XV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Deuteronomio 30,10-14


       
Mosè parlò al popolo dicendo: «Obbedirai alla voce del Signore, tuo Dio, osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge, e ti convertirai al Signore, tuo Dio, con tutto il cuore e con tutta l’anima. Questo comando che oggi ti ordino non è troppo alto per te, né troppo lontano da te. Non è nel cielo, perché tu dica: “Chi salirà per noi in cielo, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Non è di là dal mare, perché tu dica: “Chi attraverserà per noi il mare, per prendercelo e farcelo udire, affinché possiamo eseguirlo?”. Anzi, questa parola è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore, perché tu la metta in pratica».  
  • Ancora una volta è necessario retrocedere nella lettura per comprendere meglio il senso della pericope proposta nella liturgia. Bisogna leggere il v.6 dello stesso capitolo: «Il Signore tuo Dio circonciderà il tuo cuore e il cuore della tua discendenza, perché tu ami il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima e viva».

     A questa formula si ricollega il v 10 che apre la lettura e che richiede di convertirsi al Signore «con tutto il cuore e con tutta l’anima». La medesima formula ricorre in 6,5 ripresa nel vangelo come primo comandamento da osservare. Si tratta di un pensiero fondamentale sul quale il libro del Deuteronomio ricorre più volte insistendo sull’amore integrale a Dio in 10,12; 11,13; 13,3. In 26,16 invece lo stesso formulario viene usato per parlare dell’osservanza dei comandamenti di Dio e in 30,2 della conversione al Signore da attuare sempre «con tutto il cuore e con tutta l’anima». Potremmo così dire che la pericope che stiamo commentando assume un ruolo riassuntivo del messaggio del libro. È l’ultima volta che ricorre la formula appena ricordata prima: «con tutto il cuore e con tutta l’anima».

     Il nostro brano vuole persuadere il lettore circa la praticabilità di quanto ha letto nell’intera opera. Il messaggio è impegnativo perché totalizzante, ma la pretesa radicale della teologia deuteronomista non rimane una utopia; è traducibile in vita. Il cielo era un punto inarrivabile per l’uomo di allora e il mare per un popolo come Israele estraneo alla navigazione, era inaccessibile. Le immagini servono per dire che non esistono barriere insormontabili tra la parola di Dio e il cuore umano. L’interiorizzazione della parola e dei precetti divini è un altro tema assai caro al Deuteronomio: 6,6; 11,18. Forse l’autore si aspetta che sia già stato attuato l’invito di Dio? Sarebbe ingenuo rispondere di sì. Il profeta Geremia non estraneo alla teologia deuteronomista dirà chiaramente che questo non può avvenire che per dono divino: Ger 31,31-34. Anche il profeta Ezechiele annuncia la promessa della interiorizzazione della legge come dono concesso da Dio: 11,19-20; 36,27. Siamo dunque con il brano in questione agli albori di una tradizione che porterà alle prospettive profetiche appena ricordate? Non è facile rispondere. Bisognerà accontentarsi soltanto di accogliere questa affermazione della presenza interiore della parola di cui la pericope non ci dice con chiarezza a chi attribuirla. L’unica cosa che per ora interessa all’autore è evitare al suo lettore la tentazione di ritenere il suo messaggio impraticabile, mentre invece è una realtà già misteriosamente presente in lui. San Paolo riprenderà il contenuto di questa lettura in Rm 10,6-8.

Seconda lettura: Colossesi 1,15-20

        Cristo Gesù è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui. Egli è prima di tutte le cose e tutte in lui sussistono. Egli è anche il capo del corpo, della Chiesa. Egli è principio, primogenito di quelli che risorgono dai morti, perché sia lui ad avere il primato su tutte le cose. È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli.  
  • Il noto inno cristologico che viene proposto oggi come seconda lettura è molto probabilmente di composizione anteriore alla lettera cui appartiene. Può essere una testimonianza della liturgia della comunità della chiesa apostolica, un testo noto ai colossesi che può così diventare ottimo strumento di catechesi. La sua posizione iniziale nella lettera pertanto non vuole essere semplicemente celebrativa, ma fondante il messaggio teologico che l’autore darà nel suo scritto.

     L’inno è facilmente divisibile in due parti: i vv. 15-17 illustrano il rapporto esistente tra Cristo e il creato, Egli viene presentato qui come il mediatore della creazione. Nei vv. 18-20 viene presentato il ruolo di Cristo in merito alla redenzione umana.

     La prima parola con la quale Cristo viene indicato è «immagine». Per capirne il senso in modo pertinente bisognerebbe ricollocarsi nella cultura ellenistica secondo la quale l’immagine, pur restando distinta dal suo archetipo, ne costituiva una manifestazione reale. In termini semplici si può dire che la relazione tra immagine e realtà rappresentata era assai più stretto che non nella nostra cultura. Eb 1,3 che definisce Gesù rispetto al Padre come «irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» costituisce una resa scritturistica di quanto è appena stato detto. Si vede così come Gesù sia una immagine assolutamente nitida di Dio, che lo rende visibile in modo chiaro; distinto dal Padre, ma sua riproduzione fedelissima. Il Dio che Gesù ci presenta era prima caratterizzato dall’invisibilità: 1Tim 1,17; 6,16; Gv 1,18; 6,46; 1Gv 4,12. Ora c’è una svolta decisiva perché nel Figlio il Padre si rende visibile: Gv 1,18; 14,9. A dire il vero esisteva già nell’ordine del creato un’immagine di Dio, era l’uomo stesso come dice bene Gn 1,26-27, convinzione che riecheggia in 1Cor 11,7; Col 3,10.

     Si tratta di una immagine che non si colloca sul piano dell’identità, né su quella dell’approssimazione. Un’immagine tuttavia insufficiente per una piena conoscenza di Dio e per la scoperta del progetto autentico del creato. Gesù, apparso in forma umana (cf. Fil 2,27), assolve entrambe i compiti: rendere visibile il Padre e comprensibile il progetto creatore.

     Egli è lo strumento della creazione, pensiero che Paolo aveva già manifestato in 1Cor 8,6 e che ritroviamo come convinzione della comunità apostolica anche in Gv 1,3 e Eb 1,2. Soprattutto Gesù è il fine per il quale il mondo viene creato. L’inno svela così che fin dall’inizio vi è un obiettivo positivo dal momento che tutto viene creato in vista di Cristo. Il modello che il Padre ha davanti a sé nella creazione del mondo e dell’uomo è il suo unigenito; e il fatto che il Padre dia al Figlio questa attenzione nella progettazione del creato fa sì che Cristo non sia più solo «l’unigenito», ma diventi anche «il primogenito» come sottolineano i vv. 17-18. Il primo si colloca ancora semplicemente nell’ordine creaturale, il secondo ormai nell’ordine nuovo stabilito da Cristo con la sua risurrezione. Vi è dunque per Cristo un primato antecedente e uno conseguente. Il suo primato antecedente (vv. 15.17) sta nel fatto che viene scelto dal Padre come modello e strumento del creato; il suo primato conseguente invece nel fatto che la sua risurrezione inaugura la sua signoria universale sull’umanità rigenerata dal suo mistero pasquale. Tutto questo, come dice il v. 19 appartiene alla volontà di Dio. Il verbo «piacere» indica infatti le decisioni di Dio in merito al piano salvifico (Mt 11,26; Lc 10,21; 12,32; 1Col 1,21). La volontà del Padre ha poi un contenuto ancora più preciso: stabilire in Cristo ogni pienezza. In 2,9 si dirà che «in Cristo abita corporalmente tutta la pienezza della divinità». È una spiegazione esaustiva. La pienezza di Cristo è pienezza di vita che si partecipa al creato in quanto vi è in lui pienezza di divinità. Il v. 20 ci riporta sul piano storico per mostrarci come si è consumata l’opera di Gesù.

     Dopo i termini grandi e speculativi ne troviamo ora due concretissimi e cruenti: sangue e croce. Sono le modalità reali in cui la riconciliazione si è consumata rendendo Cristo sintesi vitale e vivificante. Come esisteva un orizzonte universale per la mediazione creatrice, esiste anche un ordine universale ed ultraterreno per l’efficacia redentrice. Il raggio universale dell’opera realizzata da Gesù mediante la croce e chiamata riconciliazione è un tema caro all’innografia cristiana originaria come attesta anche la lettera agli Efesini: 1,10; 2,14.16.

Vangelo: Luca 10,25-37

          In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».   

Esegesi

     Il brano a nostra disposizione si divide chiaramente in due parti. La prima occupa i vv. 25-28 e si concentra sulla necessità di mettere a fuoco le cose più importanti da fare per avere la vita eterna. La seconda parte occupa i vv. 29-39 per spiegare in un modo concretissimo la focalizzazione dell’unità precedente.

     I vv. 25-28 trovano un parallelo in Mt 22,34-40 e Mc 12,28-31. In quei due passaggi si sente però il sapore di una disputa tra scuole teologiche, la necessità di trovare nell’oceano di una precettistica sofisticata almeno l’essenziale. Siamo nell’ambito di un orientamento teorico in cui la parola di Gesù diventa decisiva. È lui infatti a dare la risposta che combina

insieme i due comandamenti presi rispettivamente da Dt 6,5 quello che riguarda l’amore a Dio e (Lv 19,18) quello che riguarda l’amore al prossimo. Il testo di Luca propone differenze evidenti. La preoccupazione del dottore della legge, che come in Mt mantiene uno scopo polemico, insidioso, non è sul piano teorico, ma pratico. Abbiamo qui la medesima domanda che si ritroverà in 18,18, posta in quella occasione dal ricco che ha pure lui la preoccupazione di «ereditare la vita eterna». Questa domanda prende pertanto in Lc un rilievo notevole; la preoccupazione concreta per quanto è necessario fare per avere la salvezza interessa il terzo evangelista in un modo particolare. Sul «fare» insiste la domanda del dottore (v. 25), la prima risposta di Gesù (v. 25) e l’ultima (v. 37). La risposta alla domanda centrale però non viene formulata da Gesù. Egli la gira al dottore della legge ed è lui stesso a combinare insieme Dt 6,5 e Lv 19,18 praticamente in un comandamento unico. Mentre in Matteo e Marco si ha una precedenza chiara del comandamento dell’amore di Dio rispetto a quello del prossimo stabilendo un parallelismo (Mt 22,39) o una subordinazione (Mc 12,31), in Luca è risultata una indicazione sola, praticamente un unico inscindibile comandamento. Abbiamo già detto che non è Gesù a dare la risposta; ma va notato bene a quale fonte egli rimandi il suo interlocutore perché sia lui stesso a formularla: la legge. Gli scritti di Mosè pertanto conservano ancora secondo Gesù il loro valore di indicazione valida della volontà salvifica di Dio.

     L’amore per Dio è totalizzante, nessuna dimensione della persona umana ne è esclusa. Rispetto alla versione originale di Dt 5,6 Luca aggiunge qui anche la mente per sottolineare ancora di più l’impegno dell’uomo nell’amore di Dio. Per l’amore al prossimo si propone invece come termine di paragone l’amore a se stessi. Non si tratta di pensare all’egoismo che ognuno porta in sé o all’istinto di conservazione innato in ciascuno; si tratterebbe di un confronto negativo. Anche se le seguenti osservazioni probabilmente non sono nell’intenzione dell’autore del libro del Levitico, credo però che siano opportune. Il soggetto dell’amore vero è colui che ha con se stesso un rapporto sereno, armonioso. La conoscenza e l’accettazione di sé stanno alla base di un rapporto con gli altri veramente amorevole. Amare gli altri come se stessi non significa dunque condividere con gli altri il proprio egoismo, ma partecipare loro la propria serenità e la propria gioia di vivere.

     Un problema ora è decisivo: questo prossimo chi è? La domanda è ineludibile per quanto segue. Nella mentalità comune al tempo di Gesù il prossimo era il membro dello stesso popolo, per gli esseni addirittura solo gli appartenenti alla loro setta. La visione del prossimo era dunque assai limitata. La parabola farà saltare un simile modo di intenderla.

     I vv. 30-37 raccontano la notissima parabola che Gesù offre come risposta concreta al quesito iniziale: che fare per salvarsi? Si tratta di un caso umano presentato con grande realismo ed efficacia. La strada da Gerusalemme a Gerico, effettivamente conosciuta da Gesù (cf. Lc 18,35,19,1.28) è davvero un luogo adatto a simili fatti di cronaca. Una rapina lungo la strada lascia la vittima al bordo della medesima; a distanza non si può fare una diagnosi precisa delle sue condizioni. Per questo motivo il sacerdote, ministro qualificato del culto, e un levita, ministro di grado inferiore addetto all’ordine del tempio, non osano neanche avvicinarsi. Nell’eventualità che il malcapitato fosse morto essi sarebbero tagliati fuori dalle loro funzioni in base alle leggi di purità cultuale (Lv 21; Nm 19,11). Il soccorso a quella persona è dunque per loro un rischio che non si può correre, pena l’esclusione dalle loro mansioni professionali. Su questa linea si potrebbe notare nell’insegnamento di Gesù una nota polemica nei confronti del culto e il desiderio di superarne la formalità come già insegnavano i profeti: Os 6,6.

     Al v. 33 arriva la vera sorpresa. Il soggetto scelto per il soccorso, per la buona azione è un personaggio che l’ascoltatore di Gesù non avrebbe nominato se non per biasimarlo, rinfacciargli la sua razza bastarda (cf. 1Re 17,24-41), il suo essere eretico e scismatico (Gv 4,20). Gesù invece l’ha scelto come soggetto di un verbo delicatissimo: «ne ebbe compassione». Di questo verbo è soggetto Gesù stesso in 7,13; 15,20. Nessun ribrezzo per Gesù dunque ad identificarsi con un samaritano. Già questo è il primo atteggiamento da notare. La parabola insegnerà l’abolizione di qualsiasi barriera nei rapporti interpersonali, ma insegnando questo Gesù non farà altro che rivelare il suo cuore ed il suo stile (cf. 6,36; 15,1-3).

     I vv. 34-35 vanno letti non come cronaca, ma come completamento dei sentimenti notati prima nel samaritano. Egli non è solo capace di compassione, è capace di renderla autentica con gesti concreti, a proprie spese. Senza questa complementarietà operativa non si potrebbe parlare di misericordia. 

     Al v. 36 tocca allo stesso dottore della legge tirare la conclusione; ciò fa parte del metodo parabolico di Gesù (cf. Mt 21,28-31) e in un certo senso si riallaccia alla prima parte del brano dove era toccato ancora a lui dare la risposta al suo interrogativo.

     Il v. 37 è l’apice del brano e la risposta definitiva che trova il suo fulcro in quel «fa’». Così si capisce che per entrare nella vita eterna non c’è che una cosa da fare: vivere un amore autentico e fattivo per tutti, per qualsiasi persona, in una parola riprodurre nella propria vita l’amore senza esclusioni di Gesù.

Meditazione

     «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono lasciandolo mezzo morto… Un samaritano che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione» (Lc 10,30.33). Su di una strada due uomini si incontrano occasionalmente: uno è ferito, «mezzo morto», l’altro è uno straniero che sa vedere la sofferenza del fratello e farsi prossimo. Su di una strada, casualmente, a due uomini viene data la possibilità di obbedire al grande comandamento che è al cuore della Legge: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso» (Lc 10,27; cfr. Dt 6,5 e Lv 19,18). Obbedire alla parola del Signore «osservando i suoi comandi e i suoi decreti, scritti in questo libro della legge» (Dt 30,10) è dare carne, nella vita e nelle relazioni, a questa parola perché essa «è molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica» (Dt 30,14): questo è il messaggio che ci viene consegnato dalla liturgia della Parola di questa domenica.

     La forte dimensione di operatività, di vita, di concretezza, di obbedienza alla parola è tradotta attraverso il racconto parabolico con cui Gesù risponde ad alcuni interrogativi posti da uno scriba. È un racconto che termina proprio con questa affermazione: «Va’ e anche tu fa ‘così» (v. 37).

     Il dialogo tra lo scriba e Gesù, riportato in Lc 10,25-29, prende avvio da una domanda posta dallo scriba: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (v. 25). Ereditare la vita è ciò che sta a cuore a quello scriba. Ma quale vita cercare e come orientare ad essa tutto il cammino? La risposta di Gesù allo scriba è un’altra domanda che orienta alla Parola per eccellenza, la Torà: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?» (v. 26). E lo scriba stesso può trovare una risposta al suo desiderio di vita: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il tuo prossimo come te stesso» (v. 27). Nell’ascolto della Parola, di quella Parola che è spirito e vita, lo scriba stesso ha trovato una risposta al suo desiderio di vita. Gesù ha fatto emergere dal cuore di quell’uomo il bisogno più profondo e il desiderio più autentico che è nascosto in ogni uomo: quello di una vita che è dono, quello di una vita che apre alla eternità. Con la pedagogia sapiente del padre nello spirito, Gesù non ha risposto allo scriba offrendogli qualcosa di esterno a lui; l’ha semplicemente invitato a mettersi in ascolto della Parola e a scoprire che proprio la Parola traduceva quel desiderio di vita che era in lui. E veramente è questa la Parola che sta alla radice del nostro agire e del nostro essere, la Parola che sa unificare tutta la complessità della nostra esistenza (cuore, anima forze, mente), che sa orientare tutte le nostre potenzialità verso l’infinito (Dio stesso) e sa renderle vere attraverso la mediazione della nostra carne (il fratello). «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai» (v. 28), è la semplice constatazione di Gesù. La vita passa attraverso un fare questa precisa Parola e questa Parola è veramente tutto. È il ‘grande comandamento’: grande perché al di sopra di esso non c’è nulla; grande perché ci supera; grande perché è il nome stesso di Dio (cfr. Dt 6, 4-9).

     Il dialogo tra lo scriba e Gesù avrebbe potuto terminare con questo rimando alla vita: «fa’ questo e vivrai». Ma lo scriba «volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico… Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo…”» (vv. 29.36). Lo scriba pone quella domanda a Gesù per giustificarsi: fa fatica a riconoscere che non sa amare e preferisce spostare il problema al di fuori di sé. Gesù gli pone sotto gli occhi un uomo che sa amare, obbligandolo a ricollocare nuovamente la domanda dentro di sé: non è questione di chi si deve amare, ma di come si deve amare. Il samaritano è un modello di amore e da lui quello scriba deve imparare. E sotto le spoglie del samaritano c’è Gesù stesso, il ‘buon samaritano’ per eccellenza. È da lui che quello scriba deve imparare ad amare.

     La parabola narrata da Gesù allo scriba non ha bisogno di una spiegazione; attorno ad essa non dobbiamo costruire teorie o riflessioni teologiche sofisticate (cadremmo nel tranello che la domanda dello scriba tentava di porre a Gesù). È un racconto esemplare in quanto propone un comportamento da imitare; «non va trasposta da un piano all’altro, da quello figurato a quello religioso, poiché è già essa stessa su quello religioso» (B. Maggioni). Di fronte a questa parabola, che ci presenta una situazione concreta e tutt’altro che ideale, dobbiamo semplicemente seguire l’esempio del samaritano, quell’esempio che Gesù pone di fronte allo scriba dicendo: «Va e anche tu fa’ così» (v. 37). L’atteggiamento corretto di fronte a questa parabola è proprio questo: dopo averla ascoltata, non c’è altro da fare che riprendere il cammino e fare ogni giorno, a partire dalle situazioni concrete che la vita ci fa incontrare, quello che ha fatto il samaritano: «passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino… lo caricò sopra la sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui» (v. 34). Ciò che il samaritano ci insegna a fare è nient’altro che amare, vivere quella compassione che ci apre senza riserve e senza difese all’altro e che fa entrare l’altro nel profondo del nostro cuore, come un dono prezioso da custodire e di cui prendersi cura. Questo è il segreto della parabola che Gesù ci racconta. Ogni domanda in più è nient’altro che un tentativo di frenarci o di rimandare quello che la parola di Dio ci chiede di fare, non è nient’altro che un tentativo di giustificarci e nasconderci dietro a riserve e paure: «ma quello volendo giustificarsi disse a Gesù: “E chi è il mio prossimo?”» (v. 29). Il vero problema non è quello di possedere una descrizione precisa che ci permetta di identificare il nostro prossimo e poi agire con sicurezza nei suoi riguardi. In un certo senso il volto del prossimo deve avere sempre i tratti indefiniti e imprevisti della gratuità; il prossimo è sempre l’altro che ‘per caso’ incontro sul

mio cammino, sul ciglio della strada, l’altro che non conosco che mi appare lontano e che, così diverso da me, forse non mi da immediatamente sicurezza. Il prossimo è ogni uomo che chiede proprio a me un gesto e una parola di vita. Il vero problema è che io devo farmi prossimo proprio di quest’uomo, concreto, non di un altro e devo farmi prossimo passandogli accanto, vedendolo, fasciandogli le ferite, prendendomi cura di lui: il vero problema è avere il coraggio di diventare prossimo di ogni fratello percorrendo la via rischiosa della compassione. La vera domanda che la parabola ci suggerisce di farci ogni volta che incontriamo un uomo, così come lo ha incontrato il samaritano, non è: chi è l’altro per me, ma: chi sono io per l’altro; «chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo…?» (v. 36).

            Notiamo infine che il racconto di Gesù non parla di Dio, ma dell’uomo. Quel samaritano, nel momento in cui sceglie di compromettersi con l’uomo sofferente, non decide di far questo perché, agendo così, osserverà la legge di Dio, quella parola che lo scriba aveva ricordato a Gesù. Anzi il samaritano è uno che non conosce la legge, a differenza del sacerdote e del levita (cfr. vv. 31-32). Il samaritano agisce così semplicemente perché di fronte all’uomo sofferente, che chiede aiuto, non gli passa per la mente nessun altro atteggiamento se non quello della compassione. Ma proprio qui sta lo stupendo paradosso di que-sto atteggiamento: senza saperlo, nella più totale gratuità, il samaritano ama come ama Dio. Anzi, senza saperlo, quel samaritano ama Dio. Quel samaritano è la rivelazione della compassione di Dio verso la nostra umanità ferita e abbandonata; quel samaritano è Gesù che si china su ciascuno di noi, che fascia le nostre ferite, che si carica delle nostre sofferenze, che ci affida alla comunità, alla Chiesa per essere curati e guariti. Ed è stupendo vedere come tutto questo non ci viene detto attraverso un linguaggio religioso che forse anche il sacerdote e il levita avrebbero saputo narrare e spiegare con molta precisione (lo scriba non aveva forse dato la risposta giusta a Gesù?), ma attraverso il linguaggio della vita, dell’umanità, conosciuto solo da chi sa amare con gratuità l’altro semplicemente perché è uomo. Solo Gesù, colui che è vero Dio e vero uomo, può raccontare Dio in questo modo ed indicarci un nostro fratello in umanità come esempio da seguire. «Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa ‘così”» (v. 37).

