.
E in questo, e qui ha ragione lei, io ho avuto solo un successo limitato.
Ma: chi ha vinto una battaglia è ancora lontano dall’aver vinto la guerra.
Io credo che l’attuale politica del Vaticano sarà un fiasco.
Il tentativo di risospingerla indietro nel Medio Evo la svuota.
Non si possono riportare in vita i vecchi tempi! Ma mi dica un po’, perché 200 anni dopo l’Illuminismo si dovrebbe ancora credere in Dio? Sì, proprio come persona illuminata le dico: ci sono mille motivi per non credere.
In questo ha ragione.
Di fronte alla miseria nel mondo e nella propria vita si può o dubitare di Dio o avere fiducia in Dio.
Non c’è nessuna prova strettamente scientifica a favore di Dio, la sua esistenza non può essere fondata su argomenti logicamente convincenti.
Proprio secondo Immanuel Kant: la pura ragione teoretica al di fuori di tempo e spazio non è competente.
Quindi l’esistenza di Dio non può basarsi su argomenti logicamente convincenti.
Ma davvero! Non scherzi! Lei ha certamente, da un lato, ancora in mente la sua fede di bambino, però, d’altro canto, anche la sua ragione non ha competenza nella questione della fede.
L’esistenza di Dio è una questione di fiducia ragionevole.
Fiducia ragionevole? A me pare che sia piuttosto irragionevole, e penso che Mark Twain abbia ragione: “La fede consiste nel credere in qualcosa che si sa non essere vero.” Proprio una brutta battuta di spirito.
Io però le rispondo molto seriamente con una frase della lettera agli Ebrei.
“La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono.” Quindi: nonostante i suoi dubbi ci sono mille motivi per cui una persona – nonostante tutte le contrarietà della vita – può credere in Dio.
Me ne dica uno.
Su questo ho proprio appena scritto un intero libro: “Quello in cui credo”.
La fede è innanzitutto un problema di fiducia di fondo.
Fiducia nella vita.
Vorrei invitarla ad ammettere Dio almeno come ipotesi.
Prenda la questione filosofica fondamentale: perché una cosa esiste al posto di non essere, oppure l’inspiegabile origine delle fondamentali costanti della natura o della velocità della luce.
Ma anche il problema dell’infinito in matematica, le tracce della trascendenza nella musica – tutto questo può essere un invito a credere in Dio.
Lo scienziato Richard Dawkins le risponderebbe, a queste parole che risuonano così belle…
…io direi piuttosto: parole che risuonano vere! Lui direbbe: tutte le religioni insegnano cose senza senso e sono pericolose per l’umanità.
Non mi parli qui di questi nuovi atei! Dawkins è un ideologo che reagisce ad un’immagine di Dio superata e argomenta in modi estremamente polemici, senza tuttavia portare nuove conoscenze.
È uno studioso di scienze naturali, senza apertura a problemi filosofici.
Io mi sono occupato dei grandi atei classici, ho analizzato Feuerbach, Marx, Nietzsche, Freud.
Loro costituiscono per me una sfida, non questo…
“La religione, dice Marx, è il sollievo della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, lo spirito di situazioni senza spirito.
È l’oppio del popolo.
L’abolizione della religione in quanto illusoria felicità del popolo è la condizione necessaria per la sua vera felicità: la condizione necessaria per rinunciare alle illusioni della sua situazione, la condizione necessaria per rinunciare ad una situazione che ha bisogno di illusioni.” Marx ha ragione: la religione può essere l’oppio del popolo.
La religione può essere un mezzo di acquietamento e consolazione sociale.
Ma non deve esserlo.
Le analisi di Marx esprimono, forse contro la sua volontà, anche qualcosa di positivo, e cioè che la religione può essere molto di più – una protesta contro le condizioni che abbiamo, protesta contro le circostanze a causa delle quali soffriamo.
Questa è un’interpretazione arrischiata.
“La critica della religione”, dice ancora Marx, è in nuce la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola Religione solo riverbero? In questo Marx – come già Feuerbach – fa un cortocircuito.
La religione è più di una proiezione.
Come la fede, la speranza e l’amore, essa non si esaurisce solo nel fatto di far sopportare la miseria agli uomini in maniera cosciente o in maniera rassegnata! No, la religione può essere un motivo eccezionalmente forte, come disse Marx, non solo per interpretare il mondo in modo diverso, ma per cambiarlo.
Mio Dio, ma che mondo è mai quello che ha creato il suo Dio.
Mentre noi stiamo qui a parlare crescono senza sosta le montagne di cadaveri.
Ogni cinque secondi muore un bambino al di sotto dei dieci anni di fame o di sete.
Stiamo parlando da trenta minuti scarsi – 360 bambini morti! Perché Dio non ha impedito il male? Già il filosofo greco Epicuro rivolge nel 300 avanti Cristo questa domanda contro la religione.
Ma forse dovremmo prima chiederci: perché gli uomini non hanno impedito il male? Rispetto al male, ogni persona che crede in un Dio buono e vivo è confrontato in questo mondo ad un mistero che…
Lei lo chiama mistero il far morire di fame dei bambini? No.
Il mistero è perché Dio non ha impedito il male.
Il dolore immeritato di bambini non può essere giustificato con nessuna argomentazione.
“Perché soffro? Questa è la roccia dell’ateismo” viene detto nella tragedia di Büchner “La morte di Danton”.
Sì, perché soffriamo? Questa è la domanda originale dell’uomo.
Lei, Signor Luik, sa dare una risposta? Lei, Signor Küng, lei è il cristiano credente.
Io aspetto con ansia la sua risposta.
Che non è facile.
Appartiene al mistero anche il perché gli uomini non facciano di più contro il dolore.
Ad ogni modo non possiamo attribuire tutta la colpa a Dio.
L’umanità proprio nel “progredito” XX secolo ha sperimentato il male in una misura fino ad allora sconosciuta: stragi di stato, Auschwitz, l’industrializzazione del massacro.
Come ha potuto Dio permettere questo? Il mistero della sofferenza non può essere spiegato con i mezzi della ragione.
Troppo facile.
Né attraverso la psicologia, né attraverso la filosofia né attraverso la morale il buio della sofferenza si lascia trasformare in luce.
Dio rimane l’incomprensibile.
Signor Küng, al di là delle parole difficili: il suo Dio era ad Auschwitz? Parole difficili? Dell’orrore dell’olocausto, Dio non è responsabile.
Certamente, se Dio esiste – e io ci credo -, allora Dio era anche ad Auschwitz.
Ma che Dio è, che sta ad Auschwitz e non impedisce Auschwitz! Questo è un grido di protesta che io capisco.
Ed è mia convinzione che anche con ardite speculazioni su un Dio che soffre, la mostruosa realtà di Auschwitz non può essere liquidata.
Qui si addice una teologia del silenzio.
Ma perfino ad Auschwitz era possibile la fede: credenti di religioni diverse hanno rivolto a Dio la loro preghiera perfino nella fabbrica della morte, perché erano convinti che, nonostante tutto, Dio esistesse.
E lei, da parte sua, deve chiedersi: il suo ateismo spiega l’olocausto? La sua mancanza di fede spiega il mondo, riesce a consolare chi è nella sofferenza senza senso? No! Nessuno dei grandi spiriti dell’umanità che io ho letto ha risolto il problema originale della sofferenza e del male.
Ma neanche il cristianesimo, che – è quasi assurdo – parla del Dio buono, benevolo, indulgente.
Un Dio che tutto sa, che tutto guida.
Questa è una rappresentazione medioevale del Dio onnipotente, che guida tutti gli eventi cosmici.
Allora ho studiato male la religione! No, Dio è spirito, che agisce dentro, con e in mezzo agli uomini, ma che rispetta la loro libertà.
E questa libertà comprende inevitabilmente anche il male.
L’uomo che soffre non può giungere al segreto dei progetti del creatore sul mondo.
La sofferenza, enorme, insensata – tanto individuale che collettiva – non può essere capita in teoria, ma nel migliore dei casi superata praticamente.
Gli ebrei – anche i cristiani – come estrema sofferenza hanno la figura di Giobbe davanti agli occhi.
Quest’uomo perde, senza alcuna colpa, tutto: il patrimonio, la famiglia, la salute, diventa mendicante, viene colpito dalla lebbra.
Si lamenta con Dio e rifiuta tutti gli argomenti a favore di Dio.
Con questo mostra che l’uomo non necessariamente deve accogliere la sofferenza.
Ha il diritto di insorgere, di protestare, di ribellarsi contro un Dio che gli appare crudele, perfido e scaltro – e attraverso queste prove Giobbe ritrova Dio! La prego, questa è una favola.
Questa è letteratura mondiale altamente drammatica.
Ma più ancora di Giobbe, per me come cristiano è Gesù, quel Gesù che viene abbandonato, flagellato, che viene schernito, che muore lentamente sulla croce, colui che ha anticipato la terribile esperienza dell’olocausto.
Per lei come cristiano questa morte è certamente una morte salvifica, che…
…
che rinvia oltre la miseria, il dolore, la morte! Perfino per degli scettici come il marxista Horkheimer era insopportabile credere che la miseria avesse l’ultima parola.
Deve esserci una ultima giustizia proprio per i poveri, i miseri di questo mondo! E i bambini che soffrono senza colpa, possono avere il conforto che questa vita non è tutto, ma che hanno davanti a sé una vita senza dolore.
Lo dice lei stesso: la fede è oppio.
No, non è oppio, è conforto.
Lei ha ora più di 80 anni e…
…
sono cosciente del fatto che la mia fine terrena è vicina.
Prima pensavo – la mia è stata una vita faticosa – che non sarei arrivato ai 50 anni.
Ora faccio i conti con la morte, ogni ora può essere l’ultima.
Chi ogni giorno ha la morte davanti agli occhi, ne ha meno paura.
Sono pronto.
Ho vissuto sette vite.
Non mi permetto alcuna nostalgia di vecchiaia, non mi attacco spasmodicamente al voler essere giovane.
A volte mi chiedono: “Come vorrebbe morire?” Sorridendo rispondo: “Durante un viaggio di lavoro!” Ed ora aggiungo: “Ad ogni modo non in una casa di cura.” Il suo amico, il professore di retorica Walter Jens, è sprofondato in un mondo al di là del pensiero, al di là delle parole, è demente.
È stato un difensore dell’aiuto attivo a morire, sua moglie Inge dice: “Non ha colto il momento giusto in cui avrebbe potuto passare dalla vita alla morte.” Per me la vita è un dono di Dio, di cui sono responsabile.
E questo fino all’ultimo respiro.
È rimessa alla mia responsabilità e non a quella della Chiesa o del papa o di un prete, di un medico, di un giudice.
