Paideia e università

Pubblichiamo parte della prolusione tenuta dal cardinale patriarca di Venezia per il “Dies Academicus 2009-2010” della Pontificia Università Salesiana celebrato a Roma il 27 ottobre.
Sul sito www.angeloscola.it si può leggere il testo integrale.
Dall’inizio della sua esistenza e poi per tutta la vita, l’uomo si trova “gettato” in una trama di rapporti decisivi – a partire da quelli con i genitori, coi fratelli, coi nonni e oggi sempre più spesso coi bisnonni.
Il suo impatto con la realtà avviene all’interno di queste relazioni buone attraverso le quali è la stessa struttura intelligibile del reale a suggerire il metodo più adeguato per ogni avventura educativa.
Se è il reale a offrirsi al soggetto, compito dell’educatore sarà quello di introdurre l’educando a una esperienza integrale della realtà che lo guidi a decifrarne il significato.
Nel suo regalarsi alla mia libertà, la realtà mostra dunque di possedere già un lògos, è intelligibile, come già affermava il realismo classico.
Ciò domanda che l’io eviti di elaborare, in modo astratto (ab-[s]tractus/separato), una conoscenza da cui debbano poi scaturire delle applicazioni pratiche.
La realtà, offrendosi per farsi conoscere, domanda invece un atto di decisione del soggetto.
E così mette in luce la natura di persona del soggetto stesso.
Infatti è proprio l’atto “il particolare momento in cui la persona si rivela”.
Ci troviamo al cuore di quella che Giovanni Paolo II e von Balthasar definiscono un'”antropologia adeguata”.
Un’antropologia consapevole del fatto che quando l’uomo inizia a riflettere su di sé e sul reale può farlo solo dall’interno del suo “esserci”:  “Possiamo interrogarci sull’essenza dell’uomo soltanto nel vivo atto della sua esistenza.
Non esiste antropologia al di fuori di quella drammatica”.
Questo stesso fatto ha un’ulteriore conseguenza.
Uno dei tratti propri dell'”esserci” del soggetto nel mondo è la sua obiettiva impossibilità di fare completa astrazione dalla tradizione nella quale egli si trova inserito, e che gli si manifesta, innanzitutto, nella forma del suo essere parte di una catena di generazioni.
Lungi dal costituire un ostacolo ad una effettiva educazione e ad un pieno sviluppo della ragione – come il pensiero illuministico ci ha per troppo tempo spinto a pensare -, la tradizione offre all’educando un imprescindibile termine di paragone da spendere nel suo confronto con il reale.
Essa è il terreno fertile da cui germoglia l’ipotesi vitale di significato da verificare nel corso della vita e senza la quale una vera e propria conoscenza non è tecnicamente possibile.
In quanto “luogo di pratica e di esperienza”, secondo la felice definizione di M.
Blondel, la tradizione favorisce, come diceva Giovanni Paolo II, la scoperta della “genealogia” della persona che non è mai riducibile alla sua pura “biologia”.
Garantisce quell’esperienza compiuta di paternità-figliolanza senza la quale non si dà la persona con la sua capacità di esperienza e di cultura.
Avendo così indirettamente individuato l’insostituibile apporto della libertà umana, sempre storicamente situata, alla paideia, possiamo legittimamente accennare al fattore “critico” insito in ogni proposta educativa.
Mi riferisco alla categoria di rischio.
Il rischio non è irrazionalità, ma affiora nella sempre possibile scissione tra il giudizio della ragione e l’atto di volontà.
Nell’incontro del suo io tutto intero con tutta la realtà l’educando fa l’esperienza del rischio perché, pur percependo l’intrinseca positività della realtà stessa, può rimanere bloccato nell’adesione ad essa fino ad abbandonarsi alla tentazione dello scetticismo.
In questa prospettiva il rischio non è risparmiato neanche all’educatore che, nel comunicare all’educando l’ipotesi interpretativa che egli ritiene più appropriata per spiegare il reale, è chiamato ad auto-esporsi e quindi a rischiarsi.
Per questa ragione l’educazione ha una natura eminentemente dialogica.
Domanda sempre uno scambio tra l'”io” – l’educatore che propone e si propone – e il “tu” – l’educando che viene introdotto alla realtà totale.
E questo scambio avviene, costitutivamente, all’interno della trama di relazioni in cui educatore ed educando sono sempre inseriti.
Questo dialogo si realizza solo a condizione che, nel continuo e serrato paragone con il reale, venga messa in gioco la libertà di entrambi.
Esso mostra inoltre la natura “drammatica” del compito dell’educatore, il quale, spesso tentato di risparmiare all’educando il negativo, può, anche senza volerlo, giungere fino ad impedirgli di essere irriducibilmente “altro”  e  quindi integralmente  “li- bero”.
Il rischio (educativo) del possesso può essere battuto in breccia solo da quella che, insieme alla libertà, rappresenta un’altra dimensione costitutiva di ogni impresa educativa:  l’amore.
L’amore offerto all’educando, e che a sua volta muove l’educando a un appassionato confronto con il mondo che lo circonda, ha due volti.
Quello dell’educatore, che offre e comunica tutto se stesso nel testimoniare la verità come quell’ipotesi vitale di interpretazione della realtà che egli ha fatto propria; quello della realtà stessa, che, attestandosi come dono, è ultimamente segno del Mistero che si rivela a tutti gli uomini.
E la dinamica con cui la realtà si racconta non si esaurisce mai perché, alla fine, esprime l’amore con cui l’amato (l’uomo) e l’amante (il Mistero) incessantemente si interrogano.
Quando l’ipotesi unitaria e vitale di interpretazione della realtà è l’evento di Gesù Cristo che si comunica nella traditio eucaristica della Chiesa, allora essa appare inscindibilmente connessa con la virtù cristiana della carità.
San Giovanni Bosco ha ben descritto quale sia il caposaldo dell’educazione:  “Se perciò sarete veri padri dei vostri allievi, bisogna che voi ne abbiate anche il cuore(…) Ricordatevi che l’educazione è cosa del cuore, e che Dio solo ne è il padrone, e noi non potremo riuscire a cosa alcuna, se Dio non ce ne insegna l’arte, e non ce ne mette in mano la chiave”.
Queste parole sono nutrite ultimamente dalle relazioni intratrinitarie tra Padre e Figlio e Spirito che, per le missioni del Figlio e dello Spirito, assumono il volto della singolare esperienza del rapporto di Gesù col Padre (cfr.
Vangelo di Giovanni) e con lo Spirito.
Esse dicono dell’impossibilità di essere padri ed educatori se prima non ci si riconosce figli.
Non dico:  se non si riconosce di “essere stati figli”, bensì proprio di “essere figli”, qui e ora, di quel Padre che è fonte di ogni paternità e che in Cristo “ci ha scelti prima della creazione del mondo (…), predestinandoci a essere suoi figli adottivi”.
Indicati i tratti di una paideia come introduzione di tutta la persona alla realtà totale, possiamo ora domandarci in che misura l’università sia in grado di rispondere a questo compito.
A partire dall’epoca moderna l’università in ambito euroatlantico pratica di fatto l’esclusione dei saperi connessi con tutte le questioni ultime, specie se lette nella prospettiva della rivelazione, perché sono ritenute estranee a una rigorosa conoscenza scientifica.
“L’umanità preferirà rinunciare ad ogni domanda filosofica piuttosto che accettare una filosofia che trova la sua ultima risposta nella rivelazione di Cristo”.
Questa pesante emarginazione non si perita più, come un tempo, di mettere in discussione la legittimità delle questioni e delle domande circa le cose ultime (Comte).
Piuttosto nega la possibilità che la teologia, e anche la filosofia intesa in senso pieno, possano rispondervi adeguatamente.
Oggi sarebbe deputata a farlo, al loro posto, la tecnoscienza, la quale viene da più parti considerata l’unica depositaria della verità, sempre falsificabile (Popper), circa l’uomo e i fattori fondamentali della sua esistenza:  l’amore, la nascita, la morte.
È evidente come entrino qui in gioco radicali cambiamenti che hanno una stretta connessione con la questione educativa.
In questo quadro di rapida e affannosa transizione, come può la formazione universitaria essere pedagogicamente appropriata e non venir meno alla vocazione stessa della uni-versitas, cioè di luogo in cui i saperi vengono ricondotti a un unico principio sintetico di spiegazione della realtà? In passato questo ruolo di sintesi era toccato alla teologia, il cui metodo e i cui risultati facevano da orizzonte per le altre scienze.
Nell’epoca moderna, declinato il ruolo della teologia, ridotta al rango di una disciplina fra le altre e in molte parti espulsa dall’università, non decade tuttavia l’istanza di unificazione del reale.
Ma oggi il principio che assicuri l’universitas come comunità di ricerca non è più ricavato dall’accordo su un nucleo centrale di questioni ultime – sempre allo stesso tempo filosofiche e religiose – ma poggia sul consenso prodottosi intorno alle procedure di ricerca.
La scientificità che accomuna le discipline universitarie non attiene più direttamente all’oggetto della conoscenza, cioè alla verità, ma solo alla metodologia di formulazione del discorso scientifico stesso.
Inevitabile conseguenza di questo approccio è che l’università cessa di essere luogo di ricerca e verifica di un’ipotesi veritativa ultima, e perciò di reale paideia, per ridursi unicamente a luogo di trasmissione di competenze che, pur non rinunciando a dire “qualcosa” di sempre provvisorio circa la verità – pensiamo al bìos, o alla “formazione dell’universo” – possiede solo un’utilità strumentale.
Ci troviamo qui di fronte ad un concetto di ragione estremamente limitato, che non tiene conto delle articolate modalità in cui si esercita il lògos umano.
Possiamo infatti individuare, sulla scorta di quanto già diceva Aristotele, almeno cinque forme, differenziate e irriducibili, di razionalità:  teorica-scientifica (scienza), teorica-speculativa (filosofia/teologia), pratica tecnica (tecnologia), pratica-morale (etica) e teorico-pratica espressiva (poetica).
Tutte queste dimensioni dovrebbero essere armonicamente e unitariamente coltivate dall’università.
Certo, nell’attuale panorama educativo non si può non tenere nella dovuta considerazione il fatto che il sistema universitario è per sua natura basato su una complessa articolazione di specifici programmi curriculari e di discipline differenziate.
Può pertanto apparire irrealistico perseguire in tempi ragionevoli l’individuazione di nuove basi per l’unità dell’oggetto del sapere, tanto più che va mantenuto il legittimo, e anzi necessario, rispetto per lo statuto particolare delle singole discipline secondo il principio popperiano di demarcazione.
Tuttavia quella del superamento della frammentarietà dell’oggetto del sapere è un’istanza oggi più sentita che sta conducendo cultori di molte materie a non limitarsi alla pura interdisciplinarietà.
A maggior ragione però, di fronte a una tale situazione, una adeguata educazione universitaria non potrà rinunciare da subito alla cura dell’unità del soggetto del sapere.
Ma su cosa fondare oggi l’unità del soggetto? Saggezza chiede che, senza confondere il nuovo con l’inedito, anche nel tempo presente si riconosca che essa si realizza a partire dall’assunzione di un’ipotesi esplicativa vitale del reale, che consenta di percepirlo nella sua totalità e di goderne.
Non si tratta di un puro esercizio intellettualistico, ma di un’esigenza che si impone ad ogni ricercatore e ad ogni docente e studente che sia lealmente impegnato con la sua materia di ricerca, di insegnamento e di studio.
Ogni disciplina, infatti, contiene al fondo una domanda di senso e di significato e perciò prima o poi suscita le irrinunciabili questioni che da sempre agitano il cuore dell’uomo:  Chi sono io? Da dove vengo? Quale destino mi aspetta? Chi alla fine mi assicura amandomi definitivamente – oltre la morte stessa? Le possibilità che uno sguardo unitario sul reale è in grado di dischiudere a un intelletto commosso sono ben descritte dalle parole assai attuali del cardinale J.H.Newman:  “Non c’è vero allargamento dello spirito se non quando vi è la possibilità di considerare una molteplicità di oggetti da un solo punto di vista e come un tutto; di accordare a ciascuno il suo vero posto in un sistema universale, di comprendere il valore rispettivo di ciascuno e di stabilire i suoi rapporti di differenza nei confronti degli altri(…) L’intelletto che possiede questa illuminazione autentica non considera mai una porzione dell’immenso oggetto del sapere, senza tener presente che essa ne è solo una piccola parte e senza fare i raccordi e stabilire le relazioni che sono necessarie.
Esso fa in modo che ogni dato certo conduca a tutti gli altri.
Cerca di comunicare ad ogni parte un riflesso del tutto, a tal punto che questo tutto diviene nel pensiero come una forma che si insinua e si inserisce all’interno delle parti che lo costituiscono e dona a ciascuna il suo significato ben definito”.
Tale punto di vista unitario è offerto secondo il cristianesimo dall’evento di Gesù Cristo, Verbo incarnato e immagine del Dio invisibile, e dalla Sua “pretesa” di svelare, con la sua passione, morte e risurrezione, l’enigma che l’uomo rappresenta per se stesso senza per questo pre-decidere il dramma costitutivo di ogni singolo.
Questa “ipotesi” non soffoca il libero esercizio della ragione, anzi ne esalta le facoltà critiche urgendole ad un confronto a 360 con la realtà.
La proposta cristiana, infatti, presa nella sua oggettiva integralità, non è un salto nel buio.
L’uomo può, al contrario, verificarne tutto lo spessore veritativo nel paragone con le dimensioni della sua esperienza elementare – lavoro, affetti, riposo – e con le irriducibili polarità che attraversano l’unità del proprio io – unità duale propria di ogni essere creato, contingente:  anima-corpo, uomo-donna, individuo-comunità.
(©L’Osservatore Romano – 28 ottobre 2009)