Don Bosco commenta il Vangelo

XV domenica del tempo ordinario

Ama e vivrai eternamente

Al dottore della legge che aveva risposto che per ereditare la vita eterna, bisogna amare Dio e il prossimo, Gesù disse: “Fa’ questo e vivrai” (Lc 10,28).

Queste parole di Gesù servono a don Bosco soprattutto per inculcare nelle menti dei salesiani l’osservanza delle costituzioni e regole della Società. Nella circolare ai salesiani del 16 novembre 1873 sulla disciplina religiosa, don Bosco dava loro queste raccomandazioni:

Il Signore disse un giorno ad un suo discepolo: Hoc fac et vives. Fa’ questo, cioè osserva i miei precetti e avrai la vita eterna. Lo stesso lo dico a voi, miei cari figliuoli, adoperatevi di mettere in pratica quel tanto che vi ha esposto questo vostro affezionatissimo padre, e voi avrete la benedizione del Signore, godrete la pace nel cuore, la disciplina trionferà nelle nostre case e vedremo i nostri allievi crescere di virtù in virtù e camminare sicuri per la strada della eterna salvezza. La grazia di Nostro Signore Gesù Cristo sia sempre con me e con voi, affinché tutti il possiamo costantemente amare e servire in questa vita per andare tutti un giorno a lodarlo e benedirlo eternamente in Cielo (E4 180).   

Per animare i suoi figli all’osservanza delle Regole della Società salesiana, don Bosco diceva loro di nuovo alla fine della prima muta di esercizi spirituali del 1876:

Il Signore, a quel giovane che gli domandava che cosa dovesse fare per salvarsi, diede la legge e disse: Fac hoc et vives, fa’ questo e vivrai. Così io vi dico: Avete le Regole, è il Signore che ce le ha date; osserviamole e vivremo. Ciascuno le studi e nello stesso tempo studi il modo di metterle in pratica. Ciascuno per la parte sua, o superiore o inferiore, o prete o coadiutore, tutti procurino di eseguirle. Oh! in punto di morte come saremo contenti e consolati al ricordo di averle eseguite! State certi che la nostra speranza, come dicevamo, non sarà confusa. Fedele è il Signore nelle sue promesse, e quanto ci dié a sperare, tanto ci darà. Anzi egli è pieno di bontà e di misericordia. Ci darà ben più di quanto possiamo immaginare (MB12 460).

Durante la seconda muta di esercizi spirituali di quest’anno don Bosco citava di nuovo la parola evangelica dicendo:

Io sono del parere che l’esser venuti voi tutti qui a radunarvi in Lanzo chi da una parte, chi da un’altra, chi superando ostacoli di un genere, chi di un altro; l’aver lasciato le vostre occupazioni, e l’occasione speciale di trovarvi in questo momento qui: questo solo io credo che sia già un vero segno che Dio vi chiama ad abbracciare questo stato. Ed io in questo momento non temo punto di dirvi che voi tutti quanti qui siete, tutti siete chiamati dal Signore; manca soltanto che corrispondiate, mettendovi di tutto cuore ad osservare le Regole. Oh, sì! Io risponderei a ciascuno quello che il Divin Salvatore rispondeva a quel tale: Si vis ad vitam ingredi, serva mandata… Hoc fac et vives.

 Poi ritorna sullo stesso argomento:

Hoc fac et vives. Osserva le Regole. Ma, e d’altro? Fa’ questo e vivrai. Sapete quando è che la vocazione comincia ad esser dubbia? Comincerà in voi a venir dubbia, quando voi comincerete a trasgredire le Regole. Allora sì che verrà dubbia, e se si continua nelle trasgressioni, si corre grave pericolo di perderla. Coraggio adunque: osservanza esatta delle nostre Regole e sia questo il ricordo che mette come il suggello a tutti gli altri (MB12 472).

Infine bisogna dire che l’amore rende ogni pratica e obbedienza religiosa facile e gradevole. Nella Vita della Beata Maria degli Angeli don Bosco cita una sentenza ben conosciuta di sant’Agostino applicandola alla Beata:

Quando entrava di proposito nell’eccellenza del divino amore ne discorreva con tanta chiarezza, con ardore sì grande, che tutte sentivansi riempire il cuore di amor di Dio, e protestavano allora di voler soffrire mille morti, piuttosto che lasciare un momento di amarlo con tutto il cuore. Amate, diceva spesso, amate, o sorelle mie, e fate ciò che vi piace: Ama et fac quod vis (OE16 373s).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

Cammino di Santiago: da O Cebreiro a Triacastela  –  2018   

«La difficoltà

del cammino

è insita

nel camminare»

Deuteronomio 30,10-14Colossesi 1,15-20Luca 10,25-37 Signore, quando ho fame,dammi qualcuno che ha bisogno di cibo;quando ho sete,mandami qualcunoche ha bisogno di una bevanda;quando ho freddo, mandami qualcuno da scaldare;quando ho un dispiacere, offrimi qualcuno da consolare;quando la mia croce diventa pensate,fammi condividere la croce di un altro;quando sono nell’indigenza,guidami da qualcuno nel bisogno;quando non ho tempo,dammi qualcuno che io possa aiutare per qualche momento;quando sono umiliato,fa’ che io abbia qualcuno da lodare;quando sono scoraggiato,mandami qualcuno da incoraggiare;quando ho bisogno della comprensione degli altri,dammi qualcuno che ha bisogno della mia;quando ho bisogno che un altro si occupi di me,mandami qualcuno di cui occuparmi;quando penso solo a me stesso,attira la mia attenzione su un’altra persona.E così avrò la vita eterna, la vita della carità.(Santa Teresa di Calcutta)   


Preghiere e racconti

La parabola del buon samaritano (Lc 10, 25-3 7)

Al centro della storia del buon samaritano vi è la domanda fondamentale dell’uomo. t un dottore della Legge, quindi un maestro dell’esegesi, che la pone al Signore: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?» (10,25). Luca aggiunge che il dottore avrebbe fatto quella domanda a Gesù per metterlo alla prova. Egli personalmente, in quanto dottore della Legge, conosce la risposta che a essa dà la Bibbia, ma vuole vedere che cosa dice al riguardo quel profeta digiuno di studi biblici. Il Signore lo rimanda molto semplicemente alla Scrittura che questi, appunto, conosce e lascia che sia lui stesso a dare la risposta. Il dottore della Legge risponde con esattezza mettendo insieme Deuteronomio 6,5 e Levitico 19,18: «Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso» (Lc 10,27). Riguardo a questa domanda Gesù non insegna cose diverse dalla Torah, il cui intero significato è unito in questo duplice comandamento. Ora, però, quest’uomo dotto, che da sé conosce benissimo la risposta alla sua domanda, deve giustificarsi: la parola della Scrittura è indiscussa, ma come essa debba essere applicata nella pratica della vita solleva questioni che sono molto dibattute nella scuola (e anche nella vita stessa).

La domanda, nel concreto, è: chi è «il prossimo»? La risposta abituale, che poteva poggiarsi anche su testi delle Scritture, affermava che «prossimo» significava «connazionale». Il popolo costituiva una comunità solidale, in cui ognuno aveva delle responsabilità verso l’altro, in cui ogni individuo era sostenuto dall’insieme e quindi doveva considerare l’altro, «come se stesso», parte di quell’insieme che gli assegnava il suo spazio vitale. Gli stranieri allora, le persone appartenenti a un altro popolo, non erano «prossimi»? Ciò, però, andava contro la Scrittura, che esortava ad amare proprio anche gli stranieri ricordando che in Egitto Israele stesso aveva vissuto un’esistenza da forestiero. Tuttavia, dove porre i confini restava argomento di discussione. In generale si considerava appartenente alla comunità solidale e quindi «prossimo» solo lo straniero che si era stanziato nella terra d’Israele. Erano diffuse anche altre limitazioni del concetto di «prossimo». Una dichiarazione rabbinica insegnava che non bisognava considerare «prossimo» eretici, delatori e apostati (Jeremias, p. 170). Inoltre era dato per scontato che i samaritani, che a Gerusalemme, pochi anni prima (tra il 6 e il 9 dopo Cristo) avevano contaminato la piazza del tempio proprio nei giorni della Pasqua spargendovi ossa umane (Jeremias, p. 17 1), non erano «prossimi».

Alla domanda, resa in questo modo concreta, Gesù risponde con la parabola dell’uomo che sulla strada da Gerusalemme a Gerico viene assalito dai briganti che lo abbandonano ai bordi della via, spogliato e mezzo morto. E’una storia assolutamente realistica, perché su quella strada assalti simili accadevano regolarmente. Passano sulla medesima strada un sacerdote e un levita – conoscitori della Legge, esperti circa la grande domanda della salvezza di cui erano al servizio per professione – e vanno oltre. Non dovevano essere necessariamente uomini particolarmente freddi; forse hanno avuto paura anche loro e hanno cercato di arrivare più presto possibile in città; forse erano maldestri e non sapevano da che parte cominciare per prestare aiuto tanto più che, comunque, sembrava che non ci fosse più molto da aiutare. Poi sopraggiunge un samaritano, probabilmente un mercante che deve percorrere spesso quel tratto di strada ed evidentemente conosce il padrone della locanda più vicina; un samaritano – quindi uno che non appartiene alla comunità solidale di Israele e non è tenuto a vedere nella persona assalita dai briganti il suo «prossimo».

Bisogna qui ricordare che, nel capitolo precedente, l’evangelista ha raccontato che Gesù, in cammino verso Gerusalemme, aveva mandato avanti dei messaggeri che erano giunti in un villaggio di samaritani e volevano preparare per Lui un alloggio: «Ma essi non vollero riceverlo, perché era diretto verso Gerusalemme» (9,52s). Infuriati, i figli del tuono – Giacomo e Giovanni – dissero allora a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?». Il Signore li rimproverò. Si trovò poi alloggio in un altro villaggio.

Ed ecco ora apparire il samaritano. Che cosa farà? Egli non chiede fin dove arrivino i suoi doveri di solidarietà e nemmeno quali siano i meriti necessari per la vita eterna. Accade qualcos’altro: gli si spezza il cuore; il Vangelo usa la parola che in ebraico indicava in origine il grembo materno e la dedizione materna. Vedere l’uomo in quelle condizioni lo prende «nelle viscere», nel profondo dell’anima. «Ne ebbe compassione», traduciamo oggi indebolendo l’originaria vivacità del testo. In virtù del lampo di misericordia che colpisce la sua anima diviene lui stesso il prossimo, andando oltre ogni interrogativo e ogni pericolo. Pertanto qui la domanda è mutata: non si tratta più di stabilire chi tra gli altri sia il mio prossimo o chi non lo sia. Si tratta di me stesso. lo devo diventare il prossimo, così l’altro conta per me come «me stesso».

Se la domanda fosse stata: «E’ anche il samaritano mio prossimo?», allora nella situazione data la risposta sarebbe stata un «no» piuttosto netto. Ma ecco, Gesù capovolge la questione: il samaritano, il forestiero, si fa egli stesso prossimo e mi mostra che io, a partire dal mio intimo, devo imparare l’essere-prossimo e che porto già dentro di me la risposta. Devo diventare una persona che ama, una persona il cui cuore è aperto per lasciarsi turbare di fronte al bisogno dell’altro. Allora trovo il mio prossimo, o meglio: è lui a trovarmi.

Helmut Kuhn, nella sua interpretazione della parabola, va certamente oltre il senso letterale del testo e tuttavia individua correttamente la radicalità del suo messaggio quando scrive: «L’amore politico dell’amico si fonda sull’uguaglianza dei partner. La parabola simbolica del samaritano, invece, sottolinea la radicale disuguaglianza: a samaritano, che non appartiene al popolo d’Israele, sta di fronte all’altro, a un individuo anonimo, egli che aiuta di fronte alla vittima inerme dell’attacco dei briganti. L’agape, così ci fa intendere la parabola, attraversa ogni tipo di ordinamento politico in cui domina il principio del do ut des, superandolo e caratterizzandosi in questo modo come soprannaturale. Per principio essa si colloca non solo al di là di questi ordinamenti, ma si comprende anzi come il loro capovolgimento: i primi saranno ultimi (cfr. Mt 19,30). E i miti erediteranno la terra (cfr. Mt 5,5)» (p. 88s). Una cosa è evidente: si manifesta una nuova universalità, che poggia sul fatto che io intimamente già divengo fratello di tutti quelli che incontro e che hanno bisogno del mio aiuto.

L’attualità della parabola è ovvia. Se la applichiamo alle dimensioni della società globalizzata, vediamo come le popolazioni dell’Africa che si trovano derubate e saccheggiate ci riguardano da vicino. Allora vediamo quanto esse siano «prossime» a noi; vediamo che anche il nostro stile di vita, la storia in cui siamo coinvolti li ha spogliati e continua a spogliarli. In questo è compreso soprattutto il fatto che le abbiamo ferite spiritualmente. Invece di dare loro Dio, il Dio vicino a noi in Cristo, e accogliere così dalle loro tradizioni tutto ciò che è prezioso e grande e portarlo a compimento, abbiamo portato loro il cinismo di un mondo senza Dio, in cui contano solo il potere e il profitto; abbiamo distrutto i criteri morali così che la corruzione e una volontà di potere priva di scrupoli diventano qualcosa di ovvio. E questo non vale solo per l’Africa.

Sì, dobbiamo dare aiuti materiali e dobbiamo esaminare il nostro genere di vita. Ma diamo sempre troppo poco se diamo solo materia. E non troviamo anche intorno a noi l’uomo spogliato e martoriato? Le vittime della droga, del traffico di persone, del turismo sessuale, persone distrutte nel loro intimo, che sono vuote pur nell’abbondanza di beni materiali. Tutto ciò riguarda noi e ci chiama ad avere l’occhio e il cuore di chi è prossimo e anche il coraggio dell’amore verso il prossimo. Perché – come detto – il sacerdote e il levita passarono oltre forse più per paura che per indifferenza. Dobbiamo, a partire dal nostro intimo, imparare di nuovo il rischio della bontà; ne siamo capaci solo se diventiamo noi stessi interiormente «buoni», se siamo interiormente «prossimi» e se abbiamo poi anche lo sguardo capace di individuare quale tipo di servizio, nel nostro ambiente e nel raggio più esteso della nostra vita, è richiesto, ci è possibile e quindi ci è anche dato per incarico.

I Padri della Chiesa hanno dato alla parabola una lettura cristologica. Qualcuno potrebbe dire: questa è allegoria, quindi un’interpretazione che allontana dal testo. Ma se consideriamo che in tutte le parabole il Signore ci vuole invitare in modi sempre diversi alla fede nel regno di Dio, quel regno che è Egli stesso, allora un’interpretazione cristologica non è mai una lettura completamente sbagliata. In un certo senso corrisponde a una potenzialità intrinseca del testo e può essere un frutto che si sviluppa dal suo seme. I Padri vedono la parabola in dimensione di storia universale: l’uomo che li giace mezzo morto e spogliato ai bordi della strada non è un’immagine di «Adamo», dell’uomo in genere, che davvero «è caduto vittima dei briganti»? Non è vero che l’uomo, questa creatura che è l’uomo, nel corso di tutta la sua storia si trova alienato, martoriato, abusato? La grande massa dell’umanità è quasi sempre vissuta nell’oppressione; e da altra angolazione: gli oppressori – sono essi forse le vere immagini dell’uomo o non sono invece essi i primi deformati, una degradazione dell’uomo? Karl Marx ha descritto in modo drastico l’«alienazione» dell’uomo; anche se non ha raggiunto la vera profondità dell’alienazione, perché ragionava solo nell’ambito materiale, ha tuttavia fornito una chiara immagine dell’uomo che è caduto vittima dei briganti.

La teologia medievale ha interpretato i due dati della parabola sullo stato dell’uomo depredato come fondamentali affermazioni antropologiche. Della vittima dell’imboscata si dice, da un lato, che fu spogliato (spoliatus); dall’altro lato, che fu percosso fin quasi alla morte (vulneratus: cfr. Lc 10,30). Gli scolastici riferirono questi due participi alla duplice dimensione dell’alienazione dell’uomo. Dicevano che è spoliatus supernaturalibus e vulneratus in naturalibus: spogliato dello splendore della grazia soprannaturale, ricevuta in dono, e ferito nella sua natura. Ora, questa è allegoria che certamente va molto oltre il senso della parola, ma rappresenta pur sempre un tentativo di precisare il duplice carattere del ferimento che grava sull’umanità.

La strada da Gerusalemme a Gerico appare quindi come l’immagine della storia universale; l’uomo mezzo morto sul suo ciglio è immagine dell’umanità. Il sacerdote e il levita passano oltre – da ciò che è proprio della storia, dalle sole sue culture e religioni, non giunge alcuna salvezza. Se la vittima dell’imboscata è per antonomasia l’immagine dell’umanità, allora il samaritano può solo essere l’immagine di Gesù Cristo. Dio stesso, che per noi è lo straniero e il lontano, si è incamminato per venire a prendersi cura della sua creatura ferita. Dio, il lontano, in Gesù Cristo si è fatto prossimo. Versa olio e vino sulle nostre ferite – un gesto in cui si è vista un’immagine del dono salvifico dei sacramenti – e ci conduce nella locanda, la Chiesa, in cui ci fa curare e dona anche l’anticipo per il costo dell’assistenza.

I singoli tratti dell’allegoria, che sono diversi a seconda dei Padri, possiamo lasciarli serenamente da parte. Ma la grande visione dell’uomo che giace alienato e inerme ai bordi della strada della storia e di Dio stesso, che in Gesù Cristo è diventato il suo prossimo, la possiamo tranquillamente fissare nella memoria come una dimensione profonda della parabola che riguarda noi stessi. Il possente imperativo contenuto nella parabola non ne viene infatti indebolito, ma è anzi condotto alla sua intera grandezza. Il grande tema dell’amore, che è l’autentico punto culminante del testo, raggiunge così tutta la sua ampiezza. Ora, infatti, ci rendiamo conto che noi tutti siamo «alienati» e bisognosi di redenzione. Ora ci rendiamo conto che noi tutti abbiamo bisogno del dono dell’amore salvifico di Dio stesso, per poter diventare anche noi persone che amano. Abbiamo sempre bisogno di Dio che si fa nostro prossimo, per poter diventare a nostra volta prossimi.

Le due figure, di cui abbiamo parlato, riguardano ogni singolo uomo: ogni persona è «alienata», estraniata proprio dall’amore (che è appunto l’essenza dello «splendore soprannaturale» di cui siamo stati spogliati); ogni persona deve dapprima essere guarita e munita del dono. Ma poi ogni persona deve anche diventare samaritano – seguire Cristo e diventare come Lui. Allora viviamo in modo giusto. Allora amiamo in modo giusto, se diventiamo simili a Lui, che ci ha amati per primo (cfr. 1 Gv 4,19).

(Joseph Ratzinger/Benedetto XVI, Gesù di Nazaret, Rizzoli, capitolo 7: il messaggio delle parabole, 219-256).

Cos’è la sconfitta?

“Nel ciclo della natura, non esistono né vittoria né sconfitta: esiste solo il moto del cambiamento.

“L’inverno lotta per imporre il suo regno ma, alla fine, è costretto ad accettare la vittoria della primavera, che porta fiori e allegrezza.

“L’estate cerca di estendere il dominio dei suoi giorni caldi, giacché è convinta che il calore sia un elemento benefico per le genti. Ma finisce per piegarsi all’arrivo dell’autunno, che regala un meritato riposo alla terra.

“La gazzella si nutre di arbusti ma, contemporaneamente, è il cibo del leone. Non si tratta di una questione di forza o di scaltrezza, bensì del modo in cui Dio ha scelto di mostrarci il ciclo della morte e della resurrezione.

“In questo ciclo non ci sono vincitori né vinti, ma soltanto fasi che devono compiersi. Allorché il cuore dell’essere umano comprende un simile meccanismo, può dirsi libero: accetta senza afflizione i periodi difficili, e non si lascia trarre in inganno dai momenti di gloria.

(Paulo COELHO, Il manoscritto ritrovato ad Accra, Bompiani, Milano, 2012, 25-26)

Preghiera

Signore Gesù, ci inviti ad essere attenti alle persone,

a vivere ogni piccola realtà con un cuore grande:

a pensare in grande e vivere in piccolo,

a credere che nel bisogno ci sei tu,

a vedere l’altro come dono per me,

a condividere le sue gioie e sofferenze,

a intuire i suoi desideri,

a curare i suoi bisogni,

a offrirgli una vera amicizia.

Tu sei buon samaritano perché hai sperimentato

l’essere aggredito, lasciato solo, bisognoso di tutto.

Occorre partire da te

che ci riveli il senso del vivere,

che sei il buon samaritano dell’umanità.

O Gesù, lenisci il dolore delle nostre ferite,

fascia le nostre parti sanguinanti

perché andiamo anche noi sulle strade,

là dove l’uomo vive la sua battaglia

e possiamo essere anche noi buoni samaritani.

(A. Merico)

La Settimana con don Bosco

5-12 luglio 2025

5. (S. Antonio Maria Zaccaria) – “La congregazione dei Chierici Regolari di san Paolo, detti anche Barnabiti, fu instituita (anno 1530) dal venerabile Antonio Maria Zaccaria, sacerdote cremonese” (OE24 274s).

6. (S. Maria Goretti) Scrive don Bosco a proposito della beata Maria degli Angeli: “Ecco un bel fiore raccolto di mezzo alle spine del mondo, e trapiantato nel delizioso giardino di quel Gesù, che si pasce tra i gigli” (OE16 311).

7. (B. Maria Romero) “In ogni tempo i fedeli cristiani professarono [una grande venerazione] verso la grande Regina del cielo; è appoggiata sui grandi bisogni spirituali e temporali da cui siamo circondati e da cui possiamo essere da Maria sollevati” (OE10 300).

8. “Amici miei; Io sono un uomo di allegria, e desidero veder contento tutto il mondo, se farete come io vi ho detto, sarete allegri e contenti anche Voi” (OE24 480s).

