Avviare un percorso didattico sul sacro

SECODARIA DI SECONDO GRADO:  I ANNO                    I.
INTERVENTO: IL SACRO.
       1.      Brainstorming sulla parola sacro        2.      Ricerca di immagini sul tema:                Cosa io considero sacro?                                                 immagini di eventi naturali           3.      Brainstorming con immagini presentate da me:              Domanda: emozioni, sentimenti, sensazioni che ti suscitano le immagini.
     Immagine il Cristo di Dalì, il pensatore……       4.      Da un senso alle parole creando un testo 5.      Riflessione sul cammino fatto fino a questo momento:          dalla realtà sono nate emozioni , sentimenti, stati d’animo         Abbiamo trasformato il tutto in poesie, testi, racconti che ci appartengono, sono nostri.          Abbiamo fatto esperienza del sacro.
        Il sacro è in noi.          Ecco perché l’uomo da sempre ha manifestato questo rapporto con la realtà.
6.    Come lo ha manifestato?’’’  II.
INTERVENTO: IL SIMBOLO   1.   Il simbolo: realtà che ci riporta ad un’altra realtà   2.
Individuare e mettere a confronto i nostri simboli del sacro  3.
Ricercare  i simboli con i quali l’uomo  ha manifestato il sacro nella storia   4.
Confronto dibattito di gruppo: Quale significato hanno per noi i simboli del sacro?   5.
Esprimere la propria convinzione attraverso la produzione di un documento                                               

Il crocifisso, simbolo di sofferenza

Crocefissi in classe? Almeno non dite di essere liberali di Francesca Rigotti in l’Unità del 11 novembre 2009 Se alcuni settori del paese Italia non si riconoscono in uno stato laico e liberale, che lo facciano, ma abbiano almeno, se non il coraggio, la banale coerenza di dichiararlo e e di rinunciare all’ uso e all’abuso di termini quali libertà e liberalismo.
La battaglia del crocifisso.
Quella rivolta degli anni venti
di Filippo Ceccarelli in la Repubblica del 11 novembre 2009 “…
vale segnalare …quanto avrebbe risposto Antonio Gramsci, rinchiuso nel carcere di Turi, quando una guardia entrò imbarazzata in cella con l´ordine di apporvi il crocifisso: «Se fosse una roba che puzza, direi di no.
Ma come ci sto io, ci può stare anche lui».
Tra poveri Cristi, d´altra parte, ci si intende sempre.” Ma io difendo quella croce di Marco Travaglio in Il Fatto quotidiano del 5 novembre 2009 Dipendesse da me, il crocifisso resterebbe appeso nelle scuole.
E non per le penose ragioni accampate da politici e tromboni di destra, centro, sinistra e persino dal Vaticano.
Anzi, se fosse per quelle, lo leverei anch’io.” “le (alla chiesa) mancano proprio le parole.
Oggi i peggiori nemici del crocifisso sono proprio i chierici.
E i clericali.” Il crocefisso ridotto a bandiera nazionale di Filippo Gentiloni in il manifesto del 8 novembre 2009 “Non più il Gesù storico, dunque, ma un simbolo nazionale, portatore di unità tradizionale.
Un po’ come la lingua o il costume.
O la bandiera.
Uno spostamento di prospettiva che rappresenta una vera e propria degradazione del crocefisso.
Gesù destoricizzato perché sia «di tutti».
È il prezzo che l’autorità cattolica è pronta a pagare per mantenere la sua universalità? Se ne può discutere.” Il crocifisso addosso di Emilio Gentile in Il Sole 24 Ore del 8 novembre 2009 “Forse i giudici della Corte di Strasburgo…
sono stati inconsapevoli strumenti di un Disegno Superiore mirante a restituire la maestà del sacro al simbolo massimo della religione cristiana, sottraendolo ai molti usi che se ne fanno.
Infatti, il crocifisso lo si vede dondolare dai lobi, dalle narici…
ondeggiare su prosperosi seni…
pencolare da bracciali, portachiavi…
apparire stampigliato su indumenti e tatuato sulla pelle.
Chi lo esibisce…
probabilmente ha frainteso le parole di Gesù: «Se uno vuol venire dietro di me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo, 16,24).
Molti che esibiscono il crocifisso hanno probabilmente scambiato “portare” per “indossare”…
l’hanno indossata.
Senza rinnegare se stessi.” Isteria senza fede intervista a Marinella Perroni a cura di Marco Politi in il Fatto quotidiano del 6 novembre 2009 “È terribile che la croce possa servire a fare violenza, anche solo verbale.
La croce è un testo, una narrazione della morte e resurrezione di Cristo, che invita ad un comportamento da tenere.
Guai se diventa un pretesto.
Perché non si riesce a fare una riflessione ad alto livello sulla sentenza della Corte di Strasburgo?” “vorrei che la Chiesa aprisse una riflessione con tutte le anime della cattolicità e del cristianesimo del nostro paese su ciò che significa essere testimoni della fede oggi in Italia” I vescovi, il premier e la partita del timer di Marco Politi in il Fatto quotidiano del 8 novembre 2009 “Per la Chiesa italiana la battaglia sul crocifisso è giunta come un’occasione insperata per cavalcare l’onda dell'”identità” e delle tradizioni popolari cattoliche.
Per presentarsi quale interprete nazionale di un simbolo, intorno al quale con maggiore o minore intensità si schiera gran parte del mondo politico…” La selva di croci sopra Strasburgo di Lorenzo Mondo in La Stampa del 8 novembre 2009 “Mi sembra distratta, avventata, e nella sostanza ingiusta (summum ius, summa iniuria) la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ritiene illegittima l’esposizione del Crocifisso nelle scuole italiane.
Nella dottrina e nella pratica corrente quell’icona non provoca conseguenze discriminatorie e persecutorie, come dimostra tra l’altro il fatto che sotto le sue braccia accoglienti sono cresciuti fior di anticlericali e laici catafratti.” Il giovane Sami Albertin — la cui madre ha chiesto la rimozione del crocifisso dalle scuole statali approvata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, ricevendo per questo su forum e blog volgari insulti da chi, per il solo fatto di proferirli, non ha diritto di dirsi cristiano — dev’essere molto sensibile e delicato come una mimosa, se, com’egli dice, «si sentiva osservato» dagli occhi dei crocifissi appesi nella sua classe.
Se erano tre, come egli ricorda, erano un po’ troppi, ma provare turbamenti da giovane Werther o da giovane Törless è forse un po’ esagerato; fa pensare a quella prevalenza dei nervi sui muscoli irrisa da Croce, che preferiva studenti studiosi e gagliardi a precoci giacobini.
La sentenza e soprattutto i suoi strascichi provocheranno — ed è questa la conseguenza più grave — un passo indietro in quella continua lotta per la laicità che è fondamentale, ma che è efficace — ha ricordato Bersani, uno dei pochi a reagire con equilibrio a tale vicenda — solo se non travolge il buon senso e non confonde le inique ingerenze clericali da combattere con le tradizioni che, ancora Bersani, non possono essere offensive per nessuno.
La difesa della laicità esige ben altre e più urgenti misure: ad esempio — uno fra i tanti — il rifiuto di finanziare le scuole private, cattoliche o no, e di parificarle a quella pubblica, come esortava il cattolicissimo e laicissimo Arturo Carlo Jemolo.
Sono contrario a ogni Concordato che stabilisca favori a una Chiesa piuttosto che a un’altra anche se numericamente poco rilevante; ritengo ad esempio — è solo un altro esempio fra i tanti — che il matrimonio cattolico e il suo eventuale annullamento ecclesiastico non dovrebbero avere alcuna rilevanza giuridica, che dovrebbe essere conferita solo dal matrimonio e dal suo eventuale annullamento civile.
«Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato!», pare abbia detto Cavour in punto di morte al religioso che lo esortava a confessarsi.
Forse è una leggenda, ma esprime bene la fede nel valore della laicità — che non è negazione di alcuna fede religiosa e può anzi coesistere con la fede più appassionata, ma è distinzione rigorosa di sfere, prerogative e competenze.
L’obbligatoria rimozione del crocifisso è formalmente ineccepibile, in quanto la separazione fra lo Stato e la Chiesa — tutte le Chiese — non richiede di per sé la presenza di alcun simbolo religioso.
La legge tuttavia consente di temperare la formale applicazione del diritto con l’equità ossia con la giustizia nel caso concreto.
Ad esempio è giusto che i responsabili di istituzioni pubbliche non possano affidare lavori che riguardino quest’ultime senza indire pubbliche gare di appalto, perché altrimenti si favorirebbe la corruzione.
Confesso che trenta o quarant’anni fa, all’epoca in cui dirigevo a Trieste un minuscolo e fatiscente Istituto di Filologia germanica, quando in una gelida giornata invernale di bora si era rotto il vetro di una piccola finestra ed entrava il gelo, non ho indetto alcuna gara d’appalto bensì ho cercato nella guida telefonica il vetraio più vicino, l’ho chiamato e gli ho pagato la piccola cifra richiesta, facendola gravare sulle piccole spese destinate all’acquisto di cancelleria, gomme, carta igienica, gesso.
Formalmente sarebbe stato possibile incriminarmi, ipotizzando un mio illecito accordo col vetraio; ad ogni buon conto confesso il reato solo ora, in quanto caduto in prescrizione.
Credo tuttavia che, in quel caso come in altri, ciò avrebbe convalidato il detto, proclamato da rigorosi giuristi e non da teste calde, «summum ius, summa iniuria» — massimo diritto, massima ingiustizia.
E così forse è il caso del crocifisso.
Quella figura rappresenta per alcuni ciò che rappresentava per Dostoevskij, il figlio di Dio morto per gli uomini; come tale non offende nessuno, purché ovviamente non si voglia inculcare a forza o subdolamente questa fede a chi non la condivide.
Per altri, per molti, potenzialmente per tutti, esso rappresenta ciò che esso rappresentava per Tolstoj o per Gandhi, che non credevano alla sua divinità ma lo consideravano un simbolo, un volto universale dell’umanità, della sofferenza e della carità che la riscatta.
Un analogo discorso, naturalmente vale per altri volti universali della condizione umana, ad esempio Buddha, il cui discorso di Benares parla anche a chi non professa la sua dottrina ed è radicato nella tradizione di altre civiltà come il cristianesimo nella nostra.
Per altri ancora, scriveva qualche anno fa Michele Serra, quel crocifisso è avvolto dalla pietas dei sentimenti di generazioni.
Altri ancora possono essere del tutto indifferenti, ma difficilmente offesi.
Si può e si deve osservare che le potenze terrene di cui quel crocifisso è simbolo e sostanza ossia le Chiese si sono macchiate e talvolta si macchiano ancora di violenze, prepotenze, ipocrisie, che negano quell’uomo in croce e fanno del male agli uomini.
Tutte le Chiese, non solo la cattolica; anche i protestanti hanno i loro roghi di streghe e la consonante finale dell’orrenda sigla razzista wasp (bianchi anglosassoni protestanti, sprezzantemente contrapposti ai neri).
Naturalmente, siccome a noi stanno sullo stomaco le prepotenze della Chiesa cattolica, quando essa le commette, è giusto prendersela con essa prima che con le malefatte di altre confessioni in altri Paesi.
Ma come quella p di wasp non offusca la grandezza della Riforma protestante e del suo libero esame, i misfatti e le pecche delle Chiese cristiane d’ogni tipo non offuscano l’universalità di Cristo, che anzi le chiama a giudizio.
Su ogni bandiera e anche sulla croce ci sono le fetide macchie dei delitti commessi dai loro seguaci.
In nome della patria si sono perpetrate violenze feroci; in nome della libertà e della giustizia si sono innalzate ghigliottine e creati gulag; in nome del profitto svincolato da ogni legge si sono compiute inaudite ingiustizie e crimini.
Sulla bandiera dell’Inghilterra e della Francia c’è anche lo sterco della guerra dell’oppio, una guerra mossa per costringere un grande ma allora indifeso Paese a drogarsi in nome del profitto altrui.
L’elenco potrebbe continuare a piacere.
Ma le barbarie nazionaliste non cancellano l’amor di patria; la guerra dell’oppio non cancella l’universalità della Magna Charta e della Dichiarazione dei Diritti dell’89 e quelle bandiere, inglese e francese, restano degne di rispetto e d’amore; il gulag installato in uno Stato che si proclamava socialista non distrugge l’universalità del socialismo e la ghigliottina non ha decapitato l’idea di libertà e di repubblica.
E così tutto il negativo che si può e si deve addebitare alle Chiese cristiane non può far scordare anche il grande bene che loro si deve; la Chiesa cattolica non è solo Monsignor Marcinkus; è anche don Gnocchi e don Milani o padre Camillo Torres, morto combattendo per difendere i più miseri dannati della terra.
Quell’uomo in croce che ha proferito il rivoluzionario discorso delle Beatitudini non può essere cancellato dalla coscienza, neanche da quella di chi non lo crede figlio di Dio.
La bagarre creata da questa sentenza farà dimenticare temi ben più importanti della difesa della laicità, fomenterà i peggiori clericalismi; dividerà il Paese in modo becero su entrambi i fronti, darà a tanti buffoni la tronfia soddisfazione di atteggiarsi a buon prezzo a campioni della Libertà o dei Valori, il crocifisso troverà i difensori più ipocriti e indegni, quelli che a suo tempo lui definì «sepolcri imbiancati».
Il Nostro Tempo ha ricordato che Piero Calamandrei — laico antifascista, intransigente nemico della legge truffa dei governi democristiani e centristi di allora— aveva proposto di affiggere, nei tribunali, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti.
Evidentemente Calamandrei era meno delicatino del giovane Albertin.
In Italia, la sentenza è un anticipato regalo di Natale al nostro presidente del Consiglio, cui viene offerta una imprevista e gratissima occasione di presentarsi nelle vesti a lui invero poco consone, di difensore della fede, dei valori tradizionali, della famiglia, del matrimonio, della fedeltà, che quell’uomo in croce è venuto a insegnare.
È venuto per tutti, e dunque anche per lui, ma questo regalo di Natale non glielo fa Gesù bambino bensì piuttosto quel rubizzo, giocondo e svampito Babbo Natale che fra poche settimane ci romperà insopportabilmente le scatole, a differenza di quel nato nella stalla.
Claudio Magris 07 novembre 2009