È mia responsabilità e in definitiva sono responsabile della più alta istanza: Dio.
Dico solo che non vorrei mancare il momento giusto.
Che cosa si aspetta alla fine della vita? Come ho detto, sono curioso.
La morte è per tutti una prima.
Ho la fondata fiducia di non sprofondare nel nulla.
“Questo è tutto?”, Kurt Tucholsky, che si è tolto la vita nel 1935, ha scritto: “Se dovessi morire adesso, direi: ‘Questo è tutto?’ – e: ‘Non avevo capito proprio bene.” E: “È stato un po’ rumoroso.” Ma no, non la penso così! Non è tutto.
Io credo alla vita eterna.
Walter Jens mi diceva una volta che avrebbe incontrato volentieri Heinrich Böll e Willy Brandt lassù.
Naturalmente anch’io incontrerei molto volentieri determinate persone.
Preferirei ad ogni modo Mozart a Brandt, e mi piacerebbe conoscere Tommaso Moro.
Ma che ne so? Le fantasie non hanno nulla a che fare con la serietà del morire.
E che cosa dirà a Dio, nel caso ci fosse, quando le chiederà: “Che cosa hai fatto per rendere il mondo migliore?” So che non mi farà questa domanda, perché lo sa anche senza chiederlo.
«Ora di religione islamica»

Si parla molto di Islam ad Asolo e non potrebbe essere diversamente, visto che qui si svolge il workshop «Le nuove politiche per l’immigrazione», seconda edizione dei «Dialoghi asolani», laboratorio di confronto bipartisan animato dalle Fondazioni FareFuturo e ItalianiEuropei e dai rispettivi politici di riferimento, Gianfranco Fini e Massimo D’Alema.«Eccoci qui ad Asolo, nel covo di congiurati», scherza Lucia Annunziata, riferendosi ai timori di un patto trasversale che scardini l’attuale maggioranza e rivolgendosi all’intervistato Beppe Pisanu.
«Domani ne arrivano altri due», risponde a tono l’ex ministro.
Che naturalmente nega complotti: «Se il dialogo non viene praticato neanche nel buio di questa crisi, c’è davvero da temere per l’avvenire del Paese».
PER ATTIRARE NELLE SCUOLE I RAGAZZI MUSULMANI E il dialogo parte, con il segretario generale di FareFuturo Urso: «Potrebbe essere utile, per attirare nei nostri istituti i ragazzi musulmani, prevedere un’ora di storia della religione islamica».
E gli insegnanti? Saranno imam? «Dovrebbero essere docenti riconosciuti, italiani che parlano in italiano.
Al limite anche imam, a patto che abbiano i requisiti e che siano registrati in un apposito albo.
Stiamo parlando di insegnanti reclutati con criteri pubblici».
Nel documento di ItalianiEuropei, a cura di Marcella Lucidi, sul tema ci si tiene più sul vago, auspicando «una riflessione non occasionale» e chiedendo un insegnamento che «promuova la conoscenza della cultura e della religione di appartenenza dei ragazzi e delle loro famiglie».
Urso rilancia anche l’idea di «classi miste temperate» e dice no al velo negli uffici pubblici.
NORME SULL’IMMIGRAZIONE Ma è soprattutto sulle norme per l’immigrazione che si colgono grandi punti di convergenza.
A leggere il paper di FareFuturo, a cura di Valentina Cardinali, si coglie subito un dissenso netto dalle posizione leghiste: «No a scontri di civiltà e no alla strumentalizzazione delle paure».
Ma si nota anche una divergenza con Silvio Berlusconi, che ha dichiarato di essere contrario a un Paese «multietnico»: «L’Italia già da alcuni decenni è senza dubbio un paese multietnico » spiega il dossier.
FareFuturo cita il progetto di legge bipartisan Granata-Sarubbi e lancia alcune proposte: cittadinanza dopo cinque anni, in cambio di esame di lingua e test di cultura, diritto di voto amministrativo, status giuridico a 10 anni per i figli di immigrati nati in Italia, meno discrezionalità dell’atto di concessione.
Non che FareFuturo rinneghi le politiche di contrasto del governo, a partire dal reato di clandestinità e dai respingimenti: «Ma sono solo una faccia della medaglia – spiega Urso – .
Servono anche integrazione e cittadinanza e dobbiamo allargare le maglie sui flussi».Il dossier di ItalianiEuropei concorda in alcuni punti (cittadinanza, diritto di voto), in altri va oltre (cittadinanza subito ai figli degli stranieri nati in Italia) e lancia il concetto di «cittadinanza sociale», chiedendo di svincolare il permesso di soggiorno dalla durata del contratto di lavoro.
Non è escluso che oggi, presenti D’Alema e Fini, si pongano le basi per arrivare a un documento congiunto.
Alessandro Trocino 17 ottobre 2009 L’ora di religione? Cattolica, ma anche islamica.
L’idea è del viceministro Adolfo Urso, che propone l’introduzione nelle scuole pubbliche e private di una nuova materia, facoltativa e alternativa a quella cattolica, per evitare di lasciare i piccoli musulmani «nei ghetti delle madrasse e delle scuole islamiche integraliste».
E anche il Vaticano è favorevole «Giusto consentire ai bimbi di un’altra religione di avere questa opzione» Massimo D’Alema commenta positivamente la proposta del vice ministro Adolfo Urso, per programmare nelle scuole l’insegnamento della religione islamica in alternativa alla religione cristiana, almeno per gli alunni di fede islamica.
«Mi sembra una idea condivisibile – ha detto D’Alema ad Asolo – non capisco perché non si debba consentire a bimbi di religione islamica, come opzione alternativa, l’insegnamento della loro religione».
APERTURA ANCHE DEL VATICANO Anche il Vaticano ha aperto all’ipotesi di una ora di religione musulmana a scuola e, per bocca del cardinale Renato Raffaele Martino, sottolinea che, assicurando i debiti “controlli”, si tratterebbe, oltre che di un “diritto”, di un meccanismo che permetterebbe di evitare che i giovani di religione islamica finiscano nel “radicalismo”.
«Se si ammettono gli immigrati, essi vengono con la loro cultura e la loro religione e devono inculturarsi nel paese dove arrivano», spiega il presidente del Pontificio consiglio Giustizia e pace.
«A meno che non scelgano di convertirsi al cristianesimo – perché la libertà di religione è un principio sancito da Dichiarazione dei diritti dell’uomo – se scelgono di conservare la loro religione hanno diritto ad istruirsi nella loro religione», ha affermato il cardinal Martino.
LA LEGA RIBADISCE IL SUO NO «Con la Lega Nord in questa maggioranza non potrà realizzarsi in nessun modo la proposta di Urso per l’introduzione dell’ora di religione islamica.
Non lo permetteremo mai: noi le nostre radici cristiane le difenderemo fino in fondo».
Resta questa la linea della Lega, ribadita di nuovo da Federico Bricolo, presidente della Lega Nord al Senato, che aggiunge: «Urso, uno dei leader di An, ha voluto il posto come viceministro allo Sviluppo economico e quindi pensi a lavorare nel suo ministero, che di cose da fare a sostegno dei nostri imprenditori e lavoratori ce ne sono tante e la smetta di proporre le stesse cose di D’Alema e della sinistra».
IL CARDINAL TONINI: «TROPPO PRESSAPOCHISMO» La proposta di introdurre un’ora di religione islamica nelle scuole italiane, pure nelle sue «buone intenzioni», non trova invece d’accordo il cardinale Ersilio Tonini che afferma: «capisco le intenzioni ma dietro queste proposte c’è pressapochismo.
Ci vuole massima prudenza nell’approccio con l’Islam».
Secondo il porporato, «si tratta di un’idea impraticabile, non attualizzabile nel nostro momento storico».
Il cardinale precisa il suo disappunto: «pensare che l’Islam sia un gruppo completo, esaustivo, è un errore.
L’Islam ha mille espressioni, collegamenti, imparentamenti.
Insomma, con i valori della nostra civiltà non ha nulla a che vedere».
17 ottobre 2009
XXIX Domenica del tempo ordinario (anno B).

Comunità alternativa «La Chiesa si sente spinta non solo a formare i suoi figli, ma a lasciarsi formare essa stessa vivendo al suo interno secondo modelli e relazioni fondate sul vangelo, secondo quelle modalità che sono capaci di esprimere una comunità alternativa.
Cioè una comunità che, in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali e di tipo consumistico, espri-ma la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, cementante dalla mutua accettazio-ne e dal perdono reciproco».
(Card.
C.M.
Martini) Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date Ti offro, Signore, il mio servizio lo affronto serenamente con il Tuo aiuto, per la Tua gloria, come collaborazione all’opera creatrice del Padre per il benessere di tutti.
Cristo, insegnami a pensare al mio servizio, non soltanto come una fatica, ma come occasione per servire amando il mio prossimo e così incontrare Te, che mi hai redento e vegli su di me.
Spirito Santo, aiutami a rendere l’ambiente del servizio più umano e cristiano perché aiuti tutti a ritrovarci fratelli.
(Card.
Giovanni Battista Montini, futuro Papa Paolo VI).
Preghiera per il servizio Signore, mettici al servizio dei nostri fratelli che vivono e muoiono nella povertà e nella fame di tutto il mondo.
Affidali a noi oggi; dà loro il pane quotidiano insieme al nostro amore pieno di comprensione, di pace, di gioia.
Signore, fa di me uno strumento della tua pace, affinché io possa portare l’amore dove c’è l’odio, lo spirito del perdono dove c’è l’ingiustizia, l’armonia dove c’è la discordia, la verità dove c’è l’errore, la fede dove c’è il dubbio, la speranza dove c’è la disperazione, la luce dove ci sono ombre, e la gioia dove c’è la tristezza.
Signore, fa che io cerchi di confortare e di non essere confortata, di capire, e non di essere capita, e di amare e non di essere amata, perché dimenticando se stessi ci si ritrova, perdonando si viene perdonati e morendo ci si risveglia alla vita eterna.
(Madre Teresa di Calcutta) Rinascere dalle ceneri del tuo dolore Non biasimare altri per la tua sorte, perché tu e soltanto tu hai preso la decisione di vi-vere la vita che volevi.
La vita non ti appartiene, e se, per qualche ragione, ti sfida, non dimenticare che il dolore e la sofferenza sono la base della crescita spirituale.
Il vero suc-cesso, per gli uomini, inizia dagli errori e dalle esperienze del passato.
Le circostanze in cui ti trovi possono essere a tuo favore o contro, ma è il tuo atteggiamento verso ciò che ti ca-pita quello che ti darà la forza di essere chiunque tu voglia essere, se comprendi la lezione.