9. (S. Agostino Zhao e comp.) In Cina “moltissimi altri cristiani d’ogni condizione, d’ogni età, e d’ogni sesso conseguirono la palma del martirio in questa persecuzione” (OE1 540s).

10. “Di Dio pensa secondo la fede, del prossimo secondo la carità, di te bassamente secondo l’umiltà” (MB3 614).

11. (S. Benedetto) – “I giovani […] andavano in folla a trovarlo […]. Questi suoi discepoli gli divennero tanto affezionati, che niuno più sapeva allontanarsi da lui, di modo che fu costretto a fabbricare dodici monasteri” (OEI 316).

12. “Nelle cose che tornano a vantaggio della pericolante gioventù o servono a guadagnare anime a Dio, io corro avanti fino alla temerità” (MB14 662).

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

Per l’approfondimento:

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 66,10-14


       Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria. Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».  
  • La comprensione del brano sarebbe resa più chiara dal suo contesto anticipando la lettura al v. 5. Nel v. 9 poi è il Signore che parla in modo diretto usando l’immagine del parto per illustrare la sua azione rigenerante verso il suo popolo. Il v. 8 aveva notato un fenomeno impossibile a verificarsi nella realtà: la formazione di un popolo non è istantanea, richiede tempo, conflitti, generazioni e fatiche. L’affetto del Signore per il suo popolo ha superato tutto questo, la rinascita d’Israele dopo l’amara esperienza dell’esilio sembra non conoscere i limiti imposti dalla storia. Nell’ottica del profeta basta un solo istante al Signore per rigenerare il suo popolo; il ritorno a Gerusalemme è come un parto in cui rapidamente una nuova vita viene alla luce.

     Ora il contenuto della lettura è più chiaro, I vv. 10-11 sono un invito alla gioia rivolto ai rimpatriati. Essi amano la loro città e ne hanno fatto il lutto al momento della loro partenza, al tempo della vittoria dei nemici che l’hanno resa vedova e priva di figli (Lam 1,1; Ger 14,17-19; 15,5-9). Ma ora la situazione è rovesciata, anziché essere privata dei figli, Gerusalemme li ha partoriti di nuovo, li ha riavuti tutti insieme, il loro ritorno è felice come il giorno della loro nascita. Nonostante le dure prove, Sion ora è prospera, il suo seno turgido e può offrire nutrimento a tutti senza razionamento.

     Nel giorno della nascita i regali sono una consuetudine. Di questo parla il v. 12. Il Signore assicura alla sua città un dono proporzionato per un evento così felice: la ricchezza dei popoli arriverà come un torrente in piena. Ma ancora più importante dei doni materiali, che tra l’altro un neonato non è in grado di apprezzare, è l’affetto. Neppure questo man-cherà alla rinata popolazione di Sion; la tenerezza e le coccole le saranno pure garantite come il segno più percepibile dell’affetto divino.

     Nel v. 13 troviamo ancora una grande espressione di tenerezza applicata a Dio: Egli sa consolare con delicatezza materna. Bisognerebbe ricordare il passaggio di 49,15 per gustare di più l’immagine:

Si dimentica forse una donna del suo bambino,

così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?

Anche se queste donne si dimenticassero,

io invece non ti dimenticherò mai.

     Se la consolazione, da una parte è un grande atto di forza — come dice 40,1-2 dove si vede che per consolare il suo popolo Dio rovescia le sorti della storia e delle grandi potenze, ponendo fine alla schiavitù del suo popolo — dall’altra parte questo intervento a favore d’Israele è compiuto con sentimenti materni. Forza divina e tenerezza materna si ab-bracciano senza contrasto nel Dio d’Israele.

     Il v. 14 assicura che la descrizione fatta fin qui non è un miraggio. Essa sarà una realtà visibile e la sua vista sarà il sollievo definitivo del popolo provato. Le ossa spezzate sono il segno più evidente della tribolazione e del peccato (cf. Sal 31,11; 51,10). Il loro vigore ritrovato e paragonato all’erba primaverile, primizia di vita, è un ulteriore, tangibile segno del perdono concesso da Dio. La manifestazione della mano del Signore, cioè della sua forza operante, sarà salvezza per Israele, rovina per i suoi nemici.

Seconda lettura: Galati 6,14-18

        Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.      
  • Si tratta dei versetti finali della lettera e ne costituiscono una buona sintesi. In riferimento al v. 11 si potrebbe quasi dire che si tratta di ipsissima verba, dell’apostolo, ma al di là di questa esagerazione esse appartengono alla parte autografa con la quale Paolo ha concluso lo scritto come segno di autenticità della missiva.

     Il v. 14 si capisce meglio se non si perde il contrasto con quello precedente nel quale si parla del vanto dei circoncisi. Essi lo ripongono nell’avere proseliti, in un incremento numerico di coloro che sono sottoposti alla legge. Per essi dunque i galati sono uno strumento della loro vanagloria. Si dovrebbe rileggere a questo proposito 4,12-20 per comprendere come i giudaizzanti non avevano sentimenti corretti verso i galati, mentre Paolo li amava teneramente: 4,19. C’è anche un altro contrasto che non va perso e che è da ricercare nell’esperienza personale di Paolo. Anch’egli un tempo si vantava della pratica della legge e della circoncisione come lui stesso dice in 2Cor 11,21b-22; Fil 3,4-6. A quel periodo della sua vita fa cenno anche nella stessa lettera ai galati: 1,13-14. Ora tutto è cambiato, l’unico vanto che gli è rimasto è la croce. Non è una novità nel pensiero dell’apostolo. Già in 1Cor 1,31 mentre Paolo parla della sapienza della croce scrive: «chi si vanta si vanti nel Signore». Ma ora il legame tra croce e vanto è ancora più stretto, veramente personale. In 2,1.9 Paolo aveva già dichiarato di essere stato crocifisso con Cristo e in 5,24 aveva dichiarato che quelli che sono in Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con i suoi desideri e le sue passioni. Qui Paolo riprende quelle dichiarazioni. La croce lo ha estraniato al mondo e gli ha dato una nuova sapienza (cf. 1Cor 1,17-1,16). Se poi volessimo prescindere da una ricerca tecnica del significato della parola mondo ci potremmo indirizzare verso Fil 3,7-11 dove Paolo dice di voler diventare conforme a Cristo nella morte (v. 10) e fa questa affermazione alla fine di un brano in cui ha dichiarato di aver abbandonato la pratica della legge come strumento per arrivare alla giustizia.

     Nei vv. 15-16 Paolo sembra puntare su quanto è essenziale, cioè essere una nuova creatura. Leggendo 2Cor 5,14-17 si comprende meglio il significato di quello che viene detto qui. L’essere nuova creatura è il frutto dell’amore di Cristo e della sua morte. La norma dunque è quella di non vivere più per se stessi, ma per Gesù, una norma che da pace a tutti, anche ad Israele che per Paolo è pure destinato alla salvezza (Rm 11,26).

     Il v. 17 presenta il motivo per cui Paolo chiede che non venga più contestato e rattristato: egli è conformato anche fisicamente a Gesù. Chi sa se si tratta delle stigmate come ce le immaginiamo noi per alcuni mistici?

     Molto più probabilmente Paolo allude qui a tutto quello che ha sofferto nell’annuncio del vangelo e che l’apostolo narra in 2Cor 6,4-5; 11,23-25. Sono queste sofferenze che egli ha sopportato per il vangelo a costituire il segno più chiaro della sua appartenenza a Gesù. In 1,10 si è dichiarato servitore (doulos), schiavo di Cristo. Nell’antichità gli schiavi portavano il marchio del loro padrone. Le cicatrici rimaste sul corpo di Paolo per le ferite ricevute durante l’apostolato lo dichiarano senza equivoco alcuno proprietà di Gesù.

     Il v. 18 è un saluto affettuoso di ispirazione liturgica.

Vangelo: Luca 10,1-12.17-20

         In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.  Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».                

Esegesi

     Il brano presenta l’inizio e la conclusione della missione dei settantadue discepoli, omettendo i vv. 13-16 del capitolo 9 in cui Gesù si lamenta fortemente per la mancanza di fede di Corazin, Betsaida e Cafarnao in cui ha operato miracoli senza ottenerne la conversione.

     v. 1 – Il soggetto che agisce è Gesù nella sua qualità di «Signore», quindi nella sua veste regale. Come un sovrano, egli invita davanti a sé degli araldi con l’incarico di preparare la sua venuta. Ciò da già una prospettiva particolare alla missione, essa non è opera autonoma, annuncio di un proprio messaggio, ma preparazione di una presenza superiore realmente salvifica. Non si dimentichi che il titolo «Signore» indica Gesù nella sua nuova condizione di risorto, quindi qui Luca non vuole semplicemente narrare un fatto accaduto nel passato egli descrive l’attualità della Chiesa alla quale il suo «Signore» non lascia mancare gli annunciatori della salvezza. Luca stabilisce anche una salvaguardia alla unicità del ministero dei dodici. Questi settantadue vengono qualificati come «altri». Non si deve però pensare ad evangelizzatori di rango inferiore, perché all’origine del loro ministero c’è il medesimo gesto che Gesù ha compiuto per i dodici: «li inviò» (9,2). Il numero 72 e preso dalla versione greca (LXX) di Gen 10 dove viene data la tavola dei popoli ampliata di due unità rispetto all’originale ebraico. Il numero è dunque altamente simbolico, di una simbologia particolarmente cara a Luca, così interessato all’evangelizzazione dei pagani. Essa non risulterebbe così per lui esclusa dall’intenzione del Gesù terreno. I discepoli sono mandati a due a due per sottolineare l’attendibilità della loro testimonianza in base ai parametri della legge giudaica: Dt 17,6; 19,15.

     v. 2 – L’immagine della messe non ha, in questo caso sapore escatologico (cf. Gl 4,13; Is 27,12). Si tratta di completare l’opera di Gesù al quale è toccato il compito della semina (Lc 8,4-8). Luca, profondamente coinvolto nella missione paolina aveva un senso drammatico della vastità della missione. Nonostante questo, egli pone un principio preciso e irrinunciabile: l’esito della messe non dipende dallo sforzo umano, è unicamente nelle mani di Dio, padrone del vasto campo dell’evangelizzazione. Questa consapevolezza viene posta a fondamento della preghiera fiduciosa. La sproporzione altissima tra immensità del campo e quantità di operai può essere colmata solo dall’esaudimento della preghiera fiduciosa per avere le forze necessarie.

     vv. 3-9 – Le istruzioni pratiche per la missione sono precedute da un’immagine che crea subito il clima nel quale la missione sarà portata avanti. Gli inviati saranno agnelli in mezzo ai lupi, lavoreranno dunque in un ambiente ostile e aggressivo. In quelle condizioni però essi devono rinunciare alla violenza e mantenersi nello spirito del discorso della pianura (Lc 6,27-35). L’equipaggiamento del missionario cristiano deve essere estremamente sobrio. Questa sobrietà va notata specialmente in Luca così sensibile al tema della povertà. Il fatto che i missionari non salutino nessuno lungo il cammino non è un invito alla maleducazione, ma una sottolineatura dell’urgenza della missione. L’ordine sarebbe meglio compreso se si conoscessero direttamente i costumi dell’antico vicino oriente che prevedevano per i saluti un cerimoniale complimentoso e ripetuto.

     Ancora più importante tuttavia è il contenuto dell’annuncio. Il missionario è portatore di pace. Questa parola che costituisce il saluto tipico ebraico ha però un contenuto preciso. La pace è la caratteristica dell’epoca messianica (Is 9,5-6) e per conoscerne il contenuto basterebbe rileggere il salmo 72. Quel programma del re ideale, il messia appunto, viene realizzato in pieno da Gesù e i missionari devono essere i prosecutori della sua opera. Con la missione cristiana si estende il dominio pacifico di Gesù «da mare a mare e dal fiume sino ai confini della terra» (Sal 72,8). Ma ancora più interessante sarebbe riascoltare i vv. 12-14 del salmo che sono una sintesi di quanto Gesù ha compiuto nel suo ministero e una indicazione valida di programma per il missionario cristiano come certifica il v. 9 del nostro brano. I malati saranno i primi destinatari dell’annuncio e la loro guarigione è il segno che il regno si è realmente avvicinato. Viene così ripreso il contenuto della missione dei dodici: 9,2. Il saluto di pace deve essere dato prima di entrare in casa; è la condizione per verificare se vi è disponibilità ad accogliere il messaggio. Accertata questa condizione il missionario può restare senza scrupolo di pesare su chi lo ospita e senza chiedere di più rispetto all’ospitalità che viene offerta. Chi sa che non si trovi qui la problematica affrontata in 1Cor 9,4-18 dove si trova un detto di Gesù non registrato alla lettera dai vangeli. «Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il vangelo vivano del vangelo». Il divieto di passare di casa in casa verte ad evitare la dispersione e la tentazione di cercare un alloggio migliore. Per il v. 8 invece la questione è diversa. Viene affrontato il problema della promiscuità di cibo con i pagani. Mt e Mc non affrontano il problema nei loro discorsi missionari. Nella chiesa primitiva si trattava però di una questione molto sentita, basti pensare a Gal 2,11-14. Qui Luca si rifà ad una istruzione data da Paolo in 1Cor 10,27 e risulterà utile l’accostamento a At 10,9-16 in cui Pietro attraverso una visione riceve dal cielo la dichiarazione del superamento del problema della purità legale in ambito alimentare, visione che prelude all’accoglienza dei pagani nella Chiesa come avverrà con il battesimo di Cornelio (At 10,34-48).

     vv. 10-12 – La missione cristiana non è garantita di successo, lo scacco, il rifiuto sono più di una probabilità. In questo caso si deve seguire il costume orientale di scuotere la polvere dai piedi, gesto che dice dissociazione totale. Con chi rifiuta positivamente e consapevolmente il vangelo il messaggero non vuole avere nulla da spartire neanche la polvere della città che è rimasta attaccata ai suoi piedi. Anzi il rifiuto del vangelo attira un giudizio ben più grave di quello riservato a Sodoma che secondo la Bibbia è l’iperbole del male. Il peccato di Sodoma non segna il limite della perversione. C’è un peccato più grande: la chiusura di fronte al vangelo.  

     vv. 17-20 –  In 9,1 Gesù aveva dato ai dodici il potere di scacciare i demoni. Nel discorso appena commentato non se ne è fatto cenno, ma doveva essere incluso se i settantadue di fatto hanno operato esorcismi con successo. Il risultato positivo della missione ha riempito gli inviati di gioia. Il tema è assai caro a Luca che vede la gioia come la reazione umana alla salvezza operata da Dio. I settantadue sono ora il soggetto di quel sentimento e diventano così l’eco universale della gioia per la salvezza che si diffonde. Il detto su Satana è più problematico.  Se ci rifacciamo a Gb 1,6-12; 2,1-7 3 Zc 3,1 in cui Satana è presentato come accusatore degli uomini davanti a Dio nel cielo significa che questa sua attività è finita, gli uomini davanti a Dio non hanno più accusatori. Se ci riferiamo a Ap 12 7-10 si alluderebbe al combattimento finale contro Satana dal quale Dio esce vincitore. Si prospetta pertanto la vittoria apocalittica. In ogni caso l’attività esorcistica dei missionari con risultati positivi è sintomo chiaro della vittoria definitiva sulle forze diaboliche. Da ultimo Gesù svela agli inviati il motivo vero della gioia: non tanto i fatti eccezionali di cui sono protagonisti nella missione bensì la conoscenza personale che Dio ha di loro e che sarà la loro eredità. I loro nomi infatti sono scritti in cielo.

Meditazione

     Un annuncio di consolazione e di gioia parte da Gerusalemme e raggiunge il mondo intero; la gioiosa notizia della salvezza, l’evangelo della pace non cessa di risuonare e di richiamare all’unità l’Israele di Dio disperso. Simbolicamente questo annuncio unisce i testi della Scrittura proposti dalla liturgia della Parola di questa domenica. «Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate… Io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati» (Is 66,10.13): è questo l’annuncio pieno di gioia che il profeta proclama al popolo di Israele che sta giungendo nella città amata dopo il lungo esilio babilonese. Gerusalemme ritorna ad essere una madre feconda e in questa maternità piena di tenerezza si riflette la compassione stessa di Dio quell’amore inesprimibile che infonde pace e che solo l’esperienza di una madre che ha cura del suo figlio può fare intuire: «…sarete allattati e portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò…» (Is 66,12-13). La stessa gioia colma di pace risuona nell’evangelo affidato da Gesù ai discepoli: «Pace a questa casa è vicino a voi il regno di Dio!» (Lc 10,5.9). Ma l’orizzonte che si apre sotto lo sguardo del discepolo non è più ristretto nei limiti di una città: è come un campo immenso e colmo di grano maturo che deve essere raccolto, è l’abbondanza di una umanità che deve essere salvata, a cui l’evangelo porta la pace e la gioia (cfr. Lc 10,2). L’evangelo che rende vicino il Regno e che dona la consolazione ha però un volto: quello di Gesù, quello dell’amore fedele di Dio che non si arresta di fronte alle resistenze e alle infedeltà dell’uomo. L’evangelo della pace ha il volto del Crocifisso, della parola rifiutata e continuamente donata. Il discepolo che annuncia pace e consolazione, che guarisce e dona la salvezza, ha una sola forza che lo sostiene per le strade del mondo: la croce di Cristo. Stupendamente lo esprime Paolo concludendo la sua lettera ai Galati: «…non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo… e su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio» (Gal 6,14.16).

     Il discepolo che è chiamato a donare l’evangelo al mondo deve farlo con lo stile stesso di Gesù. Ed è su questo aspetto che si sofferma maggiormente il discorso missionario di Luca al cap. 10 relativo all’invio dei settantadue discepoli. Nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli si riflette la responsabilità della missione, della missione della comunità ecclesiale e di ogni singolo in essa, la posta in gioco dell’annuncio (il regno di Dio) e la conseguente trasparenza di stile e radicalità con cui questo deve essere proclamato. E si potrebbe dire che questa trasparenza è motivata anzitutto dal fatto che il discepolo inviato ad annunciar il Regno è colui che precede il volto di Gesù: «(Gesù) mandò messaggeri davanti a sé e questi si incamminarono…» (Lc 9,52).

     Nella storia, nel mondo, il discepolo annuncia la venuta del Signore, l’approssimarsi del suo regno; ma gli occhi del discepolo sono sempre rivolti a Colui che annuncia e senza questa continua relazione di sguardi, la parola proclamata diventa solo parola umana. L’inviato non deve mai dimenticare che è il Signore a mandarlo nel mondo come apostolo – «…ecco, io vi mando» (10,3) – e che il contenuto dell’annuncio è il regno di Dio, qualcosa che non gli appartiene e che ha ricevuto gratuitamente (cfr. Mt 10,8).

     Lo stile e, nello stesso tempo, la forza dell’annuncio sono custoditi nel paradosso: debolezza, mancanza di mezzi, pericolo, rifiuto, ma anche fiducia, libertà, pace, salvezza, accoglienza. L’immagine della messe immensa e abbondante con cui Gesù apre il suo discorso, contrasta con lo sparuto gruppo di ‘mietitori’ chiamati a lavorare il questo campo. Eppure sta qui, in questo contrasto, la forza della missione: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (10,2). I discepoli, consapevoli di essere piccolo gregge a cui è affidato un compito immenso, si aprono così alla lucida consapevolezza che il regno non è loro, ma di Dio: lui ha cura affinché esso cresca e raggiunga gli estremi confini della terra. Lo stile della missione allora si nutre della preghiera: essa è il segno umile di chi lavora in un campo che non è suo, sapendo che ciò che ha seminato sicuramente crescerà, nei tempi e nei modi che Dio stesso, il signore della messe, sceglie.

     C’è tuttavia una seconda immagine che presenta la missione dei discepoli come un cammino fatto di contrasti e confronti: il discepolo è come un agnello mandato non in un recinto sicuro, ma in mezzo a dei lupi (cfr. v. 3). Il discepolo deve essere cosciente che la parola annunciata provocherà tensioni e giudizio; è una parola di salvezza, ma deve essere accolta. E la sua valenza di giudizio può provocare rifiuto. Questo determina tutto un modo di porsi di fronte al mondo, modo che Gesù descrive attraverso simboli e atteggiamenti. Il rapporto con il mondo è delicato: c’è un rischio ed è quello che potrebbe trasformare il discepolo o in un carrierista che cerca successi e consensi oppure in uno spietato giudice nei confronti del mondo cattivo e crudele. Non è questo lo stile che Gesù insegna al discepolo. Questi non deve mai dimenticare che è inviato al mondo e ogni uomo è il destinatario dell’evangelo; il mondo è ‘capace’ dell’evangelo. Ma nel mondo agisce anche una logica idolatrica, anti-evangelica: da questa deve guardarsi il discepolo. Ecco allora la radicalità della testimonianza che deve rendere trasparente l’essenziale dell’annuncio: niente di superfluo nei mezzi usati (e qui Lc 10,4, nell’elencare l’equipaggiamento, è ancora più radi-cale di Mc 6,8-9). E poi una libertà da legami e logiche di potere: lo stile del discepolo deve esser discreto e convincente allo stesso tempo, aperto ad ogni uomo, lontano da un certo mondo caratterizzato dal vuoto verbalismo e dalla ricerca di beni (cfr. vv. 4-8). Nella precarietà (accoglienza o rifiuto), il discepolo impara a non preoccuparsi di se stesso, della riuscita o meno del suo annuncio, ma solo del dono contenuto in questo annuncio, la pace e la salvezza che Dio offre ad ogni uomo (cfr. vv. 9-10).

     Il discepolo che si lascia plasmare da questo stile è sicuro della riuscita della sua missione? Sì e no. Il discepolo sa che questo stile è quello vissuto da Gesù e quindi, misteriosamente, sa che in esso è custodita la forza del regno che, come chicco nascosto sotto terra, produrrà il frutto abbondante. Ma lo sguardo del discepolo, umanamente, può incontrare il fallimento, nonostante tutto: «…quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: …sappiate però che il regno di Dio è vicino» (v. 10-11). La radicalità dell’annuncio incontra nel rifiuto la prova e la spogliazione più dura: il discepolo è chiamato a staccarsi anche da una legittima gratificazione, cioè vedere l’evangelo accolto. Un annuncio che si avvale solo della parola e della testimonianza in favore del Regno, può essere esposto al rischio del fallimento; così è avvenuto per Gesù, così avviene per il discepolo. Il Regno però non si ferma: nonostante tutto deve essere annunciato. Il discepolo sa che, tra il rifiuto e il giudizio (cfr. vv. 13-15), il Signore pone un tempo di pazienza e di conversione e questo tempo può veramente diventare, nuovamente, la forza per riprendere l’annuncio. Il discepolo è un umile e povero operaio nella messe del Signore: questa è la sua vera gioia.