A single man

E’ notizia recente che  Barack Obama ha annunciato la fine della politica del “non chiedere, non dire”, che permetteva ai gay di arruolarsi nelle forze armate soltanto a patto di non dichiarare il proprio orientamento sessuale, come è di pochi giorni fa la manifestazione svoltasi a Roma per il giorno degli “Uguali” che fa riferimento all’articolo 3 della Costituzione che recita: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
Purtroppo, i casi di razzismo contro gli omosessuali si verificano troppo spesso e neppure lo struggente film di Tom Ford “A single Man”( 66.
ma Mostra di Venezia) che ha meritato la Coppa Volpi all’elegante Colin Firth per la sua interpretazione di George, il protagonista, farà cambiare idea agli incalliti persecutori che sempre a Roma hanno picchiato a sangue due gay portando in giro uno striscione con questa scritta: Il Colosseo ai Gay? Con i leoni dentro (Cfr.La Stampa, 12 ottobre 2009 ed altri quotidiani nazionali).
Naturalmente si parla di diritti, non di differenze di genere che esistono e si vedono: una donna è donna e un uomo è un uomo e il matrimonio tra un uomo ed una donna non è paragonabile a quello tra due omosex, per le molte ragioni di ordine scientifico, sociali, religiose che qui è inutile elencare, perché ci interessa il sentimento universale: l’amore che può nascere e legare i cuori  di due persone senza troppo badare al genere.
E allora, diciamo che A single Man avrebbe meritato il Leone d’oro per la bellezza  di ogni inquadratura, la misurata e toccante recitazione degli interpreti, specie quella di Colin Firth cui, come abbiamo già scritto- è stata assegnata la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.
Questo film ha ricevuto così tanti applausi come nessun altro.
Ma la Giuria- prudente- ha ritenuto opportuno attribuire un premio, ma non il maggiore per non suscitare altri vespai, critiche, grida di “aiuto, adesso ratificano con il Leone d’oro il rapporto omosex”! E qui in Italia è pericolosissimo, per via di tanti scalmanati ignoranti che sono omofobi a tutto spiano, senza rendersi conto che –in questo modo diventano razzisti e vanno contro la Costituzione.
E non chiamiamo in causa il Vaticano che pure in questo campo avrebbe molto da farsi “perdonare” per la strenua difesa dei preti pedofili e così via.
Parlare di omosessualità è stato difficile sin dal tempo della Bibbia e non è diventato più facile discuterne nel nostro tempo(basti attenersi alla confusione creatisi in Parlamento per l’approvazione della legge contro l’omofobia).
A noi interessa- ora- presentare il film, da vedere assolutamente.
.La sua uscita dovrebbe essere il prossimo 22 gennaio 2010.
Il film – vincitore del Queer Lion 2009 e della Coppa Volpi a Colin Firth – sarà distribuito dall’Archibald Film di Vania Taxler( Cfr.: www.queerblog.it).
Il romanzo A single Man di Christopher Isherwood(cfr.: Wikipedia, l’enciclopedia libera).Vai a: Navigazione, cerca Christopher William Bradshaw-Isherwood (Wybersley Hall, 26 agosto 1904Santa Monica, 4 gennaio 1986) è stato uno scrittore inglese.
Era nato a Wybersley Hall, High Lane, nel nordovest dell’Inghilterra, figlio di proprietari terrieri.
Suo padre, ufficiale dell’esercito, era stato ucciso nella prima guerra mondiale.
A scuola incontrò Wystan Hugh Auden, che divenne inizialmente suo amante, e poi il suo amico più caro per tutto il resto della sua vita.
Studiò successivamente al Corpus Christi College di Cambridge, e alla University of Cambridge, dove incontrò Stephen Spender, che era alla Oxford University con Auden. Rifiutando le sue origini sociali e attratto dai ragazzi delle classi sociali più basse, Isherwood si trasferì a Berlino, capitale della giovane Repubblica di Weimar, attrattovi dalla sua meritata reputazione di libertà sessuale (e omosessuale).
Qui lavorò come insegnante privato mentre scriveva il romanzo Mr.
Norris se ne va
e una serie di racconti editi sotto il titolo Addio a Berlino, che avrebbero fornito l’ispirazione per la commedia I Am a Camera e al musical, che ne fu tratto, Cabaret.
Nel settembre 1931 il poeta William Plomer gli presentò lo scrittore Edward Morgan Forster; divennero intimi amici e Forster fece da mentore al giovane scrittore.
Auden e Isherwood viaggiarono prima in Cina nel 1938, poi emigrarono negli Usa nel 1939.
Isherwood si stabilì in California, dove si convertì all’Induismo.
Assieme a Swami Prabhavananda produsse diverse traduzioni scritturali induiste, saggi sui Vedānta, la biografia Ramakrishna and his Followers, e romanzi, opere teatrali e sceneggiature, tutte farcite di temi e personaggi del Vedānta, karma, reincarnazione e ricercaUpanishadica.
Arrivando a Hollywood nel 1939, egli incontrò Gerald Heard, il mistico-storico che fondò un suo proprio monastero a Trabuco Canyon che infine donò alla Vedānta Society.
Attraverso Heard, che fu il primo a scoprire Swami Prabhavananda e il Vedānta, Isherwood si unì ad uno straordinario gruppo di esploratori mistici che comprendeva Aldous Huxley, Bertrand Russell, Chris Wood, John Yale e J.
Krishnamurti
.
Tramite Huxley, Isherwood strinse amicizia con il compositore russo Igor Stravinsky.
Egli ottenne la cittadinanza statunitense nel 1946.
Nel 1964 pubblica il romanzo A single man (edito in Italia da Guanda con il titolo Un uomo solo), dedicandolo all’amico Gore Vidal.
Il romanzo rievoca la giornata qualsiasi di un anziano professore californiano, alle prese con se stesso, i suoi studenti, e l’entusiasmo per una notte passata assieme a un giovane universitario incontrato per caso durante la giornata.
Dal 1953 fino alla morte, Isherwood ha vissuto col suo compagno, il pittore e ritrattista Don Bachardy.
Bibliografia Norman Page, Auden and Isherwood: the Berlin years (2000) Peter Parker, “Isherwood: the biography” (2004) Dennis Altman, Omosessuale, oppressione e liberazione, Arcana, Roma 1974.
“La bellezza salverà il mondo”, scriveva Fyodor Dostoyevsky.
E il film di Tom Ford, “A Single Man”, dimostra la verità di questa affermazione.
Una pellicola attesa dato che uno dei creatori di moda più geniali e importanti del mondo ha diretto una storia tanto personale quanto universale.
Liberamente adattato dal toccante romanzo di Christopher Isherwood, “A Single Man” è una storia d’amore, segnata da un lutto e da un uomo che, nonostante abbia tutto nella vita, non trova più le ragioni per continuare.
Fino a quando, grazie ad una vecchia amicizia con una donna e ad un giovane ragazzo attratto da lui, capirà che le piccole cose sono importanti.
E che la bellezza che ci circonda ci può riconciliare anche con la fine.
La morte fa parte della vita, ed è l’unico aspetto che accomuna l’esistenza di ogni essere umano.
Ambientato a Los Angeles nel 1962 durante la crisi dei missili successiva all’invasione USA a Cuba, “A Single Man” è la storia di George Falconer, un professore inglese di 52 anni che cerca di dare un senso alla propria vita dopo la morte del suo compagno Jim.
Egli indugia nel passato e non riesce a immaginarsi un futuro, ma una serie di eventi e di incontri lo porteranno a decidere se ci sia o no un significato nel vivere senza Jim.
George viene confortato da una cara amica, Charley, una bella donna di 48 anni a sua volta assalita da dubbi sul futuro.
Kenny, un giovane studente di George alla ricerca di una ragione che giustifichi la sua natura omosessuale, perseguita il professore identificandolo come anima gemella.
A Single Man Titolo originale:          A Single Man Nazione:         U.S.A.
Anno: 2009 Genere:           Drammatico Durata:            99′ Regia: Tom Ford Cast:    Colin Firth, Julianne Moore, Matthew Goode, Ginnifer Goodwin, Nicholas Hoult, Paulette Lamori, Lee Pace, Keri Lynn Pratt, Ryan Simpkins, Teddy Sears, Ridge Canipe Produzione:    Artina Films, Depth of Field, Fade to Black Productions Distribuzione: – Archibald Film di Vania Taxler, nel gennaio 2010 Data di uscita:            Venezia 2009 Nei cinema: gennaio 2010 Colin Firth, divenuto famoso grazie al film “Il Diario di Bridget Jones”, è nato il 10 Settembre 1960 a Grayshott, Hampshire, in Inghilterra.
I genitori sono entrambi insegnanti, i nonni, invece, erano missionari metodisti.
Colin ha una sorella, Kate, che insegna canto, ed un fratello Jonathan, anche lui attore, (“Luther”).
Dopo aver trascorso i primi cinque anni della sua vita in Nigeria torna in Inghilterra per frequentare le scuole a Winchester.
A causa degli impegni di lavoro del padre per un anno si trasferisce in America, a St.
Louis, nel Missouri, dove è soprannominato dai suoi compagni l’inglese.
Poi, quando torna in Inghilterra, i suoi amici inglesi lo chiamano lo yankee.
La sua passione per la recitazione nasce fin dalle elementari, quando interpreta Jack Frost in una recita di Natale.
All’età di 14 anni decide di diventare un attore, e si iscrive al Drama Centre a Chalk Farm, a Londra.
Qui viene notato il suo talento, ed è grazie alla sua interpretazione di Amleto nella rappresentazione scolastica di fine anno, che decolla la sua carriera.
Notato nello spettacolo, infatti, Colin viene chiamato per interpretare il ruolo del protagonista, Guy Bennett, nel dramma teatrale “Another Country”, rappresentato al West End.
Curiosamente il suo debutto cinematografico, nel 1984, è nella trasposizione cinematografica della stessa opera, dove, questa volta, veste i panni di Tommy Judd, l’amico del protagonista, che invece è interpretato da Rupert Everett.
Nonostante la confidenza trasmessa sul grande schermo, tra i due non c’è molta simpatia, anche se, a detta dello stesso Colin, pare che con gli anni, i due siano riusciti ad appianare le divergenze, tanto da riuscire a divertirsi quando si ritrovano sul set di “L’importanza di chiamarsi Ernesto” nel 2002.
Durante le riprese del film “Valmont” di Milos Forman, 1989, incontra Meg Tilly, e dal loro amore, nel 1990, nasce il loro primo figlio, William.
Dopo cinque anni, però, la loro relazione finisce.
I rapporti rimangono comunque amichevoli anche per via del piccolo Will, che attualmente vive negli Stati Uniti con la mamma.
Il 21 Giugno del 1997 sposa Livia Giuggioli, produttrice italiana, conosciuta durante le riprese di “Nostromo”.
La coppia ha due figli, Luca e Matteo, nati rispettivamente nel 2001 e 2003.
La famigliola passa il suo tempo tra Londra e Roma, dove i coniugi Firth hanno comprato una casa.
L’attore ama molto l’Italia e durante un’intervista ha espresso il desiderio di recitare sotto la regia di Gabriele Muccino.
Filmografia  (2009) A Single Man – George (2009) Dorian Gray – Lord Henry Wotton (2009) A Christmas Carol – Fred (voce) (2008) Genova – Joe (2008) Un matrimonio all’inglese – Jim Whittaker (2007) St.
Trinian’s
– Geoffrey Thwaites (2008) Un marito di troppo – Richard Bratton (2008) Mamma Mia! – Harry Bright (2007) Quando tutto cambia – Frank (2007) And When Did You Last See Your Father? – Blake Morrison (2007) L’ultima legione – Aurelio (2005) Nanny McPhee (Tata Matilda) – Mr.
Brown (2005) False verità – Where the truth lies – Vince Collins (2004) Che pasticcio, Bridget Jones – Mark Darcy…… 