Impara a trasformare una situazione difficile in un’arma a tuo favore.
Non sentirti sopraf-fatto dalla pena per la tua salute o per le situazioni in cui ti getta la vita: queste non sono altro che sfide, ed è il tuo atteggiamento verso queste sfide che fa la differenza.
Impara a rinascere ancora una volta dalle ceneri del tuo dolore, a essere superiore al più grande de-gli ostacoli in cui tu possa mai imbatterti per gli scherzi del destino.
Dentro di te c’è un es-sere capace di ogni cosa.
Guardati allo specchio.
Riconosci il tuo coraggio e i tuoi sogni, e non asserragliarti dietro alle tue debolezze per giustificare le tue sfortune.
Se impari a co-noscerti, se alla fine hai imparato chi tu sei veramente, diventerai libero e forte, e non sarai mai più un burattino nelle mani di altri.
Tu sei il tuo destino, e nessuno può cambiarlo, se tu non lo consenti.
Lascia che il tuo spirito si risvegli, cammina, lotta, prendi delle decisio-ni, e raggiungerai le mete che ti sei prefissato in vita tua.
Sei parte della forza della vita stessa.
Perché quando nella tua esistenza c’è una ragione per andare avanti, le difficoltà che la vita ti pone possono essere oggetto di conquista personale, non importa quali esse siano.
Ricordati queste parole: “Lo scopo della fede è l’amore, lo scopo dell’amore è il ser-vizio”.
(Sergio BAMBARÉN, La musica del silenzio, Sperling & Kupfer, 2006, 114-116).
Non sapevano che cosa chiedevano Marco afferma che soltanto Giacomo e Giovanni si avvicinarono al Signore e lo prega-rono, perché vede che erano soprattutto loro che volevano porre quella domanda al Signo-re e sa che essi avevano spinto la madre a chiedere.
Bisogna credere che l’affetto femminile della madre e l’animo ancora carnale dei discepoli siano stati spinti a domandare, soprat-tutto perché essi ricordavano le parole del Signore: «Quando il Figlio dell’uomo sederà nel luogo della sua maestà, anche voi sederete sui dodici troni per giudicare le dodici tribù di Israele» (Mt 19,28) e sapevano di essere amati in modo speciale dal Signore a confronto con gli altri discepoli, e più volte, insieme con Pietro, erano stati fatti partecipi di misteri che agli altri rimanevano nascosti, come ricorda il vangelo.
Per questo, infatti, anche a loro, come a Pietro, era stato imposto un nome nuovo; come Pietro, che prima si chiamava Si-mone, per la fortezza e la stabilità della fede inespugnabile meritò il nome di Pietro, così essi furono chiamati Boanerghés, cioè figli del tuono (cfr.
Mc 3,16-17), perché avevano u-dito insieme con Pietro la voce gloriosa del Padre che scendeva sul Signore (cfr.
Mt 17,5), conoscevano i segreti dei misteri più che gli altri discepoli e, cosa più essenziale, sentiva-no di aderire con cuore integro al Signore e di amarlo col più grande affetto.
Perciò crede-vano che sarebbe stato possibile per loro sedergli più da vicino nel Regno, soprattutto per-ché vedevano che Giovanni per la singolare purezza di cuore e di corpo era tanto amato da lui da posare il capo sul suo petto durante la cena (cfr.
Gv 13,23).
[…] Non sapevano che cosa chiedevano perché pensavano che ciascuno potesse sce-gliere a proprio arbitrio quale posto e quale ricompensa avrebbe ottenuto in dono nella vi-ta futura e non pregavano invece il Signore di condurre a buon fine, ben meritandolo, la fiducia e la speranza che avevano, consapevoli che qualsiasi cosa di buono avessero fatto, egli li avrebbe ricompensati in misura infinitamente più grande.
Certo è lodevole la loro semplicità, per cui con devota fiducia chiedevano di sedere nel Regno vicino al Signore, ma molto sarà lodata la sapiente umiltà di chi, consapevole della propria fragilità, diceva: «Ho scelto di essere disprezzato nella casa di Dio piuttosto che abitare sotto le tende dei peccatori» (Sal 83 [84],11).
Non sapevano quel che chiedevano essi che domandavano al Signore i pre-mi sublimi piuttosto che la perfezione delle opere.
Ma il maestro celeste, in-dicando che cosa anzitutto dovevano chiedere, li richiama alla via della fatica con la quale avrebbero conseguito il premio della ricompensa.
Dice: «Potete voi bere il calice che io sto per bere?» (Mc 10,38).
[…] Che tutti i fedeli debbano seguire quest’ordine nella vita lo inse-gna l’Apostolo quando dice: «Se siamo diventati come una medesima pianta con lui in conformità alla sua morte, così lo saremo anche per conformità alla sua resurrezione» (Rm 6,5).
(BEDA IL VENERABILE, Omelie sui vangeli 2,21, CCL 122, pp.
336-338).
Preghiera Signore Gesù, come Giacomo e Giovanni anche noi spesso «vogliamo che tu ci faccia quel-lo che ti chiediamo».
Non siamo infatti migliori dei due discepoli.
Come loro abbiamo però ascoltato il tuo insegnamento e vorremmo ricevere da te la forza per attuarlo; quella forza che ha poi condotto i figli di Zebedeo a testimoniarti con la vita.
Gesù, aiutaci a comprendere l’amore che ti ha spinto a bere il calice della sofferenza al nostro posto, a immergerti nei flutti del dolore e della morte per strappare dalla morte e-terna noi, peccatori.
Aiutaci a contemplare nel tuo estremo abbassamento l’umiltà di Dio.
Liberaci dalla stolta presunzione di asservire gli altri a noi stessi e infondici nel cuore la carità vera, che ci farà lieti di servire ogni fratello con il dono della nostra vita.
Mite Servo sofferente, che con il tuo sacrificio di espiazione sei divenuto il vero sommo sacerdote misericordioso, tu ben conosci le infermità del nostro spirito e le pesanti catene dei nostri peccati: tu che per noi hai versato il tuo sangue, purificaci da ogni colpa.
Tu che ora siedi alla destra del Padre, rendici umili servi di tutti! Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica – oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di: – Temi di predicazione, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2002-2003; 2005-2006.
– COMUNITÀ MONASTICA SS.
TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le stra-de.
Tempo ordinario – Parte prima, Milano, Vita e Pensiero, 2009, pp.
60.
– COMUNITÀ DI BOSE, Eucaristia e Parola.
Testi per le celebrazioni eucaristiche.
Anno B, a cu-ra di Enzo Bianchi, Goffredo Boselli, Lisa Cremaschi e Luciano Manicardi, Milano, Vita e Pensiero, 2008.
– La Bibbia per la famiglia, a cura di G.
Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
LECTIO – ANNO B Prima lettura: Isaia 53,10-11 Al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori.
Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la vo-lontà del Signore.
Dopo il suo intimo tormento vedrà la lu-ce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità.
Il presente brano dell’A.T.
è stato scelto come prima lettura in considerazione del Van-gelo di oggi, nel quale i figli di Zebedeo vogliono mettersi al di sopra degli altri, a diffe-renza del Figlio dell’uomo che si abbassa volontariamente.
Is 53 costituisce il quarto carme del Servo sofferente di JHWH, e fa parte della seconda parte del Libro di Isaia (il cosiddet-to Deuteroisaia, capitoli 40-55, databili attorno agli anni 550-530 a.C.).
Dal carme sono stati scelti quei versi che esprimono la libera e volontaria umiliazione del Servo di JHWH.
Il v.
2, letto per intero, contiene questa parte, omessa nel brano liturgico: «Non ha né apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui dilet-to».
In linea con questa descrizione, il Servo del Signore è paragonato ad una pianta che a motivo dell’aridità del suolo presenta l’aspetto non bello di un arbusto spuntato in mezzo al deserto.
—Ecco perché è «reietto», tenuto lontano e in poco conto da parte degli uomini (v.
3), e lui stesso è «uomo dei dolori», soffrendo in mezzo al disprezzo, all’aridità, alla solitudine.
— I vv.
10-11 formano una strofa del carme, nella quale vengono evidenziate due di-mensioni: da una parte l’espiazione, nel senso che il Servo soffre per gli altri, per i loro peccati (v.
110); dall’altra l’esaltazione, nel senso che Dio gli darà gloria perché ha preso su di sé tale sofferenza per gli altri.
I due versi costituiscono un prezioso commento o spiega-zione della parola sul riscatto pagato dal Figlio dell’uomo, alla fine del Vangelo di oggi (Mc 10,15).
Seconda lettura: Ebrei 4,14-16 Fratelli, poiché abbiamo un sommo sacerdote grande, che è passato attraverso i cieli, Gesù il Figlio di Dio, manteniamo ferma la professione della fede.
Infatti non ab-biamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa come noi, escluso il peccato.
Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia per ricevere misericordia e trovare grazia, così da essere aiutati al momento opportuno.
In questo brano la Lettera agli Ebrei introduce il paragone di Gesù col sommo sacerdote dell’Antica Alleanza.
Paragone molto importante per i destinatari e lettori della lettera, perché a quell’epoca c’era ancora il tempio, nel quale il sommo sacerdote celebrava i riti.
Del resto il sommo sacerdote era chiamato anche «Christos», unto (Lev 1,3).
Sua funzione liturgica è principalmente quella del perdono dei peccati di Israele nel giorno dell’espia-zione (yom hakippourim).
La Lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra Cristo ed il som-mo sacerdote alla luce del giorno di espiazione e del perdono dei peccati, che in esso veni-va accordato a tutto il popolo.
Gesù, attraverso la risurrezione e la glorificazione «è passato attraverso i cieli» (v.
14), vale a dire è entrato nel tempio celeste, come il sommo sacerdote entra in quello terreno nel giorno dell’espiazione.
Questa è la nostra confessione (homologia), corrisponde cioè alla so-stanza di quello che decidiamo di credere.
— «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze…» (v.
15).
A questo punto la Lett.
agli Ebrei tocca il mysterium compassionis: l’incarnazione è, fon-damentalmente, la com-passione, il soffrire di Dio con noi.
Il nostro sommo sacerdote ha voluto soffrire con noi ed essere messo alla prova insieme a noi.
— «Accostiamoci…al trono della grazia» (v.
16).
Il Santo dei santi nasconde il «trono della grazia», chiamato in ebraico kapporet (cf.
Rm 3,25: «hilasterion», propiziatorio), vale a dire il coperchio di oro che si trova sull’arca dell’Alleanza con i Cherubini, sui quali Dio è presen-te come re assiso sul trono.