Sessantesima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana

Il messaggio del Papa alla sessantesima assemblea generale della Conferenza episcopale italiana Nel suo impegno per portare il “lievito del Vangelo nella cultura e nel tessuto della società” la Chiesa italiana è chiamata a farsi “voce e carico delle esigenze di un Paese che non crescerà se non insieme”.
È quanto scrive Benedetto XVI nel messaggio ai partecipanti alla sessantesima assemblea generale della Cei, in corso ad Assisi.
Al Venerato Fratello Il Signor Cardinale Angelo Bagnasco Presidente della Conferenza Episcopale Italiana In occasione dei lavori della 60 Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, mi è particolarmente gradito inviare il mio affettuoso saluto a Lei, al Segretario della cei e a tutti i Pastori della Chiesa che è in Italia, riuniti in Assisi, città simbolo di quella vita cristiana condotta “secondo la forma” del Vangelo, incarnata nell’esistenza di san Francesco e santa Chiara, che continuano ad esercitare in Italia e nel mondo un irresistibile fascino spirituale.
Idealmente presente esprimo a tutti la mia vicinanza spirituale, ben conoscendo lo zelo con cui voi, venerati e cari Fratelli, operate quotidianamente al servizio delle comunità affidate alle vostre cure pastorali.
Nei viaggi apostolici che vado compiendo nelle diocesi italiane, come pure in altre occasioni che mi portano a contatto con l’amata Chiesa che è in Italia, incontro comunità vive, salde nel loro legame col Successore di Pietro e nella comunione reciproca.
Per questo, “continuamente rendo grazie per voi ricordandovi nelle mie preghiere” (Ef 1, 16), insieme ai presbiteri, vostri primi collaboratori nelle fatiche apostoliche, insieme ai diaconi, ai religiosi e alle religiose e ai fedeli laici che condividono la vostra gioia e la vostra responsabilità di testimoni di Cristo in ogni ambito della società italiana.
Questi periodici incontri – ne sono certo – alimentano la vostra reciproca cooperazione indispensabile per realizzare il mandato, che contraddistingue la vostra azione apostolica, di incrementare nel popolo cristiano la fede, la speranza e la carità, di alimentare i rapporti con le altre comunità religiose e le autorità civili, di operare per la presenza del lievito del Vangelo nella cultura e nel tessuto della società italiana, per la tutela della vita umana, per la promozione della pace e della giustizia e per la difesa del creato.
Lo scambio e la fraternità che caratterizzano i vostri lavori assembleari danno forza e vivacità all’impegno comune per l’unica Chiesa di Cristo e per la crescita del tessuto umano della società.
Sono trascorsi pochi mesi dal nostro incontro in occasione dell’Assemblea Generale svoltasi a maggio, nel corso della quale è stata individuata nell’educazione la prospettiva di fondo degli orientamenti pastorali per il prossimo decennio.
L’emergere dell’istanza educativa è un segno dei tempi che provoca l’Italia intera a porre la formazione delle nuove generazioni al centro dell’attenzione e dell’impegno di ciascuno, secondo le rispettive responsabilità e nel quadro di un’ampia convergenza di intenti.
Come ricordavo nel mio intervento del 28 maggio scorso, l’educazione è “una esigenza costitutiva e permanente della vita della Chiesa” e si colloca nel cuore della sua missione, volta a far sì che ogni persona possa incontrare e seguire il Signore Gesù, Via che conduce all’autenticità dell’amore, Verità che ci viene incontro e Vita del mondo.
La sfida educativa attraversa tutti i settori della Chiesa ed esige che siano affrontate con decisione le grandi questioni del tempo contemporaneo: quella relativa alla natura dell’uomo e alla sua dignità – elemento decisivo per una formazione completa della persona – e la “questione di Dio”, che sembra quanto mai urgente nella nostra epoca.
Vorrei richiamare, in proposito, ciò che ebbi a dire, il 24 luglio scorso, durante la celebrazione dei Vespri nella Cattedrale di Aosta: “Se la relazione fondamentale – la relazione con Dio – non è viva, non è vissuta, anche tutte le altre relazioni non possono trovare la loro forma giusta.
Ma questo vale anche per la società, per l’umanità come tale.
Anche qui, se Dio manca, se si prescinde da Dio, se Dio è assente, manca la bussola per mostrare l’insieme di tutte le relazioni per trovare la strada, l’orientamento dove andare.
Dio! Dobbiamo di nuovo portare in questo nostro mondo la realtà di Dio, farlo conoscere e farlo presente” (L’Osservatore Romano, 26 luglio 2009, p.
8) Perché ciò si realizzi occorre che noi per primi, cari Fratelli Vescovi, con tutto il nostro essere, diventiamo adorazione vivente, dono che trasforma il mondo e lo restituisce a Dio.
È questo il messaggio profondo dell’Anno Sacerdotale, che costituisce una straordinaria occasione per andare al cuore del ministero ordinato, riconducendo a unità, in ciascun sacerdote, l’identità e la missione.
Sono contento di vedere come, nelle vostre Diocesi, questa speciale proposta stia generando non poche iniziative soprattutto di carattere spirituale e vocazionale, e contribuisca a mettere in luce il cammino di santità tracciato nel tempo da tanti Vescovi e presbiteri italiani.
La storia d’Italia, infatti, è anche la storia di un’innumerevole schiera di sacerdoti che si sono chinati sulle ferite di un’umanità smarrita e sofferente, facendo di se stessi un’offerta di salvezza.
Mi auguro che possiate raccogliere abbondanti frutti da questa corale preghiera e meditazione sul dono del sacerdozio, scaturito dal cuore di Cristo per la salvezza del mondo.
Un altro tema al quale sarà dedicato ampio spazio nei lavori della vostra Assemblea, è la “questione meridionale”.
A vent’anni dalla pubblicazione del documento “Sviluppo nella solidarietà.
Chiesa italiana e Mezzogiorno”, avvertite il bisogno di farvi voce e carico delle esigenze di un Paese che non crescerà se non insieme.
Nelle terre del Sud la presenza della Chiesa è germe di rinnovamento, personale e sociale, e di sviluppo integrale.
Possa il Signore benedire gli sforzi di coloro che operano, con la tenace forza del bene, per la trasformazione delle coscienze e la difesa della verità dell’uomo e della società.
Nel corso della vostra Assemblea, inoltre, verrà esaminata la nuova edizione italiana del Rito delle esequie.
Essa risponde alla necessità di coniugare la fedeltà all’originale latino con gli opportuni adattamenti alla situazione nazionale, facendo tesoro dell’esperienza maturata dopo il Concilio Vaticano II, con sguardo attento al mutato contesto socio-culturale e alle esigenze della nuova evangelizzazione.
Il momento delle esequie costituisce un’importante occasione per annunciare il Vangelo della speranza e manifestare la maternità della Chiesa.
Il Dio che “verrà nella gloria per giudicare i vivi e i morti”, è Colui che “asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno” (Ap 21, 4).
In una cultura che tende a rimuovere il pensiero della morte, quando addirittura non cerca di esorcizzarla riducendola a spettacolo o trasformandola in un diritto, è compito dei credenti gettare su tale mistero la luce della rivelazione cristiana, certi “che l’amore possa giungere fin nell’aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto” (Spe salvi, 48).
Signor Cardinale e venerati Fratelli nell’Episcopato, cinquant’anni fa, al termine del XVI Congresso Eucaristico Nazionale e dopo una straordinaria Peregrinatio Mariae, i Vescovi italiani vollero consacrare l’Italia al Cuore Immacolato di Maria.
Di tale atto così significativo e fecondo, voi rinnoverete la memoria, confermando il particolarissimo legame di affetto e devozione che unisce il popolo italiano alla celeste Madre del Signore.
Volentieri mi unisco a questo ricordo, affidando i lavori della vostra Assemblea, la Chiesa che è in Italia e l’intera Nazione alla materna protezione della Vergine Maria, Regina degli Angeli e immagine purissima della Chiesa.
Invoco la sua intercessione, con quella dei santi Francesco e Chiara d’Assisi e di tutti i santi e le sante della terra italiana.
Con tali sentimenti imparto di cuore a Lei, ai Vescovi, ai loro collaboratori e a tutti i presenti la Benedizione Apostolica.
Dal Vaticano, 4 novembre 2009 (©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009) La 60ª Assemblea Generale della CEI si aprirà nel pomeriggio del 9 novembre 2009, ad Assisi, con la prolusione del Card.
Angelo Bagnasco, Presidente della CEI.
Il giorno seguente, dopo la Celebrazione Eucaristica nella Basilica di Santa Maria degli Angeli, il Nunzio Apostolico in Italia, S.E.
Mons.
Giuseppe Bertello, saluterà i Vescovi Italiani.
Sono quattro i principali argomenti che saranno al centro dei lavori dell’Assemblea dopo l’elezione del Vice Presidente della CEI (Italia centrale): l’approvazione della nuova edizione italiana del Rito delle Esequie; l’approvazione della Nota su Chiesa e Mezzogiorno; la riflessione sulla questione antropologica alla luce del nesso fra etica della vita ed etica sociale, secondo la Caritas in veritate; l’approfondimento del rapporto fra l’immagine della Chiesa e la comunicazione dei media.
Nel contesto dei lavori assembleari particolare rilievo avranno le iniziative di carattere nazionale in occasione dell’Anno Sacerdotale.
Sono inoltre previste la comunicazione sulla rilevazione delle opere sanitarie e sociali ecclesiali in Italia e alcune informazioni sull’Ostensione della Sindone (Torino, 10 aprile -23 maggio 2010) e sul Convegno “Testimoni digitali” (Roma, 22-24 aprile 2010).
Documenti allegati:Prolusione card.
Bagnasco Prolusione card.
Bagnasco