Chiesa for Africa

“Africa, alzati e cammina!”.
L’esortazione lanciata dal messaggio finale del sinodo dei vescovi africani è eloquente: il continente deve trovare in sé le risorse per cambiare.
Il documento, che fa la sintesi dei lavori svolti in Vaticano dal 4 al 25 ottobre 2009, contiene numerosi appelli.
Ai cattolici impegnati nella vita pubblica i vescovi dicono che l’Africa ha bisogno di politici santi, in grado di combattere la corruzione e di lavorare per il bene comune.
Coloro che non hanno questo orientamento si convertano o abbandonino la scena pubblica, per non danneggiare la popolazione e la credibilità della Chiesa cattolica.
Alla comunità internazionale viene chiesto di trattare l’Africa con rispetto.
Occorre cambiare le regole del gioco economico, mettere fine al dramma del debito estero, fermare lo sfruttamento delle multinazionali che distruggono le risorse naturali africane, e non nascondere dietro agli aiuti intenzioni per niente nobili.
Ai maschi cattolici è chiesto di essere uomini veri, mariti e padri responsabili, capaci di difendere la vita fin dal concepimento e di educare i figli.
“La povertà – si legge – spesso rende i genitori incapaci di prendersi buona cura dei propri figli, con conseguenze disastrose”.
Ma le parole più accorate sono per le donne cattoliche, definite “la spina dorsale della nostra Chiesa locale”.
A loro i vescovi africani si rivolgono come alla risorsa più preziosa della società.
Il loro contributo “dovrebbe essere riconosciuto e promosso, non solo in casa come moglie e madri, ma più generalmente anche nella sfera sociale”, il che vale per la Chiesa stessa, chiamata a creare “strutture concrete per assicurare la reale partecipazione delle donne a livelli appropriati”.
Alle donne la Chiesa chiede di prendere parte ai progetti di sviluppo delle Nazioni Unite, tenendo ben desto però il senso critico: “Munite di una buona informazione e della dottrina sociale della Chiesa, dovreste fare in modo che le buone idee non vengano distorte dagli spacciatori di ideologie straniere moralmente velenose che riguardano il genere e la sessualità umana”.
Ricordando poi che in molti paesi africani più del sessanta per cento della popolazione ha meno di venticinque anni, i vescovi si rivolgono alle nuove generazioni chiedendo loro di essere “strumenti di pace” all’avanguardia nel cambiare la società.
“Voi giovani adulti – si legge – siete spesso trascurati, lasciati alla deriva come bersagli per ideologie e sette di ogni tipo.
Voi siete reclutati per pratiche violente.
Esortiamo tutte le Chiese locali a considerare l’apostolato verso i giovani come un’alta priorità”.
Circa il problema aids il sinodo ribadisce che la Chiesa non ritiene possibile una soluzione attraverso la distribuzione di profilattici.
Più importante è riconoscere “il successo già ottenuto dai programmi che consigliano l’astinenza tra i non sposati e la fedeltà tra gli sposati”.
I giovani non permettano a nessuno di dire che non è possibile autocontrollarsi.
Di fronte alla situazione politica del continente, se da un lato i vescovi si congratulano con i paesi che sono riusciti a introdurre la democrazia, dall’altro esprimono desolazione per le numerose situazioni di conflitto, sempre mescolate alla corruzione e alla bramosia di potere.
Anche in questo caso la denuncia è netta: qualunque sia l’incidenza degli interessi stranieri, dietro queste situazioni c’è sempre “la vergognosa e tragica collusione dei leader locali, politici che tradiscono e svendono le loro nazioni, uomini d’affari corrotti che sono in collusione con multinazionali rapaci, commercianti e trafficanti di armi, agenti locali di organizzazioni internazionali pagati per diffondere ideologie letali alle quali essi stessi non credono”.
“Che ne è – si chiedono i vescovi – del nostro tradizionale senso di vergogna?”.
E’ tempo di cambiare.
Infine la denuncia del fanatismo religioso, che si sta diffondendo ed è causa di rovina in molte parti dell’Africa.
“Dalla cultura religiosa tradizionale gli africani hanno assorbito un profondo senso di Dio creatore”, portandolo anche nella loro conversione al cristianesimo e all’islam.
Ma troppo spesso questo fervore religioso “è male indirizzato dai fanatici o manipolato dai politici”.
Ecco perché occorre tornare a una fede genuina, ben sapendo che nel rapporto tra le religioni dialogo e collaborazione sono possibili solo se c’è rispetto reciproco.
Ai paesi islamici i vescovi ricordano che “la libertà di religione comprende anche la libertà di condividere la propria fede, di proporla, di accettare e accogliere coloro che si convertono”.
Le nazioni che per legge impediscono tale libertà privano i loro cittadini di un diritto umano fondamentale.
“Poiché i cristiani che decidono di cambiare la loro religione sono ben accolti tra le fila musulmane, ci deve essere reciprocità in questo campo.
Nel nuovo mondo che sta nascendo abbiamo bisogno di dare spazio a ogni fede perché contribuisca pienamente al bene dell’umanità”.
in “Europa” del 24 ottobre 2009

La Chiesa deve parlare forte

La Chiesa deve parlare forte intervista a Mons.
Giancarlo Maria Bregantini a cura di Ida Nucera Viviamo un tempo difficile, caratterizzato da un progressivo sfi lacciamento della morale, scalzata da narcisismo, corruzione e arroganza, in totale sprezzo del bene comune.
Anche la politica ha perduto l’anima, cioè l’etica.
I cattolici cercano con difficoltà alternative possibili.
Per il credente diventa sempre più faticoso “stare sulla stessa barca”, come più volte evidenziato dal dibattito aperto su queste stesse colonne.
Il momento sollecita un confronto franco con pastori aperti al dialogo.
Abbiamo dunque incontrato monsignor Giancarlo Maria Bregantini, trentino di Denno, dal 1994 vescovo di Locri, profondo conoscitore del Sud, con tutte le problematiche legate all’arretratezza e alla ‘ndrangheta, ma anche con le sue grandi potenzialità, per le quali si è sempre battuto affi nché potessero esprimersi in pienezza.
Dal 2007 è arcivescovo metropolita di Campobasso Bojano.
Monsignore, molti cristiani sono indignati perché ritengono la Chiesa poco profetica su temi cruciali.
Attendono una condanna chiara di certi atteggiamenti immorali, invocano parole certe su quanto lontana dal Vangelo sia la classe dirigente.
Possiamo continuare a far finta di nulla? Possiamo chiuderci in sacrestia e attendere che tutto passi? Riguardo alla situazione generale della Chiesa, oggi, mi piace rivisitare tre verbi che spesso ripeto ai preti della nostra diocesi.
Frutto di anni di fatica interiore e pastorale, di lacrime ma anche di tante speranze e di tante gioie, vissute con la gente.
Perché la Chiesa non è solo la gerarchia: è soprattutto quella parte del popolo di Dio che vive, spera e lotta tutti i giorni.
Compio ogni sforzo perché il mio cuore sia sempre più attaccato ad essa.
E la “gerarchia” stessa non è mai fi nalizzata a sé stessa, ma opera sempre per la gente, nel vissuto quotidiano e sofferto della storia, così come la disegna il Signore per noi, di pietra in pietra.
Dicevo che ho imparato tre verbi: mai vincere, ma sempre convincere; mai imporre, ma sempre proporre; mai giudicare, ma analizzare.
Un giorno un Provinciale di una Famiglia religiosa di consacrati mi disse, quasi scusandosi: «Ma la santità non si può imporre!».
È vero, risposi di getto, ma si deve proporre, sempre più.
La Chiesa oggi sente la sua pesantezza, ma guai se smette di proporre la santità come meta.
Se si lascia infiacchire dalla propria stanchezza.
Don Milani, con chiarezza, nel suo fiorito linguaggio fiorentino, amava dire: «Sfottere crudelmente non chi cammina in basso, ma chi mira in basso!».
Tutti siamo fragili, tutti peccatori.
Ma questo non ci deve per nulla esimere dal puntare in alto.
Anzi, proprio perché la fragilità è evidente, ancor più limpida deve essere la proposta e alta la meta.
Ecco allora la necessità di rifl ettere sul comportamento della Chiesa nel nostro tempo.
Ma siano analisi, e non giudizi.
Perché c’è una differenza grande.
E dove sta la differenza? Nel tono della voce.
In famiglia, in ufficio, in politica: tutto sta nel tono della voce.
Se esprimi un giudizio, il tuo tono sarà duro, aspro, diretto.
Se invece analizzi, vedi e individui subito ciò che non va, perché il tuo occhio è limpido, come il catino dell’acqua con cui Gesù lavò i piedi ai suoi discepoli.
Il tono della tua voce si fa testimonianza, coinvolgimento, passo sofferto e condiviso.
Anche il male lo porti con te e non te ne tiri fuori, perché non sei diverso da loro.
Occorre sfuggire al soffuso ma comodo manicheismo che talvolta avvinghia certi preti bravi o certi cristiani impegnati.
La fatica di un vescovo è la fatica del pastore, che non ritma i suoi passi sul passo delle sue forze, ma sul passo fragile delle «pecore madri, che egli conduce pian piano e porta sul petto gli agnellini» (Isaia 40,11), cercando sempre la pecorella che si è smarrita.
E se la pone sulle spalle, condividendo la gioia con i suoi amici, in una comunità dove soprattutto il lontano si fa vicino, per il sangue di Gesù sulla croce.
Quella croce che ha fatto dei due un solo popolo nuovo.
Ripeto: solo chi non mira in alto va crudelmente sfottuto.
Ed è ciò che oggi si deve fare di fronte alla perdita del bene comune, alla mancanza di etica.
Solo con la chiarezza del profeta si può dire di «no», ad esempio, a un personaggio politico locale, che pretenda di fare da padrino nella cresima di un amico.
Con amarezza ma con chiarezza, perché egli non regola la sua vita politica con coerenza.
Non sarà giudizio, ma analisi lucida, poiché hai orientato la tua vita, prima di ogni altra, secondo ideali evangelici che cerchi di vivere con coerenza.
La Chiesa oggi deve parlare di più con voce profetica.
Troppo tace, troppo lascia correre.
Su certe questioni si dimostra inflessibile, mentre su altre è acquiescente.
Ma questa difficoltà nasce dalla carenza di proposta evangelica.
Questo è il problema.
E il nostro dolore diffuso.
A quali principi dovrebbero essere improntati i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica? C’è sempre attenzione all’ultimo, al povero, alla giustizia? Noi vescovi della regione ecclesiastica Abruzzo-Molise abbiamo emesso un decalogo, evangelicamente ben inquadrato, che indica i sentieri del bene comune, con precisione e passione pastorale.
In sintesi richiama il potere al servizio orientato verso le categorie più deboli.
Vede la politica come crescita di responsabilità e democrazia, nel rispetto delle altrui posizioni e nella coerenza delle scelte.
Ribadisce il rifiuto e la denuncia di comportamenti immorali e disonesti e auspica l’impegno per favorire la cultura della legalità, la preparazione degli amministratori e una selezione della classe dirigente che premi il merito, la competenza e rifugga da simpatie, legami personali o familistici, ripicche o vendette.
Tutto questo si fonda sul Vangelo e sulla Bibbia.
Eppure, quando l’ho presentato, c’è stato chi mi ha accusato di fare politica.
Ciò accade spesso quando la Chiesa diviene chiara, profetica e incisiva.
Molti la vorrebbero invece muta e silenziosa, quasi complice di uno stile di vita che favorisce i ricchi e penalizza i poveri.
Ma che direbbe quel Gesù che afferma che ogni cosa fatta al più piccolo dei fratelli è fatta a lui stesso? Che rimprovera Erode per essere come una volpe? Che paga le tasse? Che contesta, con il suo silenzio, anche Pilato? È sempre lui la misura.
Oggi uno dei punti più dolenti è il respingimento degli stranieri, condannati a sevizie certe nei lager della Libia.
Molte persone, laici e cattolici impegnati nell’apostolato sociale, si sono dichiarate pronti alla disobbedienza civile di fronte a leggi che permettono tutto ciò.
Ritiene sia una scelta coerente con il Vangelo? Il respingimento degli stranieri è un peccato grave.
È uno dei più tristi segni della nostra acquiescente debolezza come cristiani.
E dico grazie alle voci ecclesiastiche (non molte, per la verità) che li hanno condannati con chiarezza.
Memori di un Gesù che disse: «Ero straniero e mi avete accolto» (Matteo 25,35).
È triste sentire certi politici che, ogni volta che la Chiesa dice la sua, la deridono con sciocchi pretesti.
Credo che chi matura forme di disobbedienza civile non faccia altro che seguire gli esempi dei grandi santi.
Come Tommaso Moro, patrono dei politici, che morendo, sul palco della sua decapitazione, affermò con luminosa chiarezza evangelica: «Ho sempre servito Dio e il re.
Ma ho servito Dio prima del re».
La testimonianza riguarda non solo il clero, ma anche il laicato cattolico.
La fedeltà a una scelta costa la fatica di una strada in salita, soprattutto in alcuni luoghi che lei ben conosce, e può presentare un conto salato se si disturbano i potenti e i prepotenti… La testimonianza è indispensabile.
Nasce da un modo di leggere la Parola e la storia.
Fedeli a Dio e alla gente.
Ai laici, chiedo un forte amore per la propria terra, dettato da un cuore materno.
È infatti soprattutto con un cuore femminile, anche nella vita consacrata, che si coltiva questo amore.
Solo così la terra diviene un giardino.
La devi amare, curare, e servire, con rispetto e dedizione, fino in fondo.
In fedeltà da sposo e non da amante.
«I piccoli “sì” preparano il cuore ai grandi “sì” cioè al bene; come i piccoli “no” al male allenano ai grandi “no” al male», diceva san Tommaso Moro.
È fondamentale la coerenza nelle piccole cose, la chiarezza interiore coltivata giorno per giorno, che fa leggere la vita con occhi trasparenti.
Altro elemento importante nella testimonianza è la gratuità.
Siamo amati gratuitamente da un Padre che ci dona il suo sole; e lo dona sia a chi è giusto sia agli ingiusti.
Lo stile gratuito rovescia il concetto meritocratico che diventa, sottilmente, la più falsa giustifi cazione della scala sociale iniqua.
Solo nella gratuità si diviene fratelli.
L’allontanamento di tanti dalla pratica religiosa, tra cui la confessione, dipende da molte cause.
Lei ha detto che la testimonianza è la prima forma di identità.
Testimoniare Cristo morto e risorto è come spandere un profumo, ma, a volte, questo si è come dissolto e non attrae più… La testimonianza resta il vero profumo, che la Chiesa nel giovedì santo immette nell’olio del Crisma, segno stesso del Cristo.
Crisma, Cristo, cristiano: stessa radice, stesso itinerario di speranza e di coerenza.
Ma qui tutti sentiamo di essere fragili.
Abbiamo bisogno di mete alte, di testimoni credibili.
E qui si gioca la fatica educativa con i nostri ragazzi, che restano il banco di prova della nostra coerenza.
Perché sono i primi ad accorgersi se in noi, preti o educatori, c’è realmente quel profumo di santità e di bellezza.
È dunque necessario che questa testimonianza sia resa ben visibile, con gesti credibili e alternativi.
Perché la Chiesa non deve essere né succube a questo sistema di potere né anarchica, ma alternativa.
Deve cioè avanzare proposte alte, con passo più avanzato, con presenze forti presso chi è escluso o è vittima della crisi che ci travolge.
Ma questa via alternativa non è praticabile, se non attuiamo prima una serie di strumenti di sostegno.
Mi riferisco in particolare a due: un gruppo biblico in ogni parrocchia e un circolo culturale in ogni quartiere.
Occorre costruire una fede che sa leggere dentro i fatti, che si avvalga del discernimento maturo dei laici e parroci che usano la Parola come luce che illumina i nostri passi.
Da soli non si può essere profeti.
E se è vero (come dicevo ai ragazzi della Locride) che tu solo puoi farcela, devi ricordarti però che non puoi farcela da solo.
Sempre più spesso al Sud il territorio diventa discarica di veleni, che incrementano l’incidenza tra la popolazione locale di alcuni tumori e alterazioni genetiche.
È possibile fermare questo obbrobrio? Su questo punto si gioca la verifica del nuovo rapporto con la terragiardino.
Ai ragazzi traduco così questo concetto: senza il cielo, la terra si fa fango; con il cielo, diviene giardino.
Come dicevo prima, tocca a noi far amare questa terra in forza della bellezza del cielo.
«Novissima considera, ut videas bona», dicevano i medioevali, cioè guarda lontano, per poter vedere bene qui, già da ora.
Questo è il compito attuale della Chiesa: additare questo cielo, che brilla già dentro di noi; farlo rilucere, intessendolo d’amore, in un intreccio sereno tra intelligenza e cuore.
Allora il Signore ci porrà alla sua destra, perché quel cielo ci avrà portato a servire con umiltà e gratuità i piccoli, i poveri, i soli, i disoccupati, gli stranieri, in un profumo di testimonianza luminosa e coinvolgente.
in “il nostro tempo” del 2 agosto 2009