La presenza di Dio è soprattutto presenza di grazia.
Per questo noi possiamo avvicinarci a tale trono pieni di gioia.
Vangelo: Marco 10,35-45 In quel tempo, si avvicinarono a Gesù Giacomo e Gio-vanni, i figli di Zebedèo, dicendogli: «Maestro, vogliamo che tu faccia per noi quello che ti chiederemo».
Egli disse loro: «Che cosa volete che io faccia per voi?».
Gli rispo-sero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra».
Gesù disse loro: «Voi non sapete quello che chiedete.
Pote-te bere il calice che io bevo, o essere battezzati nel bat-tesimo in cui io sono battezzato?».
Gli risposero: «Lo pos-siamo».
E Gesù disse loro: «Il calice che io bevo, anche voi lo berrete, e nel battesimo in cui io sono battezzato anche voi sarete battezzati.
Ma sedere alla mia destra o alla mia sinistra non sta a me concederlo; è per coloro per i quali è stato preparato».
Gli altri dieci, avendo sentito, cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni.
Allora [Gesù li chiamò a sé e disse loro: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i go-vernanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono.
Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti.
Anche il Figlio del-l’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per ser-vire e dare la propria vita in riscatto per molti».] Esegesi Gesù ha annunziato per la terza volta la sua passione e morte ai Dodici in disparte (Mc 10,32-34), usando toni molto duri e realistici: lo condanneranno a morte, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo uccideranno.
Nel vangelo odierno, ad immediato seguito di quelle dichiarazioni, i due figli di Zebedeo avanzano a Gesù un’ambiziosa domanda (vv.
35 ss): questa gli dà l’occasione di approfondire ed esplicitare il tema della passione, asso-ciando ad essa la sorte dei suoi discepoli.
«Nella tua gloria» (v.
37).
Giacomo e Giovanni, che furono tra i primi ad accettare la chiamata del Maestro, sono persuasi di avere un titolo in più per occupare i primi posti in quel regno messianico glorioso che, secondo la comune convinzione dei discepoli, Gesù va ad inaugurare a Gerusalemme.
Nonostante i ripetuti annunci di Gesù, coltivano ancora questa aspettativa terrena di gloria e vogliono accaparrarsene i posti di onore (a destra e a sinistra del re).
Non è da escludere che nell’atteggiamento dei figli di Zebedeo si riflettano anche tensioni della chiesa nascente.
— Il calice, il battesimo (v.
38).
In molti testi dell’Antico Testamento e del giudaismo il «calice» era metafora delle «vertigini» e sofferenze che Dio faceva provare ai peccatori (cf.
Ger 25,15; Sal 11,6: 65,9 ecc.): Nella sua preghiera al Getsemani Gesù userà la medesima immagine (14,36).
Lo stesso senso evoca la parola «battesimo», ossia immersione nelle on-de della sofferenza (cf.
Le 12,50).
Gesù coinvolge i discepoli nella sua missione di sofferen-za.
— «Per coloro per i quali è stato preparato» (v.
40).
Alla risposta affermativa dei due disce-poli (dovuta sempre alla loro intenzione di partecipare alla gloria, anche se attraverso le prove), il Maestro replica che essi sono sì chiamati a partecipare alla sua intronizzazione messianica, ma non in base a diritti di umana precedenza, bensì per libera e gratuita inizia-tiva del Padre: il verbo preparare al passivo rimanda, come spesso nei testi biblici, alla so-vrana volontà di Dio.
— «Dare la propria vita in riscatto per molti» (v.
45).
Gesù prende spunto dalla «indigna-zione» umana degli altri discepoli (v.
41), per dichiarare lo statuto fondamentale che deve regolare i rapporti della comunità ecclesiale.
Egli contesta radicalmente il modello di auto-rità dispotico che vige tra le genti, nel mondo pagano; e propone paradossalmente come modello di autorità due figure che sono agli antipodi: il servitore e lo schiavo.
Queste due immagini, però, non sono generiche.
Rappresentano concretamente la scelta di Gesù: per lui «servire» vuol dire essere fino in fondo obbediente e fedele alla volontà del Padre, sulla stessa linea del «servo del Signore» di Isaia (vedi I Lett.), che si fa solidale col peccato degli uomini.
Dicendo che è venuto «per dare la sua vita in riscatto» per molti, il Cristo dichiara il carattere soteriologico della sua morte: la parola «riscatto» (in greco lytron, «mezzo per sciogliere») indicava, tra le altre realtà, il prezzo pagato per liberare uno schiavo.
Accet-tando la sua morte come atto di amore e liberazione degli uomini dalla schiavitù del pec-cato, Gesù consegna alla comunità dei discepoli un modello di amore supremo, che essa è chiamata a inverare e prolungare nella vita.
Meditazione Tra le resistenze che il discepolo incontra nel suo cammino di sequela del Signore Gesù, una in particolare emerge con forza nei capitoli centrali del racconto di Marco: è la resi-stenza alla logica della diakonia, logica che anima in profondità la via di Gesù e attraverso la quale il Figlio rivela la sua obbedienza al Padre e il suo amore senza limiti per gli uomi-ni.
Per ben due volte Gesù deve ritornare sul tema del servizio per educare i discepoli ri-luttanti a questa prospettiva e affascinati maggiormente dalla ricerca e dalla conquista di un primo posto da cui poter emergere e dominare sugli altri (cfr.
Mc 9,33.35 e 10,42-45).
E questo intervento di Gesù sul servizio, che mira a correggere la tentazione in cui i discepoli si lasciano facilmente coinvolgere avviene significativamente dopo il secondo e il terzo annuncio della passione, morte e risurrezione (cfr.
Mc 9,30-32 e 10 32-34); il discepolo fati-ca ad accogliere questa parola dura, fatica ad andare al di là di un paradosso che tuttavia apre lo sguardo sul mistero del dono del Figlio dell’uomo, sul mistero di Colui che «non e venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (10, 45).
In fondo il discepolo rimane estraneo alla stessa Scrittura che già aveva tratteggiato il volto di questo umile Servo che attraversa l’esperienza della sofferenza e del disprezzo per apri-re agli uomini il cammino della vita.
Questo «uomo dei dolori», come dice il Deutero-Isaia (prima lettura), la cui esistenza assurda e segnata dalla sofferenza sembra una contraddi-zione di una umanità amata da Dio è in realtà il cammino che Dio stesso sceglie per rivela-re tutta la sua solidarietà con l’uomo; anzi attraverso questa umiliante via crucis questo mi-sterioso servo, in cui «si compie la volontà del Signore», diventa offerta «in sacrificio di ri-parazione».
Ecco perché il Deutero-Isaia, con quello sguardo profetico che va al di là di una drammatica vicenda di dolore, può annunciare: «dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza…
il giusto mio servo giustificherà molti, egli si ad-dosserà le loro iniquità» (Is 53,11).
Non è forse questo il cammino che Gesù prospetta ai di-scepoli nel secondo annuncio della passione? Ma il cuore del discepolo è altrove; non può accogliere questa parola, chiuso nella sua incomprensione e nella sua paura.
Ecco perché Marco nota: «Camminava davanti a loro ed essi erano sgomenti; coloro che lo seguivano erano impauriti» (10,32).
Proprio in questo contesto di ‘lontananza’ tra Gesù e i discepoli, che pur stanno cammi-nando con lui, si colloca la sorprendente domanda dei figli di Zebedeo.
Essa rivela quale è la logica che stanno inseguendo questi due discepoli: essi vogliono (è la pretesa del potere) che Gesù favorisca la loro sete di carriera: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (10,37).
Dunque, con una disinvoltura che irrita gli altri dieci discepoli, Giacomo e Giovanni domandano di avere i primi posti, di essere i primi ministri nel regno istaurato dal Messia glorioso.
Nella loro richiesta emerge ancora una volta il rifiuto alla sequela della croce: vi è la paura di guardare in faccia quella realtà u-manamente scandalosa e incomprensibile che segna il passaggio attraverso cui Gesù rea-lizza il dono della sua vita.
E proprio su questo passaggio Gesù insiste nella sua risposta ai discepoli: «Il calice che io bevo anche voi lo berrete e nel battesimo in cui io sono battezza-to anche voi sarete battezzati…» (10,39).
Prendere parte alla gloria di questo Messia umilia-to è possibile solo condividendo come lui l’esperienza della pasqua, rimanendo come lui solidale all’uomo peccatore nell’obbedienza al Padre che ha scelto questa via per rivelare la sua misericordia e per liberare l’uomo dalla morte.
E con forza, le due immagini del calice che deve essere bevuto (immagine che ritorna al Getsèmani: cfr.
Mc 14,36) e delle acque in cui è necessario immergersi esprimono sia il cammino di umiliazione e di morte che Gesù sta percorrendo, sia la piena condivisione della realtà umana che il Figlio di Dio si assume totalmente in comunione con il volere del Padre.
Questa è la tensione che anima la via di Gesù e questo è ciò che deve importare al discepolo, scelto «per stare con lui» (Mc 3,15).
Tutto il resto è libera azione del Padre: sarà lui a scegliere chi far sedere alla destra e alla sinistra di questo Messia umanamente poco glorioso: «Con lui crocefissero anche due la-droni, uno a destra e uno alla sua sinistra» (15,27).
Ciò che Gesù dice ai figli di Zebedeo, si trasforma in una parola rivolta a tutta la comu-nità.
In fondo, la tentazione di questi due discepoli è la tentazione di tutta la comunità dei discepoli.
La logica del potere (espressa da questa smaccata richiesta) fa scattare una ten-sione tra gli altri, i quali «avendo sentito, cominciarono ad indignarsi» (10,41); una indi-gnazione che, purtroppo, maschera lo stesso desiderio di un primo posto.
Nella comunità dei discepoli (la Chiesa) c’è il rischio che si instauri la stessa logica di dominio che caratte-rizza le relazioni in prospettiva ‘mondana’ (siano esse politiche, economiche, sociali e an-che religiose).
La comunità dei discepoli non ha altre vie da seguire se non quella di Gesù.
E qui Gesù ripropone nuovamente il suo cammino e il suo esser in mezzo ai discepoli at-traverso l’icona del servo: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servi-re e dare la propria vita in riscatto per molti» (10, 45).
La comunità dei discepoli si trova sempre di fronte a queste due possibilità: o seguire la logica del mondo o seguire con umil-tà il cammino della diakonia, il cammino del dono di sé, la via di Gesù (quel Messia che po-co dopo entrerà in Gerusalemme a dorso di un puledro d’asina: cfr.
Mc 11,1-10).
La prima strada è chiara («voi sapete…»): è quella percorsa da chi domina, da chi esercita un potere, illudendosi di avere così l’autorità e il diritto di farsi chiamare capo.