Don Bosco commenta il Vangelo

XIV domenica del tempo ordinario

Bisogno di operai per la messe

Ai settantadue discepoli Gesù diceva: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Lc 10,2).

Ne Il cristiano guidato alla virtù ed alla civiltà secondo lo spirito di san Vincenzo de’ Paoli don Bosco scrive a proposito di questo santo:

Ad oggetto che non venissero a mancare gli operai per istruirli, e portarli sul sentiero della virtù e del buon costume, gli riuscì di erigere e stabilire una Congregazione di Preti secolari, con voto dalla Santa Sede approvato, di recarsi di borgata in borgata, di villaggio in villaggio, predicando la divina parola ammaestrando nella dottrina cristiana la gente di campagna senza pretendere, né ricevere da questa retribuzione o corrispettivo di sorta alcuna (OE3 224).

Ecco come don Bosco nel suo libro I Papi da S. Pietro a Pio IX racconta l’inizio dell’evangelizzazione della Francia ad opera dei primi operai:

Durante il corso dei primi secoli un piccolo esercito è mandato in una grande parte della Gallia, non ancora sottomessa, per conquistarla a Gesù Cristo. Questo piccolo esercito è composto di alcuni soldati pacifici, valenti campioni della fede, che si presentano colla croce in mano per rovesciare i templi degli idoli ed innalzare sulle loro rovine gli stendardi del Dio salvatore. Questi sono: Trofimo ad Arles, Paolo a Narbona, Dionigi a Parigi, Gastiano a Tours, Saturnino a Tolosa, Marziale a Limosa, Austremonio nell’Alvergna. Già il sangue dei martiri aveva fecondato, nel secondo secolo, la Chiesa di Lione, che aveva la gloria di contare fra i suoi Vescovi i Potini e gli Irenei. Questa colonia di operai evangelici predica con zelo nella maggior parte delle città la dottrina della salute (OE18 339s). 

Il 15 marzo 1876 i primi missionari salesiani in Argentina scrivendo da Buenos-Ayres lamentavano la scarsità di operai per la grande messe preparata per loro:

Monsignore ed il suo Vicario dottore Espinosa, sempre per noi portatissimo, avrebbero divisato che i Padri Salesiani prendessero i punti più centrali ed importanti della città, ed ogni domenica vi aprissero oratori per gli adulti e fanciulli italiani, unico mezzo per provvedere al bene spirituale di tanti poveretti, che si possono considerare quali pecore erranti lontane dal pastore. Ma lo scarso numero degli operai evangelici fa che i nostri sforzi siano come piccole gocce d’acqua sopra arsiccio terreno. A questo uopo voi potreste farci un gran bene, adoperandovi […] perché ci siano inviati altri missionari (OE38 165).

Anche i Cooperatori salesiani sono invitati a venire in aiuto ai soci della congregazione salesiana che non bastano a rispondere a tutti i bisogni della missione:

È vero che i membri di essa sono cresciuti notabilmente, ma il lor numero è assai lontano dal poter corrispondere alle quotidiane richieste, che si fanno in vari paesi d’Italia, d’Europa, della China, dell’Australia, dell’America e segnatamente della Repubblica Argentina. In tutti questi luoghi si fanno quotidiane richieste di sacri ministri, affinché vadano a prendere cura della pericolante gioventù, che vadano ad aprire Case o Collegi, ad iniziare o almeno sostenere missioni, che sospirano la venuta di evangelici operai. Egli è per accorrere a tante necessità che si cercano Cooperatori (OE28 259).

Nel 1875 don Bosco lanciò l’Opera di Maria Ausiliatrice per le vocazioni allo stato ecclesiastico per giovani adulti che intendono consacrarsi a Dio nello stato ecclesiastico, scrivendo così:

Sono più anni da che si va lamentando il bisogno di operai evangelici, e la diminuzione delle vocazioni allo stato Ecclesiastico. Questa deficienza di vocazioni è sentita in ogni diocesi d’Italia e in tutta Europa; è sentita nelle corporazioni religiose, che mancano di postulanti; nelle missioni estere, che ripetono incessantemente con san Francesco Zaverio: Inviateci degli Operai Evangelici in aiuto. Anzi sappiamo non poche missioni essere in procinto di estinguersi per la sola ragione che mancano di operai Evangelici. È dunque necessità di pregare il Padrone della messe, che mandi operai nella sua mistica vigna: ma alle preghiere unire la nostra Cooperazione (OE27 2).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

Il monumento al Pellegrino sull’Alto del Perdon (Zizur Nagusia-Navarra)   – 2005   

Là dove si incrocia

il cammino del vento

con quello delle stelle.

(Amici del cammino di Navarra)

Isaia 66,10-14 Galati 6,14-18Luca 10,1-12.17-20  Nonostante tutte i nostri sforzi per raggiungere la pace, la giustizia, la sicurezza…un senso di frustrazione pervade a volte la nostra vita. Sono più forti le incertezze (sembra che Dio resti lontano dal suo popolo) che le nostre sicurezze. In queste circostanze è importante ascoltare la voce del profeta: voi che eravate in luto, sfavillate di gioia perché il Signore farà scorrere la pace come in fiume.  Anche l’annuncio dei settantadue discepoli è un messaggio di gioia: il Regno di Dio è vicino a voi; la pace, la giustizia e l’amore trionferanno sul potere delle armi.     La chiesa continua la missione dei settantadue discepoli invitandoci a scoprire la bellezza della vita cristiana e la gioia che nasce dall’essere creature nuove (Gal 6, 15). Che il vento gonfi le nostre vele, per poter danzare con le stelle!       


Preghiere e racconti

La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai!

Inviando gli apostoli a raccogliere la messe, [Gesù] non li invia a mietere la messe di un altro, ma ciò che egli stesso ha seminato per mezzo dei profeti. E non si limita a dar coraggio ai discepoli mostrando che il loro lavoro, il loro ministero consiste nella mietitura di una messe già pronta, ma anche li rende atti a questo ministero. […] Notate come è opportuno il momento scelto dal Signore per la loro missione. Gesù non li invia a predicare prima, quando essi avevano appena cominciato a seguirlo, ma solo dopo che l’hanno seguito e sono stati sufficientemente insieme con lui. […] Li invia a predicare e a compiere miracoli, solo dopo aver offerto loro sufficienti prove della sua potenza, sia con le parole sia con le opere (GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, Roma 19682, il, 99s.).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

II Signore non solo ammaestra i dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. Due sono meglio di uno, dice l’Ecclesiaste (Qo 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia ne pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento sul vangelo di Marco 6, PG 123.548C-549C)

Il seme

La fecondità della nostra piccola vita, una volta riconosciuta e vissuta come la vita di colui che è Amato, va oltre qualunque cosa si possa immaginare. Uno dei più grandi atti di fede è credere che i pochi anni che viviamo su questa terra sono come un piccolo seme piantato in un suolo molto fertile.

Perché questo seme porti frutto, deve morire. Noi spesso vediamo o sentiamo solo l’aspetto finale della morte, ma il raccolto sarà abbondante anche se noi non ne siamo i mietitori.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 101)

Preghiera

A causa del tuo amore infinito, Signore,

mi hai chiamato a seguirti,

a essere tuo figlio e tuo discepolo.

Poi mi hai affidato una missione

che non somiglia a nessun’altra,

ma con lo stesso obiettivo degli altri:

essere tuo apostolo e testimone.

Tuttavia l’esperienza mi ha insegnato

che io continuo a confondere le due realtà:

Dio e la sua opera.

Dio mi ha dato il compito delle sue opere.

Alcune sublimi, altre più modeste;

alcune nobili, altre più ordinarie.

Impegnato nella pastorale in parrocchia,

tra i giovani, nelle scuole,

tra gli artisti e gli operai,

nel mondo della stampa,

della televisione e della radio,

vi ho messo tutto il mio ardore

impiegando tutte le capacità.

Non ho risparmiato niente, neanche la vita.

Mentre ero così appassionatamente immerso nell’azione,

ho incontrato la sconfitta dell’ingratitudine,

del rifiuto di collaborazione,

dell’incomprensione degli amici,

della mancanza di appoggio dei superiori,

della malattia e dell’infermità,

della mancanza di mezzi…

Mi è anche capitato, in pieno successo,

mentre ero oggetto di approvazione,

di elogi e di attaccamento per tutti,

di essere all’improvviso spostato

e cambiato di ruolo.

Eccomi, allora, preso dallo stordimento,

vado a tentoni, come nella notte oscura.

Perché, Signore, mi abbandoni?

Non voglio disertare la tua opera.

Devo portare a termine il tuo compito,

ultimare la costruzione della chiesa…

Perché gli uomini attaccano la tua opera?

Perché la privano del loro sostegno?

Davanti al tuo altare, accanto all’Eucaristia,

ho sentito la tua risposta, Signore:

«Sono io colui che segui e non la mia opera!

Se lo voglio mi consegnerai il compito affidato.

Poco importa chi prenderà il tuo posto;

è affar mio. Devi scegliere me!».

(Card. F.-X. Nguyen Van Thuan)

La Settimana con don Bosco

28 giugno – 5 luglio 2025

28. (S. Ireneo) “Il sangue dei martiri aveva fecondato, nel secondo secolo, la Chiesa di Lione, che aveva la gloria di contare fra i suoi Vescovi i Potini e gli Irenei” (OE18 339s).

29. (Ss. Pietro e Paolo) La festa di questi apostoli “deve essere venerata con esultanza speciale e propria della nostra città, affinché dove fu glorificato il transito dei principali Apostoli, ivi nel giorno del loro martirio sia il colmo della letizia” (OE18 12).

30. (Ss. Primi Martiri della Chiesa romana) “Gli uni vennero inviluppati con pelli di bestie selvaggie, ed esposti a cani da caccia; altri rivestiti di vestimenta tuffate nella pece legati a pali, e sottopostovi fuoco servivano di fiaccole la notte” (OE1 206s).

1. “Come è mai consolante quel Padre nostro che recitiamo mattina e sera; come fa piacere il pensare che abbiamo in cielo un padre che pensa a noi” (MB5 456).

2. “Io sono persuaso che una muta d’esercizi spirituali porterebbe ottimi effetti se portasse il Salesiano alla recita esatta della Messa e del Breviario” (E9 363).

3. (S. Tommaso) “San Tommaso annunziò Gesù Cristo nelle Indie” (OE1 204).

4. (S. Elisabetta di Portogallo) “O voi tutti, che lavorate, che siete aggravati da pene e da travagli, se volete trovare una sorgente inestinguibile di consolazioni, se volete rendervi fortunati, siate santi!” (OE5 176).

5. (S. Antonio Maria Zaccaria) – “La congregazione dei Chierici Regolari di san Paolo, detti anche Barnabiti, fu instituita (anno 1530) dal venerabile Antonio Maria Zaccaria, sacerdote cremonese” (OE24 274s).

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

XIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Isaia 66,10-14


       Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate. Sfavillate con essa di gioia tutti voi che per essa eravate in lutto. Così sarete allattati e vi sazierete al seno delle sue consolazioni; succhierete e vi delizierete al petto della sua gloria. Perché così dice il Signore: «Ecco, io farò scorrere verso di essa, come un fiume, la pace; come un torrente in piena, la gloria delle genti. Voi sarete allattati e portati in braccio, e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola un figlio, così io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati. Voi lo vedrete e gioirà il vostro cuore, le vostre ossa saranno rigogliose come l’erba. La mano del Signore si farà conoscere ai suoi servi».  
  • La comprensione del brano sarebbe resa più chiara dal suo contesto anticipando la lettura al v. 5. Nel v. 9 poi è il Signore che parla in modo diretto usando l’immagine del parto per illustrare la sua azione rigenerante verso il suo popolo. Il v. 8 aveva notato un fenomeno impossibile a verificarsi nella realtà: la formazione di un popolo non è istantanea, richiede tempo, conflitti, generazioni e fatiche. L’affetto del Signore per il suo popolo ha superato tutto questo, la rinascita d’Israele dopo l’amara esperienza dell’esilio sembra non conoscere i limiti imposti dalla storia. Nell’ottica del profeta basta un solo istante al Signore per rigenerare il suo popolo; il ritorno a Gerusalemme è come un parto in cui rapidamente una nuova vita viene alla luce.

     Ora il contenuto della lettura è più chiaro, I vv. 10-11 sono un invito alla gioia rivolto ai rimpatriati. Essi amano la loro città e ne hanno fatto il lutto al momento della loro partenza, al tempo della vittoria dei nemici che l’hanno resa vedova e priva di figli (Lam 1,1; Ger 14,17-19; 15,5-9). Ma ora la situazione è rovesciata, anziché essere privata dei figli, Gerusalemme li ha partoriti di nuovo, li ha riavuti tutti insieme, il loro ritorno è felice come il giorno della loro nascita. Nonostante le dure prove, Sion ora è prospera, il suo seno turgido e può offrire nutrimento a tutti senza razionamento.

     Nel giorno della nascita i regali sono una consuetudine. Di questo parla il v. 12. Il Signore assicura alla sua città un dono proporzionato per un evento così felice: la ricchezza dei popoli arriverà come un torrente in piena. Ma ancora più importante dei doni materiali, che tra l’altro un neonato non è in grado di apprezzare, è l’affetto. Neppure questo man-cherà alla rinata popolazione di Sion; la tenerezza e le coccole le saranno pure garantite come il segno più percepibile dell’affetto divino.

     Nel v. 13 troviamo ancora una grande espressione di tenerezza applicata a Dio: Egli sa consolare con delicatezza materna. Bisognerebbe ricordare il passaggio di 49,15 per gustare di più l’immagine:

Si dimentica forse una donna del suo bambino,

così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?

Anche se queste donne si dimenticassero,

io invece non ti dimenticherò mai.

     Se la consolazione, da una parte è un grande atto di forza — come dice 40,1-2 dove si vede che per consolare il suo popolo Dio rovescia le sorti della storia e delle grandi potenze, ponendo fine alla schiavitù del suo popolo — dall’altra parte questo intervento a favore d’Israele è compiuto con sentimenti materni. Forza divina e tenerezza materna si ab-bracciano senza contrasto nel Dio d’Israele.

     Il v. 14 assicura che la descrizione fatta fin qui non è un miraggio. Essa sarà una realtà visibile e la sua vista sarà il sollievo definitivo del popolo provato. Le ossa spezzate sono il segno più evidente della tribolazione e del peccato (cf. Sal 31,11; 51,10). Il loro vigore ritrovato e paragonato all’erba primaverile, primizia di vita, è un ulteriore, tangibile segno del perdono concesso da Dio. La manifestazione della mano del Signore, cioè della sua forza operante, sarà salvezza per Israele, rovina per i suoi nemici.

Seconda lettura: Galati 6,14-18

        Fratelli, quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo. Non è infatti la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura. E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio. D’ora innanzi nessuno mi procuri fastidi: io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo. La grazia del Signore nostro Gesù Cristo sia con il vostro spirito, fratelli. Amen.      
  • Si tratta dei versetti finali della lettera e ne costituiscono una buona sintesi. In riferimento al v. 11 si potrebbe quasi dire che si tratta di ipsissima verba, dell’apostolo, ma al di là di questa esagerazione esse appartengono alla parte autografa con la quale Paolo ha concluso lo scritto come segno di autenticità della missiva.

     Il v. 14 si capisce meglio se non si perde il contrasto con quello precedente nel quale si parla del vanto dei circoncisi. Essi lo ripongono nell’avere proseliti, in un incremento numerico di coloro che sono sottoposti alla legge. Per essi dunque i galati sono uno strumento della loro vanagloria. Si dovrebbe rileggere a questo proposito 4,12-20 per comprendere come i giudaizzanti non avevano sentimenti corretti verso i galati, mentre Paolo li amava teneramente: 4,19. C’è anche un altro contrasto che non va perso e che è da ricercare nell’esperienza personale di Paolo. Anch’egli un tempo si vantava della pratica della legge e della circoncisione come lui stesso dice in 2Cor 11,21b-22; Fil 3,4-6. A quel periodo della sua vita fa cenno anche nella stessa lettera ai galati: 1,13-14. Ora tutto è cambiato, l’unico vanto che gli è rimasto è la croce. Non è una novità nel pensiero dell’apostolo. Già in 1Cor 1,31 mentre Paolo parla della sapienza della croce scrive: «chi si vanta si vanti nel Signore». Ma ora il legame tra croce e vanto è ancora più stretto, veramente personale. In 2,1.9 Paolo aveva già dichiarato di essere stato crocifisso con Cristo e in 5,24 aveva dichiarato che quelli che sono in Cristo Gesù hanno crocifisso la carne con i suoi desideri e le sue passioni. Qui Paolo riprende quelle dichiarazioni. La croce lo ha estraniato al mondo e gli ha dato una nuova sapienza (cf. 1Cor 1,17-1,16). Se poi volessimo prescindere da una ricerca tecnica del significato della parola mondo ci potremmo indirizzare verso Fil 3,7-11 dove Paolo dice di voler diventare conforme a Cristo nella morte (v. 10) e fa questa affermazione alla fine di un brano in cui ha dichiarato di aver abbandonato la pratica della legge come strumento per arrivare alla giustizia.

     Nei vv. 15-16 Paolo sembra puntare su quanto è essenziale, cioè essere una nuova creatura. Leggendo 2Cor 5,14-17 si comprende meglio il significato di quello che viene detto qui. L’essere nuova creatura è il frutto dell’amore di Cristo e della sua morte. La norma dunque è quella di non vivere più per se stessi, ma per Gesù, una norma che da pace a tutti, anche ad Israele che per Paolo è pure destinato alla salvezza (Rm 11,26).

     Il v. 17 presenta il motivo per cui Paolo chiede che non venga più contestato e rattristato: egli è conformato anche fisicamente a Gesù. Chi sa se si tratta delle stigmate come ce le immaginiamo noi per alcuni mistici?

     Molto più probabilmente Paolo allude qui a tutto quello che ha sofferto nell’annuncio del vangelo e che l’apostolo narra in 2Cor 6,4-5; 11,23-25. Sono queste sofferenze che egli ha sopportato per il vangelo a costituire il segno più chiaro della sua appartenenza a Gesù. In 1,10 si è dichiarato servitore (doulos), schiavo di Cristo. Nell’antichità gli schiavi portavano il marchio del loro padrone. Le cicatrici rimaste sul corpo di Paolo per le ferite ricevute durante l’apostolato lo dichiarano senza equivoco alcuno proprietà di Gesù.

     Il v. 18 è un saluto affettuoso di ispirazione liturgica.

Vangelo: Luca 10,1-12.17-20

         In quel tempo, il Signore designò altri settantadue e li inviò a due a due davanti a sé in ogni città e luogo dove stava per recarsi. Diceva loro: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe! Andate: ecco, vi mando come agnelli in mezzo a lupi; non portate borsa, né sacca, né sandali e non fermatevi a salutare nessuno lungo la strada. In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”. Se vi sarà un figlio della pace, la vostra pace scenderà su di lui, altrimenti ritornerà su di voi. Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa. Non passate da una casa all’altra.  Quando entrerete in una città e vi accoglieranno, mangiate quello che vi sarà offerto, guarite i malati che vi si trovano, e dite loro: “È vicino a voi il regno di Dio”. Ma quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle sue piazze e dite: “Anche la polvere della vostra città, che si è attaccata ai nostri piedi, noi la scuotiamo contro di voi; sappiate però che il regno di Dio è vicino”. Io vi dico che, in quel giorno, Sòdoma sarà trattata meno duramente di quella città». I settantadue tornarono pieni di gioia, dicendo: «Signore, anche i demòni si sottomettono a noi nel tuo nome». Egli disse loro: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore. Ecco, io vi ho dato il potere di camminare sopra serpenti e scorpioni e sopra tutta la potenza del nemico: nulla potrà danneggiarvi. Non rallegratevi però perché i demòni si sottomettono a voi; rallegratevi piuttosto perché i vostri nomi sono scritti nei cieli».                

Esegesi

     Il brano presenta l’inizio e la conclusione della missione dei settantadue discepoli, omettendo i vv. 13-16 del capitolo 9 in cui Gesù si lamenta fortemente per la mancanza di fede di Corazin, Betsaida e Cafarnao in cui ha operato miracoli senza ottenerne la conversione.

     v. 1 – Il soggetto che agisce è Gesù nella sua qualità di «Signore», quindi nella sua veste regale. Come un sovrano, egli invita davanti a sé degli araldi con l’incarico di preparare la sua venuta. Ciò da già una prospettiva particolare alla missione, essa non è opera autonoma, annuncio di un proprio messaggio, ma preparazione di una presenza superiore realmente salvifica. Non si dimentichi che il titolo «Signore» indica Gesù nella sua nuova condizione di risorto, quindi qui Luca non vuole semplicemente narrare un fatto accaduto nel passato egli descrive l’attualità della Chiesa alla quale il suo «Signore» non lascia mancare gli annunciatori della salvezza. Luca stabilisce anche una salvaguardia alla unicità del ministero dei dodici. Questi settantadue vengono qualificati come «altri». Non si deve però pensare ad evangelizzatori di rango inferiore, perché all’origine del loro ministero c’è il medesimo gesto che Gesù ha compiuto per i dodici: «li inviò» (9,2). Il numero 72 e preso dalla versione greca (LXX) di Gen 10 dove viene data la tavola dei popoli ampliata di due unità rispetto all’originale ebraico. Il numero è dunque altamente simbolico, di una simbologia particolarmente cara a Luca, così interessato all’evangelizzazione dei pagani. Essa non risulterebbe così per lui esclusa dall’intenzione del Gesù terreno. I discepoli sono mandati a due a due per sottolineare l’attendibilità della loro testimonianza in base ai parametri della legge giudaica: Dt 17,6; 19,15.

     v. 2 – L’immagine della messe non ha, in questo caso sapore escatologico (cf. Gl 4,13; Is 27,12). Si tratta di completare l’opera di Gesù al quale è toccato il compito della semina (Lc 8,4-8). Luca, profondamente coinvolto nella missione paolina aveva un senso drammatico della vastità della missione. Nonostante questo, egli pone un principio preciso e irrinunciabile: l’esito della messe non dipende dallo sforzo umano, è unicamente nelle mani di Dio, padrone del vasto campo dell’evangelizzazione. Questa consapevolezza viene posta a fondamento della preghiera fiduciosa. La sproporzione altissima tra immensità del campo e quantità di operai può essere colmata solo dall’esaudimento della preghiera fiduciosa per avere le forze necessarie.

     vv. 3-9 – Le istruzioni pratiche per la missione sono precedute da un’immagine che crea subito il clima nel quale la missione sarà portata avanti. Gli inviati saranno agnelli in mezzo ai lupi, lavoreranno dunque in un ambiente ostile e aggressivo. In quelle condizioni però essi devono rinunciare alla violenza e mantenersi nello spirito del discorso della pianura (Lc 6,27-35). L’equipaggiamento del missionario cristiano deve essere estremamente sobrio. Questa sobrietà va notata specialmente in Luca così sensibile al tema della povertà. Il fatto che i missionari non salutino nessuno lungo il cammino non è un invito alla maleducazione, ma una sottolineatura dell’urgenza della missione. L’ordine sarebbe meglio compreso se si conoscessero direttamente i costumi dell’antico vicino oriente che prevedevano per i saluti un cerimoniale complimentoso e ripetuto.