La beatificazione di don Carlo Gnocchi

Carlo Gnocchi, terzogenito di Enrico Gnocchi, marmista, e Clementina Pasta, sarta, nasce a San Colombano al Lambro, vicino Lodi, il 25 ottobre 1902.
Rimasto orfano del padre all’età di cinque anni Carlo si trasferisce a Milano con la madre e i due fratelli Mario e Andrea.
Non molto tempo dopo entrambe i fratelli moriranno di tubercolosi.
fratelli moriranno di tubercolosi.
Carlo, di salute cagionevole, trascorre sovente lunghi periodi di convalescenza a Montesiro, paesino della Brianza, presso una zia.
Carlo Gnocchi entra in seminario alla scuola del cardinale Andrea Ferrari e nel 1925 viene ordinato sacerdote dall’Arcivescovo di Milano, Eugenio Tosi.
Don Gnocchi celebra la sua prima messa il 6 giugno a Montesiro.
Il primo impegno del giovane Don Carlo Gnocchi è quello di assistente d’oratorio: prima a Cernusco Sul Naviglio, vicino Milano, poi dopo solo un anno nella popolosa parrocchia di San Pietro in Sala, a Milano.
Grazie al suo operato raccoglie stima, consensi e affetto tra la gente tanto che la fama delle sue doti di ottimo educatore giunge fino in Arcivescovado.
Nel 1936 il Cardinale Ildefonso Schuster lo nomina direttore spirituale di una delle scuole più prestigiose di Milano: l’Istituto Gonzaga dei Fratelli delle Scuole Cristiane.
In questo periodo Don Gnocchi studia intensamente e scrive brevi saggi di pedagogia.
Sul finire degli anni ’30 il Cardinale Schuster gli affida l’incarico dell’assistenza spirituale degli universitari della Seconda Legione di Milano, che comprende in buona parte studenti dell’Università Cattolica oltre che molti ex allievi del Gonzaga.
Nel 1940 l’Italia entra in guerra e molti giovani studenti vengono chiamati al fronte.
Don Carlo, coerente alla tensione educativa che lo vuole sempre presente con i suoi giovani anche nel pericolo, si arruola come cappellano volontario nel battaglione “Val Tagliamento” degli alpini: la sua destinazione è il fronte greco albanese.
Terminata la campagna nei Balcani, dopo un breve intervallo a Milano, nel 1942 Don Carlo Gnocchi riparte per il fronte.
Questa volta la meta è la Russia, con gli alpini della Tridentina.
Nel gennaio del 1943 inizia la drammatica ritirata del contingente italiano: Don Gnocchi, caduto stremato ai margini della pista dove passava la fiumana dei soldati, viene miracolosamente soccorso, raccolto da una slitta e salvato.
È proprio in questa tragica esperienza che, assistendo gli alpini feriti e morenti e raccogliendone le ultime volontà, matura in lui l’idea di realizzare una grande opera di carità che troverà compimento, dopo la guerra, nella “Fondazione Pro Juventute”.
Ritornato in Italia nel 1943, Don Gnocchi inizia il suo pellegrinaggio attraverso le vallate alpine, alla ricerca dei familiari dei caduti, per dare loro un conforto morale e materiale.
In questo stesso periodo aiuta molti partigiani e politici a fuggire in Svizzera, rischiando in prima persona la vita: viene arrestato dalle SS con la grave accusa di spionaggio e di attività contro il regime.
A partire dal 1945 comincia a prendere forma concreta quel progetto di aiuto ai sofferenti pensato negli anni della guerra: Don Gnocchi viene nominato direttore dell’Istituto Grandi Invalidi di Arosio (Como), e accoglie i primi orfani di guerra e i bambini mutilati.
Inizia così l’opera che porterà Don Carlo Gnocchi a guadagnare sul campo il titolo più meritorio di “padre dei mutilatini”.
Le richieste di ammissione arrivano da tutta Italia e ben presto la struttura di Arosio si rivela insufficiente ad accogliere i piccoli ospiti.
Nel 1947 viene concessa in affitto – ad una cifra del tutto simbolica – una grande casa a Cassano Magnano, nel varesotto.
Nel 1949 l’Opera di Don Gnocchi ottiene un primo riconoscimento ufficiale: la “Federazione Pro Infanzia Mutilata”, da lui fondata l’anno precedente per meglio coordinare gli interventi assistenziali nei confronti delle piccole vittime della guerra, viene riconosciuta ufficialmente con Decreto del Presidente della Repubblica.
Nello stesso anno il Capo del Governo, Alcide De Gasperi, promuove Don Carlo Gnocchi consulente della Presidenza del Consiglio dei Ministri per il problema dei mutilatini di guerra.
Da questo moment, uno dopo l’altro, vengono aperti nuovi collegi: Parma (1949), Pessano (1949), Torino (1950), Inverigo (1950), Roma (1950), Salerno (1950) e Pozzolatico (1951).
Nel 1951 la “Federazione Pro Infanzia Mutilata” viene sciolta e tutti i beni e le attività vengono attribuiti al nuovo soggetto giuridico creato da Don Gnocchi: la “Fondazione Pro Juventute”, riconosciuta con Decreto del Presidente della Repubblica l’11 febbraio 1952.
Nel 1955 Don Carlo lancia la sua ultima grande sfida: si tratta di costruire un moderno centro che costituisca la sintesi della sua metodologia riabilitativa.
Nel settembre dello stesso anno, alla presenza del Capo dello Stato, Giovanni Gronchi, viene posata la prima pietra della nuova struttura nei pressi dello stadio Meazza (San Siro) a Milano.
Vittima di una malattia incurabile Don Gnocchi non riuscirà a vedere completata l’opera nella quale aveva investito le maggiori energie: il 28 febbraio 1956, la morte lo raggiunge prematuramente presso la Columbus, clinica di Milano dove è da tempo ricoverato per una grave forma di tumore.
I funerali, celebrati il giorno 1 marzo dall’arcivescovo Montini (poi Papa Paolo VI), furono grandiosi per partecipazione e commozione.
La sensazione generale era che la scomparsa di Don Carlo Gnocchi avesse privato la comunità di un vero santo.
Durante il rito venne portato al microfono un bambino.
Un’ovazione seguì le parole del fanciullo: “Prima ti dicevo: ciao don Carlo.
Adesso ti dico: ciao, san Carlo”.
A sorreggere la bara c’erano quattro alpini; altri portavano sulle spalle i piccoli mutilatini in lacrime.
Tra amici, conoscenti e semplici cittadini erano in centomila a gremire il Duomo di Milano e la sua piazza.
L’intera città listata a lutto.
Proprio il giorno del funerale esce un piccolo libro da lui scritto con le sue ultime forze, come una sorta di testamento, che condensa tutta la sua vita e il suo sacerdozio, la sua opera in mezzo alla gioventù delle parrocchie, dell’Istituto Gonzaga, di cappellano militare, ma soprattutto in mezzo al dolore dei piccoli e dei più giovani, per dare ad ogni lacrima, a ogni goccia di sangue sparsa, il significato e il valore più alto.
L’ultimo gesto apostolico di Don Gnocchi è stato la donazione delle cornee a due ragazzi non vedenti – Silvio Colagrande e Amabile Battistello – quando in Italia il trapianto di organi non era ancora disciplinato da apposite leggi.
Il doppio intervento, eseguito dal prof.
Cesare Galeazzi, riuscì perfettamente.
La generosità di Don Carlo che ebbe anche in punto di morte e l’enorme impatto che il trapianto e i risultati dell’operazioni ebbero sull’opinione pubblica impressero un’accelerazione decisiva al dibattito.
Nel giro di poche settimane venne varata una legge sul tema.
Trent’anni dopo la mortedi Don Carlo Gnocchi il cardinale Carlo Maria Martini istituirà il Processo di Beatificazione.
La fase diocesana avviata nel 1987 si è conclusa nel 1991.
Il 20 dicembre 2002 Papa Giovanni Paolo II lo ha dichiarato venerabile.
Nel 2009 il cardinale Dionigi Tettamanzi annuncia che la beatificazione avverrà il 25 ottobre dello stesso anno.
Don Carlo Gnocchi:  un nome legato indissolubilmente alle opere di carità.
Un prete autentico che ha messo in pratica gli insegnamenti evangelici offrendo aiuto e sostegno ai fratelli che erano nel bisogno.
La sua figura “resta di grande attualità ancora oggi.
Come profeta di speranza e come eroe della carità, egli continua a ispirare impegno e imitazione”.
Così ha tratteggiato la vita e l’opera di don Gnocchi l’arcivescovo Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, nel presiedere il rito della sua beatificazione.
La cerimonia si è svolta in piazza del Duomo a Milano, domenica mattina 25 ottobre, alla presenza del cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo della diocesi ambrosiana, che ha presieduto l’Eucaristia.
“Don Carlo fu un eroe e un santo – ha proseguito il prefetto Amato – e il segreto dell’eroismo della sua santità fu il suo amore per Cristo:  “Solo Cristo – egli diceva – può essere principio di vita divina per l’uomo.
Cristo fu per il nostro beato l’unica avventura della sua vita sacerdotale.
Fu un prete tutto di Cristo, tutto della Chiesa, tutto del prossimo bisognoso e sofferente”.
Il presule lo ha definito “prete fino in fondo” e il suo ministero sacerdotale “fu il servizio ai giovani come educatore sapiente, come cappellano eroico, come benefattore generoso dei mutilatini.
Il suo incontenibile entusiasmo apostolico era ancorato alla Provvidenza divina, da lui vista, come don Bosco, incarnata concretamente nelle persone buone e generose”.
Don Gnocchi ebbe, infatti, ha aggiunto il prefetto, “un’energia creativa, una imprenditorialità tutta milanese nel trovare mezzi e persone per far crescere e prosperare quella che lui chiamava “la mia baracca”.
Era un vero imprenditore della carità”.
Nell’omelia il cardinale Tettamanzi ha detto che è “nella ricerca del volto di Cristo impresso nel volto d’ogni uomo che don Carlo ha consumato la sua vita.
Lo ha cercato in ogni soldato, in ogni alpino – ferito o morente -, in ogni bimbo violato dalla ferocia della guerra, in ogni mutilatino vittima innocente dell’odio, in ogni mulattino frutto della violenza perpetrata sull’innocenza della donna, in ogni poliomielitico piegato nel corpo dal mistero stesso del dolore”.
È proprio qui il segreto dell’amore di don Carlo per l’uomo:  “La vivissima coscienza che nel cuore di ogni essere umano abita lo splendore del volto di Dio.
Ma ogni cristiano è chiamato ad amare sino alla fine e senza paura ogni essere umano, sapendo che in tutti è l’impronta incancellabile del volto di Dio, di tutti Creatore e Padre”.
“La seconda lettura – ha aggiunto il porporato – tratta dalla lettera di Paolo a Timoteo (1 Timoteo, 2, 1-5), ci rimanda ad un tratto caratteristico della carità di don Gnocchi.
L’Apostolo raccomanda, in particolare, “che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio”.
Don Carlo ha saputo coinvolgersi con dedizione entusiasta e disinteressata non solo nella vita della Chiesa, ma anche in quella della società.
E lo ha fatto coltivando con grande intelligenza e vigore l’intimo legame tra la carità e la giustizia:  una carità che “tende le mani alla giustizia”, egli diceva”.
“Noi – ha affermato il cardinale – possiamo continuare la sua opera chiedendo oggi alla giustizia di tendere le mani alla carità.
Don Carlo è stato mirabile nell’operare una sintesi concreta di pensiero e di impresa, appellando alle diverse istituzioni pubbliche e insieme alle molteplici forme di volontariato, ponendo come criterio necessario e insuperabile la centralità della persona umana sempre onorata nell’inviolabilità della sua dignità e nella globalità unitaria delle sue dimensioni – fisiche, psichiche e spirituali -, insistendo sull’opera educativa e culturale come decisamente prioritaria per lo sviluppo autentico della società.
Mai egli ha dimenticato il privilegio e comandamento evangelico del servizio agli “ultimi””.
Una menzione poi alla vocazione sacerdotale del nuovo beato:  “Ha vissuto la sua vocazione come impegno leale nel mondo – ha detto il porporato – senza sminuire, anzi arricchendo, il suo essere di sacerdote.
Impegno nel mondo così come si presentava al suo tempo:  lontano dalle nostalgie del passato, calato cordialmente nel presente, aperto, profetico e anticipatore del futuro, mai nel segno del pessimismo o della paura.
Egli era convinto che il tempo nel quale Dio lo aveva chiamato a vivere era il migliore possibile.
Nell’opera Educazione del cuore scrisse:  “Amiamo di un amore geloso il nostro tempo, così grande e così avvilito, così ricco e così disperato, così dinamico e così dolorante, ma in ogni caso sempre sincero e appassionato.
Se avessimo potuto scegliere il tempo della nostra vita e il campo della nostra lotta, avremmo scelto…
il Novecento senza un istante di esitazione””.
Infine, il cardinale ha concluso ricordando le parole di don Gnocchi rivolte al mondo moderno, con le quali “augurava un tempo nuovo, un nuovo tipo di umanità; augurava la personalità cristiana, cioè “cristianesimo e cristiani attivi, ottimisti, sereni, concreti e profondamente umani; che guardano al mondo, non più come a un nemico da abbattere o da fuggire, ma come a un (figlio) prodigo da conquistare e redimere con l’amore”.
Sono parole preziose anche per noi:  amiamo il nostro tempo; impegniamoci nel nostro mondo; portiamo in tutti gli ambienti della nostra vita le speranze umane e la “speranza grande” che ci viene da Cristo, il vincitore della morte e di ogni male”.
(©L’Osservatore Romano – 26-27 ottobre 2009)