Ma è una via di op-pressione e non di reale dono e servizio, poiché non libera, non fa maturare e crescere l’al-tro (non è una reale auctoritas).
Il cammino di Gesù permette di realizzare autenticamente il desiderio che il discepolo, e ogni uomo custodisce nel cuore: ‘esser grande’ cioè realizza-re pienamente la propria umanità.
La via che Gesù propone è l’anti-potere per eccellenza: «Chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (10,44).
Colui che è senza ruolo e senza prestigio, lo schiavo, colui che ha il coraggio di mettersi ai piedi dei fratelli e di di-minuire perché l’altro possa crescere, colui che veramente serve i fratelli donando sé stesso e la sua vita, questi è veramente grande, è il primo, esercita una reale autorità.
E in questa prospettiva l’autorità nella comunità dei discepoli diventa luogo di rivelazione in cui deve trasparire maggiormente la logica della Croce e solo in questa logica l’autorità trova giusti-ficazione.
La parola di Gesù non può essere ridotta ad un vaga esortazione all’umiltà; essa è, di fatto, criterio di discernimento per lo stile di ogni comunità cristiana, della Chiesa di ogni tempo.
Relazioni tra discepoli, strutture e ministeri, stili di vita e di annuncio, tutto nella comunità deve confrontarsi con questa parola.
Perché Gesù lo dice chiaramente: «Tra voi non è così…» (10,43).
Tra i discepoli non ci può essere spazio per la logica del potere; la vita di una comunità cristiana deve essere l’alternativa vivificante a questo cammino di morte a cui conduce la sete del potere, il luogo in cui al centro c’è la vita e la persona di Gesù (è la misteriosa forza dei due sacramenti che fanno la Chiesa, il battesimo e l’eucaristia), il luogo in cui si rivela il dono che conduce alla salvezza.
Questo è il cuore della sequela che ogni discepolo deve vivere e, in primo luogo, colui che tra i fratelli è chiamato ad esser servo della comunione.
Fao: «Più di un miliardo gli affamati nel mondo»

Rischio paesi ricchi.
Anzi: persino nei Paesi ricchi registriamo un aumento degli affamati del 15,4% rispetto allo scorso anno.
È il principale risultato contenuto nell’edizione 2009 dello Stato dell’insicurezza alimentare nel mondo (Sofi 2009) che lancia oggi alla vigilia della Giornata mondiale dell’alimentazione che si celebra domani.
Che segnala un’amara sorpresa: percentualmente sono i Paesi ricchi ad aver visto il numero delle persone che hanno fame crescere di più, registrando un aumento del 15,4% e raggiungendo la quota assoluta di 15 milioni di affamati.
Il record negativo di insicurezza alimentare lo mantiene la regione Asia-Pacifico con 642 milioni di persone che hanno fame (+10,5%), seguita dall’Africa Subsahariana con 265 milioni (+11,8%), dall’America Latina con 53 milioni (+12,8%) e infine dal Nord ed est Africa con 42 milioni (+13,5%).
100 milioni di persone affamate in più.
«Rispetto allo scorso anno oltre 100 milioni di donne, uomini e bambini in più, un sesto di tutta l’umanità hanno fame nel 2009 – scrivono nell’introduzione il direttore generale della FAO Jacques Diouf e la direttrice esecutiva del PAM Josette Sheeran, che per le Nazioni Unite -.
La crisi dei prezzi delle materie prime alimentari del 2006-2008 ha portato fuori dalla portata del reddito di queste persone tutti gli alimenti di base e nonostante i ribassi alla fine del 2008 erano in media ancora del 17% più alti di due anni prima della crisi.
Questo ha costretto molte famiglie povere a scegliere tra cure sanitarie, scuola e cibo».
L’importanza dell’agricoltura.
Il messaggio lanciato al nuovo Vertice per la sicurezza alimentare vedrà i Capi di Stato e di Governo nuovamente a Roma dal 16 al 18 novembre prossimi è molto chiaro: c’è bisogno di una strategia a due tempi: un intervento d’emergenza, con voucher alimentari, aiuti e reti di sicurezza e welfare immediato, e a medio termine un vero programma di sostegno all’agricoltura contadina.
«Nei tempi di crisi passati si è sempre assistito a una riduzione degli interventi pubblici a sostegno dell’agricoltura.
Ma l’unico strumento efficace per vincere la povertà – avvertono i due responsabili delle Nazioni Unite – è assicurarsi un settore agricolo in piena salute».
Avvenire 14 ottobre 2009 Nel mondo nel 2009 siamo arrivati ad avere 1.02 miliardi di persone affamate.
È la prima volta che accade dal 1970 e, mentre nel Vertice per la sicurezza alimentare di due anni fa i capi di Stato e di Governo avevano confermato l’obiettivo assunto con la Dichiarazione del Millennio di dimezzare il numero di chi ha fame entro il 2015, oggi l’obiettivo è definitivamente archiviato.
Il cielo tra fisica e metafisica

“Una volta mi ero trovato in un monastero in cui si pregava per una badessa ormai agli estremi.
Un giorno fu esposto un annuncio che diceva: “Ci si deve attendere il peggio”.
Il peggio, sembrava dire, sarebbe stato che ella andasse in cielo”.
Con questo aneddoto segnato da un’ironia bonaria ma non per questo meno pungente, il benedettino Jean Leclercq, importante studioso di san Bernardo e della letteratura cristiana medievale, evocava un simbolo tanto esaltato da tutte le civiltà ma anche un po’ esorcizzato proprio per la sua “trascendenza” rispetto all’orizzonte terreno ove abbiamo ben piantati piedi e radici.
In modo analogo il celebre asserto finale della Critica della ragion pratica kantiana – “Due cose riempiono l’animo di ammirazione e di riverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e a lungo il pensiero vi si sofferma: il cielo stellato sopra di me e la legge morale in me” – è nei nostri giorni gaudenti decisamente accantonato.
Il cielo, infatti, è nascosto spesso da una coltre di smog e la legge morale è subito tacitata dalla sguaiatezza e dalla superficialità.
Eppure da quando l’uomo ha conquistato la stazione eretta e ha levato il capo verso l’alto, il cielo ha continuato ad attirare.
Ricordo una bella ballata di uno scrittore a me molto caro per amicizia, Luigi Santucci: in essa una tartaruga ribaltata dal calcio di un passante, dopo il primo smarrimento, si lasciava conquistare dalla nuova contemplazione degli spazi celesti che prima le era vietata.
Nel suo Diario Anna Frank scriveva: “Prova anche tu, una volta che ti senti solo o infelice o triste, a guardare fuori dalla soffitta quando il tempo è bello.
Non le case o i tetti, ma il cielo.
Finché potrai guardare il cielo senza timori, sarai sicuro di essere puro dentro e tornerai a essere felice”.
E a lei faceva eco Etty Hillesum quando nel suo intenso diario composto nel lager di Auschwitz annotava al 14 luglio 1942: “Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera”.
Nell’immensità cosmica celeste, però, da secoli puntano il loro sguardo anche gli strumenti delle rilevazioni astrofisiche e non solo l’occhio vivido del poeta o del credente.
E anche la visione scientifica non è priva di fremiti e di emozioni, al punto tale che in passato s’intrecciavano – persino nello stesso Galileo – senza imbarazzi astronomia e astrologia.
Lo stesso scienziato moderno, configgendo i suoi telescopi più sofisticati in quelle distese sterminate, non di rado adotta categorie, linguaggi, schemi interpretativi di matrice simbolica per formulare le sue teorie.
Per questo la mostra “Astrum 2009”, collocata nell’Anno internazionale dell’astronomia e nel quarto centenario dell’invenzione del telescopio, si presenta attraverso una serie di strumenti e di testi non riducibili a meri mezzi di ricerca attorno a quelle che sono ancor oggi classificate come “meccaniche celesti”, ma capaci anche di evocare quell’infinito che ci avvolge e ci sconvolge, ci attira e ci impaura.
Noi che non siamo scienziati, percorrendo l’affascinante itinerario espositivo della mostra, siamo invitati a non perdere mai questa straordinaria dualità che è in noi.
Certo, siamo uomini che rilevano i “fenomeni”, la “scena” come si è soliti dire oggi, ma al tempo stesso non esitiamo a investigare anche sul “fondamento” della realtà.
Fisica e metafisica, certo, corrono su livelli diversi: sono i due famosi non-overlapping-magisteria, cioè i due percorsi conoscitivi non sovrapponibili della scienza e della filosofia o teologia o poesia, come diceva lo scienziato americano Stephen Gould.
Eppure questi due percorsi non si respingono, anzi, nella nostra conoscenza si guardano, dialogano e si ascoltano reciprocamente.
Il cielo, così, è il “continente universale, lo spacio immenso, l’eterea regione per la quale tutto discorre e si muove”, come scriveva Giordano Bruno in uno dei suoi Dialoghi italiani, quello “de l’infinito universo e mondi”, ma è anche la suprema metafora della trascendenza, dell’oltre e dell’altro rispetto al qui e al noi immanente. La stessa Bibbia rivela questa duplicità.
Innanzitutto, infatti, essa ci offre una precisa cosmologia, ovviamente modellata sulla scienza arcaica, fiorita in Mesopotamia, in Egitto e in Persia, e non priva di una sua analisi sofisticata.
Il cielo, così, è tratteggiato come una gigantesca cupola luminosa detta in ebraico raqia’, cioè firmamento, sostenuta da colonne cosmiche le cui fondazioni penetrano, oltre la superficie terrestre orizzontale, nell’abisso caotico e infernale, antipodo del cielo.
Una cupola sopra la quale freme l’oceano celeste, il cui flusso d’acqua, regolato da grandi serrande, può disseminare sulla terra la pioggia benefica o il diluvio devastatore.
È per questo che appare, fin dalla prima, famosa pagina biblica della creazione del cielo e della terra (capitolo 1 della Genesi), la distinzione tra le “acque superiori” celesti e quelle “inferiori” dello sterminato bacino del mare.
Dal colossale serbatoio celeste scendono, dunque, acqua, grandine, brina, neve, venti, nubi e tempeste: “Dal Signore degli eserciti sarai visitata – canta Isaia (29, 6) – con tuoni, rimbombi e rumore assordante, con uragano e tempesta e fiamme di fuoco divoratore”.
Il mirabile Salmo dei sette tuoni, il 29, è tutto scandito dal risuonare della parola onomatopeica ebraica qôl che significa sia “tuono” sia “voce” (divina).