Anglicanorum cœtibus

Il testo integrale della costituzione apostolica “Anglicanorum cœtibus” che regola l’ingresso nella Chiesa cattolica di gruppi provenienti dalla Comunione anglicana di Benedetto XVI   In questi ultimi tempi lo Spirito Santo ha spinto gruppi anglicani a chiedere più volte e insistentemente di essere ricevuti, anche corporativamente, nella piena comunione cattolica e questa Sede Apostolica ha benevolmente accolto la loro richiesta.
Il Successore di Pietro infatti, che dal Signore Gesù ha il mandato di garantire l’unità dell’episcopato e di presiedere e tutelare la comunione universale di tutte le Chiese, (1) non può non predisporre i mezzi perché tale santo desiderio possa essere realizzato.
La Chiesa, popolo adunato nell’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, (2) è stata infatti istituita da Nostro Signore Gesù Cristo come “il sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano.” (3) Ogni divisione fra i battezzati in Gesù Cristo è una ferita a ciò che la Chiesa è e a ciò per cui la Chiesa esiste; infatti “non solo si oppone apertamente alla volontà di Cristo, ma è anche di scandalo al mondo e danneggia la più santa delle cause: la predicazione del Vangelo ad ogni creatura”.
(4) Proprio per questo, prima di spargere il suo sangue per la salvezza del mondo, il Signore Gesù ha pregato il Padre per l’unità dei suoi discepoli.
(5) È lo Spirito Santo, principio di unità, che costituisce la Chiesa come comunione.
(6) Egli è il principio dell’unità dei fedeli nell’insegnamento degli Apostoli, nella frazione del pane e nella preghiera.
(7) Tuttavia la Chiesa, per analogia al mistero del Verbo incarnato, non è solo una comunione invisibile, spirituale, ma anche visibile; (8) infatti, “la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino.” (9) La comunione dei battezzati nell’insegnamento degli Apostoli e nella frazione del pane eucaristico si manifesta visibilmente nei vincoli della professione dell’integrità della fede, della celebrazione di tutti i sacramenti istituiti da Cristo e del governo del Collegio dei Vescovi uniti con il proprio capo, il Romano Pontefice.
(10) L’unica Chiesa di Cristo infatti, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, “sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro, e dai Vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica.” (11) Alla luce di tali principi ecclesiologici, con questa Costituzione Apostolica si provvede ad una normativa generale che regoli l’istituzione e la vita di Ordinariati Personali per quei fedeli anglicani che desiderano entrare corporativamente in piena comunione con la Chiesa Cattolica.
Tale normativa è integrata da Norme Complementari emanate dalla Sede Apostolica.
I.
§ 1.
Gli Ordinariati Personali per Anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa Cattolica vengono eretti dalla Congregazione per la Dottrina della Fede all’interno dei confini territoriali di una determinata Conferenza Episcopale, dopo aver consultato la Conferenza stessa.
§ 2.
Nel territorio di una Conferenza dei Vescovi, uno o più Ordinariati possono essere eretti, a seconda delle necessità.
§ 3.
Ciascun Ordinariato “ipso iure” gode di personalità giuridica pubblica; è giuridicamente assimilato ad una diocesi.
(12) § 4.
L’Ordinariato è formato da fedeli laici, chierici e membri d’Istituti di Vita Consacrata o di Società di Vita Apostolica, originariamente appartenenti alla Comunione Anglicana e ora in piena comunione con la Chiesa Cattolica, oppure che ricevono i Sacramenti dell’Iniziazione nella giurisdizione dell’Ordinariato stesso.
§ 5.
Il Catechismo della Chiesa Cattolica è l’espressione autentica della fede cattolica professata dai membri dell’Ordinariato.
II.
L’Ordinariato Personale è retto dalle norme del diritto universale e dalla presente Costituzione Apostolica ed è soggetto alla Congregazione per la Dottrina della Fede e agli altri Dicasteri della Curia Romana secondo le loro competenze.
Per esso valgono anche le suddette Norme Complementari ed altre eventuali Norme specifiche date per ciascun Ordinariato.
III.
Senza escludere le celebrazioni liturgiche secondo il Rito Romano, l’Ordinariato ha la facoltà di celebrare l’Eucaristia e gli altri Sacramenti, la Liturgia delle Ore e le altre azioni liturgiche secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere.
IV.
Un Ordinariato Personale è affidato alla cura pastorale di un Ordinario nominato dal Romano Pontefice.
V.
La potestà (potestas) dell’Ordinario è: a.
ordinaria: annessa per il diritto stesso all’ufficio conferitogli dal Romano Pontefice, per il foro interno e per il foro esterno; b.
vicaria: esercitata in nome del Romano Pontefice; c.
personale: esercitata su tutti coloro che appartengono all’Ordinariato.
Essa è esercitata in modo congiunto con quella del Vescovo diocesano locale nei casi previsti dalle Norme Complementari.
VI.
§ 1.
Coloro che hanno esercitato il ministero di diaconi, presbiteri o vescovi anglicani, che rispondono ai requisiti stabiliti dal diritto canonico (13) e non sono impediti da irregolarità o altri impedimenti, (14) possono essere accettati dall’Ordinario come candidati ai Sacri Ordini nella Chiesa Cattolica.
Per i ministri coniugati devono essere osservate le norme dell’Enciclica di Paolo VI “Sacerdotalis coelibatus”, n.
42 (15) e della Dichiarazione “In June”.
(16) I ministri non coniugati debbono sottostare alla norma del celibato clericale secondo il can.
277, §1.
§ 2.
L’Ordinario, in piena osservanza della disciplina sul celibato clericale nella Chiesa Latina, “pro regula” ammetterà all’ordine del presbiterato solo uomini celibi.
Potrà rivolgere petizione al Romano Pontefice, in deroga al can.
277, § 1, di ammettere caso per caso all’Ordine Sacro del presbiterato anche uomini coniugati, secondo i criteri oggettivi approvati dalla Santa Sede.
§ 3.
L’incardinazione dei chierici sarà regolata secondo le norme del diritto canonico.
§ 4.
I presbiteri incardinati in un Ordinariato, che costituiscono il suo presbiterio, debbono anche coltivare un vincolo di unità con il presbiterio della Diocesi nel cui territorio svolgono il loro ministero; essi dovranno favorire iniziative e attività pastorali e caritative congiunte, che potranno essere oggetto di convenzioni stipulate tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano locale.
§ 5.
I candidati agli Ordini Sacri in un Ordinariato saranno formati insieme agli altri seminaristi, specialmente negli ambiti dottrinale e pastorale.
Per tener conto delle particolari necessità dei seminaristi dell’Ordinariato e della loro formazione nel patrimonio anglicano, l’Ordinario può stabilire programmi da svolgere nel seminario o anche erigere case di formazione, connesse con già esistenti facoltà di teologia cattoliche.
VII.
L’Ordinario, con l’approvazione della Santa Sede, può erigere nuovi Istituti di Vita Consacrata e Società di Vita Apostolica e promuoverne i membri agli Ordini Sacri, secondo le norme del diritto canonico.
Istituti di Vita Consacrata provenienti dall’Anglicanesimo e ora in piena comunione con la Chiesa Cattolica per mutuo consenso possono essere sottoposti alla giurisdizione dell’Ordinario.
VIII.
§ 1.
L’Ordinario, a norma del diritto, dopo aver sentito il parere del Vescovo diocesano del luogo, può, con il consenso della Santa Sede, erigere parrocchie personali, per la cura pastorale dei fedeli appartenenti all’Ordinariato.
§ 2.
I parroci dell’Ordinariato godono di tutti i diritti e sono tenuti a tutti gli obblighi previsti nel Codice di Diritto Canonico, che, nei casi stabiliti nelle Norme Complementari, sono esercitati in mutuo aiuto pastorale con i parroci della Diocesi nel cui territorio si trova la parrocchia personale dell’Ordinariato.
IX.
Sia i fedeli laici che gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, che provengono dall’Anglicanesimo e desiderano far parte dell’Ordinariato Personale, devono manifestare questa volontà per iscritto.
X.
§ 1.
L’Ordinario nel suo governo è assistito da un Consiglio di governo regolato da Statuti approvati dall’Ordinario e confermati dalla Santa Sede.
(17) § 2.
Il Consiglio di governo, presieduto dall’Ordinario, è composto di almeno sei sacerdoti ed esercita le funzioni stabilite nel Codice di Diritto Canonico per il Consiglio Presbiterale e il Collegio dei Consultori e quelle specificate nelle Norme Complementari.
§ 3.
L’Ordinario deve costituire un Consiglio per gli affari economici a norma del Codice di Diritto Canonico e con i compiti da questo stabiliti.
(18) § 4.
Per favorire la consultazione dei fedeli nell’Ordinariato deve essere costituito un Consiglio Pastorale.
(19) XI.
L’Ordinario ogni cinque anni si deve recare a Roma per la visita “ad limina Apostolorum” e tramite la Congregazione per la Dottrina della Fede, in rapporto anche con la Congregazione per i Vescovi e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, deve presentare al Romano Pontefice una relazione sullo stato dell’Ordinariato.
XII.
Per le cause giudiziali il tribunale competente è quello della Diocesi in cui una delle parti ha il domicilio, a meno che l’Ordinariato non abbia costituito un suo tribunale, nel qual caso il tribunale d’appello sarà quello designato dall’Ordinariato e approvato dalla Santa Sede.
XIII.
Il Decreto che erigerà un Ordinariato determinerà il luogo della sede dell’Ordinariato stesso e, se lo si ritiene opportuno, anche quale sarà la sua chiesa principale.
Vogliamo che queste nostre disposizioni e norme siano valide ed efficaci ora e in futuro, nonostante, se fosse necessario, le Costituzioni e le Ordinanze apostoliche emanate dai nostri predecessori, e ogni altra prescrizione anche degna di particolare menzione o deroga.
Dato a Roma, presso San Pietro, il 4 novembre 2009, Memoria di San Carlo Borromeo.
BENEDICTUS PP XVI __________ (1) Cf.
Concilio Ecumenico Vaticano II, Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 23; Congregazione per la Dottrina della Fede, Lett.
“Communionis notio”, 12; 13.
(2) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 4; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2.
(3) Cost.
dogm.
“Lumen gentium” 1.
(4) Decr.
“Unitatis redintegratio”, 1.
(5) Cf.
Gv 17,20-21; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2.
(6) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 13.
(7) Cf.
Ibidem; At 2,42.
(8) Cf.
Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8; Lett.
“Communionis notio”, 4.
(9) Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8.
(10) Cf.
CIC, can.
205; Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 13; 14; 21; 22; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 2; 3; 4; 15; 20; Decr.
“Christus Dominus”, 4; Decr.
“Ad gentes”, 22.
(11) Cost.
dogm.
“Lumen gentium”, 8; Decr.
“Unitatis redintegratio”, 1; 3; 4; Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich.
“Dominus Iesus”, 16.
(12) Cf.
Giovanni Paolo II, Cost.
Ap.