     Ancora più importante tuttavia è il contenuto dell’annuncio. Il missionario è portatore di pace. Questa parola che costituisce il saluto tipico ebraico ha però un contenuto preciso. La pace è la caratteristica dell’epoca messianica (Is 9,5-6) e per conoscerne il contenuto basterebbe rileggere il salmo 72. Quel programma del re ideale, il messia appunto, viene realizzato in pieno da Gesù e i missionari devono essere i prosecutori della sua opera. Con la missione cristiana si estende il dominio pacifico di Gesù «da mare a mare e dal fiume sino ai confini della terra» (Sal 72,8). Ma ancora più interessante sarebbe riascoltare i vv. 12-14 del salmo che sono una sintesi di quanto Gesù ha compiuto nel suo ministero e una indicazione valida di programma per il missionario cristiano come certifica il v. 9 del nostro brano. I malati saranno i primi destinatari dell’annuncio e la loro guarigione è il segno che il regno si è realmente avvicinato. Viene così ripreso il contenuto della missione dei dodici: 9,2. Il saluto di pace deve essere dato prima di entrare in casa; è la condizione per verificare se vi è disponibilità ad accogliere il messaggio. Accertata questa condizione il missionario può restare senza scrupolo di pesare su chi lo ospita e senza chiedere di più rispetto all’ospitalità che viene offerta. Chi sa che non si trovi qui la problematica affrontata in 1Cor 9,4-18 dove si trova un detto di Gesù non registrato alla lettera dai vangeli. «Così anche il Signore ha disposto che quelli che annunciano il vangelo vivano del vangelo». Il divieto di passare di casa in casa verte ad evitare la dispersione e la tentazione di cercare un alloggio migliore. Per il v. 8 invece la questione è diversa. Viene affrontato il problema della promiscuità di cibo con i pagani. Mt e Mc non affrontano il problema nei loro discorsi missionari. Nella chiesa primitiva si trattava però di una questione molto sentita, basti pensare a Gal 2,11-14. Qui Luca si rifà ad una istruzione data da Paolo in 1Cor 10,27 e risulterà utile l’accostamento a At 10,9-16 in cui Pietro attraverso una visione riceve dal cielo la dichiarazione del superamento del problema della purità legale in ambito alimentare, visione che prelude all’accoglienza dei pagani nella Chiesa come avverrà con il battesimo di Cornelio (At 10,34-48).

     vv. 10-12 – La missione cristiana non è garantita di successo, lo scacco, il rifiuto sono più di una probabilità. In questo caso si deve seguire il costume orientale di scuotere la polvere dai piedi, gesto che dice dissociazione totale. Con chi rifiuta positivamente e consapevolmente il vangelo il messaggero non vuole avere nulla da spartire neanche la polvere della città che è rimasta attaccata ai suoi piedi. Anzi il rifiuto del vangelo attira un giudizio ben più grave di quello riservato a Sodoma che secondo la Bibbia è l’iperbole del male. Il peccato di Sodoma non segna il limite della perversione. C’è un peccato più grande: la chiusura di fronte al vangelo.  

     vv. 17-20 –  In 9,1 Gesù aveva dato ai dodici il potere di scacciare i demoni. Nel discorso appena commentato non se ne è fatto cenno, ma doveva essere incluso se i settantadue di fatto hanno operato esorcismi con successo. Il risultato positivo della missione ha riempito gli inviati di gioia. Il tema è assai caro a Luca che vede la gioia come la reazione umana alla salvezza operata da Dio. I settantadue sono ora il soggetto di quel sentimento e diventano così l’eco universale della gioia per la salvezza che si diffonde. Il detto su Satana è più problematico.  Se ci rifacciamo a Gb 1,6-12; 2,1-7 3 Zc 3,1 in cui Satana è presentato come accusatore degli uomini davanti a Dio nel cielo significa che questa sua attività è finita, gli uomini davanti a Dio non hanno più accusatori. Se ci riferiamo a Ap 12 7-10 si alluderebbe al combattimento finale contro Satana dal quale Dio esce vincitore. Si prospetta pertanto la vittoria apocalittica. In ogni caso l’attività esorcistica dei missionari con risultati positivi è sintomo chiaro della vittoria definitiva sulle forze diaboliche. Da ultimo Gesù svela agli inviati il motivo vero della gioia: non tanto i fatti eccezionali di cui sono protagonisti nella missione bensì la conoscenza personale che Dio ha di loro e che sarà la loro eredità. I loro nomi infatti sono scritti in cielo.

Meditazione

     Un annuncio di consolazione e di gioia parte da Gerusalemme e raggiunge il mondo intero; la gioiosa notizia della salvezza, l’evangelo della pace non cessa di risuonare e di richiamare all’unità l’Israele di Dio disperso. Simbolicamente questo annuncio unisce i testi della Scrittura proposti dalla liturgia della Parola di questa domenica. «Rallegratevi con Gerusalemme, esultate per essa tutti voi che l’amate… Io vi consolerò; a Gerusalemme sarete consolati» (Is 66,10.13): è questo l’annuncio pieno di gioia che il profeta proclama al popolo di Israele che sta giungendo nella città amata dopo il lungo esilio babilonese. Gerusalemme ritorna ad essere una madre feconda e in questa maternità piena di tenerezza si riflette la compassione stessa di Dio quell’amore inesprimibile che infonde pace e che solo l’esperienza di una madre che ha cura del suo figlio può fare intuire: «…sarete allattati e portati in braccio e sulle ginocchia sarete accarezzati. Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò…» (Is 66,12-13). La stessa gioia colma di pace risuona nell’evangelo affidato da Gesù ai discepoli: «Pace a questa casa è vicino a voi il regno di Dio!» (Lc 10,5.9). Ma l’orizzonte che si apre sotto lo sguardo del discepolo non è più ristretto nei limiti di una città: è come un campo immenso e colmo di grano maturo che deve essere raccolto, è l’abbondanza di una umanità che deve essere salvata, a cui l’evangelo porta la pace e la gioia (cfr. Lc 10,2). L’evangelo che rende vicino il Regno e che dona la consolazione ha però un volto: quello di Gesù, quello dell’amore fedele di Dio che non si arresta di fronte alle resistenze e alle infedeltà dell’uomo. L’evangelo della pace ha il volto del Crocifisso, della parola rifiutata e continuamente donata. Il discepolo che annuncia pace e consolazione, che guarisce e dona la salvezza, ha una sola forza che lo sostiene per le strade del mondo: la croce di Cristo. Stupendamente lo esprime Paolo concludendo la sua lettera ai Galati: «…non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo… e su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio» (Gal 6,14.16).

     Il discepolo che è chiamato a donare l’evangelo al mondo deve farlo con lo stile stesso di Gesù. Ed è su questo aspetto che si sofferma maggiormente il discorso missionario di Luca al cap. 10 relativo all’invio dei settantadue discepoli. Nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli si riflette la responsabilità della missione, della missione della comunità ecclesiale e di ogni singolo in essa, la posta in gioco dell’annuncio (il regno di Dio) e la conseguente trasparenza di stile e radicalità con cui questo deve essere proclamato. E si potrebbe dire che questa trasparenza è motivata anzitutto dal fatto che il discepolo inviato ad annunciar il Regno è colui che precede il volto di Gesù: «(Gesù) mandò messaggeri davanti a sé e questi si incamminarono…» (Lc 9,52).

     Nella storia, nel mondo, il discepolo annuncia la venuta del Signore, l’approssimarsi del suo regno; ma gli occhi del discepolo sono sempre rivolti a Colui che annuncia e senza questa continua relazione di sguardi, la parola proclamata diventa solo parola umana. L’inviato non deve mai dimenticare che è il Signore a mandarlo nel mondo come apostolo – «…ecco, io vi mando» (10,3) – e che il contenuto dell’annuncio è il regno di Dio, qualcosa che non gli appartiene e che ha ricevuto gratuitamente (cfr. Mt 10,8).

     Lo stile e, nello stesso tempo, la forza dell’annuncio sono custoditi nel paradosso: debolezza, mancanza di mezzi, pericolo, rifiuto, ma anche fiducia, libertà, pace, salvezza, accoglienza. L’immagine della messe immensa e abbondante con cui Gesù apre il suo discorso, contrasta con lo sparuto gruppo di ‘mietitori’ chiamati a lavorare il questo campo. Eppure sta qui, in questo contrasto, la forza della missione: «Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!» (10,2). I discepoli, consapevoli di essere piccolo gregge a cui è affidato un compito immenso, si aprono così alla lucida consapevolezza che il regno non è loro, ma di Dio: lui ha cura affinché esso cresca e raggiunga gli estremi confini della terra. Lo stile della missione allora si nutre della preghiera: essa è il segno umile di chi lavora in un campo che non è suo, sapendo che ciò che ha seminato sicuramente crescerà, nei tempi e nei modi che Dio stesso, il signore della messe, sceglie.

     C’è tuttavia una seconda immagine che presenta la missione dei discepoli come un cammino fatto di contrasti e confronti: il discepolo è come un agnello mandato non in un recinto sicuro, ma in mezzo a dei lupi (cfr. v. 3). Il discepolo deve essere cosciente che la parola annunciata provocherà tensioni e giudizio; è una parola di salvezza, ma deve essere accolta. E la sua valenza di giudizio può provocare rifiuto. Questo determina tutto un modo di porsi di fronte al mondo, modo che Gesù descrive attraverso simboli e atteggiamenti. Il rapporto con il mondo è delicato: c’è un rischio ed è quello che potrebbe trasformare il discepolo o in un carrierista che cerca successi e consensi oppure in uno spietato giudice nei confronti del mondo cattivo e crudele. Non è questo lo stile che Gesù insegna al discepolo. Questi non deve mai dimenticare che è inviato al mondo e ogni uomo è il destinatario dell’evangelo; il mondo è ‘capace’ dell’evangelo. Ma nel mondo agisce anche una logica idolatrica, anti-evangelica: da questa deve guardarsi il discepolo. Ecco allora la radicalità della testimonianza che deve rendere trasparente l’essenziale dell’annuncio: niente di superfluo nei mezzi usati (e qui Lc 10,4, nell’elencare l’equipaggiamento, è ancora più radi-cale di Mc 6,8-9). E poi una libertà da legami e logiche di potere: lo stile del discepolo deve esser discreto e convincente allo stesso tempo, aperto ad ogni uomo, lontano da un certo mondo caratterizzato dal vuoto verbalismo e dalla ricerca di beni (cfr. vv. 4-8). Nella precarietà (accoglienza o rifiuto), il discepolo impara a non preoccuparsi di se stesso, della riuscita o meno del suo annuncio, ma solo del dono contenuto in questo annuncio, la pace e la salvezza che Dio offre ad ogni uomo (cfr. vv. 9-10).

     Il discepolo che si lascia plasmare da questo stile è sicuro della riuscita della sua missione? Sì e no. Il discepolo sa che questo stile è quello vissuto da Gesù e quindi, misteriosamente, sa che in esso è custodita la forza del regno che, come chicco nascosto sotto terra, produrrà il frutto abbondante. Ma lo sguardo del discepolo, umanamente, può incontrare il fallimento, nonostante tutto: «…quando entrerete in una città e non vi accoglieranno, uscite sulle piazze e dite: …sappiate però che il regno di Dio è vicino» (v. 10-11). La radicalità dell’annuncio incontra nel rifiuto la prova e la spogliazione più dura: il discepolo è chiamato a staccarsi anche da una legittima gratificazione, cioè vedere l’evangelo accolto. Un annuncio che si avvale solo della parola e della testimonianza in favore del Regno, può essere esposto al rischio del fallimento; così è avvenuto per Gesù, così avviene per il discepolo. Il Regno però non si ferma: nonostante tutto deve essere annunciato. Il discepolo sa che, tra il rifiuto e il giudizio (cfr. vv. 13-15), il Signore pone un tempo di pazienza e di conversione e questo tempo può veramente diventare, nuovamente, la forza per riprendere l’annuncio. Il discepolo è un umile e povero operaio nella messe del Signore: questa è la sua vera gioia.

Don Bosco commenta il Vangelo

XIV domenica del tempo ordinario

Bisogno di operai per la messe

Ai settantadue discepoli Gesù diceva: “La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!” (Lc 10,2).

Ne Il cristiano guidato alla virtù ed alla civiltà secondo lo spirito di san Vincenzo de’ Paoli don Bosco scrive a proposito di questo santo:

Ad oggetto che non venissero a mancare gli operai per istruirli, e portarli sul sentiero della virtù e del buon costume, gli riuscì di erigere e stabilire una Congregazione di Preti secolari, con voto dalla Santa Sede approvato, di recarsi di borgata in borgata, di villaggio in villaggio, predicando la divina parola ammaestrando nella dottrina cristiana la gente di campagna senza pretendere, né ricevere da questa retribuzione o corrispettivo di sorta alcuna (OE3 224).

Ecco come don Bosco nel suo libro I Papi da S. Pietro a Pio IX racconta l’inizio dell’evangelizzazione della Francia ad opera dei primi operai:

Durante il corso dei primi secoli un piccolo esercito è mandato in una grande parte della Gallia, non ancora sottomessa, per conquistarla a Gesù Cristo. Questo piccolo esercito è composto di alcuni soldati pacifici, valenti campioni della fede, che si presentano colla croce in mano per rovesciare i templi degli idoli ed innalzare sulle loro rovine gli stendardi del Dio salvatore. Questi sono: Trofimo ad Arles, Paolo a Narbona, Dionigi a Parigi, Gastiano a Tours, Saturnino a Tolosa, Marziale a Limosa, Austremonio nell’Alvergna. Già il sangue dei martiri aveva fecondato, nel secondo secolo, la Chiesa di Lione, che aveva la gloria di contare fra i suoi Vescovi i Potini e gli Irenei. Questa colonia di operai evangelici predica con zelo nella maggior parte delle città la dottrina della salute (OE18 339s). 

Il 15 marzo 1876 i primi missionari salesiani in Argentina scrivendo da Buenos-Ayres lamentavano la scarsità di operai per la grande messe preparata per loro:

Monsignore ed il suo Vicario dottore Espinosa, sempre per noi portatissimo, avrebbero divisato che i Padri Salesiani prendessero i punti più centrali ed importanti della città, ed ogni domenica vi aprissero oratori per gli adulti e fanciulli italiani, unico mezzo per provvedere al bene spirituale di tanti poveretti, che si possono considerare quali pecore erranti lontane dal pastore. Ma lo scarso numero degli operai evangelici fa che i nostri sforzi siano come piccole gocce d’acqua sopra arsiccio terreno. A questo uopo voi potreste farci un gran bene, adoperandovi […] perché ci siano inviati altri missionari (OE38 165).

Anche i Cooperatori salesiani sono invitati a venire in aiuto ai soci della congregazione salesiana che non bastano a rispondere a tutti i bisogni della missione:

È vero che i membri di essa sono cresciuti notabilmente, ma il lor numero è assai lontano dal poter corrispondere alle quotidiane richieste, che si fanno in vari paesi d’Italia, d’Europa, della China, dell’Australia, dell’America e segnatamente della Repubblica Argentina. In tutti questi luoghi si fanno quotidiane richieste di sacri ministri, affinché vadano a prendere cura della pericolante gioventù, che vadano ad aprire Case o Collegi, ad iniziare o almeno sostenere missioni, che sospirano la venuta di evangelici operai. Egli è per accorrere a tante necessità che si cercano Cooperatori (OE28 259).

Nel 1875 don Bosco lanciò l’Opera di Maria Ausiliatrice per le vocazioni allo stato ecclesiastico per giovani adulti che intendono consacrarsi a Dio nello stato ecclesiastico, scrivendo così:

Sono più anni da che si va lamentando il bisogno di operai evangelici, e la diminuzione delle vocazioni allo stato Ecclesiastico. Questa deficienza di vocazioni è sentita in ogni diocesi d’Italia e in tutta Europa; è sentita nelle corporazioni religiose, che mancano di postulanti; nelle missioni estere, che ripetono incessantemente con san Francesco Zaverio: Inviateci degli Operai Evangelici in aiuto. Anzi sappiamo non poche missioni essere in procinto di estinguersi per la sola ragione che mancano di operai Evangelici. È dunque necessità di pregare il Padrone della messe, che mandi operai nella sua mistica vigna: ma alle preghiere unire la nostra Cooperazione (OE27 2).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

Il monumento al Pellegrino sull’Alto del Perdon (Zizur Nagusia-Navarra)   – 2005   

Là dove si incrocia

il cammino del vento

con quello delle stelle.

(Amici del cammino di Navarra)

Isaia 66,10-14 Galati 6,14-18Luca 10,1-12.17-20  Nonostante tutte i nostri sforzi per raggiungere la pace, la giustizia, la sicurezza…un senso di frustrazione pervade a volte la nostra vita. Sono più forti le incertezze (sembra che Dio resti lontano dal suo popolo) che le nostre sicurezze. In queste circostanze è importante ascoltare la voce del profeta: voi che eravate in luto, sfavillate di gioia perché il Signore farà scorrere la pace come in fiume.  Anche l’annuncio dei settantadue discepoli è un messaggio di gioia: il Regno di Dio è vicino a voi; la pace, la giustizia e l’amore trionferanno sul potere delle armi.     La chiesa continua la missione dei settantadue discepoli invitandoci a scoprire la bellezza della vita cristiana e la gioia che nasce dall’essere creature nuove (Gal 6, 15). Che il vento gonfi le nostre vele, per poter danzare con le stelle!       


Preghiere e racconti

La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai!

Inviando gli apostoli a raccogliere la messe, [Gesù] non li invia a mietere la messe di un altro, ma ciò che egli stesso ha seminato per mezzo dei profeti. E non si limita a dar coraggio ai discepoli mostrando che il loro lavoro, il loro ministero consiste nella mietitura di una messe già pronta, ma anche li rende atti a questo ministero. […] Notate come è opportuno il momento scelto dal Signore per la loro missione. Gesù non li invia a predicare prima, quando essi avevano appena cominciato a seguirlo, ma solo dopo che l’hanno seguito e sono stati sufficientemente insieme con lui. […] Li invia a predicare e a compiere miracoli, solo dopo aver offerto loro sufficienti prove della sua potenza, sia con le parole sia con le opere (GIOVANNI CRISOSTOMO, Commento al vangelo di Matteo, Roma 19682, il, 99s.).

Ordinò loro che non prendessero nulla per il viaggio

II Signore non solo ammaestra i dodici, ma li invia due a due perché il loro zelo cresca. Se infatti ne avesse inviato uno solo, quello da solo avrebbe perduto lo zelo. Se d’altra parte li avesse inviati in numero maggiore di due, non ci sarebbero stati apostoli sufficienti per tutti i villaggi. Ne manda dunque due. Due sono meglio di uno, dice l’Ecclesiaste (Qo 4,9). Egli ordina loro di non prendere nulla, né bisaccia, né denaro, né pane, insegnando loro con queste parole il disprezzo delle ricchezze; così meriteranno il rispetto di quelli che li vedranno e, non possedendo nulla di proprio, insegneranno loro la povertà. Chi al vedere un apostolo senza bisaccia ne pane, che è la cosa più necessaria, non resterà confuso e non si spoglierà per vivere nella povertà? Ordina loro di fermarsi in una casa per non acquistare la fama di uomini incostanti […] Dice loro di lasciare quelli che non li accolgono, scuotendo la polvere dai loro piedi. In tal modo mostreranno loro che hanno percorso un lungo cammino inutilmente, oppure che non trattengono nulla che appartenga loro, nemmeno la polvere, che scuotono a testimonianza contro di loro, cioè in segno di rimprovero. […] Essi partirono e predicavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demoni, ungevano di olio molti infermi e li guarivano (Mc 6,12-13). Marco è il solo a riferire che gli apostoli facevano unzioni di olio. Riguardo a questa pratica, Giacomo, il fratello del Signore, dice nella sua lettera cattolica: Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio (Gc 5,14). Così l’olio serve a confortare nella sofferenza. Esso dona la luce e porta la gioia; è simbolo della bontà di Dio e della grazia dello Spirito santo, grazie alla quale siamo liberati dalle nostre sofferenze e riceviamo la luce, la gioia, la letizia spirituale.

(TEOFILATTO, Commento sul vangelo di Marco 6, PG 123.548C-549C)

Il seme

La fecondità della nostra piccola vita, una volta riconosciuta e vissuta come la vita di colui che è Amato, va oltre qualunque cosa si possa immaginare. Uno dei più grandi atti di fede è credere che i pochi anni che viviamo su questa terra sono come un piccolo seme piantato in un suolo molto fertile.

Perché questo seme porti frutto, deve morire. Noi spesso vediamo o sentiamo solo l’aspetto finale della morte, ma il raccolto sarà abbondante anche se noi non ne siamo i mietitori.

(Henri J.M. NOUWEN, Sentirsi amati, Brescia, Queriniana, 2005, 101)

Preghiera

A causa del tuo amore infinito, Signore,

mi hai chiamato a seguirti,

a essere tuo figlio e tuo discepolo.