Le immagini per raffigurare la cupola celeste si moltiplicheranno: essa è simile a un rotolo dispiegato, dice Isaia (34, 4), che ricorre anche all’idea di un velo o di una tenda da beduini distesa dal Creatore con un gesto possente (40, 22); è una specie di basamento per un palazzo reale divino dal quale – è lo stesso testo isaiano ad affermarlo in modo pittoresco – Dio “siede e di lassù gli abitanti del mondo sembrano cavallette”.
Sulla maestosa volta del cielo sono appesi “i grandi luminari”, cioè il Sole e la Luna, veri e propri orologi cosmici e liturgici per le stagioni, per il calendario delle feste e per il ritmo circadiano; su quella volta sono fissate le stelle e le costellazioni – l’Orsa, Orione e le Pleiadi sono citate ad esempio in Giobbe 9, 9 – e i pianeti, Venere, “Lucifero”, è evocato da Isaia (14, 12), mentre Saturno, “Chiion”, da Amos (5, 26).
È significativo osservare che, mentre nell’antico Vicino Oriente il Sole, la Luna e gli astri sono divinità, per la Bibbia essi sono “laicamente” semplici creature comandate dal Creatore nel loro lavoro e nelle loro orbite: “Sorge il Sole, tramonta il Sole affannandosi verso quel luogo da cui rispunterà” (Qohelet, 1, 5); Dio “ha assegnato al Sole una tenda: esce come uno sposo dalla stanza nuziale, si esalta come un eroe che corre sulla sua strada; sorge da un estremo del cielo, la sua orbita raggiunge l’altro estremo: al suo calore non v’è riparo!” (Salmi, 19, 5-7).
Tuttavia non c’è soluzione di continuità quando si passa dalla rilevazione sperimentale “scientifica” alla celebrazione del valore simbolico che astri e spazi cosmici contengono.
Scegliamo solo un paio di esempi, desunti dal Salterio.
Pensiamo al salmo 19 che introduce una sorprendente “narrazione” che il cielo personificato e il ritmo temporale ci rivolgono, senza ricorrere a parole; eppure si tratta di una voce potente e planetaria.
Ecco il canto del salmista: “I cieli narrano la gloria di Dio, il firmamento annunzia l’opera delle sue mani, il giorno al giorno affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette la notizia, senza linguaggio e senza parole, senza che si oda la loro voce.
Eppure per tutta la Terra si espande il loro annunzio, sino ai confini del mondo va il loro messaggio” (vv.
2-5).
“Dio ha dato un tal linguaggio alla sua creazione che, parlando di se stessa, essa non può non parlare di Lui, Dio”, commentava Karl Barth. La lezione teologica del cielo può essere altre volte inquietante ed esaltante al tempo stesso.
È il caso di quel gioiello assoluto che è il salmo 8.
Nel “silenzio eterno degli spazi infiniti”, quella “canna pensante” che è l’uomo – per usare la famosa espressione di Pascal – è solo un granello microscopico.
Ancor più insignificante è la sua entità di fronte a un Dio creatore che ricama nel cielo con le sue dita le costellazioni e i pianeti.
Eppure è proprio questo Dio che si china sull’uomo e lo incorona rendendolo di poco inferiore a se stesso, sovrano dell’orizzonte cosmico.
Ascoltiamo il corpus centrale dell’inno nella versione poetica di David Maria Turoldo: “Quando il cielo contemplo e la Luna / e le stelle che accendi nell’alto, / io mi chiedo davanti al creato: / cosa è l’uomo perché lo ricordi? / Cosa è mai questo figlio dell’uomo / che tu abbia di lui tale cura? / Inferiore di poco a un dio, / coronato di forza e di gloria! / Tu l’hai posto Signore al creato, / a lui tutte le cose affidasti: / ogni specie di greggi e d’armenti, / e animali e fiere dei campi, / le creature dell’aria e del mare/ e i viventi di tutte le acque” (vv.
4-9).
L’intreccio tra meteorologia e simbologia teologica è adottato in modo folgorante anche da Gesù quando protesta perché i suoi interlocutori sanno usare il cielo solo come campo di previsioni climatiche, pur legittime, e non lo considerano anche come segno di intuizioni epocali trascendenti: “Quando vedete una nuvola salire da ponente, subito dite: “Viene la pioggia”, e così accade.
E quando soffia lo scirocco, dite: “Farà caldo”, e così accade.
Ipocriti! Sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete giudicarlo?” (Luca, 12, 54-56).
È forse un po’ anche per questo che spesso spiritualità cristiana e scienza si sono abbracciate, a partire da personaggi come Isidoro, vescovo di Siviglia (VI-VII secolo), che nei suoi Etymologiarum sive originum libri xx distingueva tra astronomia e astrologia, ma intrecciava filologia e allegoria.
O come il teologo raffinato Beda il Venerabile (VIII secolo) che era già allora convinto della sfericità della Terra (“come una palla da gioco”), che tentava di calcolare l’età del nostro pianeta rispetto al cosmo e che si cimentava nella cronologia (De temporum ratione).
L’elenco potrebbe continuare a lungo seguendo un qualsiasi manuale di storia dell’astronomia: il monaco benedettino Abelardo di Bath (XII secolo), traduttore di testi scientifici arabo-indiani, l’arcidiacono catanese Enrico Aristippo (XII secolo), divulgatore dell’Almagesto di Tolomeo, per non parlare dei grandi Cusano, Copernico, Clavius, anch’essi religiosi.
Curiosa è la passione astronomica di alcuni Papi, a partire dal celebre Silvestro ii (Gerberto d’Aurillac), costruttore di astrolabi e sfere armillari e scienziato poliedrico, passando attraverso Gregorio XIII, l’artefice dell’omonimo calendario, per giungere a Pio x che sapeva approntare orologi solari, senza dimenticare la gloriosa Specola Vaticana, fondata nel 1789, esaltata dalle ricerche astrofisiche del gesuita Angelo Secchi, il primo classificatore delle stelle sulla base dei loro spettri.
Questa istituzione è all’origine della citata mostra “Astrum 2009” che si inaugura giovedì nei Musei Vaticani.
Le stelle, quindi, s’accendono non solo per consegnare la loro luce agli astronomi ma anche per far brillare gli occhi dell’anima, nella fede e nella poesia, tant’è vero che nell’Apocalisse Cristo non esita a presentarsi come “la stella radiosa dell’alba” (22, 16).
C’è il rischio, però, che il clamore, l’eccitazione e la distrazione ci impediscano di contemplare il cielo sia come realtà sia come simbolo.
Diceva il filosofo cinese Han Fei (III secolo prima dell’era cristiana): “Nell’acqua di uno stagno si specchia il cielo.
Ma se vi getti un sasso, l’immagine si romperà in cerchi concentrici e il cielo sparirà”.
(©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2009)
La mostra «Astrum 2009»

Nella mattinata di martedì 13 ottobre, nella Sala Stampa della Santa Sede, è stata presentata la mostra “Astrum 2009: astronomia e strumenti.
Il patrimonio storico italiano quattrocento anni dopo Galileo” che sarà aperta presso i Musei Vaticani dal 16 ottobre al 16 gennaio.
Oltre al direttore della Specola Vaticana, il gesuita José Gabriel Funes, al presidente dell’Istituto Nazionale di Astrofisica, Tommaso Maccacaro, e alla curatrice della mostra, Ileana Chinnici, alla conferenza stampa sono intervenuti il direttore dei Musei Vaticani e il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura che, nell’occasione, hanno scritto per il nostro giornale.
Come ci ricorda in apertura di catalogo padre José Gabriel Funes, direttore della Specola Vaticana, gli indiani del Keat Peak nella riserva dell’Arizona dove sono installati i telescopi più potenti del mondo, chiamano the people with long eyes (“la gente dagli occhi lunghi”) gli scienziati e i tecnici che di notte si ritirano nei loro misteriosi avamposti ipertecnologici a scrutare i limpidi cieli stellati del deserto di altura.
Ci vogliono occhi lunghi per guardare le stelle, per penetrare la profondità dei cieli.
Però, non bastano gli occhi che Dio ci ha dato.
Ci vogliono strumenti assai più efficaci, ausili conoscitivi e tecnici molto più elaborati e affidabili perché lo sguardo diventi davvero lungo.
Gli indiani del Keat Peak lo hanno capito, gli uomini di ogni epoca e di ogni cultura lo hanno sempre saputo.
La mostra che i nostri Musei ospitano nella sala polifunzionale – dal 16 ottobre al 16 gennaio – voluta e promossa dall’Inaf (Istituto nazionale di astrofisica) e dalla Specola Vaticana, intende offrire alla ammirazione e alla riflessione del pubblico una vasta selezione dell’imponente patrimonio di strumentazione astronomica di interesse storico posseduta dagli istituti italiani.
Nell’Anno internazionale dell’astronomia, celebrativo di Galileo e del suo Sidereus nuncius, a quattro secoli dalla scoperta e prima applicazione del telescopio, la mostra curata da Ileana Chinnici con la cooperazione dei Musei Vaticani e, in particolare, di Andrea Carignani, ci racconta la straordinaria avventura.
Come, seguendo quali percorsi conoscitivi e servendosi di quali strumenti – dall’astrolabio arabo di Ibn Sahid el Ibrahim del 1096 al telescopio di ultimissima generazione che la Specola Vaticana utilizza e che è situato a 3200 metri di altezza sul monte Graham in Arizona – la comunità scientifica internazionale, prima e soprattutto dopo Galileo, ha saputo allungare lo sguardo verso cieli sempre più remoti e sempre più incogniti.
Fino ad arrivare un giorno – l’augurio è di Tommaso Maccacaro, presidente dell’Istituto nazionale di astrofisica – a risolvere il mistero della nostra apparente solitudine cosmica.
Questo è l’argomento della mostra che, nell’anno di Galileo, i Musei Vaticani ospitano.
Non c’è chi non veda la straordinaria rilevanza culturale e anche “politica” dell’evento.
Si spiegano così l’alto patronato concesso dal segretario di Stato vaticano e dal presidente della Repubblica italiana, le prestigiose presentazioni in catalogo (Città del Vaticano – Livorno, Musei Vaticani – Sillabe) del cardinale Tarcisio Bertone, segretario di Stato, e del cardinale Giovanni Lajolo, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, e l’indirizzo di saluto del ministro italiano dell’Istruzione, Università e Ricerca, Mariastella Gelmini.
Due cose hanno mosso gli uomini a scrutare i cieli: la curiosità e lo stupore.
Non si può vivere sulla Terra senza cercare di capire l’infinito incognito che ci circonda e ci sovrasta.