Alle «Sources Chrétiennes» il Nobel cattolico

Il premio internazionale Paolo VI 2009, vero e proprio Nobel cattolico, andrà alle “Sources Chrétiennes”, la collana patristica più conosciuta del mondo; sarà lo stesso Benedetto XVI a presenziare alla cerimonia di consegna nel pomeriggio di domenica 8 novembre, data della sua visita a Brescia in occasione dell’inaugurazione della nuova sede dell’Istituto Paolo VI a Concesio, dove nacque Giovanni Battista Montini.
Il premio è stato indetto per la prima volta nel 1984 e assegnato a Hans Urs von Balthasar; il 23 giugno di quell’anno, nel corso di un’udienza speciale, il teologo lo ricevette dalle mani di Giovanni Paolo II.
Cinque anni più tardi, l’edizione del 1989 dedicata all’espressione musicale premiò il compositore francese Olivier Messiaen.
Negli anni successivi i vincitori sono stati Oscar Cullmann (1993), Jean Vanier (1997), fondatore della comunità Arca e di Foi et lumière, e il filosofo Paul Ricoeur (2003).
Comitato promotore del premio è l’Opera per l’educazione cristiana di Brescia, dove il giovane Montini venne educato e che lasciò dopo l’ordinazione sacerdotale.
Alla morte del Papa si avvertì la necessità di procedere a un’indagine archivistica e storiografica che favorisse lo studio di quello che certamente verrà giudicato un capitolo centrale della storia religiosa e culturale del XX secolo.
Una biblioteca specializzata raccoglie i libri personali del Papa e il maggior numero possibile di pubblicazioni che lo riguardano, anche in relazione al periodo storico in cui è vissuto, mentre un imponente archivio custodisce quasi mezzo milione di documenti editi e inediti, oltre a una abbondante documentazione fotografica e audiovisiva, mentre l’organizzazione di colloqui e giornate internazionali ha lo scopo di dare impulso allo studio scientifico dei temi che maggiormente hanno segnato gli anni di pontificato.
“Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici:  ammassare riserve contro l’inverno dello spirito” scriveva Marguerite Yourcenar riferendosi alla povertà culturale del Novecento, devastato da totalitarismi e ideologie anti-umane; tra i “costruttori di granai” più lungimiranti e appassionati, costretti dalle circostanze storiche a lavorare in tempo di carestia, morale e spirituale, ci sono proprio i fondatori della collana patristica edita dalle parigine Éditions du Cerf a partire dagli anni più bui della seconda guerra mondiale.
Nel 1942, nella Francia piegata dall’invasore nazista, venne pubblicato il primo volume delle “Sources Chrétiennes” grazie al lavoro di un eccezionale quartetto di gesuiti – Victor Fontoynont (1880-1958), Henri de Lubac (1896-1991), Jean Daniélou (1905-1974) e Claude Mondésert (1906-1990), il raffinato grecista che ne fu il principale direttore – con l’intento di tornare ad attingere, appunto, alle “fonti cristiane”.
Soprattutto – ma non solo – patristiche.
Accanto alle opere dei Padri greci e latini figurano infatti quelle di autori orientali, medievali, bizantini.
I primi numeri delle “Sources Chrétiennes” presentavano i testi solo in traduzione francese, ma presto i volumi furono corredati dagli originali a fronte, con introduzioni, annotazioni, commenti, apparati critici, tanto da divenire un riferimento obbligato per gli studiosi.
Nonostante le difficoltà che, già nel 1999, l’allora direttore Jean-Noël Guinot – il primo studioso laico a dirigere la collana – addebitava, in un’intervista rilasciata ad “Avvenire”, alla miope riduzione dei finanziamenti alla ricerca, l’impresa editoriale, che conta oggi più di 530 volumi, continua a “illuminare l’incontro fecondo realizzato tra il messaggio cristiano e la cultura antica” come si legge nella motivazione del premio; il prestigioso riconoscimento contribuirà (anche materialmente, con una cospicua somma di denaro) a promuovere l’attività di riscoperta e pubblicazione delle “fonti cristiane”, preziose anche per chi cristiano non è.
(©L’Osservatore Romano – 26-27 ottobre 2009)