“Spirituali militum curae”, 21 aprile 1986, I § 1.
(13) Cf.
CIC, cann.
1026-1032.
(14) Cf.
CIC, cann.
1040-1049.
(15) Cf.
AAS 59 (1967) 674.
(16) Cf.
Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione del 1° aprile 1981, in Enchiridion Vaticanum 7, 1213.
(17) Cf.
CIC, cann.
495-502.
(18) Cf.
CIC, cann.
492-494.
(19) Cf.
CIC, can.
511.
__________ NORME COMPLEMENTARI Dipendenza dalla Santa Sede I.
Ciascun Ordinariato dipende dalla Congregazione per la Dottrina della Fede e mantiene stretti rapporti con gli altri Dicasteri Romani a seconda della loro competenza.
Rapporti con le Conferenze Episcopali e i Vescovi diocesani II.
§ 1.
L’Ordinario segue le direttive della Conferenza Episcopale nazionale in quanto compatibili con le norme contenute nella Costituzione Apostolica “Anglicanorum coetibus”.
§ 2.
L’Ordinario è membro della rispettiva Conferenza Episcopale.
III.
L’Ordinario, nell’esercizio del suo ufficio, deve mantenere stretti legami di comunione con il Vescovo della Diocesi in cui l’Ordinariato è presente per coordinare la sua azione pastorale con il piano pastorale della Diocesi.
L’Ordinario IV.
§ 1.
L’Ordinario può essere un vescovo o un presbitero nominato dal Romano Pontefice “ad nutum Sanctae Sedis”, in base ad una terna presentata dal Consiglio di governo.
Per lui si applicano i cann.
383-388, 392-394 e 396-398 del Codice di Diritto Canonico.
§ 2.
L’Ordinario ha la facoltà di incardinare nell’Ordinariato i ministri anglicani entrati nella piena comunione con la Chiesa Cattolica e i candidati appartenenti all’Ordinariato da lui promossi agli Ordini Sacri.
§ 3.
Sentita la Conferenza Episcopale e ottenuto il consenso del Consiglio di governo e l’approvazione della Santa Sede, l’Ordinario, se ne vede la necessità, può erigere decanati territoriali, sotto la guida di un delegato dell’Ordinario e comprendenti i fedeli di più parrocchie personali.
I fedeli dell’Ordinariato V.
§ 1.
I fedeli laici provenienti dall’Anglicanesimo che desiderano appartenere all’Ordinariato, dopo aver fatto la Professione di fede e, tenuto conto del can.
845, aver ricevuto i Sacramenti dell’Iniziazione, debbono essere iscritti in un apposito registro dell’Ordinariato.
Coloro che sono stati battezzati nel passato come cattolici fuori dall’Ordinariato non possono ordinariamente essere ammessi come membri, a meno che siano congiunti di una famiglia appartenente all’Ordinariato.
§ 2.
I fedeli laici e i membri di Istituti di Vita Consacrata e di Società di Vita Apostolica, quando collaborano in attività pastorali o caritative, diocesane o parrocchiali, dipendono dal Vescovo diocesano o dal parroco del luogo, per cui in questo caso la potestà di questi ultimi è esercitata in modo congiunto con quella dell’Ordinario e del parroco dell’Ordinariato.
Il clero VI.
§ 1.
L’Ordinario, per ammettere candidati agli Ordini Sacri deve ottenere il consenso del Consiglio di governo.
In considerazione della tradizione ed esperienza ecclesiale anglicana, l’Ordinario può presentare al Santo Padre la richiesta di ammissione di uomini sposati all’ordinazione presbiterale nell’Ordinariato, dopo un processo di discernimento basato su criteri oggettivi e le necessità dell’Ordinariato.
Tali criteri oggettivi sono determinati dall’Ordinario, dopo aver consultato la Conferenza Episcopale locale, e debbono essere approvati dalla Santa Sede.
§ 2.
Coloro che erano stati ordinati nella Chiesa Cattolica e in seguito hanno aderito alla Comunione Anglicana, non possono essere ammessi all’esercizio del ministero sacro nell’Ordinariato.
I chierici anglicani che si trovano in situazioni matrimoniali irregolari non possono essere ammessi agli Ordini Sacri nell’Ordinariato.
§ 3.
I presbiteri incardinati nell’Ordinariato ricevono le necessarie facoltà dall’Ordinario.
VII.
§ 1.
L’Ordinario deve assicurare un’adeguata remunerazione ai chierici incardinati nell’Ordinariato e provvedere alla previdenza sociale per sovvenire alle loro necessità in caso di malattia, di invalidità o vecchiaia.
§ 2.
L’Ordinario potrà convenire con la Conferenza Episcopale eventuali risorse o fondi disponibili per il sostentamento del clero dell’Ordinariato.
§ 3.
In caso di necessità, i presbiteri, con il permesso dell’Ordinario, potranno esercitare una professione secolare, compatibile con l’esercizio del ministero sacerdotale (cf.
CIC, can.
286).
VIII.
§ 1.
I presbiteri, pur costituendo il presbiterio dell’Ordinariato, possono essere eletti membri del Consiglio Presbiterale della Diocesi nel cui territorio esercitano la cura pastorale dei fedeli dell’Ordinariato (cf.
CIC, can.
498, § 2).
§ 2.
I presbiteri e i diaconi incardinati nell’Ordinariato possono essere, secondo il modo determinato dal Vescovo diocesano, membri del Consiglio Pastorale della Diocesi nel cui territorio esercitano il loro ministero (cf.
CIC, can.
512, § 1).
IX.
§ 1.
I chierici incardinati nell’Ordinariato devono essere disponibili a prestare aiuto alla Diocesi in cui hanno il domicilio o il quasi-domicilio, dovunque sia ritenuto opportuno per la cura pastorale dei fedeli.
In questo caso dipendono dal Vescovo diocesano per quello che riguarda l’incarico pastorale o l’ufficio che ricevono.
§ 2.
Dove e quando sia ritenuto opportuno, i chierici incardinati in una Diocesi o in un Istituto di Vita Consacrata o in una Società di Vita Apostolica, col consenso scritto rispettivamente del loro Vescovo diocesano o del loro Superiore, possono collaborare alla cura pastorale dell’Ordinariato.
In questo caso dipendono dall’Ordinario per quello che riguarda l’incarico pastorale o l’ufficio che ricevono.
§ 3.
Nei casi previsti nei paragrafi precedenti deve intervenire una convenzione scritta tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano o il Superiore dell’Istituto di Vita Consacrata o il Moderatore della Società di Vita Apostolica, in cui siano chiaramente stabiliti i termini della collaborazione e tutto ciò che riguarda il sostentamento.
X.
§ 1.
La formazione del clero dell’Ordinariato deve raggiungere due obiettivi: 1) una formazione congiunta con i seminaristi diocesani secondo le circostanze locali; 2) una formazione, in piena armonia con la tradizione cattolica, in quegli aspetti del patrimonio anglicano di particolare valore.
§ 2.
I candidati al sacerdozio riceveranno la loro formazione teologica con gli altri seminaristi in un seminario o in una facoltà teologica, sulla base di un accordo intervenuto tra l’Ordinario e il Vescovo diocesano o i Vescovi interessati.
I candidati possono ricevere una particolare formazione sacerdotale secondo un programma specifico nello stesso seminario o in una casa di formazione appositamente eretta, col consenso del Consiglio di governo, per la trasmissione del patrimonio anglicano.
§ 3.
L’Ordinariato deve avere una sua “Ratio institutionis sacerdotalis”, approvata dalla Santa Sede; ogni casa di formazione dovrà redigere un proprio Regolamento, approvato dall’Ordinario (cf.
CIC, can.
242, §1).
§ 4.
L’Ordinario può accettare come seminaristi solo i fedeli che fanno parte di una parrocchia personale dell’Ordinariato o coloro che provengono dall’Anglicanesimo e hanno ristabilito la piena comunione con la Chiesa Cattolica.
§ 5.
L’Ordinariato cura la formazione permanente dei suoi chierici, partecipando anche a quanto predispongono a questo scopo a livello locale la Conferenza Episcopale e il Vescovo diocesano.
I Vescovi già anglicani XI.
§ 1.
Un Vescovo già anglicano e coniugato è eleggibile per essere nominato Ordinario.
In tal caso è ordinato presbitero nella Chiesa cattolica ed esercita nell’Ordinariato il ministero pastorale e sacramentale con piena autorità giurisdizionale.
§ 2.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato può essere chiamato ad assistere l’Ordinario nell’amministrazione dell’Ordinariato.
§ 3.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato può essere invitato a partecipare agli incontri della Conferenza dei Vescovi del rispettivo territorio, nello stesso modo di un vescovo emerito.
§ 4.
Un Vescovo già anglicano che appartiene all’Ordinariato e che non è stato ordinato vescovo nella Chiesa Cattolica, può chiedere alla Santa Sede il permesso di usare le insegne episcopali.
Il Consiglio di governo XII.
§ 1.
Il Consiglio di governo, in accordo con gli Statuti approvati dall’Ordinario, ha i diritti e le competenze che secondo il Codice di Diritto Canonico sono propri del Consiglio Presbiterale e del Collegio dei Consultori.
§ 2.
Oltre tali competenze, l’Ordinario ha bisogno del consenso del Consiglio di governo per: a.
ammettere un candidato agli Ordini Sacri; b.
erigere o sopprimere una parrocchia personale; c.
erigere o sopprimere una casa di formazione; d.
approvare un programma formativo.
§ 3.
L’Ordinario deve inoltre sentire il parere del Consiglio di governo circa gli indirizzi pastorali dell’Ordinariato e i principi ispiratori della formazione dei chierici.
§ 4.
Il Consiglio di governo ha voto deliberativo: a.
per formare la terna di nomi da inviare alla Santa Sede per la nomina dell’Ordinario; b.
nell’elaborare le proposte di cambiamento delle Norme Complementari dell’Ordinariato da presentare alla Santa Sede; c.
nella redazione degli Statuti del Consiglio di governo, degli Statuti del Consiglio Pastorale e del Regolamento delle case di formazione.
§ 5.
Il Consiglio di governo è composto secondo gli Statuti del Consiglio.
La metà dei membri è eletta dai presbiteri dell’Ordinariato.
Il Consiglio Pastorale XIII.
§ 1.
Il Consiglio Pastorale, istituito dall’Ordinario, esprime il suo parere circa l’attività pastorale dell’Ordinariato.
§ 2.
Il Consiglio Pastorale, presieduto dall’Ordinario, è retto dagli Statuti approvati dall’Ordinario.
Le parrocchie personali XIV.
§ 1.
Il parroco può essere assistito nella cura pastorale della parrocchia da un vicario parrocchiale, nominato dall’Ordinario; nella parrocchia dev’essere costituito un Consiglio pastorale e un Consiglio per gli affari economici.
§ 2.
Se non c’è un vicario, in caso di assenza, d’impedimento o di morte del parroco, il parroco del territorio in cui si trova la chiesa della parrocchia personale, può esercitare, se necessario, le sue facoltà di parroco in modo suppletivo.
§ 3.
Per la cura pastorale dei fedeli che si trovano nel territorio di Diocesi in cui non è stata eretta una parrocchia personale, sentito il parere del Vescovo diocesano, l’Ordinario può provvedere con una quasi-parrocchia (cf.
CIC, can.
516, § 1).
Il Sommo Pontefice Benedetto XVI, nell’Udienza concessa al sottoscritto Cardinale Prefetto, ha approvato le presenti Norme Complementari alla Costituzione Apostolica “Anglicanorum coetibus”, decise dalla Sessione Ordinaria di questa Congregazione, e ne ha ordinato le pubblicazione.
Roma, dalla Sede della Congregazione per la Dottrina della Fede, il 4 novembre 2009, Memoria di San Carlo Borromeo.
William Card.
Levada Prefetto Luis.
F.
Ladaria, S.I.
Arcivescovo tit.
di Thibica Segretario __________