Poi mi hai affidato una missione

che non somiglia a nessun’altra,

ma con lo stesso obiettivo degli altri:

essere tuo apostolo e testimone.

Tuttavia l’esperienza mi ha insegnato

che io continuo a confondere le due realtà:

Dio e la sua opera.

Dio mi ha dato il compito delle sue opere.

Alcune sublimi, altre più modeste;

alcune nobili, altre più ordinarie.

Impegnato nella pastorale in parrocchia,

tra i giovani, nelle scuole,

tra gli artisti e gli operai,

nel mondo della stampa,

della televisione e della radio,

vi ho messo tutto il mio ardore

impiegando tutte le capacità.

Non ho risparmiato niente, neanche la vita.

Mentre ero così appassionatamente immerso nell’azione,

ho incontrato la sconfitta dell’ingratitudine,

del rifiuto di collaborazione,

dell’incomprensione degli amici,

della mancanza di appoggio dei superiori,

della malattia e dell’infermità,

della mancanza di mezzi…

Mi è anche capitato, in pieno successo,

mentre ero oggetto di approvazione,

di elogi e di attaccamento per tutti,

di essere all’improvviso spostato

e cambiato di ruolo.

Eccomi, allora, preso dallo stordimento,

vado a tentoni, come nella notte oscura.

Perché, Signore, mi abbandoni?

Non voglio disertare la tua opera.

Devo portare a termine il tuo compito,

ultimare la costruzione della chiesa…

Perché gli uomini attaccano la tua opera?

Perché la privano del loro sostegno?

Davanti al tuo altare, accanto all’Eucaristia,

ho sentito la tua risposta, Signore:

«Sono io colui che segui e non la mia opera!

Se lo voglio mi consegnerai il compito affidato.

Poco importa chi prenderà il tuo posto;

è affar mio. Devi scegliere me!».

(Card. F.-X. Nguyen Van Thuan)

La Settimana con don Bosco

28 giugno – 5 luglio 2025

28. (S. Ireneo) “Il sangue dei martiri aveva fecondato, nel secondo secolo, la Chiesa di Lione, che aveva la gloria di contare fra i suoi Vescovi i Potini e gli Irenei” (OE18 339s).

29. (Ss. Pietro e Paolo) La festa di questi apostoli “deve essere venerata con esultanza speciale e propria della nostra città, affinché dove fu glorificato il transito dei principali Apostoli, ivi nel giorno del loro martirio sia il colmo della letizia” (OE18 12).

30. (Ss. Primi Martiri della Chiesa romana) “Gli uni vennero inviluppati con pelli di bestie selvaggie, ed esposti a cani da caccia; altri rivestiti di vestimenta tuffate nella pece legati a pali, e sottopostovi fuoco servivano di fiaccole la notte” (OE1 206s).

1. “Come è mai consolante quel Padre nostro che recitiamo mattina e sera; come fa piacere il pensare che abbiamo in cielo un padre che pensa a noi” (MB5 456).

2. “Io sono persuaso che una muta d’esercizi spirituali porterebbe ottimi effetti se portasse il Salesiano alla recita esatta della Messa e del Breviario” (E9 363).

3. (S. Tommaso) “San Tommaso annunziò Gesù Cristo nelle Indie” (OE1 204).

4. (S. Elisabetta di Portogallo) “O voi tutti, che lavorate, che siete aggravati da pene e da travagli, se volete trovare una sorgente inestinguibile di consolazioni, se volete rendervi fortunati, siate santi!” (OE5 176).

5. (S. Antonio Maria Zaccaria) – “La congregazione dei Chierici Regolari di san Paolo, detti anche Barnabiti, fu instituita (anno 1530) dal venerabile Antonio Maria Zaccaria, sacerdote cremonese” (OE24 274s).

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia,Milano, Vita e Pensiero, 2012.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

SS. PIETRO E PAOLO

Lectio – Anno A

Prima lettura:  Atti 12,1-11

       In quel tempo il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa. Fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni. Vedendo che ciò era gradito ai Giudei, fece arrestare anche Pietro. Erano quelli i giorni degli Azzimi. Lo fece catturare e lo gettò in carcere, consegnandolo in custodia a quattro picchetti di quattro soldati ciascuno, col proposito di farlo comparire davanti al popolo dopo la Pasqua. Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui. In quella notte, quando Erode stava per farlo comparire davanti al popolo, Pietro, piantonato da due soldati e legato con due catene, stava dormendo, mentre davanti alle porte le sentinelle custodivano il carcere.      Ed ecco, gli si presentò un angelo del Signore e una luce sfolgorò nella cella. Egli toccò il fianco di Pietro, lo destò e disse: «Alzati, in fretta!». E le catene gli caddero dalle mani. L’angelo gli disse: «Mettiti la cintura e légati i sandali». E così fece. L’angelo disse: «Metti il mantello e seguimi!». Pietro uscì e prese a seguirlo, ma non si rendeva conto che era realtà ciò che stava succedendo per opera dell’angelo: credeva invece di avere una visione. Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada e a un tratto l’angelo si allontanò da lui.  Pietro allora, rientrato in sé, disse: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva».  
  • L’ultima comparsa di Pietro negli Atti l’abbiamo in 15,7-11, dove si dimostra persona equilibrata e responsabile che cerca di mediare fra due opposte posizioni, a proposito delle condizioni da imporre ai pagani convertiti. Egli è la figura dominante del racconto proprio fino a questo cap. 12, per cedere dopo il ruolo di protagonista a Paolo. L’episodio in esso contenuto, dell’arresto di Pietro e della sua liberazione, si estende fino al v. 19 (la pericope liturgica finisce con il v. 11), e risulta particolarmente colorito per la sua ambientazione, tra la notte e il giorno, nella città di Gerusalemme:

     «Pietro uscì e prese a seguirlo […]10Essi oltrepassarono il primo posto di guardia e il secondo e arrivarono alla porta di ferro che conduce in città; la porta si aprì da sé davanti a loro. Uscirono, percorsero una strada […]12 Dopo aver riflettuto, si recò alla casa di Maria, madre di Giovanni detto anche Marco, dove si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera.

     13Appena ebbe bussato alla porta esterna, una fanciulla di nome Rode si avvicinò per sentire chi era. 14Riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non aprì la porta, ma corse ad annunziare che fuori c’era Pietro».

     Ma le cose più importanti sono, naturalmente, altre: la liberazione prodigiosa che indica come è il Signore a garantire il cammino inarrestabile del Vangelo nel mondo e, poi, la vicinanza della comunità attorno al suo apostolo: «Ora so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutto ciò che il popolo dei Giudei si attendeva» (v. 11); «Mentre Pietro dunque era tenuto in carcere, dalla Chiesa saliva incessantemente a Dio una preghiera per lui» (v. 5).

     «Egli allora, fatto segno con la mano di tacere, narrò come il Signore lo aveva tratto fuori del carcere, e aggiunse: “Riferite questo a Giacomo e ai fratelli”» (v. 17). In questo caso Giacomo, considerato come il capo dei giudeocristiani di Gerusalemme e che guiderà questa chiesa dopo la partenza di Pietro, era parente di Gesù, ed è distinto da Giacomo apostolo, fratello di Giovanni, già messo a morte da Erode (v. 2). L’episodio degli stessi Atti letto nella vigilia (At 3,1 -10) presenta un altro momento importante della vicenda di Pietro che dice: «Non possiedo ne argento ne oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù, il Nazareno, cammina!» (v. 6).

Seconda lettura: 2 Timoteo 4,6-8.17-18 

       Figlio mio, io sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede.  Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione.    Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e tutte le genti lo ascoltassero: e così fui liberato dalla bocca del leone. Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli. Amen.  
  • La lettura dedicata a Paolo riguarda una retrospettiva sulla sua vita passata, prossima alla fine, che gli consente di farne un bilancio davanti a Dio. Nel v. 6 l’immagine della libagione, che nei sacrifici comportava l’uso di vino, acqua e olio (Es 29,40; Nm 28,7), secondo il testo greco non riguarda «il sangue», parola supplita impropriamente nella versione italiana, perché la metafora si applica anche alla morte naturale e non implica per sé una morte cruenta nel martirio.

Veramente la vita di Paolo è stata una battaglia e una corsa per il Vangelo. Ciononostante, egli non si considera in una posizione speciale di fronte a Dio, ma accomunato con gli altri credenti «che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (v. 8b). Giustamente la missione di Paolo viene caratterizzata dal fatto che è stata indirizzata in maniera intenzionale a «tutte le genti» (v. 17). Lo stesso concetto è messo a fuoco nell’appassionato brano autobiografico proposto nella vigilia (Gal 1,11-20) dove si parla dei «pagani», ma si usa in greco anche ethnē (v. 16). Anche qui si ribadisce il dono della rivelazione ricevuta direttamente da Dio (vv. 15-16), analogamente a quanto sottolineato nel macarismo rivolto a Pietro in Mt 16,17. E proprio nello stesso contesto si trova l’eco del conflitto di Paolo con Pietro, i due apostoli associati nell’odierna festività. «[…] visto che a me era stato affidato il vangelo per i non circoncisi, come a Pietro quello per i circoncisi — poiché colui che aveva agito in Pietro per farne un apostolo dei circoncisi aveva agito anche in me per i pagani… Ma quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto» (Gal 2,7-11).

Vangelo: Matteo 16,13-19

        In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti». Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù gli disse: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli. E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa.      A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli».  

Esegesi

     Questo brano evangelico qualificato come il vangelo del «primato», è stato visto nel corso della tradizione da diverse angolazioni, imperniate ora sull’accentuazione e ora sulla contestazione del primato di Pietro che perdura nel ministero petrino del Papa. Noi lo vogliamo ora ricordare per la sua portata ecclesiologica ed ecclesiale, cioè in senso dottrinale e in senso spirituale.

     a) Il contesto

     Nello schema di Mc, seguito da Mt, ci troviamo alla conclusione del ministero pubblico di Gesù in Galilea. D’ora in poi diventa dominante il tema della sua prossima morte a Gerusalemme, sottolineato dai tre annunzi della passione che scandiscono la seconda parte del vangelo; il primo di essi segue immediatamente nei vv. 21-23. La scena si colloca a Cesarea di Filippo che si trova a 50 km a nord del lago di Genezaret, al confine con il territorio pagano. Ora Gesù, non è seguito più dalla folla, ma si trova solo con i suoi discepoli, con i quali tenta un bilancio della predicazione svolta finora, chiedendo quello che su di lui pensa la gente.

     Quindi, alla domanda su cosa ne pensano loro, solo Pietro prende la parola.

     b) Confronto con i Sinottici

     Nella risposta di Pietro, Mt è il più completo («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»), mentre Mc 8,29b («Tu sei il Cristo» e Lc 9,20b «Il Cristo di Dio») sono più semplici. Ma dopo questa confessione di fede, solo Mt contiene la lunga risposta di Gesù dei vv. 17-19, che, dal punto di vista formale, presentano tre strofe di tre righe ciascuna, di cui le ultime due sono costruite con un parallelismo di tipo antinomico.

     e) Il macarismo (v. 17)

     «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli ». Non si hanno altri esempi di macarismi diretti in seconda persona, se non in Dt 33,29a: «Te beato, Israele! Chi è come te, popolo salvato dal Signore? Egli è lo scudo della tua difesa e la spada del tuo trionfo». Anche qui, come nel v. 17 si mette in evidenza il dono di Dio e non un merito umano. Pietro deve ad una rivelazione del Padre la capacità di cogliere nella fede la vera identità di Gesù. La carne e il sangue, l’uomo lasciato a se stesso, non può giungere alla fede.

     d) L’immagine della pietra/roccia (v. 18)

     «E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa». Colui che poco prima è stato identificato come Simone, e ora chiamato Pietro, un nome che consente il passaggio all’immagine della «pietra» che serve a qualificare la funzione che lui è chiamato a svolgere nell’edificio della Chiesa.

     Come in italiano, anche in greco il passaggio dal maschile Pietro (gr. petros) al femminile pietra (gr. petra) non permette di notare la ripetizione della stessa parola aramaica kepha’ (pietra, roccia) che si deve presupporre in entrambi i casi, cosa che rende più evidente un gioco di parola  che deve essere stato intenzionale. Il simbolo della roccia come solido fondamento per la costruzione della casa è richiamato alla fine del discorso della montagna: «Perciò chiunque ascolta queste mie parole e le mette in pratica, è simile a un uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia. Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa non cadde, perché era fondata sopra la roccia» (Mt 7,24s).

     e) L’immagine delle chiavi (v. 19)

     «A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli». Se l’immagine delle chiavi è coerente con quella precedente dell’edificio, nel quale ci deve essere pure un’entrata, non è altrettanto ovvio il passaggio dalle chiavi all’idea di legare e sciogliere, giacche esse rimandano piuttosto alle azioni di entrare ed uscire. Sembra perciò più logico vedere qui sovrapposte due immagini parallele di tipo diverso: le chiavi servono per fare entrare (cf. Is 22,22b: «se egli apre, nessuno chiuderà: se egli chiude, nessuno potrà aprire»), mentre l’azione del legare o sciogliere riguarda un giudizio di tipo dottrinale o disciplinare che sarà ratificato nei cieli.                                               

     Vale ora la pena rileggere alla luce del nostro brano altri passi che parlano di Pietro o del ministero degli Apostoli nel cui quadro anche quello che gli è più specifico trova una sua coerente collocazione.

     j) Gli altri evangelisti su Pietro

     Giovanni riporta una variante della vocazione di Pietro e della sua professione di fede: «Egli (Andrea) incontrò per primo suo fratello Simone, e gli disse: ‘Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)’ e lo condusse da Gesù. Gesù, fissando lo sguardo su di lui, disse: ‘Tu sei Simone, figlio di Giovanni; ti chiamerai Cefa (gr. kêphas) (che vuol dire Pietro)» (Gv 1,41s); si notino le differenze tra Mc 1,16-18, Mt 4,16-20 e Lc 5,11.

     «E (Gesù) continuò: “Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre mio”. Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: “Forse anche voi volete andarvene?”. Gli rispose Simon Pietro: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio”» (Gv 6,65-69).

     Luca ci riporta questa particolare confidenza fatta da Gesù a Pietro nell’ultima cena: «“Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come grano: ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli”. E Pietro gli disse: “Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte”.

     Gli rispose: “Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi”». (Lc 22,31-34).

     g) Gli altri Apostoli (in Mt)

     «Quelli che erano sulla barca gli si prostrarono davanti, esclamando: “Tu sei veramente il Figlio di Dio!”» (Mt 14,33): è questa una confessione di fede uguale a quella che si incontrerà in Mt 16,16. La missione fondamentale degli Apostoli riguarda la disciplina all’interno della comunità (Mt 18,18) e, soprattutto, la predicazione: «In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo» (18,18); «E Gesù, avvicinatesi, disse loro: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra.

     Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”» (28,18-20). Con queste parole finali del Risorto la missione degli Apostoli e quella di Pietro ricevono la loro suprema legittimazione e il loro perenne fondamento. Ed è proprio in una apparizione del Risorto che si colloca il rinnovato conferimento del primato a Pietro, letto nella messa della vigilia, che pure allude alla fine alla sua fedeltà fino al martirio (Gv 21,15-19; v. 19).

Meditazione

     Al cuore della celebrazione odierna vi è la memoria di Pietro e Paolo. Il pescatore di Galilea reso pescatore di uomini e il fariseo zelante della Legge, il persecutore dei cristiani, conquistato da Gesù Cristo e reso apostolo delle genti; Pietro, il primo del gruppo dei Dodici e Paolo, che di quel gruppo non ha fatto parte e non ha conosciuto Gesù storicamente, ma è stato reso apostolo per volontà del Signore; Pietro, l’apostolo dei circoncisi, e Paolo, l’apostolo degli incirconcisi. Vie differenti, vite diverse, itinerari distanti, personalità entrate in conflitto tra di loro (cfr. Gal 2,11 ss.), eppure, in Cristo, entrambi affratellati a tal punto che i loro cammini esistenziali hanno trovato in Roma il luogo del martirio. Un unico cammino di obbedienza al Cristo Signore conduce entrambi, nelle differenze che li caratterizzano, a dare la vita per il Signore.

     Se il vangelo è centrato sulla figura di Pietro e sul suo mandato ecclesiale, la prima e la seconda lettura riguardano momenti dell’esperienza della sofferenza apostolica di Pietro (At 12: l’incarcerazione di Pietro) e di Paolo (2Tm 4: prossimità alla morte di Paolo).

     La prima lettura presenta un frangente particolarmente critico della giovane comunità cristiana di Gerusalemme. Giacomo è stato decapitato; Pietro incarcerato: chi sosterrà la comunità? Di fronte alle persecuzioni che si abbattono sui suoi capi, la comunità prega. Una particella greca con valenza avversativa (At 12,5: « ma una preghiera… » ) dice che la preghiera è la forma con cui la comunità cristiana vive la sua lotta contro i potenti del mondo che scatenano persecuzioni e violenze. Con la preghiera la comunità rimane vicina a Pietro in carcere e intercede per lui, «combatte con e per lui» (come afferma l’insegnamento paolino sulla preghiera: cfr. Rm 15,30; Col 4,12), manifesta la sua obiezione nei confronti della prepotenza dei potenti, persevera nella fede e non si piega agli eventi avversi.

     Nella seconda lettura Paolo, al termine della sua esistenza, in prossimità ormai del traguardo, guarda la sua vita come a ritroso, a partire dal momento finale che sa vicino: e la considerazione che più colpisce è che egli constata di aver conservato la fede (2Tm 4,7). Gesù, in un momento critico del proprio cammino esistenziale, aveva pregato per Pietro, perché la sua fede non venisse meno (Lc 22,32). Paolo, al termine della sua vita, con umile fierezza e senso di gratitudine, riconosce di aver conservato la fede. Al termine di una vita spesa per l’evangelizzazione, la missione, la predicazione della parola, il servizio del vangelo, la fondazione e l’organizzazione di comunità cristiane, Paolo ricorda il suo essere ancora un credente. A dire che la fede non può mai essere data per scontata, anche per gli uomini di chiesa. Forse la grande fatica apostolica è proprio questa: conservare la fede.

     Pietro viene proclamato beato da Gesù perché la confessione di fede in lui quale Messia e Figlio di Dio è frutto di rivelazione del Padre (Mt 16,17), così come Paolo affermerà che è per rivelazione di Dio che egli ha conosciuto l’evangelo e il Figlio Gesù Cristo (Gal 1,12.16). Sia Pietro che Paolo rientrano fra quei piccoli a cui la conoscenza delle cose di Dio, ed essenzialmente la conoscenza di Gesù, in cui si sintetizza il tutto di Dio, viene consegnata per rivelazione, per dono divino (Mt 11,25-27). È la conoscenza pneumatica di Gesù, la relazione con lui, l’amore per lui, sono il cardine attorno a cui ruota il ministero di Pietro e di Paolo.

     Alla confessione di Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16,16), risponde la parola di Gesù: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia chiesa» (Mt 16,18). Pietro sa bene (come anche Paolo: 1Cor 3,11) che non vi è altra pietra di fondamento dell’edificio della chiesa al di fuori del Cristo risorto (1Pt 2,4 ss.). Ma attraverso le immagini della roccia, delle chiavi e del potere di sciogliere e legare, Pietro è stabilito come il necessario punto di autorità e di comunione nella chiesa. Non la sua persona (il sangue e la carne) da stabilità alla chiesa, ma la sua fede che rinvia a Colui che è il Signore della chiesa.

Don Bosco commenta il Vangelo

SS. Pietro e Paolo

Le due colonne della Chiesa

All’inizio della sua Vita di S. Paolo apostolo don Bosco evoca le due colonne della Chiesa cominciando dalla figura di san Pietro:

San Pietro è il principe degli Apostoli, primo Papa, Vicario di Gesù Cristo sopra la terra. Egli fu stabilito Capo della Chiesa; ma la sua missione era particolarmente diretta alla conversione degli Ebrei. San Paolo poi è quell’Apostolo che fu da Dio in maniera straordinaria chiamato a portare la Luce del Vangelo ai Gentili. Questi due gran Santi sono dalla Chiesa nominati le colonne e le fondamenta della Fede, principi degli Apostoli, i quali colle loro fatiche, coi loro scritti e col loro sangue c’insegnarono la legge del Signore: Ipsi nos docuerunt legem tuam, Domine. Per questo motivo alla vita di san Pietro facciamo succedere quella di san Paolo. È vero che questo apostolo non è da annoverarsi nella serie dei papi; ma le fatiche straordinarie da lui sostenute per aiutare san Pietro a propagare il Vangelo, lo zelo, la carità, la dottrina lasciataci nei sacri libri, ce lo fanno parer degno di essere posto a lato della vita del primo Papa, come forte colonna su cui si appoggia la Chiesa di Gesù Cristo (OE9 169s).

Nella Figlia cristiana provveduta, don Bosco presenta sotto forma di domande e risposte la dottrina cattolica sull’apostolo Pietro:

D. Con quali parole Gesù Cristo stabilì san Pietro capo della Chiesa?

   R. Gesù Cristo stabilì san Pietro capo e fondamento della Chiesa con queste parole: Tu sei Pietro e sopra questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’inferno non potranno mai prevalere contro di essa.

D. Che parte ha dunque san Pietro nella Chiesa?

   R. Pietro nella Chiesa opera quello che fanno le fondamenta in un edificio. Ogni parte di un edifizio che non appoggi sopra le fondamenta non può reggersi e rovina certamente. Così ogni credenza, ogni autorità, ogni Chiesa che non riconosca l’autorità di Pietro e non sia alla medesima ubbidiente, non appartiene più alla Chiesa di Gesù Cristo, perché non è appoggiata sopra il vero fondamento della Chiesa, che, come dice san Paolo, à quella grande colonna sopra cui appoggia ogni verità. Ecclesia Dei est columna et firmamentum veritatis. […]

D. Con quali parole Gesù Cristo diede tale autorità al capo della Chiesa?

   R. Gesù Cristo diede tale autorità al capo della Chiesa colle parole dette a san Pietro: Tutto ciò che tu scioglierai in terra sarà anche sciolto ne’ cieli; e tutto ciò che tu legherai sulla terra sarà anche legato nei cieli (OE33 572ss).