Sugli approcci musulmano e cattolico alle ermeneutiche sacre

Sugli approcci musulmano e cattolico alle ermeneutiche sacre di Aref Ali Nayed Nel nome di Dio, il Compassionevole.
Sotto il titolo “Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana” Sandro Magister scrive: “Al cuore della crisi attuale del mondo musulmano vi sono le differenti concezioni della tradizione e il rifiuto di leggere il Corano con metodi scientifici, oltre che teologici.
[…] La questione della tradizione […] appare ancor più bruciante per l’islam.
Essa è strettamente intrecciata con quella dell’interpretazione del Corano.
Le correnti fondamentaliste ispirate dai Fratelli Musulmani, ad esempio, idealizzano l’islam delle origini, lo assumono come unico modello e rifiutano di applicare al Corano criteri di lettura scientifici, oltre che teologici.
Sono rari e isolati i musulmani che leggono il Corano con metodi analoghi a quelli applicati alla Bibbia dall’esegesi cristiana.
I grandi centri della teologia islamica, come l’università al-Azhar del Cairo, sono molto diffidenti nei confronti delle metodologie moderne di analisi del testo sacro.
I frutti di una lettura critica del Corano provengono quasi esclusivamente da studiosi non musulmani”.
Magister offre quindi “la lezione di un grande islamologo, Michel Cuypers” presentando un suo testo sotto il titolo: “La tradizione vista dalla fede musulmana, ieri e oggi”.
Un testo che Magister vede in questa luce: “Nel finale, Cuypers mostra quanto sia importante che il mondo islamico si apra a una lettura critica del Corano”.
Lo spirito dell’introduzione di Magister e il modo in cui egli legge la parte conclusiva del testo di Cuypers riflettono la stessa attitudine che alcuni studiosi e dirigenti cattolici hanno manifestato in più occasioni, negli ultimi anni, riguardo al Corano e alle sue interpretazioni.
Essi parlano dallo stesso punto di vista, per loro indiscutibile, che nel recente passato ha prodotto la tesi infondata secondo cui il dialogo cattolico-musulmano è ostacolato dalla convinzione musulmana che il Corano è l’autentica parola di Dio (che esaltato Egli sia).
È importante sottolineare, ancora una volta, che tale tesi chiaramente soffre di un doppio blocco: primo, il fraintendimento e l’errata esposizione dell’insegnanento islamico riguardo al Corano; secondo, l’errata esposizione della dottrina cattolica sulle Sacre Scritture, falsamente messa in contrasto col primo.
Ora spiego come questo doppio blocco opera.
Il Corano è l’autentico parlare (kalam) del nostro supremo unico Dio (Allah), rivelato al profeta Maometto (che la pace sia su di lui) e fedelmente conservato attraverso un’ininterrotta trasmissione comunitaria (tawatur).
Il Corano è eterno (qadim) in essenza, in origine, e come essenziale prerogativa divina a parlare (kalamullh as kalam nafsi).
Ma esso è anche storico nel suo svelarsi, come atto di rivelazione (kalamullah as kalam lafzi), ed è stato rivelato al Profeta (che la pace sia su di lui) in profondo intreccio con le viventi circostanze e gli eventi storici della comunità musulmana (tanzil, tanjim).
Per saperne di più su questo si veda “Al-Insaf” dell’Imam Abu Bakr Al-Baqillani, morto nel 1013 dell’era cristiana.
Gli studiosi musulmani hanno sempre fondato le loro interpretazioni ed esegesi del Corano sulla base di varie scienze incluse le scienze delle “circostanze della rivelazione” (asbabulnuzul), sulle scienze della storia del Corano (tarkhulqur’an) e su un accurato studio delle forme linguistiche familiari agli arabi del tempo della rivelazione (ulumulugha).
Gli studiosi musulmani hanno sviluppato un apparato comprensivo delle metodologie storico-critico-linguistiche per la comprensione del Corano (ulumulqur’an).
Per saperne di più su questo si veda “Al-Itqan” dell’Imam Jalaloddin Al-Suyuti, 1445-1505 dell’era cristiana.
Gli studiosi musulmani sono stati sempre consapevoli del fatto che l’interpretazione, la comprensione e l’esegesi dell’eterno parlare di Dio sono forme dell’umano, strenuo sforzo (ijtihad) che deve essere obbligatoriamente rinnovato in ogni generazione credente.
La solenne fede nell’eternità e nella divina autorità del Corano non ha mai trattenuto gli studiosi musulmani dal trattare con esso storicamente e linguisticamente.
Al contrario, la fede nella verità rivelante del Corano è stata la vera motivazione di vite spese nel diretto studio professionale del parlare di Dio.
Per saperne di più su questo si veda “Kitab Al-Ilm” dell’Imam Ibn Abd Al-Barr.
Imponenti biblioteche di opere interpretative ed esegetiche, teologiche, giuridiche, etiche e spirituali sono state prodotte da successive generazioni di studiosi, dai tempi iniziali fino ad oggi.
È precisamente sulla base della loro fede solenne che il Corano è l’autentica parola di Dio che studiosi musulmani, nel corso dei secoli, hanno impegnato in un dialogo ebrei, cristiani, zoroastriani, indù, buddisti ed anche scettici e naturalisti.
Tutti i principali manuali di teologia musulmana, siano essi maturidi, ashariti, mutaziliti, jafariti, ismailiti o ibaditi, mostrano una notevole larghezza di vedute e chiamano a confronto attivamente le credenze di filosofi, ebrei, cristiani, zoroastriani, indù e buddisti.
In modo interessante, l’apparato storico-critico-linguistico dell’esegesi musulmana, in sintesi con le antiche metodologie ermeneutiche talmudiche di un Rabbi Hillel e di un Rabbi Ishmael, è stato trasmesso attraverso studiosi ebrei sefarditi come Hasdai ben Abrahan Crescas (1340-1410/1411) e Baruch Spinoza (1632-1677) fino ai primi maestri dell’ermeneutica protestante, come Johann August Ernesti (1707-1781).
Il “criticismo alto” e il “metodo storico-critico” che discendono dall’ermeneutica della riforma protestante sono stati direttamente influenzati dall’ermeneutica talmudica andalusa che risale a Spinoza, a sua volta imbevuta dell’ermeneutica coranica degli studiosi musulmani andalusi.
È anche interessante notare che le metodologie e le conclusioni del criticismo protestante sono state, per secoli, rifiutate dalla Chiesa cattolica.
Questo rifiuto è stato particolarmente sistematico ed esplicito nell’enciclica “Providentissimus Deus” di Leone XIII, del 1893, e nell’enciclica antimodernista “Pascendi dominico gregis” di Pio X, del 1907.
Sotto la forte pressione della scuola biblica protestante, alla fine la Chiesa cattolica, ma solo malvolentieri, parzialmente e a determinate condizioni, ha accettato alcuni aspetti del metodo storico-critico.
Papa Benedetto XV diede inizio a questo processo di accettazione condizionata nella “Spiritus Paraclitus” del 1920, ma  fu solo con la “Divino afflante Spiritus” di papa Pio XII, del 1943, che gli studiosi cattolici sono stati finalmente autorizzati a mettersi al passo con gli stadi avanzati degli studi biblici protestanti.
Per questo è abbastanza ironico che alcuni studiosi cattolici ora accusino i musulmani di un’immaginaria chiusura, che descrive invece molto meglio la chiusura pre-1943 del Vaticano alle metodologie storico-critiche.
Ciò che è ancor più ironico è il fatto che alcuni cattolici non solo inventano una simile chiusura musulmana, ma arrivano ad attribuirla alla fede musulmana nella divina autorità del Corano, cioè al fatto che il Corano è l’autentica parola di Dio.
Ciò è davvero strano, perché induce a pensare che chi crede nella divina autorità di un testo sacro non può essere un interlocutore di dialogo in materie teologiche! Nel sostenere questa strana tesi sul credo musulmano riguardo al Corano, alcuni cattolici sembrano dimenticare le posizioni dogmatiche cattoliche romane riguardo alle Sacre Scritture.
Almeno dal Concilio di Trento, il magistero della Chiesa cattolica romana ha ripetutamente affermato una dottrina molto netta, quasi impositiva, riguardo alla divina rivelazione, e ha sempre tenuto fermo che “la santa madre Chiesa, per fede apostolica, ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia del Vecchio che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cfr.
Gv 20,31; 2 Tm 3,16); hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa” (Concilio Vaticano II, “Dei Verbum”, III).
La “Providentissimus Deus” di papa Leone XIII del 1893 mette in chiaro che una forte fede nella divina ispirazione delle Scritture cristiane è stata “sempre ritenuta e apertamente professata” dalla Chiesa: “Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede universale della Chiesa, è contenuta sia nelle tradizioni non scritte, sia anche nei libri scritti che vengono chiamati sacri e canonici, perché, essendo stati scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati affidati alla Chiesa.
Questo certamente, riguardo ai libri dell’uno e dell’altro Testamento sempre ha ritenuto e apertamente professato la Chiesa: ben noti sono gli importantissimi documenti antichi, nei quali si afferma che Dio, il quale parlò prima per mezzo dei profeti, poi egli stesso e quindi per bocca degli apostoli, è anche autore delle Scritture che sono chiamate canoniche, e che sono oracoli e locuzioni divine, una lettera inviata dal Padre celeste trasmessa per mezzo degli autori sacri al genere umano, peregrinante lontano dalla patria”.
È vero che la Chiesa cattolica dal 1943 e specialmente dal Vaticano II, alla luce delle acquisizioni dell’esegesi storico-critica, ha cominciato a dare rilievo al coinvolgimento degli autori umani delle Scritture.
Tuttavia, anche nella “Dei Verbum” l’ispirazione inerrante di Dio continua a essere affermata dalla Chiesa, come sempre.
Anche la “Divino afflante Spiritus” di papa Pio XII del 1943 riafferma lo stesso credo, ed espande invece che restringere le posizioni sulla Scrittura della “Providentissimus Deus” di papa Leone XIII del 1893.
Pertanto, posti i dogmi della Chiesa cattolica riguardo alla Scritture cristiane, è strano e davvero ironico che alcuni studiosi cattolici continuino a sostenere che affermare la divina ispirazione di un testo sacro sia un ostacolo al dialogo teologico! Se una simile fede nella divina ispirazione trattiene i suoi aderenti dal dialogo teologico, allora gli studiosi cattolici dovrebbero avere la stessa inibizione che alcuni di loro immaginano abbiano gli studiosi musulmani.
Inoltre, la tradizionale posizione sunnita su come accostarsi rispettosamente al Corano e alla tradizione non è così distante dalla posizione cattolica su come accostarsi rispettosamente alle Sacre Scritture e alla tradizione.
Lo stesso papa Benedetto XVI ha recentemente raccomandato la tipica cautela cattolica riguardo a un eccessivo entusiasmo per le metodologie storico-critiche: “Lo studio scientifico dei testi sacri è importante, ma non è da solo sufficiente perché rispetterebbe solo la dimensione umana.
Per rispettare la coerenza della fede della Chiesa l’esegeta cattolico deve essere attento a percepire la Parola di Dio in questi testi, all’interno della stessa fede della Chiesa.
In mancanza di questo imprescindibile punto di riferimento la ricerca esegetica resterebbe incompleta, perdendo di vista la sua finalità principale, con il pericolo di essere ridotta ad una lettura puramente letteraria, nella quale il vero Autore – Dio – non appare più” (Discorso alla pontificia commissione biblica, 23 aprile 2009).
È davvero ironico che alcuni cattolici consiglino ai musulmani di produrre dei “Lutero” e degli approcci di “stile luterano” al Corano.
Tali consiglieri dovrebbero ricordare piuttosto gli strenui sforzi fatti dalla Chiesa cattolica per arginare le conseguenze dell’affermazione del principio protestante della “Sola Scriptura”.
Sfortunatamente, alcune posizioni cattoliche riguardo agli approcci musulmani al Corano sembrano basate sull’infondata tavola dei contrasti “islam contro cristianesimo” sviluppata e sostenuta da taluni “esperti dell’islam”.
È essenziale, per amore di una mutua comprensione e per amore di Dio, fermare la costruzione di queste nocive false distinzioni, e smetterla di fare prediche all’islam circa la saggezza nell’uso del metodo storico-critico per studiare il Corano.
Dio sa cos’è il meglio! Il testo di fr.
Michel Cuypers al quale Nayed ha qui replicato: > Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana
(7.9.2009) E un precedente servizio di www.chiesa con un’intervista di Cuypers a “Il Regno”, sull’applicazione al libro sacro dell’islam dei metodi di analisi letteraria già applicati alla Bibbia: > Per una rinnovata lettura del Corano: la lezione di un grande islamologo (4.6.2007) __________ La nota con cui Aref Ali Nayed criticò su www.chiesa la lezione di Benedetto XVI a Ratisbona: > Due studiosi musulmani commentano la lezione papale di Ratisbona (4.10.2006) E il successivo botta e risposta tra Nayed e il professor Alessandro Martinetti, che gli aveva replicato: > Chiesa e islam.
A Ratisbona è spuntato un virgulto di dialogo
(30.10.2006) La critica di Nayed a Benedetto XVI che aveva battezzato il convertito Magdi Allam, “un infelice episodio che riafferma la famigerata lezione di Ratisbona”: > Storia di un convertito dall’islam.
Battezzato dal papa in San Pietro
(28.3.2008) E la replica a Nayed del professor Pietro De Marco: > Per il Vaticano re Abdullah pesa più di 138 dotti musulmani (31.3.2008) __________ Il libro dell’islamologo Massimo Campanini citato in apertura del servizio: Massimo Campanini, “L’esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo”, Morcelliana, Brescia, 2008.
__________ Il documento più aggiornato e più autorevole sull’esegesi cattolica delle Sacre Scritture, pubblicato nel 1993 dalla Pontificia Commissione Biblica per ordine di Giovanni Paolo II e con la prefazione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger: > L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa __________ Sulla corrente teologica asharita, alla quale Aref Ali Nayed dichiara di appartenere, sono uscite interessanti valutazioni sul numero 35-36 del 2008 di “Nuntium”, la rivista della Pontificia Università Lateranense, dedicato a “Le sfide di Ratisbona.
Fede, ragione, ricerca e dialogo”.
In particolare, tracciano profili differenziati della teologia asharita lo studioso musulmano Mustafa Abu Sway e gli islamologi François Zabbal, Adel Theodor Khoury (citato da Benedetto XVI nella lezione di Ratisbona) e Miguel Ángel Ayuso Guixot, preside del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica di Roma.
Sandro Magister Nella sua udienza generale di mercoledì 14 ottobre Benedetto XVI ha portato ad esempio Pietro il Venerabile, il grande abate di Cluny che nel secolo XII, per “favorire la conoscenza” dell’islam, “provvide a far tradurre il Corano”.
Oggi, all’inizio del secolo XXI, accade qualcosa di più.
Un numero crescente di studiosi cristiani applica al Corano, per approfondirne la comprensione, i metodi di lettura già applicati alla Bibbia: fondati non solo sulla tradizione e sulla teologia, ma anche sull’analisi storico-critica e letteraria.
Questi ultimi metodi hanno faticato ad essere approvati dalla Chiesa cattolica, ma da molti decenni sono divenuti di uso comune.
Fanno parte di quelle “conquiste dell’illuminismo” accolte dalla Chiesa che Benedetto XVI – in un importante discorso del 22 dicembre 2006 – ha auspicato vengano accolte anche dal mondo islamico.
In effetti, l’esegesi musulmana del Corano ha conosciuto nell’ultimo secolo “un’intensa attività interpretativa non inferiore a quella medievale”, come ha documentato tra altri l’islamologo Massimo Campanini in un saggio pubblicato nel 2008 dalla Morcelliana col titolo: “L’esegesi musulmana del Corano nel secolo ventesimo”.
Ma l’esegesi musulmana contemporanea – mostra Campanini – si esplica soprattutto nell’applicare il Corano all’agire umano, ai comportamenti pratici; è eminentemente “un’ermeneutica della prassi”.
Per il resto, essa non innova in nulla rispetto ai metodi di esegesi tradizionali dell’islam.
*** Uno degli studiosi cattolici che applica al Corano gli strumenti della moderna esegesi, specie letteraria, è fr.
Michel Cuypers, che vive al Cairo.
Il suo ultimo libro, uscito due anni fa in Francia, è di grande suggestione.
È dedicato all’analisi di un capitolo del Corano: “Le festin: une lecture de la sourate al-Mâ’ida [Il banchetto: una lettura della sura al-Mâ’ida]”, e reca la prefazione dell’eminente studioso musulmano Mohamed-Ali Amir-Moezzi.
Di Cuypers www.chiesa ha rilanciato tempo fa un’ampia intervista e, più di recente, un articolo sul ruolo della tradizione nell’interpretazione islamica del Corano, pubblicato anche da “L’Osservatore Romano”.
In quest’ultimo articolo, nel descrivere gli ultimi sviluppi dell’interpretazione del Corano in campo musulmano, Cuypers ha mostrato come vi siano oggi dei “modernisti” che tendono a escludere il ricorso alla tradizione, con questa conseguenza: “Il Corano diventa dunque la sola fonte realmente normativa dell’islam.
Una ‘sola Scriptura’ che non è priva d’influssi da parte del modello protestante (alcuni modernisti sono volentieri chiamati i ‘Lutero dell’islam’).
Questa liberazione dalle maglie della tradizione permette d’ipotizzare una nuova esegesi del Corano, oggi richiesta da alcuni intellettuali musulmani.
Le ‘occasioni della rivelazione’, attinte agli hadîth, non sono più il metodo privilegiato d’esegesi, come nel passato.
Un’esegesi critica è ormai possibile.
“Questa posizione aperta ha tuttavia come contropartita il fatto di situare gli intellettuali musulmani modernisti ai margini della corrente generale dell’islam, che resta massicciamente legata alla sunna come norma di fede e legge, organicamente connessa al Corano.
Si comprende così che le differenti concezioni dei musulmani rispetto alla tradizione sono al cuore della crisi attuale dell’islam”.
*** Ebbene, a questo passaggio dell’articolo di Cuypers reagisce con veemenza – nella nota riprodotta più sotto – uno studioso musulmano che appartiene invece a una corrente dell’islam sunnita molto ortodossa e legata alla tradizione: la corrente asharita, il cui fondatore fu il teologo Abu ‘l-Hasan Al-Ashari (873-935) e il cui massimo esponente fu Abu Hamid Al-Ghazali (1058-1111), molto critico del suo contemporaneo Averroè, da lui accusato di razionalismo.
L’autore della nota è Aref Ali Nayed (nella foto), un nome familiare ai lettori di www.chiesa.
In questo sito egli pubblicò nel 2006 una doppia replica al memorabile discorso di Benedetto XVI a Ratisbona, e due anni dopo un commento polemico alla conversione dall’islam al cristianesimo di Magdi Allam, battezzato da papa Joseph Ratzinger nella notte di Pasqua del 2008.
Nayed è una personalità di rilievo nel dialogo tra la Chiesa cattolica e l’islam.
Nato in Libia, ha studiato filosofia della scienza ed ermeneutica negli Stati Uniti e in Canada, ha seguito corsi alla Pontificia Università Gregoriana di Roma e ha tenuto lezioni al Pontificio Istituto di Studi Arabi e d’Islamistica.
È consulente all’Interfaith Program dell’università di Cambridge.
Ha diretto il Royal Islamic Strategic Studies Center di Amman, in Giordania.
Ha fondato quest’anno a Dubai un centro di studi islamici chiamato Kalam Reseasrch & Media.
Ma, soprattutto, Nayed è uno dei 138 saggi musulmani che hanno indirizzato a Benedetto XVI nel 2007 la celebre lettera “Una Parola comune”.
Anzi, ne è stato il principale estensore.
Ha fatto parte della delegazione di cinque rappresentanti musulmani che il 4 e 5 marzo 2008 hanno concordato col Vaticano i successivi forum interreligiosi di dialogo, al primo dei quali ha partecipato in posizione eminente.
Insomma, con queste credenziali viene naturale classificare Nayed tra le personalità musulmane più impegnate ed “aperte” nel dialogo con la Chiesa di Roma.
Ma a leggere i suoi interventi si ricava anche che nel suo dialogare Nayed non attenua affatto gli elementi di contrasto.
Anzi, sembra quasi che li esasperi.
La lezione di Ratisbona è per lui “infamous”.
Battezzando Magdi Allam il papa ha compiuto un atto “infelice”.
E così via.
Anche nel replicare a Cuypers, Nayed adotta toni battaglieri.
Ne elude completamente le ampie e fini argomentazioni, per appuntarsi su una sola frase.
E da questa prende spunto per rovesciare sulla Chiesa cattolica, in materia di esegesi biblica, le stesse accuse di oscurantismo tipiche della polemica laicista.
E, viceversa, per rivendicare all’islam la primogenitura di quei metodi storico-critici e di analisi letteraria divenuti poi appannaggio dell’esegesi ebraica, protestante, illuminista e infine cattolica.
La lettura di questo testo inviato da Nayed a www.chiesa è istruttiva, perché fotografa il reale livello a cui si trova oggi il dialogo intellettuale tra la Chiesa cattolica e l’islam.
Gli abbracci e le dichiarazioni di pace che si producono in tante cerimonie interreligiose non devono illudere.
Nayed è persona coltissima ed amabile.
Così come lo è Cuypers, piccolo fratello di Gesù.
Ma tra i due mondi culturali c’è un abisso.
Il servizio di www.chiesa col quale Nayed polemizza è il seguente: > Anche l’islam ha i suoi Lutero.
Ma una riforma è lontana
(7.9.2009)