Guglielmo Massaja. e Abuna Messias

Ago e filo, si rattoppa da solo lo zucchetto.
È ospite alla corte del ribelle e ambizioso Menelik, nell’Etiopia lontanissima e sconosciuta.
In mezzo a tanto lusso indigeno, spicca la sua bella croce pettorale.
È vescovo.
Ma prima di tutto, è cappuccino e indomito missionario.
Scrive, infatti, nelle sue memorie: “Sono un povero cappuccino, un missionario di Gesù Cristo.
Qualunque altra dignità e supposto merito non sono per me che maggiori debiti presso Dio e presso gli uomini”.
Guglielmo Massaja, ovvero Abuna Messias: nel 1939 forse pochi lo ricordano, ugualmente oggi.
Sono passati duecento anni dalla sua nascita e settanta da quando Goffredo Alessandrini realizzò questo kolossal del cosiddetto cinema coloniale italiano, vincendo l’1 settembre di quell’anno la Coppa Mussolini come miglior film alla vii Esposizione d’Arte Cinematografica di Venezia.
Si celebrava, indirettamente, la fragile Africa Orientale Italiana, proprio nel giorno in cui la Germania nazista invadeva la Polonia, la guerra iniziava e l’Impero italiano ipotecava definitivamente il suo crollo.
Al Lido, proiettarono più volte Abuna Messias nel corso della giornata vittoriosa e terribile.
Argomenti per stupire e commuovere ce n’erano assai: costato oltre cinque milioni di lire dell’epoca (circa venti milioni di euro attuali), con 250.000 comparse, 500 metri cubi di legname per le costruzioni, 50.000 metri di negativo di pellicola impressionata, interni nella nascente Cinecittà romana ed esterni tra le montagne del Ch’erch’er e a K’obo, nella regione dell’Amhara, attraversate in modo piuttosto fantasioso da miriadi di cavalieri, sacerdoti, schiavi e contadini, con grande sfarzo di costumi, copricapi, armi e chincaglie.
Si trattava di una storia di ispirazione “cattolica” inserita, però, nella propaganda di regime che vedeva necessaria la giustificazione della missione civilizzatrice italiana in terre povere dedite a schiavitù, scorribande, superstizioni e stregoneria, rafforzata da curiosità anche “antropologica” ed etnica per gli usi e i costumi di quella gente e i riti della chiesa copta, ricostruiti da Alessandrini con fedeltà, come ad esempio l’ordinazione sacerdotale presieduta dal metropolita copto Abuna Attanasio, acerrimo nemico di Messias, o il vivace concilio della medesima Chiesa in lingua locale.
C’era anche il peso della nuova società di produzione, la Romana Editrice Film, fondata un anno prima, braccio operativo del progetto della Società San Paolo e di don Alberione, di entrare direttamente nel mondo del cinema producendo film di chiara matrice cattolica: “deporre le forbici della censura e prendere in mano la macchina da presa” era la finalità di tale impegno, che in Abuna Messias riponeva altissime attese.
Ma il film non ebbe lunga vita, i problemi erano ben altri in quel frangente storico, tali da offuscare il successo iniziale (riapparve curiosamente in Francia nell’agosto 1948 con il titolo L’apôtre du désert) e quello del protagonista, il bravo e longevo Carmine Pilotto, già attore di lavori ben noti firmati, durante il fascismo, da Carmine Gallone, Aldo Vergano, Enrico Guazzoni e, dopo il conflitto, da Fernando Cerchio, Luigi Chiarini e Raffaello Materazzo.
Quest’anno le celebrazioni del bicentenario del vescovo missionario, con interessi nella medicina (il suo secondo soprannome era “Padre del Fantatà”, ossia “Signore del vaiolo”, per le migliaia di vaccinazioni somministrate, una delle sequenze più autentiche e commoventi del film), nell’ingegneria e nella politica, stimato da Leone xiii e creato cardinale nel 1884, hanno giustamente coinvolto la Cineteca Nazionale di Roma che ha portato a termine, grazie al coordinamento di Sergio Toffetti, suo Conservatore fino allo scorso mese di settembre, il delicato restauro della pellicola, della quale ora si possono apprezzare la qualità e l’audio, con una stravagante e solenne colonna sonora composta per l’occasione da Mauro Gaudiosi e don Licinio Refice (anche se quest’ultimo non compare nei crediti).
Il nome di Goffredo Alessandrini non era nuovo a operazioni di cinema gradite al regime e applaudite dal pubblico: nel 1934 aveva già vinto a Venezia un Premio speciale per Seconda B, nel 1938 la sua prima Coppa Mussolini (ex-aequo con Olympia di Leni Riefenstahl, miglior film straniero) per uno dei titoli più importanti e ricordati del cinema di quegli anni, Luciano Serra pilota interpretato dalla star di casa Amedeo Nazzari; infine nel 1942, ancora alla Biennale, un ultimo riconoscimento con Noi vivi.
Il filone del cinema coloniale italiano, pur contando su un elenco assai esiguo di titoli, non più di una decina, rappresenta però uno spaccato importante della cultura e dell’arte cinematografica dell’epoca, sospesa tra esigenze di mercato e obblighi di partito, e Abuna Messias rispecchia perfettamente queste tensioni, nelle quali la glorificazione della potenza e della civilizzazione italiana in Africa si accompagna a un curioso approccio etnico-antropologico che non dimentica le necessità e le logiche narrative del cinema.
Prima di tutto, avventura e mistero: l’esempio più bello, anche sul piano figurativo, è Lo squadrone bianco di Augusto Genina (Coppa Mussolini a Venezia nel 1936) con Fosco Giachetti, che riprende lo stile del cinema coloniale francese.
Qui meharisti coi bianchi burnus scorazzano sulla cresta delle dune, capeggiati da un comandante duro, ma giusto.
Cinema obbligatoriamente anche “ideologico”, che presenta la conquista italiana come fonte di civiltà per popolazioni oppresse da primitive leggi e consuetudini.
Abuna Messias, però, non rientra in alcuna di queste categorie e in questo risiede tutto il suo fascino e il suo interesse.
Non manca certo la volontà di assecondare gli obblighi della propaganda, coniugandoli a quelli del buon cristiano.
Nel film la prima azione di Massaja, proprio all’inizio della sua ultima missione etiopica iniziata nel 1868 e che si concluderà con l’esilio decretato dall’imperatore Johannes iv nel 1879 (in tutto, il missionario trascorse trentacinque anni di vita in Africa), è quella di liberare uno schiavo che poi diverrà sacerdote e al quale lascerà il compito di evangelizzare quelle terre e di creare, in prospettiva, un clero cattolico indigeno.
Ma non mancano dialoghi dichiaratamente piegati alle esigenze “esterne”.
Ecco quello che segue un banchetto di Menelik.
Il re: “Lasciamo il posto ai poveri, servite la carne cruda.
Vedi, senza l’aiuto della vostra civiltà non potrò mai arrivare a farne degli uomini.
Io ho bisogno della vostra civiltà: che intenzione ha l’Italia nei miei riguardi?”.
La risposta del missionario: “Cavour intuì, come sempre del resto, l’utilità di questo intervento, ma governare in parlamento fra partiti diversi non è facile.
Se dipendesse da lui la cosa sarebbe già avvenuta, ma la spedizione Antinori è già in viaggio per conoscere la situazione geografica del paese e chissà, da cosa può nascere cosa”.
Massaja, però, aggiunge in modo coerente alla sua fede: “Ti devo ringraziare di una cosa: tu hai visto poco fa quella folla di infelici, la mia vita è fra di loro, nessuna altra cosa ha importanza per me”.
Per quella folla Abuna Messias – che nel film, incarnando il puro spirito francescano di affidamento alla provvidenza divina, non cerca la difesa dei potenti perché, confessa allo stesso Menelik, toccandosi la croce che ha sul petto, “per difendermi mi basta questa” – spenderà davvero la sua vita e consumerà le sue forze, provate da interminabili viaggi: otto traversate del Mediterraneo, dodici del Mar Rosso, quattro pellegrinaggi in Terra Santa, quattro esili, innumerevoli prigionie, rischi di morte e malattie.
Il film di Alessandrini coglie qualche risvolto di questa vita avventurosa, lo fa con il minor peso di retorica possibile, anche se la recitazione degli attori italiani è piuttosto statica rispetto agli americani coevi.
E meno legata alle esigenze di veridicità: tutti, anche gli etiopi, sono italiani opportunamente truccati, tranne la bella principessa Alem, il capo indigeno Abd-el-Uad e il giovane schiavo Morka al quale, prima dell’ordinazione, Massaja insegnerà a non odiare il nemico, anche se è la cosa più difficile che bisogna imporsi per essere un bravo missionario.
Mario Ferrari, poi, nel ruolo dell’Abuna Attanasio, cerca di scolpire un mefistofelico avversario del Massaja che aizza il popolo con toni roboanti, molto simili a quelli che in Italia stavano infiammando le piazze.
Il vecchio e sapiente francescano nel film di Alessandrini sta in equilibrio tra esigenze missionarie e imposizioni politiche.
“Mi guardano, desidero capirli, entrare nella loro cultura, rispettare le loro origini, la loro storia.
Un missionario non può dimenticarlo” scrive di suo pugno a proposito dei popoli etiopi con i quali entra in contatto per portare a termine la sua missione evangelizzatrice.
Rifiutando la logica della contrapposizione e dell’imposizione, sensibile alle molteplici identità e culture africane, rispettoso dei costumi e degli usi che non deturpano la morale cattolica e difendono l’uomo nella sua totalità, cercando con tutti un dialogo, Massaja diventa così l’antieroe coloniale che i gerarchi d’allora mai avrebbero voluto assoldare e vedere raccontato in un film da loro ispirato, profeta di un mondo giusto, equo, libero, in pace.
Per quei tempi, quasi un’utopia.
(©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009) L’antieroe coloniale che il fascismo mal sopportava In occasione dei duecento anni dalla nascita del cardinale Guglielmo Massaja, il 10 novembre vengono presentati al Museo del cinema di Torino la copia restaurata dalla Cineteca Nazionale del film Abuna Messias di Goffredo Alessandrini (1939) e il nuovo documentario Guglielmo Massaja.
Un illustre conosciuto del regista Paolo Damosso, realizzato dalla Nova-t della Provincia dei frati cappuccini di Torino.