Nella sua Vita di san Pietro principe degli Apostoli don Bosco spiega le immagini usate da Gesù per parlare della missione di Pietro:

Sul fondamento si fabbrica tutta la casa, affinché su di esso sostenendosi duri ferma ed immobile. Sopra di te, che io chiamo Pietro, come sopra di una pietra fermissima, per mia virtù eterna, io innalzo l’eterno edifizio della mia Chiesa la quale sopra di te appoggiata starà forte ed invitta contro a tutti gli assalti dei suoi nemici. Non vi è casa senza fondamento, non vi è Chiesa senza di Pietro.

Le porte dell’inferno, siccome spiegano i Santi Padri, significano le eresie, gli eresiarchi, le persecuzioni, i pubblici scandali e generalmente tutti i peccati e i disordini che il demonio cerca di far nascere nella Chiesa: le quali cose potranno bensì muovere aspra guerra alla Chiesa, e turbarne lo spirito pacifico, ma non la potranno mai vincere.

Le chiavi sono il simbolo della podestà. Quando si presentano le chiavi di una città ad un re si vuole significare, che quella città lo riconosce per suo signore. Così le chiavi del regno de’ cieli, cioè della Chiesa, date a Pietro, dimostrano che esso è fatto principe e governatore supremo della Chiesa.

Gesù Cristo soggiunge a Pietro: e tutto quello che legherai sulla terra, sarà altresì legato nei cieli, e tutto quello che scioglierai in terra, sarà pure sciolto in cielo. Le quali parole indicano manifestamente, l’autorità suprema data a Pietro, autorità di obbligare la coscienza degli uomini con decreti e leggi in ordine al loro bene spirituale ed eterno, e l’autorità di scioglierli dai peccati e dalle pene che impediscono lo stesso bene spirituale ed eterno (OE8 320ss).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

«El peine de los vientos» (Eduardo Chillida-San Sebastián)   –    2018   

«VITA, SI UTI SCIAS,

LONGA EST»

[«LA VITA, SE LA SAI USARE, È LUNGA»]

(Seneca, De brevitate vitae)

Preghiere e racconti

Conferma i tuoi fratelli

     Il nostro Salvatore e Signore disse a Pietro: «Simone, Simone, ecco che Satana ha ottenuto di vagliarvi come grano e io ho pregato per te affinché non venga meno la tua fede; ma tu, una volta ritornato a me, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22,31-32). È come se dicesse: «Io ti sostengo quando vacilli e così anche tu sii un appoggio per quelli dei tuoi fratelli che sono turbati e accorda loro un po’ della protezione di cui godi. Non spingere quelli che stanno per scivolare, ma nel pericolo rialzali. Io consento che tu inciampi, ma non ti lascio cadere affinché tu mi aiuti a tenere in piedi quelli che vacillano. Così Pietro, questa grande colonna, ha sostenuto tutti quelli che vacillavano e ha impedito loro di crollare; li ha rialzati, li ha resi più saldi e, incaricato di pascolare il gregge di Dio, accettava di essere insultato a causa del gregge e, sotto i colpi, gioiva. Uscendo dal sinedrio malvagio gioiva con il suo compagno perché aveva meritato di essere maltrattato per il nome del Signore (cfr. At 5,41). Gettato in prigione, era contento e tutto felice. Quando, sotto Nerone, fu condannato a morire sulla croce per il Crocifisso, pregava i carnefici di non inchiodarlo nello stesso modo del Signore, ma nel senso contrario, per timore, sembra, che il subire la croce nello stesso modo producesse un’uguale venerazione da parte degli ignoranti. Per questo supplicò che lo si inchiodasse con le mani in basso e i piedi in alto. Aveva imparato, infatti, a scegliere l’ultimo posto, non soltanto nell’onore, ma anche nella vergogna. E se avesse potuto morire dieci volte, cinquanta volte, lo avrebbe accettato volentieri perché ardeva del desiderio di Dio. Anche il divino Paolo esclamava la stessa cosa; talora diceva: «Ogni giorno rischio la morte, come è vero che voi siete il mio vanto in Cristo Gesù» (1Cor 15,31), e tal’altra: «Sono crocifisso con Cristo; non sono più io che vivo è Cristo che vive in me» (Gal 2,20).

(TEODORETO DI CIRO, Sulla divina carità 12-13, SC 257, pp. 290-292).

Il fascino di Paolo 

Vorremmo in questo breve spazio far risaltare una figura di altissimo rilievo nel Nuovo Testamento, quella di Paolo, l’apostolo per eccellenza al quale sono attribuite dal Canone 13 lettere. San Girolamo, il grande traduttore e interprete della Bibbia, non aveva esitato a scrivere che Paolo «non si preoccupava più di tanto delle parole, una volta che aveva messo al sicuro il significato».

E, secoli dopo, un altro grande studioso delle Scritture, Erasmo da Rotterdam, morto nel 1536, ribadiva che, «se si suda a spiegare le idee di poeti e oratori, con questo scrittore (Paolo) si suda ancor più a capire cosa voglia e a che cosa miri». Il suo effettivamente è un linguaggio strano, travolto dall’irrompere del suo pensiero e della sua passione: egli impedisce che l’incandescenza del messaggio da comunicare si raggeli negli stampi freddi dello stile e delle regole, insomma di un bel testo.

Ma proprio questa ribellione diventa la ragione del fascino che l’apostolo ha sempre esercitato coi suoi scritti, a partire dal vescovo e grande oratore francese Bossuet che in un panegirico del 1659 esaltava «colui che non lusinga le orecchie ma colpisce diritto al cuore», mentre un altro francese, il romanziere Victor Hugo nel suo William Shakespeare (1864) inseriva Paolo tra i genii, «santo per la Chiesa, grande per l’umanità, colui al quale il futuro è apparso: nulla è superbo come questo volto stupito dalla vittoria della luce».

Conquistato dall’apostolo e dai suoi scritti era stato anche Pier Paolo Pasolini che nel 1968 aveva pensato di dedicargli un film del quale è rimasto solo un abbozzo di sceneggiatura, pubblicato postumo nel 1977 col titolo San Paolo (ed. Einaudi). Il notissimo scrittore e regista pensava di trasporre la vicenda e il messaggio dell’apostolo ai nostri giorni, sostituendo le antiche capitali del potere e della cultura visitate da Paolo con New York, Londra, Parigi, Roma e la Germania. Scriveva, infatti, Pasolini:

«Paolo è qui, oggi, tra noi. Egli demolisce rivoluzionariamente, con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo, lo schiavismo».

Certo, quella parola disadorna, «senza sublimità di discorso o di sapienza», come Paolo stesso confessava ai Corinzi (I Cor 2,1), ha incrinato tante strutture e tanti luoghi comuni del potere e della cultura imperiale romana. Ma la forza, la passione, l’entusiasmo del suo “messaggio religioso” erano nell’amore per Gesù Cristo. Un amore che gli fa dettare le pagine più intense e splendide. Per questo è del tutto insufficiente e fuorviante la definizione di «Lenin del cristianesimo» che gli riserverà una persona pur acuta e sincera come Antonio Gramsci. Per capire Paolo è necessario prendere in mano e leggere quelle sue lettere che – come diceva il nostro grande poeta Mario Luzi – s’insediano «nell’inquieta aspettativa degli uomini per dare un senso alla speranza».

(G. Ravasi).

Mi ami tu?

Ecco che il Signore, dopo la sua resurrezione, appare di nuovo ai suoi discepoli. Interroga l’apostolo Pietro e spinge a confessare per tre volte il proprio amore colui che aveva rinnegato tre volte per timore. Cristo è risorto secondo la carne, Pietro secondo lo spirito. Mentre Cristo moriva soffrendo, Pietro moriva rinnegando. Il Signore Cristo resuscita dai morti e nel suo amore resuscita Pietro. Ha interrogato l’amore di colui che lo confessava e gli ha affidato le sue pecore. […] Il Signore Cristo volendo mostrarci in che modo gli uomini debbano provare che lo amano, lo rivela chiaramente: va amato nelle pecore che ci sono affidate. Mi ami tu? Ti amo. Pasci le mie pecore. E questo una volta, due volte, tre volte. Pietro non dice altro se non che lo ama. Il Signore non gli domanda altro se non se lo ama.

A Pietro che gli risponde non affida altro se non le sue pecore. Amiamoci a vicenda e ameremo Cristo. Cristo, infatti, eternamente Dio, è nato uomo nel tempo. E apparso agli uomini come uomo e figlio dell’uomo. Essendo Dio nell’uomo, opera molti miracoli. Ha molto sofferto, in quanto uomo, da parte degli uomini, ma è risorto dopo la morte perché era Dio nell’uomo. Ha passato sulla terra quaranta giorni come un uomo con gli uomini. Poi, sotto i loro occhi, è asceso al cielo come Dio nell’uomo e si è assise alla destra del Padre. Tutto questo lo crediamo, non lo vediamo. Ci è stato ordinato di amare Cristo Signore che noi non vediamo e tutti noi proclamiamo: «Io amo Cristo». Ma se non ami il fratello che vedi, come puoi amare Dio che non vedi? (I Gv 4,20). Amando le pecore, mostra di amare il pastore, perché le pecore sono membra del Pastore.

(AGOSTINO, Discorso Morin Guelferbytanus 16, PLS 2,579-580).

Preghiera a Gesù Buon Pastore

O Gesù buon Pastore,

nei santi apostoli Pietro e Paolo

hai dato alla tua Chiesa

due modelli di Pastori

secondo il tuo cuore.

Fa’ che, sul loro esempio

e confortati

dalla loro testimonianza,

impariamo ad amare

e servire i fratelli

con gioia e gratuità.

O santi apostoli Pietro e Paolo

intercede per noi,

affinché possiamo vivere

in comunione nelle diversità dei doni e dei ministeri.

Amen!

(dagli scritti di don Alberiore)

Preghiera al canto del gallo

O eterno creatore di ogni cosa,

tu che governi la notte e il giorno

e stabilisci il momento del tempo

di alleviare le angosce.

Già si sente l’annunciatore del giorno,

della profonda notte vigile,

luce notturna per i viandanti,

che separa la notte dalla notte.

Risvegliato da lui Lucifero,

libera il cielo dalle tenebre,

per lui ogni schiera di coloro che errano,

abbandona le strade del male.

Per lui il marinaio si rinvigorisce

e si placano i flutti del mare,

per lui anche la pietra della chiesa

al suo canto lava il peccato.

Alziamoci perciò subito,

il gallo sveglia chi ancora giace,

e richiama gli assonnati,

il gallo rimprovera quelli che si rifiutano.

Quando canta il gallo ritorna la speranza,

la salute viene restituita agli infermi,

viene riposta l’arma del bandito,

a coloro che cadono ritorna la fede.

O Gesù, salvaguarda chi vacilla,

corrige, e correggici col tuo sguardo,

se ci guardi annulli le colpe:

il peccato si dissolve nel pianto.

Tu luce illumina i sensi

dissipa il torpore dell’animo,

la nostra voce invochi te per primo,

e rivolgiamo a Te le nostre preghiere.

(Ambrogio di Milano)

La Settimana con don Bosco

21-28 giugno 2025

21. (S. Luigi Gonzaga) “Stabilite oggi di non voler mai più riguardare oggetti pericolosi o parlare di cose contrarie alla virtù, di cui abbiamo trattato” (OE33 243).

22. (S. Paolino di Nola)(S. Giovanni Fisher) Quando fu tratto di carcere per essere condotto al supplizio, si vestì delle migliori vesti dicendo: In tal modo conviene andare alle nozze, così chiamava il suo martirio” (OE34 268) S. Tommaso More) “Deposto dalla sua carica, spogliato di tutti i suoi beni, chiuso in una prigione, Tommaso venne condannato all’atroce supplizio dei traditori dello Stato” (OE24 272).

23. (S. Giuseppe Cafasso) “Se ho fatto qualche cosa di bene lo debbo a questo degno ecclesiastico nelle cui mani riposi ogni mia deliberazione, ogni studio, ogni azione della mia vita” (MO 126).

24. (NativitÀ di s. Giovanni Battista) “Secondo le divine promesse Elisabetta diede alla luce quel figlio che doveva essere il Precursore del Salvatore e riempire il mondo di meraviglie” (OE20 391).

25. “L’amore verso del nostro prossimo è la misura dell’amor di Dio” (OE2 243).

26. “La dolcezza nel parlare, nell’operare, nell’avvisare guadagna tutto e tutti” (MB17 628).

27. (S. Cirillo di Alessandria) Nel concilio di Efeso, presieduto dallo “zelante patriarca san Cirillo”, “la Santissima Vergine […] venne solennemente proclamata vera Madre di Dio” (OE22 87).

28. (S. Ireneo) “Il sangue dei martiri aveva fecondato, nel secondo secolo, la Chiesa di Lione, che aveva la gloria di contare fra i suoi Vescovi i Potini e gli Irenei” (OE18 339s).

(Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Temi di predicazione. Omelie. Ciclo A, Napoli, Editrice Domenicana Italiana, 2004;2007-.

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

– Comunità domenicana di Santa Maria delle Grazie, La grazia della predicazione. Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, in «Allegato redazionale alla Rivista del Clero Italiano»  95 (2014) 2, pp.67.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

– E. BIANCHI et al., Eucaristia e Parola. Testi per le celebrazioni eucaristiche. Tempo ordinario anno A, Milano, vita e Pensiero, 2010.

– J.M. NOUWEN, Un ricordo che guida, in ID., Mostrami il cammino. Meditazioni per il tempo di Quaresima, Brescia, Queriniana, 2003.

– F. ARMELLI, Ascoltarti è una festa. Le letture domenicali spiegate alla comunità. Anno A, Padova, Messaggero, 2001.  

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù,  Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.   

– Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

UN’EDITRICE SALESIANA PER LA CATECHESI

LA ELLEDICI E IL NUOVO CATECHISMO OLANDESE

(1966-1969)

Giuseppe BIANCARDII


[1] Giuseppe Biancardi, Salesiano di don Bosco, sacerdote, professore emerito della Facoltà di Scienze dell’Educazione dell’Università Pontificia Salesiana, Roma.

all’interno del volume:

Testi e contesti salesiani. Miscellanea in onore del prof. Aldo Giraudo

Un omaggio a una delle figure più autorevoli della ricerca storica e spirituale salesiana, questa miscellanea raccoglie contributi di studiosi che esplorano i temi centrali della tradizione salesiana, della pedagogia, della spiritualità e dell’Opera di Don Bosco.

Attraverso saggi che spaziano dall’analisi di testi inediti alla riflessione sul pensiero educativo salesiano, il volume mette in luce il valore del contributo accademico del Prof. Aldo Giraudo, riconosciuto per il suo approccio rigoroso allo studio delle fonti e per la sua capacità di coniugare ricerca storica e divulgazione.

Gli studi raccolti in questa miscellanea approfondiscono la trasmissione del carisma salesiano attraverso la predicazione e l’epistolario di Don Bosco, l’influenza della spiritualità di San Francesco di Sales, il ruolo dei primi salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice nella diffusione dell’opera educativa, e l’educazione dell’impegno salesiano nei diversi contesti storici e geografici. Particolare attenzione è dedicata al dialogo tra tradizione e rinnovamento nell’ambito della catechesi, della formazione e della missione salesiana nel mondo.

Curato dal Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana, questo volume rappresenta un prezioso contributo alla conoscenza della tradizione salesiana e un sentito tributo a un maestro e guida per generazioni di studiosi e ricercatori.

Il volume: https://editricelas.it/studi-e-strume…

Michal Vojtáš – Presentazione della miscellanea in onore del prof. Aldo Giraudo

CORPO E SANGUE DI CRISTO

Lectio – Anno C

Prima lettura: Genesi 14,18-20

         In quei giorni, Melchìsedek, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole: «Sia benedetto Abram dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra, e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici». E [Abramo] diede a lui la decima di tutto.  
  • Il tema della benedizione ritorna nel brano della Genesi. A pronunciarla è il re di Salem, di cui non conosciamo altro che il nome, Melchisedek. Egli, dice il testo «offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abram con queste parole». Abramo era appena ritornato secondo il racconto di Gn 14, dalla vittoria contro i quattro re che avevano in precedenza sconfitto le città del mar Morto e catturato suo nipote Lot. Il re Melchisedek, che come era allora frequente consuetudine ricopriva pure a carica sacerdotale, portò come ristoro ai vincitori, alla cui testa era Abramo, pane e vino. Le parole di benedizione rivolte ad Abramo suonano dunque come un riconoscimento del suo ruolo nell’aver liberato il campo da pericolosi nemici. Ciò che ci riguarda maggiormente, però, è lo schema della benedizione. Da una parte c’è Dio che benedice, in quanto egli è creatore del mondo, ossia fa essere le cose che esistono; questa è la benedizione costitutiva o discendente. Dall’altra c’è

la benedizione e la lode che l’uomo eleva a Dio, detta dichiarativa o ascendente, perché  chi ha riconosciuto di essere stato beneficato da Dio, lo ringrazia. Quindi Abramo, considerando Melchisedek superiore a sé e intendendo manifestare la propria gratitudine nei confronti di Dio cede la decima a questo re.

     L’inserimento di questo brano nella liturgia del Corpus Domini si può giustificare solo a partire dall’interpretazione che ne hanno fatto i Padri della Chiesa, sulla scia di ciò che era trapelato nel Nuovo Testamento. Infatti diversi dei Padri hanno inteso l’offerta del pane e del vino come una prefigurazione dell’Eucaristia e Melchisedek, che ci viene presentato «senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita» (Eb 7,3), quindi eterno, come la prefigurazione del sacerdozio messianico, superiore a quello di Aronne.

Seconda lettura:  1Corinzi 11,23-26

        Fratelli, io ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me».
Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga.
       
  • Ma è il brano della prima lettera ai Corinzi che, in modo inequivocabile, ci riallaccia con la viva tradizione delle comunità dell’epoca apostolica. L’apostolo Paolo così introduce l’argomento: «Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso». E questa trasmissione viene espressa con il significativo verbo paradidomi, da cui viene anche

l’idea di paradosis, ossia di una vera e propria consegna effettuata da una generazione a un altra, o da una persona a un’altra, in questo caso autorevolissima come il Signore. Paolo, dunque, è conscio di comunicare non qualcosa di suo, bensì qualcosa che appartiene al grande «patrimonio» che Gesù stesso ha lasciato ai suoi discepoli. Il problema posto riguarda perciò la sostanza di quel «vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza se lo mantenete m quella forma in cui ve l’ho annunziato» (1Cor 15,1).

     Di conseguenza, la fedeltà alla «tradizione» si fonde con la fedeltà alla «comunione». Nell’Eucaristia raccontata da Paolo si riprendono tutti gli specifici motivi fondamentali, a partire dal contesto, che è quello della cena precedente la passione e morte di Gesù. Vi viene rievocato il momento amaro del tradimento con lo stesso verbo paradidomi, quasi a voler intendere che la «consegna» di fare il memoriale dell’Eucaristia passa attraverso l’inevitabile «consegna» alla morte. Si prosegue con l’atto del prendere il pane, gesto familiare, da capofamiglia, che prelude al ringraziare (eucharistesas), cioè al benedire il datore di ogni dono, il Padre. Il pane, poi, viene spezzato per essere condiviso, per essere fonte di solidarietà e comunione. Infine, vengono riferite le parole che spiegano i gesti. «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Anche riguardo al calice del vino le parole ne illuminano il senso: «Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Troppo difficile è il compito di commentare tali parole: c’è il senso dell’offerta, del sacrificio di colui che si fa «spezzare» la carne e «versare» il sangue per l’umanità che ama, inclusa quell’umanità che si sta preparando a consegnarlo alla morte; c’è il senso dell’alleanza del ricucire uno strappo che si sarebbe sempre più approfondito senza l’iniziativa divina di andare incontro all’umanità; c’è il senso del dover costantemente «far memoria» di tutto ciò, perché siamo stati comprati a caro prezzo (cf. 1Cor 6,20). Il mistero eucaristico si trasforma allora in una ricapitolazione della storia, nella quale viene riproposta in continuazione l’alleanza d’amore di Dio, in vista dell’evento finale, la venuta ultima di Gesù Cristo.

Vangelo: Luca 9,11-17

          In quel tempo, Gesù prese a parlare alle folle del regno di Dio e a guarire quanti avevano bisogno di cure. Il giorno cominciava a declinare e i Dodici gli si avvicinarono dicendo: «Congeda la folla perché vada nei villaggi e nelle campagne dei dintorni, per alloggiare e trovare cibo: qui siamo in una zona deserta». Gesù disse loro: «Voi stessi date loro da mangiare». Ma essi risposero: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci, a meno che non andiamo noi a comprare viveri per tutta questa gente». C’erano infatti circa cinquemila uomini. Egli disse ai suoi discepoli: «Fateli sedere a gruppi di cinquanta circa». Fecero così e li fecero sedere tutti quanti. Egli prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla. Tutti mangiarono a sazietà e furono portati via i pezzi loro avanzati: dodici ceste.  

Esegesi

     La pericope evangelica proposta dalla liturgia ci presenta subito un Gesù impegnato nella predicazione e nelle guarigioni. Non è facile entrare nel clima del brano se non diamo uno sguardo al contesto in cui è inserito. Infatti la moltiplicazione dei pani si trova quasi alla fine del periodo di attività in Galilea, quando Gesù stava maturando la decisione

di dirigersi verso la capitale, Gerusalemme: «Mentre si compivano i giorni della sua ascensione, indurì la faccia di dirigersi a Gerusalemme» (Lc 9,51). Il senso letterale del versetto ci rende bene la ferma determinazione di Gesù, «perché non è possibile che un profeta muoia fuori di Gerusalemme» (Lc 13,33). Quasi a volersi congedare dalla Galilea, egli inviò i Dodici ad annunziare il regno di Dio e a guarire gli infermi, assegnando loro persino il potere di scacciare i demoni (9,1-2). Al loro ritorno, gli apostoli riferirono in dettaglio a Gesù ciò che avevano operato durante la missione. Egli «allora li prese con sé e si ritirò verso una città chiamata Betsaida» (9,10), perché essi avevano bisogno di riposare. Ma furono intercettati dalla folla, che costrinse Gesù a cambiare programma e a trascurare gli stanchi missionari. E quindi fu direttamente lui che si occupò di parlare del regno di Dio e di guarire quanti avevano bisogno di cure (9,11), come se la folla, dopo aver ascoltato gli apostoli desiderasse andare alla fonte dell’annuncio.