Come spiegare le fasi della Luna e i movimenti degli astri? Perché il Sole sale e discende, stagione dopo stagione, i gradini del cielo? Perché la caduta dei meteoriti che incendiano le notti d’estate e perché l’apparizione delle comete portatrici di prodigi e di presagi? Quanto è grande il firmamento, quanto distano dalla Terra le stelle a noi più vicine? Quali leggi governano – forse immutabili ed eterne, forse in continua evoluzione – l’universo di cui facciamo parte? Sono domande che gli uomini si sono posti da sempre.
Ne abbiamo una rappresentazione splendida nel mosaico del Museo nazionale di Napoli proveniente da Pompei e databile al I secolo prima dell’era cristiana, che ci presenta una pensosa raccolta di filosofi e di scienziati intenti a riflettere e a disputare di fronte a un globo celeste.
Sono domande che per trovare parziali e provvisorie risposte hanno avuto bisogno degli strumenti rari e sofisticati che la mostra ci offre.
Eppure la curiosità o per meglio dire l’ansia di conoscenza è sempre preceduta dalla emozione e l’emozione produce “stupore” che è sentimento profondamente umano, di segno evocativo e fantastico.
Il cuore poetico di una mostra gremita di strumenti che hanno permesso agli uomini di scrutare la infinitudine dei cieli è rappresentato, per me storico dell’arte, dalle otto tele di Donato Creti, gioiello della Pinacoteca Vaticana.
Osservazioni astronomiche si intitola la celebre serie, perché ogni tela raffigura fenomeni celesti: il Sole, le mutazioni della Luna, la cometa, i pianeti Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno.
La cosa per me straordinaria è che protagonista di ogni dipinto è il corpo celeste oggetto di astronomica osservazione ma è anche la persona (o le persone) che lo guardano.
Donato Creti, l’artista che dipinse le otto tele nel 1711 su commissione del conte bolognese Luigi Marsili, il quale volle farne dono a Papa Clemente xi, viene dalla tradizione stilistica di Guido Reni.
Governano la sua pittura gli ideali classici della venustà, della amabilità e della grazia.
Questa volta, di fronte a un soggetto iconografico così inusuale, è lo stupore a guidare il suo pennello.
Noi entriamo con Donato Creti nel blu profondo, nel nero luminoso di una grande notte italiana, entriamo nei tramonti infuocati dell’estate, nella luce grigio-azzurra di un’alba serena e proviamo gioia e stupore di fronte ai prodigi che il cielo ci regala.
Dietro gli strumenti astronomici allineati dalla mostra – cannocchiali e telescopi, sfere armillari e globi celesti – in molti casi veri e propri capolavori di saperi scientifici e di talenti tecnologici, ci sono la curiosità e lo stupore.
Sono i sentimenti che Donato Creti ha messo in figura nelle sue tele.
Grazie a lui possiamo meglio capire le ragioni profonde che sempre hanno guidato l’uomo sulle strade impervie e tuttavia affascinanti e in ogni caso non contrastabili, della conoscenza.
di Antonio Paolucci (©L’Osservatore Romano – 14 ottobre 2009)
Il voto di religione in decimi

Anche il giudizio dei prof di religione potrebbe essere presto trasformato in un voto vero, dall’1 al 10.
L’intenzione del governo è stata oggi confermata nella sostanza dal ministro Maristella Gelmini: “Credo che l’ora di religione debba avere la stessa dignità delle altre materie, e credo anche che l’Italia non possa non riconoscere l’importanza della religione cattolica nella nostra storia e nella nostra tradizione”.
Secondo il ministro, va “garantita agli insegnanti della religione cattolica la stessa situazione, le stesse condizioni degli altri insegnanti”.
Alla fattibilità dell’intera operazione starebbe lavorando da circa tre mesi una commissione voluta dal ministro.
Sulla composizione della stessa vige il più stretto riserbo e le riunioni si sono finora svolte in gran segreto, ma si sa che il gruppo di lavoro è presieduto dal direttore generale per gli Ordinamenti, Mario Dutto.
Il passo ulteriore è di pochi giorni fa: da viale Trastevere è partita la richiesta di parere di fattibilità al Consiglio di stato.
Se la cosa dovesse andare in porto, si riaccenderebbe la guerra tra laici e cattolici scoppiata un paio di settimane fa, quando il Tar Lazio ha estromesso dall’attribuzione dei crediti scolastici alle superiori proprio i prof di Religione.
Contro quella decisione, Gelmini prima ha annunciato un ricorso al Consiglio di stato, ma poi ha pubblicato il Regolamento sulla valutazione degli alunni che, di fatto, ha sospeso il provvedimento del tribunale amministrativo.
Attualmente, in tutti i gradi della scuola italiana (dalle elementari alle superiori), nei confronti degli alunni che hanno optato per l’ora di religione cattolica l’insegnante esprime un giudizio sintetico: sufficiente, discreto, buono, ottimo.
Niente voto, insomma.
Neppure dall’anno scorso, quando ad ottobre è stata approvata la legge 169 che ripristinava i voti in decimi al posto dei giudizi sintetici alla scuola primaria (l’ex elementare) ed alla media.
“Per l’insegnamento della religione cattolica – recita il testo unico in materia di istruzione – , in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Ma nel regolamento sulla valutazione, pubblicato il 19 agosto scorso, a proposito dei voti in decimi si legge che “la valutazione dell’insegnamento della religione cattolica (…) è comunque espressa senza attribuzione di voto numerico, fatte salve eventuali modifiche” al Concordato stato-chiesa.
A cosa porterebbe una eventuale trasformazione del giudizio in voto numerico? Darebbe alla Religione pari dignità rispetto a tutte le altre discipline.
Perché rientrerebbe nella media dei voti per l’attribuzione del credito scolastico alle superiori e contribuirebbe all’ammissione alla maturità così come agli esami di terza media.
Il provvedimento sarebbe certamente accolto positivamente dai quasi 26mila insegnanti di Religione in servizio nelle scuole italiane perché avrebbe il significato di una promozione a tutti gli effetti.
Dal punto di vista politico, invece, servirebbe a ricucire i rapporti tra governo e Vaticano dopo le tensioni nate sui respingimenti dei migranti e in seguito al caso Boffo.
Repubblica 14 settembre 2009 Il passaggio dai giudizi ai voti in tutte le materie deve valere anche per l’ora di religione.
Come aveva già anticipato un mese fa Repubblica.it, è questa l’opinione del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, che su questo argomento ha intenzione di chiedere un parere al Consiglio di Stato.
Immediata la protesta dell’opposizione che rivendica la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla Costituzione.
Inoltre, aggiunge il Pd, la Corte Costituzionale si è già espressa in merito stabilendo la facoltatività dell’ora di religione e quindi non può essere equiparata alle altre materie.
Così come i docenti di religione non possono partecipare agli scrutini, come ha stabilito il Tar del Lazio l’estate scorsa.
Ai giornalisti che le chiedevano se il voto di religione debba far media con gli altri, il ministro Gelmini ha risposto: “Il voto in religione oggi non c’è.
Ancora esiste un giudizio.
Il nostro intendimento è quello di chiedere un parere al Consiglio di Stato per evitare contenziosi, ma la mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l’insegnamento della religione”.
“Il ministro Gelmini non sa di cosa parla, oppure fa di nuovo e solo propaganda” sostengono Manuela Ghizzoni e Maria Coscia, deputate Democratiche della commissione Cultura di Montecitorio.
“La Corte Costituzionale, infatti, ha già stabilito il principio di facoltatività dell’ora di religione, nel rispetto della laicità dello Stato, in base al quale è necessario garantire pari dignità ai ragazzi di ogni culto”.
“Purtroppo – aggiungono – il nuovo sistema di valutazione che ha fatto venir meno il criterio di un giudizio globale sui rendimenti scolastici lascia spazio anche a questo tipo di ‘pensate’: siamo convinte – concludono – che il Consiglio di Stato rispedirà al mittente la proposta”.
L’ora di religione “non può essere valutata come una normale materia curriculare” afferma il segretario generale della Flc-Cgil, Mimmo Pantaleo.
“Il ministro Gelmini deve garantire la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla nostra Costituzione.
Per questa ragione, nel pieno rispetto del Concordato, l’ora di religione – spiega Pantaleo – deve rimanere facoltativa.
Non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi, e quindi non può essere valutata come una normale materia curriculare”.
“Piuttosto il ministro dovrebbe preoccuparsi – osserva il sindacalista – del fatto che si nega, per effetto di pesantissimi tagli, il diritto ad avvalersi dell’insegnamento alternativo.
Non permetteremo – ammonisce Pantaleo – di trasformare la scuola pubblica italiana, che dovrebbe essere laboratorio interculturale, in una istituzione confessionale e autoritaria”.
(13 ottobre 2009) A conferma delle anticipazioni di stampa (Avvenire, agosto 2009), il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, nel corso delle celebrazione della VIII Giornata europea dei genitori e della scuola presso il ministero dell’istruzione, ha ufficialmente comunicato che è sua intenzione chiedere al Consiglio di Stato la fattibilità dell’inclusione del voto di religione nel computo delle materie che fanno media nel voto finale da assegnare agli studenti.
Dopo la riforma della valutazione disposta dalla legge 169/2008 che ha previsto che ogni disciplina sia valutata con voto in decimi, è rimasto insoluto il problema della religione cattolica che, in base ad un articolo del Testo unico sulle norme per l’istruzione (art.
309), continua ad essere valutata con una nota riguardante l’interesse e il profitto dell’alunno verso tale insegnamento.
“Il nostro intendimento – ha detto il ministro – è quello di chiedere un parere al Consiglio di Stato onde evitare contenziosi, ma la mia opinione è che essendo passati dai giudizi ai voti in tutte le materie questo debba valere anche per l’insegnamento della religione”.
tuttoscuola.com martedì 13 ottobre 2009 VALUTAZIONE IRC: VOTO IN DECIMI O GIUDIZIO? IL NODO DELLA VALUTAZIONE Stralcio da: Sergio Cicatelli, Voto decimale e Irc.
Il nodo della valutazione, Insegnare Religione n.
2 2008-2009 «Vogliamo avviare una riflessione sulla ricaduta che il ritorno del voto decimale potrebbe avere sull’Irc.
Fin dal primo momento, infatti, numerosi Idr hanno scorto nella formulazione del DL 137 la possibilità di far rientrare anche l’Irc in questa piccola rivoluzione docimologica.
In base all’articolo 3, a partire dall’anno scolastico 2008-09 nelle scuole del primo ciclo (primaria e secondaria di I grado), «la valutazione periodica ed annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite è espressa in decimi».
Lo stesso articolo prosegue dicendo che «è altresì abrogata ogni altra disposizione incompatibile con la valutazione del rendimento scolastico mediante l’attribuzione di voto numerico espresso in decimi».