La Chiesa cattolica nella Germania comunista

La divisione della Germania in seguito alla seconda guerra mondiale ha determinato profondi cambiamenti nello scenario ecclesiastico.
Parti delle diocesi di Paderborn, Würzburg, Fulda e Osnabrück sono state separate di colpo dalle loro sedi vescovili – dato che erano situate sul territorio della zona un tempo di occupazione sovietica, in seguito passata alla Deutsche Demokratische Republik (Ddr), la Repubblica democratica tedesca.
In particolare, è apparso eclatante il caso della diocesi di Berlino.
Solo la diocesi di DresdenMeissen era situata interamente nel territorio della Ddr, come pure residui dell’arcidiocesi di Breslavia, da cui in seguito è sorta la diocesi di Görlitz.
Solo a fatica i vescovi con sedi nella Repubblica federale tedesca hanno potuto mantenere rapporti con i loro fedeli nella Ddr.
Come soluzioni d’emergenza era previsto che i vescovi, per le loro comunità situate nella Ddr, nominassero dei rappresentanti dotati di pieni poteri straordinari.
In tal modo era possibile salvaguardare l’azione pastorale e l’unità ecclesiastica, laddove la costituzione di una conferenza di ordinari tedesco-orientale da parte di Pio xii teneva conto delle esigenze pratiche.
Ma lo scioglimento delle strutture ecclesiastiche dal loro vincolo con le diocesi tedesco-occidentali avite, allo scopo di conseguire un’identica copertura di territorio statale e struttura gerarchica, corrispondeva anch’esso alle aspirazioni d’autonomia statale e di riconoscimento internazionale da parte della dirigenza della Ddr.
Mentre le analoghe intenzioni della dirigenza della Ddr nei confronti delle comunità locali protestanti furono coronate da successo e queste si separarono dalla Evangelische Kirche in Deutschland (Ekd), si opposero energicamente la Conferenza dei vescovi tedeschi e il Governo della Repubblica federale.
A entrambi premeva sottolineare l’unità della Germania, anche sotto l’aspetto ecclesiastico, insistendo sullo status quo.
La Santa Sede venne incontro alle concrete esigenze pastorali, creando nel 1973 per le parti delle diocesi tedesco-occidentali situate nella Ddr i cosiddetti Uffici diocesani di Erfurt-Meiningen, Magdeburgo e Schwerin, e nominando per ciascuno d’essi un amministratore apostolico, mentre la giurisdizione del vescovo occidentale restava sospesa, ma non veniva soppressa.
Nel 1976 fu costituita la “Conferenza dei vescovi di Berlino”, che divenne un necessario forum di comunicazione per gli amministratori apostolici, come pure per i vescovi di Berlino e Dresden-Meissen.
Un’ulteriore iniziativa auspicata dalla diplomazia della Ddr e progettata dall’arcivescovo Casaroli, segretario del Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa, ossia quella di innalzare gli Uffici vescovili al rango di Amministrazioni apostoliche, non fu più messa in atto, poiché Paolo VI morì il 6 agosto 1978 e Giovanni Paolo II inaugurò un nuovo corso.
Se Paolo VI era partito dal presupposto d’una durata imprevedibile del sistema sovietico e quindi s’era adoperato per trovare un modus vivendi – o meglio, non moriendi – con Mosca, al fine di garantire la sopravvivenza della Chiesa nel blocco orientale, Giovanni Paolo II s’impegnò invece in un confronto risoluto.
Quindi tramontarono anche le aspirazioni dirette alla costruzione di una struttura gerarchica circoscritta al territorio della Ddr.
Solo dopo la caduta del Muro ha potuto configurarsi un nuovo ordinamento ecclesiastico, senza che fosse connesso a implicazioni politiche.
Nel 1994 furono erette le diocesi di Magdeburgo ed Erfurt, per cui si pose fine all’ordinamento provvisorio in vigore fino a quel momento.
Per quanto riguarda l’organizzazione ecclesiastica, la situazione pastorale, religiosa nella Ddr era determinata dalla circostanza che con la Riforma del XVI secolo erano stati soppressi una quindicina di diocesi e numerosi conventi.
A eccezione di pochi territori – pensiamo all’Eichsfeld, a Oberlausitz, come pure a singoli conventi – fin dalla guerra dei Trent’anni la vita ecclesiastica cattolica nel territorio di quella che sarebbe diventata la Ddr si era estinta.
Una situazione completamente nuova si è profilata solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, a causa della quale circa un milione e mezzo di fuggiaschi o profughi cattolici affluirono nel territorio della futura Ddr.
Alcuni hanno ipotizzato che le potenze vincitrici avessero in programma una mescolanza confessionale connessa a questo processo.
In tal modo ha avuto origine una diaspora cattolica negli odierni nuovi Länder federali.
La situazione dei cattolici era quindi molto difficile, perché questi territori già all’epoca della Repubblica di Weimar, anzi già verso la fine del xix secolo, a causa della propaganda ateistica dei socialisti, erano stati largamente scristianizzati.
Durante gli anni del nazismo l’ideologia del sangue e del suolo, cioè della razza, contribuì alla diffusione della religione neopagana della razza germanica, che accentuò ulteriormente la scristianizzazione.
Quindi l’ateismo connesso al regime della Sed (il partito socialista unitario tedesco) ha avuto gioco facile.
Di conseguenza la fede dei cattolici che vivevano in quest’ambiente è stata sottoposta alle prove più ardue.
La Chiesa cattolica, nella Ddr, si trovava in una duplice situazione di diaspora.
Sul piano confessionale, rispetto alla popolazione di religione evangelica, rappresentava una quantité négligeable.
Protestanti e cattolici, però, cominciarono a considerarsi sempre più, in un certo senso, come piccole oasi in un deserto di ateismo.
Un’esperienza che ha portato a una forma di solidarietà e a una vicinanza ecumenica.
Nelle questioni di attualità, soprattutto quelle legate alla politica ecclesiastica, si trovava un accordo – il rapporto con gli organi dello Stato e del partito era molto diverso.
Un parallelo cattolico rispetto al modello protestante di una “Chiesa nel socialismo” non è esistito in nessuna fase.
Piuttosto il contrasto con l’ideologia dominante era univoco.
La resistenza cattolica si è diretta non tanto contro lo Stato di per sé, ma contro l’ideologia che ne era alla base.
Questa differenza affonda le sue radici fin nell’epoca della Riforma.
Soprattutto nei territori di Prussia-Brandeburgo, in conseguenza della Riforma la sovranità sulla Chiesa era stata rivendicata dai principi dei singoli territori, che si sentivano summi episcopi delle loro Chiese territoriali.
Questo sistema di governo ecclesiastico su base territoriale da parte dei signori ebbe naturalmente come conseguenza una particolare prossimità o dipendenza della Chiesa dallo Stato.
Nel mio luogo d’origine, Ansbach – un principato del Brandeburgo – ancora alla fine del XVIII secolo il ii Senato della Camera della guerra e del demanio svolgeva le funzioni di suprema autorità ecclesiastica.
Questa dipendenza s’è mantenuta oltre la fine della monarchia.
Ben diversa si presentava la situazione dei cattolici, che in particolare in seguito alle leggi bismarckiane connesse al Kulturkampf (dopo il 1870) erano stati sottoposti a una persecuzione più grave che sotto il regime nazista.
Durante questa fase furono scacciati o incarcerati nove dei dodici vescovi prussiani.
Un destino che fu condiviso da centinaia di sacerdoti.
Queste esperienze vissute nel passato hanno segnato in modo duraturo l’atteggiamento dei cattolici nei confronti del potere statale.
A ciò s’è aggiunta l’esperienza del periodo nazista, che “fa capire la strategia difensiva adottata dai vertici della Chiesa cattolica nella Ddr fino agli anni Ottanta, orientata a compartimentare la limitata sfera ecclesiastica interna” (H.
Heineke).
Quindi, da parte cattolica, s’è mantenuta una distanza nei confronti degli organi statali e partitici, senza tuttavia provocarli con una resistenza aperta.
I contatti comunque necessari con queste istanze furono affidati dai vescovi a singoli sacerdoti, che dovevano agire su loro incarico e secondo le loro direttive.
A questo punto è naturale chiedersi se dalle cerchie del clero siano usciti collaboratori o fiancheggiatori della Stasi, i servizi segreti della Ddr.
Per quanto è consentito dire allo stato attuale della ricerca, la rigida regolamentazione di questi contatti era in grado d’impedire una simile collaborazione a livello diffuso.
Se il ministero per la Sicurezza dello Stato ha perseguito l’obiettivo d’esercitare pressioni sulla Chiesa cattolica per pilotarla, attraverso informazioni informali nel senso della politica ecclesiastica condotta dallo Stato-Sed, si è trattato di un tentativo fallito.
Di 183 dirigenti che tra il 1950 e il 1989 hanno lavorato per la Caritas, solo tre hanno avuto contatti cospirativi con la Stasi.
Quattro sacerdoti agivano su disposizioni dei vescovi.
L’altro risvolto di questo modello pastorale della distanza nei confronti dello Stato e di una società plasmata dal materialismo comunista, consisteva nel percepire e criticare la vita ecclesiastica concentrata “intorno al campanile” come un cristianesimo da sacrestia angusto e segregato.
Per un altro verso, per la piccola Chiesa cattolica della diaspora il legame con Roma era stato importante da sempre.
Dopo l’ascesa al soglio pontificio di Giovanni Paolo II questo legame s’è rivelato decisivo per una riorganizzazione della vita ecclesiastica.
In questo contesto il Papa non solo ha offerto sostegno ai vescovi, ma li ha invitati ad avviare un rapporto con le cerchie evangeliche impegnate “per la giustizia, la pace e la preservazione della creazione”.
Ma con ciò siamo già alle soglie dell’anno 1989.
Ancora oggi sono vivide le immagini che si sono presentate allo sguardo dello spettatore nella tarda estate del 1989 a Lipsia: erano le famose dimostrazioni del lunedì, la prima delle quali ebbe luogo il 4 settembre.
Meta delle dimostrazioni era la chiesa di San Nicola, nella quale si concludevano con la preghiera della pace.
Lo stesso accadeva in numerose città della Ddr.
Era la comunità evangelica che aveva aperto le sue chiese a questo scopo e aveva appoggiato in vari modi le dimostrazioni.
A questo punto è legittimo interrogarsi sull’eventuale impegno cattolico nel processo di svolta.
In confronto al ruolo svolto dalle comunità evangeliche, esso appare più modesto.
Ma questa circostanza non deve meravigliare, dato che i cattolici rappresentavano solo una esigua minoranza.
La quota di protestanti sulla popolazione complessiva, che ammontava all’85 per cento nel 1950, si era ridotta al 25 per cento nel 1989, quella dei cattolici era passata dal 10 per cento al 5 per cento.
Naturalmente i cattolici non possedevano chiese che avrebbero potuto accogliere una moltitudine di persone per la preghiera della pace – a eccezione delle note enclavi cattoliche di Eichsfeld e Oberlausitz.
Tuttavia, non poche comunità cattoliche si sono impegnate in misura più modesta anche politicamente.
Così molti cattolici si comportavano da oppositori; insieme con i protestanti si impegnavano per l’ambiente e nei movimenti pacifisti e si schieravano nelle dimostrazioni del lunedì.
Il vescovo di Dresda, Reinelt, ha riferito, per esempio, di aver spesso accompagnato coloro che dimostravano contro il regime della Ddr insieme con il vescovo evangelico locale – quest’ultimo a Lipsia, Reinelt a Dresda.
Le singole parrocchie offrivano gli spazi dove i membri democratici della comunità, critici verso il regime, s’incontravano e si scambiavano le loro opinioni.
Inoltre, bisogna aggiungere che i cattolici della Germania Est guardavano indubbiamente con attenzione agli eventi in Polonia, dove dopo la quasi profetica omelia di Pentecoste pronunciata da Giovanni Paolo II a Varsavia, nel 1979, s’era messo in moto un movimento che alla fine avrebbe portato agli avvenimenti del 1989.
Il Papa allora aveva citato il versetto della liturgia di Pentecoste: “Emitte Spiritum tuum…
et renovabis faciem terrae.” Poi aveva battuto al suolo energicamente il suo bastone pastorale e aveva proseguito: “Questa terra qui”.
In polacco “terra” significa anche “Paese”! Consentitemi di citare, per ricapitolare, cosa scrive nel suo nuovo libro Urbi et Gorbi – Christen als Wegbereiter der Wende Joachim Jauer, che è stato per anni corrispondente della Zdf nella Ddr e in Europa orientale: “Sono senz’altro più numerosi i protagonisti evangelici rispetto a quelli cattolici, e questo non stupisce.
Ci troviamo qui, nel paese di Lutero, nell’ex Ddr.
Le piccole comunità cattoliche qui sono sorte solo dopo la seconda guerra mondiale, dagli insediamenti di profughi della Boemia o della Slesia.
Questa è la prima osservazione.
La seconda è che i vescovi cattolici volevano salvaguardare il loro piccolo gregge e hanno quasi innalzato un baluardo difensivo intorno a loro.
Questo ha fatto sì che la piccola Chiesa cattolica, sul territorio della Ddr, abbia potuto preservare i suoi fedeli dalla perdita della fede molto più della grande Chiesa evangelica, dalla quale i capi della Sed…
sono riusciti ad allontanare una quantità, addirittura milioni, di persone.
Questo tra i cattolici non è stato possibile…
Ma queste notizie non arrivavano all’opinione pubblica.
Anche per noi corrispondenti era quasi impossibile aver accesso a queste informazioni…
Non ho mai…
potuto fare un servizio in una chiesa cattolica…
Da questo emerge…
un’immagine distorta, come se i cattolici addirittura non fossero esistiti”.
Ma subito dopo la svolta si è visto che esistevano e non erano rimasti affatto inattivi.
Il teologo evangelico Erhard Neubert, sbalordito ed evidentemente contrariato per il gran numero di cattolici che dopo il 1990 si sono assunti responsabilità politiche nei nuovi Länder federali, scrisse nel 1991: “Abbiamo esautorato la Sed, e ora il potere l’hanno preso i cattolici”.
La tesi della rivoluzione protestante è falsa quanto quella della presa del potere da parte dei cattolici dopo il 1990.
Che i cattolici, in rapporto alla loro quota nella popolazione complessiva, fossero rappresentati politicamente in modo sproporzionato, era dovuto al fatto di essere impegnati prevalentemente nella Christlich Demokratische Union (Cdu).
A questo si aggiungeva che il programma della Cdu si inseriva nella tradizione della dottrina sociale cattolica, che non era affatto ignota ai cattolici impegnati della Ddr.
Inoltre, si è potuto accertare che fin dagli anni Settanta si è verificata nella Ddr un'”ascesa silenziosa” dell’élite cattolica verso posizioni direttive non politiche in ambito accademico, nella sanità e nelle professioni tecniche.
A differenza dei laici attivi durante la svolta, i vescovi si sono espressi e comportati con discrezione in relazione alla politica.
Questo non esclude che, per esempio, il vescovo di Magdeburgo, Braun, già nel settembre 1989, abbia formulato apertamente delle critiche nei confronti del regime della Sed.
Il vescovo Reinelt di Dresda, all’inizio dell’ottobre 1989, ha cercato d’impedire personalmente violenti scontri fra dimostranti e servizi di sicurezza nella piazza della stazione di Dresda; e il 16 ottobre, due giorni dopo l’esautoramento del capo dello Stato della Ddr, Erich Honecker, ha chiamato i cattolici ad impegnarsi nella politica.
Questo appello è stato prontamente raccolto dalle comunità.
Potrebbero essere citati ancora altri esempi.
In ogni caso, si può parlare anche d’una partecipazione dei cattolici alla svolta.
Quando è caduto il Muro di Berlino, il 9 novembre 1989, alcuni vescovi tedeschi – fra i quali quello di Berlino, Sterzinsky, che aveva assunto la sua carica solo in settembre – si trovavano a Roma per incontrare papa Giovanni Paolo II.
Quando i vescovi, sorpresi dagli eventi, si sono accomiatati dal Papa per affrettarsi a tornare in patria, Giovanni Paolo II li ha congedati con queste parole: “Fate di tutto, per unirvi anche voi, seppure come un piccolo gregge, a tutti gli uomini di buona volontà, in particolare ai cristiani evangelici, per rinnovare la faccia della terra nel vostro Paese nella forza dello Spirito divino”.
Un’eco significativa della famosa predica di Pentecoste pronunciata a Varsavia nel 1979.
A questo punto è opportuno chiedersi se questo è accaduto, se la faccia della terra sia stata effettivamente rinnovata nei nuovi Länder federali.
Ora, sul piano organizzativo la risposta può essere affermativa.
In questo arco di tempo nei nuovi Länder federali sono state create le strutture gerarchiche, e le relazioni fra Stato e Chiesa sono state regolate da concordati.
Dal 1989 sono stati fondati 26 conventi maschili, 24 conventi femminili e numerosi movimenti religiosi – come per esempio Comunione e liberazione, Cursillo de Cristiandad, Mariage Encounter, Emmanuel e altri – hanno intrapreso la loro attività apostolica.
A questo si aggiunge la fondazione di 58 nuove scuole cattoliche.
Tutto ciò conferma anche per la Chiesa nella ex Ddr la validità del motto di Montecassino: Succisa virescit.
Sono ormai trascorsi vent’anni dalla svolta, dalla liberazione della Chiesa nella Germania orientale.
A questo punto, si è tentati di chiedersi se a questo processo sia connessa anche una corrispondente influenza sulla società dei nuovi Länder.
Fino a oggi non è possibile dare una risposta positiva a tale proposito, se si considera l’alta percentuale di voti che ha ottenuto nelle elezioni degli ultimi due decenni il partito succeduto alla Sed, la Pds, legata come in precedenza all’ideologia marxista.
Anche lo schieramento estremista di destra ha un seguito tutt’altro che modesto.
Comunque, oggi, non è ancora il momento per interrogarsi su un’eventuale influenza cristiana sulla società della ex Ddr a seguito della svolta.
Circa cento anni di scristianizzazione di questi Länder – prima a causa del materialismo volgare del tardo Ottocento e poi delle ideologie irreligiose del Novecento – hanno contribuito al sorgere, in questi luoghi, di un clima spirituale e sociale che non è affatto favorevole al diffondersi del messaggio cristiano.
Ma questa situazione non deve assolutamente indurre alla rassegnazione, deve piuttosto essere riconosciuta e raccolta dalla Chiesa in Germania come una sfida.
(©L’Osservatore Romano – 11 novembre 2009)