Sull’insegnamento della religione islamica

In questi ultimi giorni ha avuto ampio risalto la proposta estemporanea di alcuni politici di offrire nelle scuole l’insegnamento della religione islamica.
La proposta suscita interrogativi di carattere culturale e giuridico.
Sotto il primo profilo, c’è da chiedersi se l’apertura a un insegnamento dell’Islam debba considerarsi la premessa di ulteriori insegnamenti relativi ad altre religioni, una volta che queste abbiano un sufficiente numero di richiedenti.
Ma soprattutto c’è da chiedersi se sia la scuola la sede di un insegnamento che risponda specificamente a un’appartenenza di fede dell’alunno e della sua famiglia, o se la scuola non debba piuttosto curare la formazione globale dell’alunno a prescindere dalle sue personali scelte di fede e fornendogli strumenti utili per compiere o sostenere quelle libere scelte.
In altre parole, una lottizzazione dell’insegnamento religioso significherebbe che esso si andrebbe a configurare essenzialmente come catechesi, cioè una sorta di luogo franco assegnato alle diverse confessioni religiose per svolgervi proprie attività educative (ivi incluse, a questo punto, pratiche di culto).
La paradossalità di un simile esito condurrebbe logicamente e rapidamente all’estromissione di qualsiasi insegnamento del genere dalla scuola, rivelando così il vero scopo della proposta, cioè quello di espellere dalla scuola l’unico insegnamento religioso oggi presente, colpevole di operare in regime di monopolio e quindi in contrasto con il doveroso pluralismo di una scuola laica.
Ma così facendo si dimenticherebbero le motivazioni concordatarie che sono alla base dell’Irc e che ne fanno qualcosa di sostanzialmente diverso dalla catechesi (non è rivolto ai soli cattolici, né vuole essere una forma di proselitismo), caratterizzato da un’impostazione culturale che cerca soprattutto di fornire strumenti per la comprensione della storia e della realtà italiana, di fatto profondamente segnata dal confronto con il cattolicesimo.
Sotto il secondo profilo, quello giuridico, la proposta si presenta come ingiustificata, dato che un insegnamento della fede islamica è già possibile nella legislazione vigente, che comprende ancora il RD 28-2-1930, n.
289, attuativo della legge 24-6-1929, n.
1159, cosiddetta sui “culti ammessi”.
È una legge che da diverse legislature si cerca di sostituire con una più aggiornata normativa sulla libertà religiosa, ma finora non si è avuto alcun risultato.
Ovviamente, non c’entra nulla la legislazione concordataria, che regolamenta solo l’Irc, né le altre Intese con le confessioni non cattoliche, tra le quali non figura alcun accordo con rappresentanti della religione islamica.
Il RD 289/1930, nella parte tuttora vigente, testualmente recita: «Quando il numero degli scolari lo giustifichi e quando per fondati motivi non possa esservi adibito il tempio, i padri di famiglia professanti un culto diverso dalla religione dello Stato possono ottenere che sia messo a loro disposizione qualche locale scolastico per l’insegnamento religioso dei loro figli: la domanda è diretta al provveditore agli studi il quale, udito il consiglio scolastico, può provvedere direttamente in senso favorevole.
In caso diverso e sempre quando creda, ne riferisce al Ministero della Pubblica Istruzione, che decide di concerto con quello dell’Interno.
Nel provvedimento di concessione dei locali si devono determinare i giorni e le ore nei quali l’insegnamento deve essere impartito e le opportune cautele».
La norma deve essere necessariamente adeguata al quadro normativo attuale, ma conserva valore in relazione ai principi e alle azioni conseguenti.
In particolare, non essendo più in vigore il principio della religione di Stato, le disposizioni devono intendersi applicabili – alle condizioni ivi previste – nei confronti di qualsiasi culto.
In secondo luogo, la domanda non può più essere indirizzata al Provveditore agli Studi ma al Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale per il tramite del dirigente scolastico della scuola interessata (ma la presenza di un dirigente all’interno della singola istituzione scolastica potrebbe oggi far attribuire a lui stesso la responsabilità di decidere in merito, una volta ascoltato il Consiglio di Circolo o di Istituto e alle condizioni sopra elencate).
Il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale consulterà invece il Consiglio scolastico provinciale e quindi disporrà in merito, qualora la risposta sia favorevole.
Ove non ricorrano le condizioni per l’accoglimento della richiesta, può essere investito del problema il Ministero dell’Istruzione che deciderà di concerto con quello dell’Interno.
Pertanto, qualora un alunno (o un genitore) chieda di poter frequentare lezioni di Islam (o di qualsiasi altra religione), la procedura da seguire può essere la seguente: 1.      l’istanza deve essere presentata in forma scritta al dirigente della scuola, non necessariamente all’inizio dell’anno scolastico ma anche nel momento in cui si venga a creare l’esigenza; 2.      l’oggetto della richiesta riguarda esclusivamente la messa a disposizione di un locale scolastico per consentire l’insegnamento religioso agli alunni della medesima scuola; 3.      la possibilità di avere a disposizione detto locale discende dalla condizione – che deve essere puntualmente accertata dal dirigente scolastico o comunque dall’autorità scolastica che formulerà la risposta definitiva – che l’esigenza di istruzione religiosa non possa essere soddisfatta, per fondati motivi, negli appositi luoghi destinati sul territorio al culto in questione; 4.      l’istanza deve essere inoltrata per competenza dal dirigente scolastico al Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale; 5.      il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale deve acquisire il parere del Consiglio scolastico provinciale e quindi provvedere in senso favorevole; 6.      in caso contrario, il Direttore Generale dell’Ufficio scolastico regionale deve rinviare l’istanza al Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca (Dipartimento per l’Istruzione), che deciderà di concerto con quello dell’Interno (Direzione Generale degli affari di culto); 7.      ove vengano concessi i locali richiesti, la scuola o l’Ufficio che autorizza la concessione, sentita la scuola stessa, deve fissare i giorni e le ore in cui può essere impartito l’insegnamento; 8.      devono inoltre essere stabiliti i necessari contatti con l’autorità religiosa competente per ricevere notizia circa le persone che impartirebbero tale insegnamento; 9.      stante la norma richiamata, che giustifica l’accoglimento della richiesta in relazione al «numero degli scolari», l’istanza può essere accolta solo qualora i fruitori dell’istruzione siano in numero tale – comunque superiore a uno – da giustificare l’impegno organizzativo della scuola; 10.  è infine da ritenere che l’eventuale soddisfazione della richiesta non debba porre oneri a carico della scuola o dell’amministrazione pubblica, né in relazione al prolungamento dell’orario di apertura della scuola, né in relazione a ulteriori compensi da corrispondere per detta istruzione.
Alla luce di questa ricostruzione normativa, risulta perciò evidente la finalità eminentemente propagandistica della proposta di un’ora di Islam, volta più a mettere in discussione l’Irc che a risolvere concretamente un problema la cui soluzione sarebbe già a portata di mano.
Ovviamente, ci si augura che non si debba ancora far riferimento a leggi che affondano le proprie radici in un regime politico e istituzionale che non ci appartiene più, ma ciò accade anche per l’Irc (per esempio in tema di valutazione).
Sarebbe quindi il caso di affrontare l’eventuale problema tenendo presente l’intero quadro giuridico sussistente (dalla Costituzione al Concordato), cercando di conservare alla scuola le sue finalità culturali ed educative, senza attribuirgliene altre che potrebbero solo snaturarla.