È soprattutto quest’ultima postilla a suscitare le speranze degli Idr di uscire dal ghetto della valutazione separata, ma il cammino non è così rapido come potrebbe sembrare a prima vista.
Anzitutto va osservato che il DL 137/2008 si riferisce solo alle scuole del primo ciclo, lasciando fuori le scuole superiori, dove la valutazione è sempre stata numerica.
Se anche dovesse esserci una modifica delle regole valutative per l’Irc, questa sarebbe – almeno nell’immediato – limitata al primo ciclo di istruzione.
Ma sarebbe comunque il segnale di una svolta nella storia della disciplina.
Sono ormai trent’anni, dall’entrata in vigore della legge 517/77, che nelle scuole elementari e medie sono scomparsi i voti numerici, sostituiti da giudizi analitici nelle singole discipline e globali sul livello di maturazione dell’alunno.
La scuola superiore è rimasta fuori da questa trasformazione, ma si è spesso pensato che anch’essa dovesse adeguarsi a un’innovazione che aveva anticipato con la riforma degli esami di maturità del 1969.
Come qualcuno ricorderà, infatti, quell’esame si concludeva con un giudizio “integrato” da un voto in sessantesimi (e anche l’ammissione all’esame si basava su giudizi privi di qualsiasi accompagnamento numerico).
Ma il più diretto potere comunicativo del voto finale ha fin dall’inizio fagocitato la più elaborata funzione del giudizio Sull’Irc ha pesato finora l’effetto della legge 824, che risale al 1930 ed è attuativa del primo Concordato.
Essa stabiliva all’art.
4 che «per l’insegnamento religioso, in luogo di voti e di esami viene redatta a cura dell’insegnante e comunicata alla famiglia una speciale nota, da inserire nella pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae».
All’epoca, le valutazioni di tutti gli ordini e gradi di scuola erano formulate attraverso voti e la «speciale nota» serviva a distinguere l’Ir dal resto del curricolo, perché l’Ir veteroconcordatario era espressione della religione di Stato allora vigente in Italia e poteva quindi presentarsi nella forma di una vera e propria catechesi di Stato, che doveva essere tenuta fuori dal percorso scolastico vero e proprio, nonostante la pomposa (ma di fatto vuota) formula concordataria che voleva l’Ir «fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica».
Ad una scuola piegata alle finalità religiose ha fatto seguito, dopo l’Accordo di revisione del 1984, un Irc inserito «nel quadro delle finalità della scuola», con una significativa inversione di ruoli che finora è sfuggita al legislatore ordinario, il quale ha accolto acriticamente il dettato della legge del 1930 nel Testo Unico di legislazione scolastica (art.
309 del DLgs 297/94), convalidando in epoca recente criteri e procedure che affondavano le loro radici in un diverso e superato contesto giuridico e culturale.
Senza nemmeno tenere conto del fatto che ormai l’uso del voto era limitato alla sola scuola superiore, mentre il ricorso a giudizi verbali nelle scuole elementari e medie aveva annullato da tempo la “diversità” dell’Ir/Irc rispetto al restante processo di valutazione scolastica.
D’altra parte, il medesimo art.
309 del Testo Unico aveva recepito anche novità di altro genere relative alla valutazione e derivanti principalmente da un ordine del giorno approvato dalla Camera dei deputati all’indomani della firma dell’Intesa Cei-Mpi sull’Irc: si trattava essenzialmente della scheda di valutazione separata «da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica» e non più «da inserire nella pagella scolastica», come recitava la legge del 1930».
LEGGE 169 Stralcio da: Sergio Cicatelli, Il Decreto Gelmini è legge.
Quali effetti sull’Irc.
Con la votazione in Senato del 29 ottobre scorso il DL 137, meglio noto come decreto Gelmini, è stato convertito nella legge 169 del 30-10-2008.
Il 31 ottobre la legge è apparsa sulla Gazzetta Ufficiale ed è quindi è efficace a tutti gli effetti.
[…] In materia di valutazione numerica del profitto è stato aggiunto un giudizio analitico ai voti decimali, per evitare di ridurre tutta l’operazione valutativa a un fatto di mera contabilità.
La promozione alla classe successiva potrà essere negata solo con decisione unanime degli insegnanti nella scuola primaria e con decisione a maggioranza nella secondaria di I grado.
L’aspetto più rilevante per l’Irc è la scomparsa della frase che nel testo iniziale del DL 137 abrogava tutte le norme in contrasto con le nuove disposizioni (e che faceva sperare nel superamento del divieto di voto anche per l’Irc).
Con questa modifica acquista maggior forza il regolamento che dovrà coordinare tutte le norme vigenti in materia di valutazione e stabilire eventuali ulteriori modalità applicative della nuova impostazione.
Il problema principale è la tempistica di questo regolamento, dato che i voti numerici dovranno essere assegnati nel corso degli scrutini che, nelle scuole che adottano il trimestre, potrebbero svolgersi già nel prossimo mese di dicembre.
Al momento non ci sono notizie certe sull’uscita del regolamento e sul suo contenuto.
Vedremo se arriverà in tempo e se conterrà istruzioni sulla valutazione dell’irc.
La situazione è estremamente confusa e molte scuole hanno adottato con solerzia i voti anche per l’Irc mentre altre sono rimaste ancorate ai vecchi giudizi.
L’unica cosa certa, per ora, è che la norma riguarda solo la valutazione esterna, quella decisa in sede di scrutinio, e non quella relativa alle singole prove cui sono sottoposti gli alunni nel corso dell’anno: per queste verifiche è sempre possibile usare qualsiasi modalità valutativa, numerica o verbale, purché dichiarata e comprensibile.
D’altra parte, l’uso del voto o del giudizio è solo una modalità comunicativa che non dovrebbe incidere, in teoria, sulla natura della valutazione.
È ovvio che un voto numerico anche per l’Irc sarebbe motivo di minore discriminazione (lino ad oggi non avvertita nelle scuole del primo ciclo perché si adottava il giudizio in tutte le materie), ma va anche ricordato che “fare media” è più un fatto di immagine che di sostanza.
L’alunno viene promosso non sulla base della media dei voti ma della decisione espressa dal consiglio di classe, di cui fa parte con voto deliberante anche l’Idr.
Il nodo fondamentale è perciò l’applicazione del controverso comma della revisione dell’Intesa del 1990, in cui si dice che il voto dell’Idr in sede di scrutinio finale, se determinante, diviene un giudizio iscritto a verbale.
Sulla controversa interpretazione di questo passo la giurisprudenza amministrativa si è ormai espressa più volte e risulta esistere una sola sentenza contraria del Tar Piemonte, contro una decina favorevoli di altri Tar.
Lo stesso Mistero, con una nota del 24-10-2005, prot.
9830, ha dichiarato che «il voto del docente di religione, quando è determinante, diventa giudizio motivato, ma ad avviso della scrivente [D.G.
Ordinamenti], non perde la rilevanza del voto».
Si spera che si possa superare al più presto il limite nella comunicazione della valutazione, ma l’efficacia dell’Irc ai fini della carriera scolastica dell’alunno sembra essere assicurata.
[…] Sergio Cicatelli PER IL MOMENTO Non essendoci un riferimento esplicito nella Legge 169, sembra che tutto debba restare come prima, lasciando in vigore ciò che dice l’articolo 309 del Testo unico che, in proposito, dispone: “Per l’insegnamento della religione cattolica, in luogo di voti e di esami, viene redatta a cura del docente e comunicata alla famiglia, per gli alunni che di esso si sono avvalsi, una speciale nota, da consegnare unitamente alla scheda o alla pagella scolastica, riguardante l’interesse con il quale l’alunno segue l’insegnamento e il profitto che ne ritrae”.
Mentre sembra ritornare la diatriba sul voto di religione con il ministro Gelmini a favore e il segretario della Cgil-scuola contrario, Francesco Scrima, segretario generale della Cisl-scuola, va oltre la polemica e proprone una soluzione di ampio respiro.
Tutti gli insegnamenti obbligatori od opzionali – sostiene Scrima – devono essere oggetto di valutazione con pari dignità delle discipline e delle attività.
“Tutto ciò che si fa a scuola deve essere valutato e considerato nel giudizio complessivo che si esprime sull’apprendimento, l’impegno e il risultato educativo che il ragazzo raggiunge.” “Se è ammessa l’opzione di avvalersi o non avvalersi di un insegnamento – aggiunge Scrima con riferimento evidente all’insegnamento della religione – devono essere previste e garantite possibilità alternative altrettanto significative e valide”.
Dopo aver dichiarato che quel che non viene valutato viene svalutato, il comunicato della Cisl-scuola (www.cislscuola.it) invita a non trattare la questione su un piano strumentale e ideologico.
tuttoscuola.com mercoledì 14 ottobre 2009 Come era prevedibile, la dichiarazione del ministro Gelmini per proporre il voto in decimi anche all’insegnamento della religione cattolica, ha provocato le prime reazioni negative del fronte laico.
Mimmo Pantaleo, segretario nazionale della Flc Cgil ha infatti dichiarato che il ministro Gelmini “deve garantire la laicità della scuola pubblica italiana sancita dalla nostra Costituzione.
Per questa ragione, nel pieno rispetto del Concordato, l’ora di religione deve rimanere facoltativa.
Non può determinare vantaggi di alcun genere, a cominciare dai crediti formativi e quindi non può essere valutata come una normale materia curriculare.” Il ministro Gelmini, nel suo intervento alla VIII Giornata europea dei genitori e della scuola, oltre a parlare di possibile valutazione dell’Irc con voto in decimi come le altre materie, si era spinta a prospettarne le conseguenze, in caso di parere favorevole del Consiglio di Stato, con “l’inclusione del voto di religione nel computo delle materie che fanno media nel voto finale da assegnare agli studenti”.
Pantaleo ha richiamato l’attenzione del ministro sul fatto per effetto dei tagli di organico si sta negando il diritto ad avvalersi dell’insegnamento alternativo.
tuttoscuola.com martedì 13 ottobre 2009
Poveri perchè soli

Sua Em.za Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI, è intervenuto l’8 ottobre 2009 a Roma, presso la Sala Protomoteca in Campidoglio, in occasione della pubblicazione de “La povertà alimentare in Italia.
Prima indagine quantitativa e qualitativa”.
L’indagine è promossa dalla Fondazione per la Sussidiarietà e dalla Fondazione Banco Alimentare Onlus.
Ulteriori informazioni sono disponibili nei siti internet www.sussidiarietà.net e www.bancoalimentare.it Documenti allegati:Relazione Card.
Bagnasco.doc