VI edizione di ABCD

Dall’11 al 13 novembre 2009 la Fiera di Genova ospiterà la VI edizione di ABCD, Salone Italiano dell’Educazione.
ABCD è il luogo di confronto dove convergono ed interagiscono gli operatori e i fruitori del “sistema educazione” attraverso incontri, iniziative, seminari, dedicati ai temi di maggiore attualità: dalla prevenzione alimentare alla conoscenza del territorio, dall’orientamento all’uso delle tecnologie multimediali e digitali, dai temi dell’università e della ricerca alle nuove tecnologie.
La manifestazione di quest’anno si presenta arricchita da nuovi e stimolanti contenuti in grado di rispondere alle esigenze dei visitatori e delle aziende specializzate nella fornitura di prodotti e servizi per la scuola e l’educazione.
Il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca è presente alla manifestazione con un proprio spazio espositivo all’interno del quale, in collaborazione con l’ANSAS, allestirà una piccola aula multimediale, dove docenti esperti condurranno esercitazioni sull’uso delle LIM.
Nello stand saranno presenti anche gli Uffici Scolastici Regionali della Liguria, del Piemonte, della Lombardia, dell’Emilia Romagna e della Toscana che presenteranno delle best practices prodotte dalle scuole del territorio di propria competenza.
Di particolare importanza è il convegno internazionale “LIM e contenuti digitali – modifica degli ambienti di apprendimento”, promosso dal Dr.
Giovanni Biondi – Capo Dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali del MIUR – che si terrà presso la Sala Liguria mercoledì 11 novembre 2009 dalle ore 10,30 alle ore 13,00.
La nota del 5 ottobre 2009 prot.n.
14940
prevede l’esonero dal servizio dei docenti interessati alla manifestazione.
Ulteriori informazioni possono essere reperite sul sito ABCD – Salone Italiano dell’Educazione

Sovranità, decentramento, regole.

V.
CAMPIONE, A.POGGI, Sovranità, decentramento, regole.
I livelli essenziali delle prestazioni e l’autonomia delle istituzioni scolastiche,  Il Mulino, Bologna 2009,ISBN: 8815130799,Pagine: 217, € 18.00 Fra i problemi che il nostro paese deve affrontare nella riorganizzazione del sistema di istruzione e formazione, raramente viene citato quello relativo all’individuazione dei Livelli essenziali delle prestazioni (LEP).
Eppure la costruzione di una cittadinanza unitaria “sociale” come limite al potere “politico” di differenziazione costituisce uno dei problemi cardine di ogni sistema realmente decentrato.
Le formule utilizzate in alcune costituzioni europee per legittimare una competenza dello Stato finalizzata a soddisfare i LEP sono il frutto dell’espansione dell’idea saldamente radicata nelle costituzioni democratiche di eguaglianza sostanziale, che implica non solo interventi dei pubblici poteri ma ancor più esige che gli stessi interventi siano finalizzati a rimuovere le disuguaglianze di fatto.
In questo volume si cerca di mettere in evidenza come l’introduzione di norme federalistiche renda non più rinviabile la precisa individuazione dei LEP.
In altri termini non è possibile sviluppare la forma federalista dello Stato e decidere di conseguenza di assicurare il mantenimento di standard adeguati in alcuni campi fondamentali (sanità, assistenza e, appunto, istruzione) senza definire preliminarmente i LEP.
Il punto di equilibrio va individuato nei contenuti con cui riempire quanto prescritto dalla Costituzione, da leggere in termini di difesa dei diritti e di adempimento degli obblighi di prestazione, piuttosto che come la semplice definizione di competenze dello Stato.

In Usa boom dei libri elettronici

SCOMPARSA – Scrive il Washington Post: «I tomi pesanti che ci portavano dietro sembrano destinati a scomparire».
Al momento, le vendite dei libri elettronici sono solo l’1,5 per cento del totale.
Ma Steve Haber, un dirigente della Sony, ritiene che raggiungeranno presto il 50 per cento: «I miei nipoti», riferisce, «non prendono più in mano un libro.
Accade in tutte le famiglie dei miei amici».
E aggiunge che in America si compra ormai il 20 per cento dei libri online.
Conclude Haber: «Le mega catene di librerie sanno quale sarà il mercato del futuro, stanno lanciando i loro lettori elettronici, stanno mettendo a disposizione dell’acquirente i titoli di cui dispongono».
PREZZI – Il prezzo non è modico, va dai 200 dollari in su, ma l’iniziativa ha un successo enorme.
Un’analista, Sarah Rotman Epps, ha detto al Washington Post che con Kindle la Amazon ha innescato un trend che rivoluzionerà l’editoria.
«È anche questione di soldi: in media un nuovo best seller costa 15 dollari se stampato, ma solo 8 dollari se elettronico, una differenza sostanziosa».
Ne soffrono persino i tascabili, le cui vendite allo scorso agosto sono scese del 9 per cento.
Secondo l’analista, gli entusiasti dei libri elettronici ne leggono 3–4 al mese, hanno dai 40 ai 50 anni, un reddito annuo di oltre 100 mila dollari, e usano quotidianamente’internet: «I loro figli», afferma, «ne seguiranno in massa l’esempio.
Avremo un boom simile a quello delle foto digitali».
Il re del settore è l’ultimo Kindle, che contiene 1.500 titoli, ciascuno dei quali può essere scaricato in appena 60 secondi.
Ginny Wolfe, una private contractor che lavora in Afganistan, lo ha voluto con sé: «Una volta partendo mi riempivo una valigia di libri.
Adesso il Kindle mi offre più di quanto abbia bisogno».
È la fine della editoria tradizionale? Non secondo lettori come Hilton Henderson: «Per me leggere un libro su uno schermo à come fare sesso cibernetico», protesta Henderson.
Haber, il dirigente della Sony, lo contesta: «Prendete in mano un lettore elettronico e vedrete che qualche ragazza vi avvicinerà subito».
Ennio Caretto 05 novembre 2009 È il boom dei libri elettronici.
L’anno scorso, nonostante la crisi finanziaria ed economica, le loro vendite sono salite del 68,4 per cento e quest’anno, allo scorso agosto, di ben il 177 per cento.
Inoltre i libri elettronici hanno invaso le biblioteche pubbliche, e quella di Amazon, Kindle, è diventata la favorita dei giovani.
Mentre l’editoria tradizionale ha registrato una battuta d’arresto, quella elettronica prevede di arrivare a 10 milioni di lettori.
È una parte modesta del mercato, ma l’unica in inarrestabile espansione.

«Il crocifisso resterà nelle aule»