Insegnare religione islamica a scuola

Frattini: serve un concordato con l’islam Prima l’intesa tra Stato e Islam, poi l’ora di Corano nelle scuole».
A una settimana dalla proposta con cui la fondazione «FareFuturo» ha spaccato tra «pro» e «contro» il mondo politico e la Chiesa, il ministro degli Esteri, Franco Frattini fissa le condizioni per arrivare alle lezioni di religione musulmana negli istituti pubblici.
Qual è la sua proposta per l’ora d’Islam? «L’integrazione degli immigrati richiede solidarietà e legalità, senza prescindere dalla nostra identità e storia.
Servono regole e principi per diventare un buon italiano, prima che un buon musulmano.
E’ fondamentale che si costituisca un Islam italiano prima di portare il Corano nell’istruzione pubblica, altrimenti l’ora d’Islam diventa davvero una corsia privilegiata, una scorciatoia come dice Bagnasco.
E’ funzione della scuola dare un inquadramento ai figli di immigrati nati in Italia, fare di loro buoni cittadini nel corso degli studi.
A questo punto i ragazzi hanno diritto ad approfondire le radici musulmane della loro famiglia.
Quindi è la formazione scolastica nel suo insieme ad essere un antidoto alla radicalizzazione dell’Islam.
Ma prima di dire sì al Corano in classe serve capire chi lo insegnerà».
Prevede un albo dei docenti di Corano? «Con la Chiesa l’ordinamento lo prevede già.
In base al concordato il sacerdote che insegna religione a scuola deve essere autorizzato dall’autorità ecclesiastica.
Solo così siamo garantiti che vengono rispettate le regole, cioè che agli studenti arrivino messaggi accettati dall’accordo con la Chiesa.
Per introdurre l’ora di religione islamica, abbiamo bisogno della stessa garanzia dall’Islam, perciò prima serve un accordo con la confessione islamica analogo a quello che lo Stato ha con il Vaticano.
Senza ciò non possiamo distinguere tra i predicatori di una dottrina ortodossa rigida e i fautori di un Islam dialogante, favorevole all’integrazione, all’uguaglianza di diritti e alla moderazione.
Perciò partiamo dall’educazione italiana per arrivare a quella musulmana».
In una cornice giuridica certa, l’ora d’Islam può servire all’integrazione? «In Italia la Costituzione assicura libertà di religione.
Il punto qui è la cittadinanza, Se un figlio di extracomunitari nato in Italia è maturo per essere un buon cittadino italiano, non gli si può precludere di voler approfondire la propria fede islamica.
L’educazione alla cittadinanza italiana precede quella alla religione musulmana.
L’ora d’Islam proposta da Fini, Urso e altri va accolta come un’accelerazione all’intesa con l’Islam che è ferma da vent’anni.
A Palazzo Chigi ci sta provando la commissione per i culti acattolici.
Per essere riconosciuti in Italia come portatori di un messaggio che può essere insegnato i musulmani devono sottostare ai principi generali del nostro ordinamento che, per esempio, vieta la dottrina wahaabita sulla sottomissione della donna e la possibilità per l’uomo di avere quattro mogli.
Ma le organizzazioni islamiche presenti in Italia non si riconoscono a vicenda la legittimazione a rappresentare il senso giusto, corretto della religione musulmana».
Perché con la Chiesa c’è un’intesa e con l’Islam no? «I cattolici hanno un Papa e una gerarchia che stabilisce l’esatta interpretazione della dottrina, nell’Islam ogni predicatore può stabilire quale sia l’autentico modo di applicare il Corano senza che nessuno abbia la forza gerarchica per smentirlo.
Oggi lo Stato non ha il potere di attribuire una legittimazione esclusiva per differenziare gli estremisti della moschea di viale Jenner a Milano dal riformismo europeo e tollerante dell’imam di Roma.
Non è solo un ostacolo burocratico e istituzionale ma politico.
A causa della struttura della predicazione islamica manca ancora l’intesa con lo Stato.
Quando ci sarà, sarà fissata la linea».
E nel frattempo? «Il modello da seguire è il Concordato firmato da Craxi con la Santa Sede un quarto di secolo fa.
Formare un buon musulmano è una questione religiosa, noi vogliamo arrivare alla cittadinanza.
Il governo è contrario a visioni esagerate che negano questa possibilità.
Un buon italiano può essere cristiano, ebreo o musulmano, però deve condividere i valori e i principi dell’ordinamento nazionale.
L’istruzione è la chiave per centrare questo obiettivo.
Chi nasce in Italia da genitori marocchini o filippini diventa italiano attraverso il percorso di educazione negli istituti italiani, studiando la lingua, l’educazione civica».
intervista a Franco Frattini, a cura di Giacomo Galeazzi in “La Stampa” del 26 ottobre 2009  Ad una settimana dalla proposta dell’ora di religione islamica fatta dal viceministro di An Adolfo Urso e appoggiata dal presidente della Camera Gianfranco Fini, il ministro degli Esteri Franco Frattini, in un’intervista a ”La Stampa”, rilancia, spiegando così la propria proposta: in base al concordato con la Chiesa, spiega, il sacerdote che insegna religione ”deve essere autorizzato dall’autorità ecclesiastica.
Solo così siamo garantiti che si rispettino le regole”.
Per introdurre l’ora di religione islamica, il titolare degli esteri dichiara che occorre la “garanzia dall’Islam” e “perciò prima serve un accordo con la confessione islamica analogo a quello che lo stato ha con il Vaticano”.
La proposta di Fini e Urso, per Frattini, va dunque accolta come ”un’accelerazione all’intesa con l’Islam che è ferma da vent’anni.
A palazzo Chigi ci sta provando la commissione per i culti acattolici”.
Ma non è semplice: ”Per essere riconosciuti in Italia come portatori di un messaggio che può essere insegnato – spiega il ministro – i musulmani devono sottostare ai principi generali del nostro ordinamento” che vieta, per esempio, la sottomissione della donna e la possibilità per l’uomo di avere quattro mogli.
Ma le organizzazioni islamiche in Italia ”non si riconoscono a vicenda la legittimazione a rappresentare il senso giusto” e nell’Islam ”ogni predicatore può’stabilire quale sia l’autentico modo di applicare il corano”, a differenza dei cattolici che ”hanno un papa e una gerarchia che stabilisce l’esatta interpretazione della dottrina”.
Il modello più adatto, per Frattini, sarebbe ”il concordato firmato da Craxi con la santa sede un quarto di secolo fa”, ma “a causa della struttura della predicazione islamica, manca ancora l’intesa con lo stato”.
Andrebbe inoltre osservato, a giudizio di Tuttoscuola, che i costi di un’operazione di questo genere sarebbero assai elevati, così come le difficoltà organizzative: gli studenti di religione musulmana nelle nostre scuole sono relativamente pochi (il 2,5%), ma se tutti chiedessero di avvalersi dell’ora di religione islamica…
 L’Ucoii, Unione delle Comunità islamiche in Italia, concorda con la proposta del ministro Frattini di pervenire ad una intesa tra Stato italiano ed Islam per poi considerare l’ora di religione coranica  nelle scuole italiane.
Il portavoce dell’Unione delle Comunità islamiche in Italia, Ezzedin Elzir, ha dichiarato che l’Ucoii è pronta a stipulare anche da sola un’intesa con lo Stato italiano.
“Credo che l’intesa si debba fare – osserva Elzir – con la parte della comunità che la chiede.
Noi cerchiamo con tutta le forze di avere una rappresentanza unica, ma se ciò non avviene non possiamo lasciare la nostra comunità ad aspettare”.
Il portavoce dell’Ucoii si è detto d’accordo con il ministro Frattini anche sulla necessità che la scuola insegni in primo luogo ad essere dei buoni cittadini italiani, e che vi sia un albo di insegnanti concordato con lo Stato.
Quanto alla distinzione fatta dal ministro, tra “gli estremisti della moschea di viale Jenner a Milano” e “il riformismo europeo e tollerante dell’imam di Roma” il portavoce dell’Ucooi, che è anche imam a Firenze, ha precisato che, da parte sua,  il compito è “portare un messaggio e non giudicare”.
 Per il mondo musulmano l’appartenenza religiosa viene prima dell’appartenenza nazionale.
Naturalmente, bisogna dire che vi sono più modi di praticare l’islam, si può essere più liberali e tolleranti  come può succedere in Italia.
Ma costoro sono al corrente della diversità delle norme e delle usanze del nostro  Paese, rispetto a quelle islamiche? Non credo proprio.
Difatti, non è stato ancora stilata alcuna Intesa tra lo Stato italiano e le comunità islamiche circa il rispetto delle nostre leggi e della nostra Costituzione.
Un esempio: quante coppie musulmane si sono sposate civilmente e- di conseguenza- si impegnano a rispettare il dettato costituzionale? Benché costituiscano il secondo gruppo religioso in Italia per numero, le comunità islamiche non dispongono ancora di un accordo giuridico con lo Stato.
In assenza di tale accordo, l’esercizio dei loro diritti religiosi é di fatto limitato.
La creazione di nuove moschee e istituzioni scolastiche e l’osservanza di feste religiose e altri riti si scontrano con notevoli difficoltà.
Inoltre, la stragrande maggioranza dei musulmani che vive in Italia non ha la cittadinanza e, quindi, non partecipa alla vita politica del paese.
Così i rapporti con l’Islam da un punto di vista giuridico è operazione non agevole, data la diversità dei sistemi giuridici, tra di loro difficilmente comparabili, e perché il mondo arabo prescinde da qualsiasi riferimento al diritto romano o ai diritti confessionali come quello canonico.
Inoltre, l’Italia da sempre persegue la strada dell’interculturalità, che prevede la contaminazione delle diverse culture, tenendo come punto fermo la Costituzione.
Il  fatto che il nostro stato ha subìto negli ultimi anni un possente flusso migratorio proveniente da paesi a prevalenza islamica, tanto che la comunità musulmana è diventata la seconda comunità religiosa, dopo quella cattolica, presente nel nostro Paese, induce alcuni politici a proporre un’ ora di religione islamica a scuola di ogni ordine e grado.
Ma secondo  chi?.
La maggioranza di questa comunità si riconosce in tre associazioni islamiche: l’Associazione Musulmani Italiani (A.M.I.), la Comunità Religiosa Islamica (CO.RE.IS.) e l’Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche Italiane (U.C.O.I.I.).
Ciascuna di queste ha, separatamente, presentato al Governo italiano una propria bozza d’intesa, allo scopo di ottenere il riconoscimento dell’esistenza della comunità islamica nel nostro Paese e quindi di regolare alcuni aspetti della vita che sono strettamente collegati alla religione.
Le richieste delle tre Associazioni, si concentrano particolarmente sul tema della famiglia, del lavoro e dell’istruzione.
Da tenere ben presente che i musulmani provengono da una moltitudine di paesi diversi, e quindi ciascun gruppo nazionale riproduce le divisioni esistenti in patria intersecandole con quelle degli altri gruppi.
Il panorama risulta quindi molto variegato, e nessuna istituzione islamica o federazione associativa può presentarsi per ora come rappresentante dei musulmani all’interno di uno stato, perché non è in grado di raccogliere i consensi di tutti i gruppi, e in mancanza di questo la sua rappresentatività è sempre contestabile da altri.
L’immigrazione in Italia è infatti ancora troppo recente, e la maggior parte degli immigrati è alle prese con problemi più concreti di natura economica e familiare.
D’altra parte la maggior parte dei musulmani non conosce il contesto italiano, quale rapporto intende stabilire con esso, le modalità con cui sintetizzare la propria appartenenza all’islam con l’adesione ai valori fondamentali della società italiana.
La stessa scarsa frequenza alle moschee dimostra che gli stessi organismi islamici esistenti non rappresentano la maggioranza della popolazione.
La distanza che si manifesta tra gli enti dell’associazionismo islamico e la maggioranza della popolazione musulmana residente in Italia, è un dato di fatto da considerare, nella prospettiva d’iniziative sul piano politico.
Probabilmente la via migliore da seguire non è quella di legittimare istituzionalmente organismi la cui rappresentatività reale è dubbia – magari stipulando un’intesa prematura tra lo Stato italiano e una “confessione musulmana” rappresentata da enti scarsamente rappresentativi – , ma lasciare spazio e tempo al confronto e al dibattito all’interno delle varie correnti e organismi musulmani e nel più vasto ambito della popolazione musulmana di origine immigrata, perché possa emergere gradualmente una rappresentanza reale, che esprima realisticamente le esigenze dei musulmani nel contesto italiano.
Prima di giungere a un’Intesa, di per sé difficilmente modificabile una volta stipulata, sembra indispensabile un maggiore radicamento dei musulmani in Italia, tenendo conto che il diritto comune italiano garantisce già, indipendentemente da qualsiasi Intesa, la libertà di religione, di espressione, di associazione per i musulmani come per gli altri residenti e cittadini.
Precorrere i tempi significherebbe non consentire che emergano tutti gli interlocutori musulmani con i loro tratti specifici e che neppure vengano espresse in modo compiuto le esigenze religiose sentite dalla base.
D’altra parte sarebbe come minimo imprudente non valutare i rischi di interlocutori legittimi per lo stato italiano che potrebbero favorire un’evoluzione dell’islam italiano in senso conflittuale rispetto ai valori fondamentali della società e della cultura italiana ed europea.
I nostri politici in cerca di sensazionalismo, si informassero meglio su che cosa è “islam” e si occupassero più seriamente dei veri problemi della scuola.
Di: Maria de falco Marotta