Il Governo italiano presenterà ricorso contro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha disposto la rimozione del crocifisso nelle aule scolastiche.
Lo ha deciso il Consiglio dei ministri, riunito oggi a palazzo Chigi, confermando quanto riferito dal giudice Nicola Lettieri, che difende l’Italia davanti alla Corte di Strasburgo.
Lo si apprende da fonti governative secondo le quali a occuparsi della questione sarà il ministro degli Affari Esteri, Franco Frattini.
(©L’Osservatore Romano – 7 novembre 2009)  Oggi sono state distribuite quattromila croci francescane ai ragazzi fuori da alcuni licei di Roma.
L’iniziativa è stata voluta da Aldo Di Biagio, responsabile Italiani nel mondo del Pdl, per protestare contro la sentenza della Corte europea per i Diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule delle scuole.
“Distribuire la croce francescana tra i giovani ha rappresentato per me un sincero invito alla riflessione – ha detto – e soprattutto un segnale di apertura al confronto ed al dialogo interreligioso che proprio questo simbolo vuole evidenziare.
Qualcosa di profondamente lontano dall’immagine quasi oppressiva e provinciale che una certa Europa ha voluto definire in questi giorni”.
La singolare protesta si è svolta davanti ad alcuni istituti del centro della Capitale, in particolare al liceo Visconti in piazza del Collegio Romano, dove era presente lo stesso Di Biagio.
“I giovani hanno apprezzato – ha commentato – molti si sono fermati a parlare con me e con i miei collaboratori per capire, chiedere e dare il pieno sostegno all’iniziativa.
Molti di loro dimostrano di comprendere che parte della cultura italiana ed europea trae origine proprio da quel pezzetto di legno, e che questa ricchezza identitaria e culturale si colloca ben oltre le posizioni e le ortodossie confessionali”.
“Questo è lo spirito dell’interrogazione presentata a Frattini e a Ronchi a firma mia e di molti colleghi del Pdl – ha spiegato poi – in cui chiediamo quali provvedimenti intendono predisporre al fine di garantire il mantenimento di un simbolo culturale e valoriale come il crocifisso nell’ambito degli spazi pubblici e quali iniziative intendono valorizzare e sostenere al fine di aprire un confronto con le istituzioni europee finalizzato al chiarimento della posizione italiana a sostegno della piena valorizzazione del simbolo come espressione dell’identità cristiana dell’Italia e dell’Europa intera”.
 “Rappresenta la laicità di Gesù” intervista a Massimo Cacciari a cura di Carlo Brambilla in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Massimo Cacciari è irritato dalle polemiche di questi giorni sui crocifissi nelle scuole.
Fosse per lui non andrebbero tolti da nessuna parte.
Al contrario «andrebbero piuttosto messi dappertutto, se qualcuno sapesse davvero cosa vuol dire il crocifisso…» «…è un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».” Il crocifisso, il suo potere unisce destra e sinistra di Pippo Delbono in l’Unità del 6 novembre 2009 “Non sarebbe forse meglio, al posto dei crocifissi scrivere sui muri, citando altre parole del Cristo, «Ama il prossimo tuo come te stesso»?” (ndr.: è incredibile che il crocifisso non indichi più, per molti, l’amore del prossimo) Meno bugie più Vangelo di Enzo Mazzi in il manifesto del 6 novembre 2009 “Non risulta per niente vero che è consentito vedere nella croce il simbolo della prevalenza dell’amore sul potere, come sostiene un teologo alla moda come Vito Mancuso (la Repubblica di ieri 4 novembre).
Tutti i movimenti popolari rivoluzionari animati dal Vangelo che hanno visto nella croce il segno della liberazione storica e non solo della redenzione sacrificale trascendente sono stati repressi spesso nel sangue.” “«meno croce e più Vangelo» valeva anche nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso” Il Concordato crocifisso di Massimo Faggioli in Europa del 6 novembre 2009 “A chi vuole argomentare la difesa del crocifisso col Concordato, non si può non richiamare un immortale aforisma di Carl Schmitt, ripubblicato nel 2005 in Un giurista davanti a se stesso: «Nel Vangelo il Cristo muore per la sua pena; oggi stipulerebbe invece un Concordato con i suoi aguzzini».
Ai teologi di corte e (per parafrasare Franz Overbeck) ai «friseur della parrucca teologica» dell’Italia berlusconiana non resta che scegliere tra il Crocifisso e il Concordato.
Il crocifisso? Non lo ricordo di Aldo Maria Valli in Europa del 6 novembre 2009 “Sinceramente non ricordo se nelle aule scolastiche che ho frequentato, tutte di scuole statali, ci fosse o meno il crocifisso.,,,” Quei cattolici in fila alle primarie di Angelo Bertani in Europa del 6 novembre 2009 “chi sono i cattolici e che cosa sta loro a cuore? (…) Quelli che difendono il crocifisso come simbolo della tradizione occidentale contro gli invasori islamici, o quelli che lo considerano l’esempio di Colui che ha dato la vita per gli altri? Anche per il Pd si pone una domanda: di quali cattolici cercare il consenso? I cattolici credenti e coerenti sono molto più numerosi di quanto si creda, anche se più umili e meno chiassosi….” Crocefisso, non tutto è diritto di Raniero La Valle in Liberazione del 5 novembre 2009 “La sentenza è ineccepibile: una volta investita del caso, la Corte non poteva che decidere così…
Ma mi dispiace che…
ci sia una gara per dire che il crocefisso andrebbe mantenuto perché avrebbe cessato di essere un simbolo religioso, e sarebbe invece “un simbolo della storia e della cultura italiane”, “dell’identità italiana”…
Questa posizione è infatti atea, ma è devota, e tende a lucrare i benefici della religione come religione civile.
E io dico la verità: se il Crocefisso diventasse la bandiera di un’identità, di un nazionalismo, di un razzismo, di una lotta religiosa…
e cessasse di essere la memoria di un Dio che si è fatto uomo…
e che “avendo amato i suoi fino alla fine” ha accettato dai suoi carnefici la sorte delle vittime, e continua a salire su tutti i patiboli innalzati dal potere, dal danaro e dalla guerra, allora io non vorrei più vedere un crocefisso in vita mia.” Il patto del crocifisso Il Vaticano «apprezza» il governo italiano di Fulvio Fania in Liberazione del 5 novembre 2009 “la gerarchia preferisce mettere in secondo piano il carattere religioso di quel simbolo, anteponendone il “valore culturale” o di identità italiana ed europea.
Un’operazione che viene duramente contestata dalle altre comunità cristiane…
«Grande spazio all’inquietudine dei cattolici – denunciano gli evangelici – nessuna attenzione invece al plauso dei protestanti» per una sentenza che è giudicata positivamente dalla moderatora valdese Maria Bonafede, dalla presidente dell’Unione battista Anna Maffei e dall’Alleanza evangelica italiana.” No, laicità non significa togliere il crocefisso, simbolo d’amore di Aurelio Mancuso in gli Altri del 5 novembre 2009 “So che mi attirerò le ire di tante e di tanti, ma trovo la polemica sul crocefisso inutile, sopra le righe e soprattutto ipocrita…
Mi permetto di rilevare che la sottrazione di quel simbolo non sarebbe oggi una vittoria della libertà sulle visioni autoritarie, ma sarebbe interpretato dai più come un protervo gesto di violenza culturale…
Strappare il crocefisso da quei muri…
significa offendere non Dio, ma l’amore che milioni di italiani hanno nei confronti di questo simbolo di genuina pietas.” Crocifisso, “Noi Siamo Chiesa”: La fede si vive nelle coscienze di Vittorio Bellavite in www.noisiamochiesa.org del 5 novembre 2009 “Non ci si rassegna al superamento di una cultura della cristianità.
L’ostilità alla sentenza della Corte di Strasburgo è la conseguenza di questo atteggiamento generale…
Il crocefisso è un simbolo religioso…
Come simbolo (improprio) dell’identità e della cultura nazionale esso viene usato strumentalmente da tutta la destra miscredente (quella degli atei devoti e di quelli che adorano il Dio Po) e da quella cristiana fondamentalista.
Il Vaticano e la CEI non riescono ad avere una posizione più equilibrata…
anzi, contribuiscono ad alimentare rivendicazioni e acide polemiche.” Le Comunità Cristiane di base: Meno croce e più Vangelo di Comunità Cristiane di base in MicroMega-online del 4 novembre 2009 “Sappiamo di essere controcorrente perché la maturazione della società, della realtà religiosa e della politica sul tema della laicità è un percorso lungo e conflittuale.
Ma non siamo affatto soli.
“Meno croce e più Vangelo” valeva nella scuola di Barbiana da dove don Milani aveva tolto il crocifisso.
Meno croce e più Vangelo valeva per un cattolico come Mario Gozzini, il senatore della legge sulla umanizzazione del carcere” La scuola del crocefisso di Lidia Ravera in l’Unità del 5 novembre 2009 “Insomma, sgombriamo il cuore e la mente dal cumulo di gravi problemi che ci attanagliano e discutiamo, alla radio, in tivù, su tutti i giornali del tema più urgente, scottante, ammaliante: bisogna staccare il crocefisso dal muro dietro la cattedra oppure no? …
Stacchiamolo e facciamola finita.
Abbiamo ben altro per la testa!” Il crocifisso, i giudici e Natalia Ginzburg di Giuseppe Fiorentino e Francesco M.
Valiante in L’Osservatore Romano del 5 novembre 2009 “la sentenza della Corte di Strasburgo, con l’intento di voler tutelare i diritti dell’uomo, finisce per mettere in discussione le radici sulle quali quegli stessi diritti si fondano, disconoscendo l’importanza del ruolo della religione – e in particolare del cristianesimo – nella costruzione dell’identità europea e nell’affermazione della centralità dell’uomo nella società.” Crocifisso braccio di ferro inutile di Gian Enrico Rusconi in La Stampa del 5 novembre 2009 “Questo conflitto investe in profondità convinzioni ed emozioni…
Va respinta con energia l’accusa che chi…
vorrebbe rimuovere dallo spazio pubblico scolastico il segno della fede cristiana è una persona intollerante…
Lo stesso vale per l’accusa di rinnegare la tradizione popolare nazionale…
Il fondo della contraddizione è toccato dai leghisti che da una parte contestano e sbeffeggiano l’identità nazionale, e dall’altro difendono il crocifisso nelle scuole come simbolo intoccabile di tale identità…
La vera novità è non eludere il problema, parlarne in modo responsabile e pacato…” Quel richiamo all’amore vale per l’intera umanità di Vito Mancuso in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Dietro la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo vi è la preoccupazione in sé legittima di tutelare la libertà, in particolare la libertà religiosa dei bambini che potrebbe venir minacciata dalla presenza di un crocifisso nelle aule scolastiche.
In realtà vi sono precisi motivi che rivelano l’infondatezza di tale preoccupazione, e mostrano al contrario che dal crocifisso scaturisce uno sprone all’esercizio della libertà in modo giusto e coraggioso.” “Rappresenta la laicità di Gesù” intervista a Massimo Cacciari a cura di Carlo Brambilla in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Massimo Cacciari è irritato dalle polemiche di questi giorni sui crocifissi nelle scuole.
Fosse per lui non andrebbero tolti da nessuna parte.
Al contrario «andrebbero piuttosto messi dappertutto, se qualcuno sapesse davvero cosa vuol dire il crocifisso…» «…è un segno di straordinaria accoglienza, di straordinaria donazione di sé».” Bertone: l’Europa lascia solo le zucche di Halloween di Orazio La Rocca in la Repubblica del 5 novembre 2009 “Sulla sentenza della Corte di Strasburgo, che condanna l’Italia a togliere i crocifissi dalle scuole pubbliche, spira aria di rivolta anti europea.” La carica dei sindaci-crociati “E noi li distribuiamo in piazza” di Paolo Griseri in la Repubblica del 5 novembre 2009 “L’epicentro dello scontro è Abano Terme, dove risiede la famiglia italo-finlandese che con la sua protesta ha causato il pronunciamento di Strasburgo…
il sindaco leghista del vicino paese di Cittadella: «Suggerisco al sindaco di Abano di revocare la residenza alla famiglia italo finlandese…».
In tutto questo frastuono di minacce e spacconate a difesa dei simboli, stona l’invito di don Antonio, parroco di Abano che indica nello stile di vita e nell’esempio il fondamento del cristianesimo e sintetizza: «Protesta chi il Crocifisso non lo ha dentro».
Ma nell’Italia che sembra la Vandea, la sua è una voce che grida nel deserto.” In croce di Agostino Paravicini Bagliani in la Repubblica del 5 novembre 2009 “La croce è un simbolo conosciuto da molte civiltà, dalla Cina all’Egitto, dall’Asia all’Africa.
Perché è un simbolo dell’asse del mondo…
Se nell’arte cristiana la rappresentazione della croce occupa un posto preminente, la sua storia non fu affatto lineare…
fu a lungo simbolo di potenza e di gloria e come tale accompagnò l’affermazione storica del Cristianesimo a Roma…
diventerà anche l’elemento centrale della rappresentazione iconografica dell’opposizione…
tra la chiesa cristiana e il giudaismo…
servì anche ad accompagnare la riconquista della Spagna araba, le crociate e ben altre lotte anche di natura politica…
Il segno della croce fu però anche usato per superstizione…” «Non è una sentenza coercitiva, non c’è nessuna possibilità di coercizione che ci impedisca di tenere i crocefissi nelle aule».
In una conferenza stampa a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi torna a parlare della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sui crocifissi nelle aule scolastiche.
Il premier ha ribadito tutte le sue perplessità nei confronti di questa decisione spiegando che qualunque sia l’esito del ricorso presentato dal governo italiano «non ci sarà capacità coercitiva».
DECISIONE NON RISPETTOSA DELLA REALTA’ – Berlusconi ha poi aggiunto che la decisione della Corte dei diritti dell’uomo «Non è rispettosa della realtà: l’Europa tutta e in particolare l’Italia non può non dirsi cristiana.
Quando sono stato presidente del Consiglio Europeo – ha ricordato ancora il premier -condussi una battaglia per introdurre nella Costituzione le radici giudaico-cristiane, ma Paesi laici e laicisti come la Francia di Chirac si opposero e siccome serviva l’unanimità non riuscimmo a introdurle».
Comunque, «Se c’è una cosa su cui anche un ateo può convenire è che questa è la nostra storia.
Ci sono 8 paesi d’Europa che hanno la croce nella loro bandiera…
Cosa dovrebbero fare cambiare la loro bandiera?».
CEI – La conferenza episcopale italiana ha espresso apprezzamento per le parole del premier, che ritiene «non vincolante» la decisione della Corte di Strasburgo sul crocifisso.
«Non posso che confermare quanto finora detto dalla stragande maggioranza degli italiani, governo compreso – dice monsignor Vincenzo Paglia, vescovo di Amelia-Terni e responsabile della Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso -.
C’è un tale consenso contro la sentenza di Strasburgo che mostra quanto essa tenga poco conto della realtà di un Paese».
06 novembre 2009