     In verità, l’annuncio del regno di Dio era stata la preoccupazione di Gesù fin dal primo momento. E anche la folla, fin dal principio, lo seguiva senza stancarsi e dargli un attimo di respiro. In 4,42-44 mentre cercava un luogo isolato, venne raggiunto dalla folla che non voleva lasciarlo andare via. Ma egli evitò di fermarsi, perché il regno doveva essere annunziato anche ad altre città. In 8,1, dopo aver perdonato la donna peccatrice e aver insegnato la misericordia al fariseo Simone, ritornò alla sua consueta attività di predicazione del regno e in 8,10 si dedicò a istruire in modo più particolareggiato gli apostoli. Infine al capitolo 9 associò gli apostoli all’opera di evangelizzazione, mai disgiunta dalla realizzazione dei segni delle guarigioni e degli esorcismi. Riguardo alla folla, poi, in 5,1 si dice addirittura che «la folla gli faceva ressa intorno per ascoltare la parola di Dio»; in 6,17-19 si parla di gente che veniva ad ascoltarlo e a essere guarita, o anche solo a toccarlo, proveniente non solo dalla Galilea e dalla Giudea, ma persino da Tiro e Sidone, città pagane della Fenicia; in 8,4, la parabola del seminatore viene raccontata «poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città»; in 8,40, infine, troviamo persino che «al suo ritorno, Gesù fu accolto dalla folla, poiché tutti erano in attesa di lui».

     Gesù quindi si mostrava molto disponibile nei confronti della folla, comprendendo benissimo il bisogno che essa aveva di parola di Dio e di sollievo dalla sofferenza. Ma tale disponibilità si dimostrò davvero eccezionale in questo caso della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Al v. 12 comincia un dialogo: gli apostoli, poiché stava tramontando, invitarono Gesù a congedare gli astanti per permettere a ciascuno di loro di procurarsi del cibo, in quanto il luogo in cui si trovavano era solitario. Essi non si sarebbero mai aspettati la risposta di Gesù: «Voi stessi date loro da mangiare» (9,13). Erano cinquemila uomini e nel passo parallelo del Vangelo di Giovanni l’apostolo Filippo fa una stima approssimativa della cifra necessaria a comprare pane per tutti: «Duecento denari di pane non sono sufficienti neppure perché ognuno possa ricevere un pezzo» (Gv 6,7); a disposizione c’erano soltanto cinque pani e due pesci e l’eventuale spesa da affrontare era quindi insostenibile.

     Qui emerge un dato molto importante: gli apostoli, che erano stati protagonisti della missione con i compiti onorevoli di predicare, guarire e cacciare i demoni, vennero coinvolti nel servizio umile di dar da mangiare a quella folla. Gesù — dice il Vangelo — «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò su di essi la benedizione, li spezzò e li dava ai discepoli perché li distribuissero alla folla» (9,16). Il nutrimento passa quindi attraverso le mani dei discepoli, che davvero offrono da mangiare a quella moltitudine, forse senza nemmeno rendersi conto del tutto della “straordinarietà” del fatto. Lungi dal pretendere di spiegare o razionalizzare il segno — ipotizzando che ognuno aveva delle provviste e che le condivide con gli altri, per cui il vero “miracolo” sarebbe la condivisione — occorre prendere sul serio il racconto evangelico e ammettere che Gesù abbia realmente potuto moltiplicare il poco cibo disponibile.

     Se conosciamo bene Gesù, non ci meraviglia che abbia avuto compassione di quella folla affamata, dopo che per un giorno intero aveva seguito i suoi insegnamenti e aveva assistito ai suoi segni. Infatti, l’evangelista Luca ci presenta un’immagine di Gesù sinceramente sollecito delle necessità della gente, fossero anche quelle corporali. Ma il testo ci suggerisce un’altra traccia ancora: le azioni descritte in 9,16 sono le stesse che Gesù compie in 22,19, nell’istituzione dell’Eucaristia, e in 24,30, durante la cena di Emmaus. Il Vangelo di Luca, però, ci stimola a non ritenere la moltiplicazione dei pani e dei pesci un miracolo che solo Gesù poteva realizzare. Il coinvolgimento degli apostoli è infatti senz’altro significativo, in relazione al fatto che il regno di Dio dev’essere servito con la predicazione, con i segni, ma anche con l’umile servizio del distribuire quel pane necessario a vivere e a rinvigorire le membra; il pane che può dare all’uomo l’opportunità di alzare i propri occhi al cielo e benedire il Padre; il pane che dev’essere gustato con gioia nella fraternità e semplicità; il pane, che crea compagnia e comunione in questo pellegrinaggio terrestre. Perciò in questa maniera il pane delle nostre tavole può acquistare un significato più pregnante che quello di semplice alimento e, di conseguenza, il pane eucaristico può essere considerato sempre più per quello che è: pane-corpo di Cristo, offerto per ringraziamento e benedizione.

Meditazione

     La festa del Corpus Domini, che la Chiesa colloca immediatamente dopo il tempo pasquale, ci fa riandare a quel mistero eucaristico la cui memoria è già stata celebrata con particolare solennità il giorno del Giovedì santo. La celebrazione odierna assume dunque i caratteri di una ulteriore ‘meditazione’, quasi una sosta contemplativa intorno al mistero centrale della fede cristiana, un mistero che è al cuore stesso della vita della Chiesa. È in questa direzione che sembra orientarci l’orazione iniziale: «Signore Gesù Cristo, che nel mirabile sacramento dell’Eucaristia ci hai lasciato il memoriale della tua Pasqua, fa’ che adoriamo con viva fede il santo mistero del tuo Corpo e del tuo Sangue…». Se il corpo e il sangue del Signore si offrono a noi anzitutto come cibo e bevanda di vita, essi sono anche un mistero da ‘adorare’; cioè da circondare di tutta la venerazione e la riconoscenza, lo stupore e l’amore che esso richiede. Nella consapevolezza che tale dono eccede sempre la nostra capacità di recezione e le nostre possibilità di comprensione.

     È significativo che al centro di questa festa troviamo una realtà così umana, così concreta, così ‘materiale’ oseremmo dire, come quella del «corpo e sangue». Corpo e sangue che dicono tutto il mistero dell’incarnazione, tutta l’umanità nostra, debole e fragile, assunta pienamente dal Signore Gesù. Corpo e sangue assunti e donati fino all’ultimo «per noi uomini e per la nostra salvezza», come recita il Credo. L’apostolo Paolo, raccontando l’istituzione dell’eucaristia nella notte della cena pasquale (seconda lettura), ce lo ricorda in modo esplicito: «Il Signore Gesù… prese del pane… e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi..”. Allo stesso modo… prese anche il calice…» (1Cor 11,23-25).

     La prima lettura pone l’accento sull’offerta del pane e del vino da parte di Melchìsedek, singolare figura di sacerdote che fa la sua improvvisa comparsa all’interno delle vicende del patriarca Abramo. Partendo dalla lettura che ne fa la Lettera agli Ebrei (soprattutto nel cap. 7), la Chiesa ha sempre considerato questo episodio una prefigurazione dell’eucaristia. «Pane e vino» sono doni che rimandano, in ultima istanza, a uno dei bisogni primari e vitali dell’uomo: il soddisfacimento della sua fame. Sappiamo che l’uomo è essenzialmente un essere che ha fame, e non solo di cibo. La sua fame va ben al di là del pezzo di pane che può momentaneamente e parzialmente colmarla. Essa abita nel profondo del suo cuore come desiderio, conscio o inconscio, di qualcosa che può venire da Dio solo. Come afferma Benedetto XVI nel suo Messaggio per la Quaresima 2010. «Come e più del pane, egli ha infatti bisogno di Dio». È Dio che nutre l’uomo, anzi è Dio stesso che si fa suo nutrimento in quel pane e in quel vino che riceviamo ogni giorno dalle sue mani come «cibo di vita eterna» e «bevanda di salvezza» (rito di offertorio della liturgia eucaristica).

     Il racconto della moltiplicazione dei pani nella versione dell’evangelista Luca (vangelo) ci parla del mirabile e inatteso nutrimento di una folla affamata che, desiderosa di ascoltare Gesù e farsi curare dalle proprie malattie (v. 11 ), lo segue fin nel bel mezzo di un deserto. Al di là del prodigio in sé, ciò che attira la nostra attenzione – soprattutto se leggiamo l’episodio nel contesto della festa liturgica odierna – è il modo con cui si conclude la narrazione: «Tutti mangiarono a sazietà…» (v. 17). È questa sensazione di sazietà che rimane nelle nostre orecchie (e un po’ anche nel nostro corpo) dopo aver ascoltato questa parola. Una fame saziata: ecco cosa ci vuol comunicare il racconto. Già dai tempi della Prima Alleanza il Signore aveva promesso di saziare la fame del suo popolo – unica condizione richiesta: spalancare la propria bocca! -: «Sono io il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto salire dal paese d’Egitto: apri la tua bocca, la voglio riempire» (Sal 80/81,11). L’antifona d’ingresso della presente celebrazione riprende le parole conclusive dello stesso salmo: «Il Signore ha nutrito il suo popolo con fior di frumento, lo ha saziato con miele della roccia» (Sal 80/81,17). Dio non ha altra volontà che saziare la nostra fame. Possiamo dire che è il suo grande desiderio. A patto però di intendere bene cosa sono quel «fior di frumento» e quel «miele della roccia»…

     In un altro deserto (o forse lo stesso?) Gesù si era rifiutato di trarre pane dalla pietra, come subdolamente gli suggeriva il tentatore (cfr. Lc 4,3). Perché ora dunque compie (moltiplicando un pugno di pani e pesci là dove – essendo deserto – non poteva trovare che pietre) ciò che un tempo aveva categoricamente negato di fare? Al diavolo aveva risposto: «Non di solo pane vivrà l’uomo» (Lc 4,4), ora però non ricusa di donare – e in modo sovrabbondante – anche quell’umile pane a una moltitudine di gente stanca e affamata. Egli sa che l’uomo ha bisogno anche di pane per vivere, purché quel pane sia ricevuto come segno di un’accoglienza amorosa («Le folle lo seguirono. Egli le accolse…»: v. 11) e diventi capace di dire tutta la logica di una vita data in dono («Voi stessi date loro da mangiare»: v. 13), come è stata la vita stessa di Gesù. Per questo il racconto della moltiplicazione dei pani (così come il racconto dell’ultima cena e quello della cena di Emmaus, dove si narra di un pane ‘spezzato’) è una grande e profonda rivelazione della persona di Gesù. Erode, poco prima, si era chiesto: «Chi è dunque costui?» (Lc 9,9) e Gesù, quasi riprendendo la domanda, risponde donando del pane, simbolo e prefigurazione di quel pane che si farà lui stesso cuocendo nel forno della croce, per diventare nostro cibo in ogni eucaristia.

     «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», domandiamo nella preghiera del Padre nostro. Ciò di cui abbiamo bisogno ogni giorno per vivere lo chiediamo a Dio, consapevoli che solo ricevendolo dalle sue mani come dono gratuito esso può soddisfare la nostra più autentica fame di vita. Solo là dove desiderio di Dio e bisogno dell’uomo (bisogno vero, nell’ordine di ciò che più vale nella vita) si incontrano, può nascere un orizzonte nuovo dove trovano casa l’accoglienza grata dei doni ricevuti e la premurosa condivisione che quei doni portano inscritto nella loro stessa natura.

Don Bosco commenta il Vangelo

Corpo e Sangue di Cristo

Presenza reale di Gesù nell’Eucaristia

Nella Storia Ecclesiastica don Bosco risponde alla domanda: “Come fu istituita la festa del Corpus Domini?” dicendo:

Il domma della presenza reale essendo ostinatamente combattuto, cresceva tanto più nei Cattolici il fervore nel rendere gli omaggi dovuti a Gesù Sacramentato. S. Giuliana di Liegi ed altre piissime persone dietro vari miracoli e rivelazioni promossero la solenne festa del Corpus Domini. Urbano IV riconosciutane l’eccellenza ordinò che fosse celebrata per tutta la Cristianità; san Tommaso d’Aquino a richiesta del Papa ne compose l’Uffizio nella forma che ancora oggidì recitiamo (OE1 404).

Nel 1853, in occasione del quarto centenario del miracolo eucaristico di Torino, don Bosco pubblicò le sue Notizie storiche intorno al miracolo del SS. Sacramento. Racconta che alcuni predatori entrarono nella chiesa parrocchiale di Exilles e rubarono un ostensorio con l’ostia consacrata. Involsero il sacro vaso con altre spoglie, e fattone un grosso fagotto, lo posero sopra un mulo prendendo la strada di Torino. Era il sei di giugno 1453, verso le cinque pomeridiane, quando giunsero in Torino davanti ad una chiesa dedicata a S. Silvestro. Improvvisamente il mulo si ferma, stramazza al suolo, e rimane immobile; il condottiero grida, minaccia e percuote il giumento, ma tutto invano. Allora l’invoglio ad un tratto si scioglie, e l’ostensorio da sé stesso si leva in aria e si ferma a vista di tutti, tramandando una viva luce.

Un sacerdote di nome Bartolomeo Cocono, alla vista di tale prodigio, recasi tosto ad informarne il Vescovo di nome Ludovico Romagnano. Quel prelato, assicuratosi di quanto avveniva, raduna quei canonici e clero che in quel momento poté raccogliere, e, facendo precedere la croce, vanno tosto processionalmente in sul luogo. Colà giunti attoniti e meravigliati si prostrano a terra, e adorano il Santissimo Corpo di Gesù Cristo, in nuova guisa glorificato. Ma quale non fu la meraviglia, allorché videro l’ostensorio cadere in terra, e l’ostia sola rimanere in aria più risplendente che il sole! Universale commozione sorprende tutti gli astanti: lagrime, sospiri, fervorose preghiere occupano la mente e il cuore di tutti; da tutte le parti si esclama: mane nobiscum Domine, Signore, rimani fra noi. II Vescovo preso un calice lo tiene colle mani alzate sotto all’ostia, che tuttora stava sospesa in aria tramandando vivi raggi come risplendentissimo sole. Ed ecco un nuovo prodigio: quasi l’ostia volesse ubbidire alla voce del pastore e dei fedeli, a poco a poco si abbassa e discende nel calice. Allora fra cantici dell’estatica moltitudine, il Vescovo porta come in grande trionfo il sacro deposito nella Chiesa Cattedrale di S. Giovanni (OE5 8s).

Don Bosco insiste particolarmente sul realismo del corpo e sangue di Gesù Cristo nell’Eucaristia. Nel suo racconto Angelina o la buona fanciulla instruita nella vera divozione a Maria Santissima, la mamma spiega alla figlia questo sacramento in questo modo:

Il divin Salvatore nell’istituire questo sacramento disse: questo è il mio corpo, questo è il mio sangue; e queste parole medesime in latino usano i sacerdoti a nome di Gesù Cristo nel sacrifizio della santa Messa. Pertanto quando noi andiamo a fare la comunione, riceviamo il medesimo Gesù Cristo in corpo, sangue, anima e divinità, cioè vero Dio e vero uomo, vivo come è in cielo. Non è la sua immagine, nemmeno la sua figura, come è una statua, un crocifisso; ma è Gesù Cristo medesimo siccome è nato dall’Immacolata Vergine Maria e per noi morì sulla croce. Gesù Cristo medesimo ci assicurò di questa sua real presenza nella santa Eucaristia quando disse: Questo è il mio corpo che sarà dato per la salvezza degli uomini: Corpus, quod pro vobis tradetur. Questo è quel pane vivo, che discese dal cielo: Hic est panis vivus, qui de coelo descendit. Il pane, che io darò, è la mia carne; la bevanda che io do è il mio vero sangue. Chi non mangia di questo corpo, e non beve di questo sangue, non ha con sé la vita (OE13 17s).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

Monastero (Quart/Aosta)   –   2019   

«Mi riconosco

immagine passeggera

presa in un giro immortale».

 (Giuseppe Ungaretti, Sereno)

Genesi 14,18-20 1Corinzi 11,23-26Luca 9,11-17 Cantavano le donne lungo il muro inchiodatoquando ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento, palpitante e nudo come un bambino che correinseguito da sette torelli capitali.Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.Trafitto dal tuo Padre con ago di fuoco. O Forma consacrata, vertice dei fiori,dove tutti gli angoli prendono luci fisse,dove numero e bocca costruiscono un presentecorpo di luce umana con muscoli di farina!O Forma limitata per esprimere concretamoltitudine di luci e clamore ascoltato! O neve circondata da timpani di musica!O fiamma crepitante sopra tutte le vene!(F. García Lorca)  


Preghiere e racconti

La festa del Corpus Domini

Il Vangelo ci propone il racconto del miracolo dei pani (Lc 9,11-17); vorrei soffermarmi su un aspetto che sempre mi colpisce e mi fa riflettere. Siamo sulla riva del lago di Galilea, la sera si avvicina; Gesù si preoccupa per la gente che da tante ore sta con Lui: sono migliaia, e hanno fame. Che fare? Anche i discepoli si pongono il problema, e dicono a Gesù: «Congeda la folla» perché vada nei villaggi vicini per trovare da mangiare. Gesù invece dice: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 13). I discepoli rimangono sconcertati, e rispondono: «Non abbiamo che cinque pani e due pesci», come dire: appena il necessario per noi.

Gesù sa bene che cosa fare, ma vuole coinvolgere i suoi discepoli, vuole educarli. Quello dei discepoli è l’atteggiamento umano, che cerca la soluzione più realistica, che non crei troppi problemi: Congeda la folla – dicono -, ciascuno si arrangi come può, del resto hai fatto già tanto per loro: hai predicato, hai guarito i malati… Congeda la folla!

L’atteggiamento di Gesù è nettamente diverso, ed è dettato dalla sua unione con il Padre e dalla compassione per la gente, quella pietà di Gesù verso tutti noi: Gesù sente i nostri problemi, sente le nostre debolezze, sente i nostri bisogni. Di fronte a quei cinque pani, Gesù pensa: ecco la provvidenza! Da questo poco, Dio può tirar fuori il necessario per tutti. Gesù si fida totalmente del Padre celeste, sa che a Lui tutto è possibile. Perciò dice ai discepoli di far sedere la gente a gruppi di cinquanta – non è casuale questo, perché questo significa che non sono più una folla, ma diventano comunità, nutrite dal pane di Dio. Poi prende quei pani e i pesci, alza gli occhi al cielo, recita la benedizione – è chiaro il riferimento all’Eucaristia –, poi li spezza e comincia a darli ai discepoli, e i discepoli li distribuiscono… e i pani e i pesci non finiscono, non finiscono! Ecco il miracolo: più che una moltiplicazione è una condivisione, animata dalla fede e dalla preghiera. Mangiarono tutti e ne avanzò: è il segno di Gesù, pane di Dio per l’umanità.

I discepoli videro, ma non colsero bene il messaggio. Furono presi, come la folla, dall’entusiasmo del successo. Ancora una volta seguirono la logica umana e non quella di Dio, che è quella del servizio, dell’amore, della fede. La festa del Corpus Domini ci chiede di convertirci alla fede nella Provvidenza, di saper condividere il poco che siamo e che abbiamo, e non chiuderci mai in noi stessi. Chiediamo alla nostra Madre Maria di aiutarci in questa conversione, per seguire veramente di più quel Gesù che adoriamo nell’Eucaristia. Così sia.

(PAPA FRANCESCO, Angelus, Piazza San Pietro, Domenica, 2 giugno 2013).

Il miracolo della moltiplicazione dei pani

Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove nel popolo di Dio si da ascolto alla Scrittura della quale Gesù ha fornito l’esegesi messianica e, quindi, laddove si rispetta la Scrittura e si obbedisce alla sua parola che trova espressione attuale nell’assemblea della comunità. Ciò significa: laddove si vive tutta la vita quotidiana all’insegna della volontà di Dio […].

Il miracolo della moltiplicazione dei pani accade laddove si celebra il banchetto messianico, al quale Gesù ha voluto invitare proprio tutti, i giusti e i peccatori, i sani e i malati, gli invitati della prima ora e quelli che se ne stanno a guardare, cioè laddove sia resa possibile, in continuazione, l’integrazione e l’unanimità di coloro che vogliono mettersi al servizio della costruzione del popolo di Dio. Ciò significa: laddove al convivium, cioè al banchetto dell’eucaristia, corrisponde di nuovo il convivere, cioè la convivenza dei credenti che precede e segue l’eucaristia e trova la sua sintesi festosa nella celebrazione di settimana in settimana, da una festa all’altra.

Il miracolo della moltiplicazione dei pani si compie laddove è vitale la fede che l’uomo non vive di solo pane ma, in primo luogo, della parola di Dio, della sua promessa e della volontà di Colui che si è creato un popolo da portare in una terra dove scorrono latte e miele. Ciò significa che il miracolo accade anche laddove i credenti osano dar prova della propria fede e metterla alla prova.

(R. PESCH, Il miracolo della moltiplicazione dei pani. C’è una soluzione per la fame nel mondo?, Brescia, 1997, 182ss.).

IL CORPUS DOMINI

Perché c’è tanta fame nel mondo? Perché tantissimi bambini devono morire di fame, mentre altri sono soffocati dall’abbondanza? Perché il povero Lazzaro deve continuare ad aspettarsi invano le briciole del ricco gaudente, senza poter varcare la soglia della sua casa? Certamente non perché la terra non sia in grado di produrre pane per tutti. Nei Paesi dell’Occidente si offrono indennizzi per la distruzione dei frutti della terra, allo scopo di sostenere il livello dei prezzi, mentre altrove c’è chi patisce la fame. La mente umana sembra più abile nell’escogitare sempre nuovi mezzi di distruzione, invece che nuove strade per la vita. È più ingegnosa nel far arrivare in ogni angolo del mondo le armi per la guerra, piuttosto che portarvi il pane. Perché accade tutto questo? Perché le nostre anime sono malnutrite, i nostri cuori sono accecati e induriti. Il mondo è nel disordine perché il nostro cuore è nel disordine, perché gli manca l’amore, perciò non sa indicare alla ragione le vie della giustizia.

Riflettendo su tutto questo, comprendiamo le parole con cui Gesù obietta a Satana, che lo invita a trasformare le pietre in pane: «Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). Perché ci sia pane per tutti, deve prima essere nutrito il cuore dell’uomo.

Perché ci sia giustizia tra gli uomini, deve prima germogliare la giustizia nei cuori, ma essa non si sviluppa senza Dio e senza il nutrimento vitale della sua Parola. Questa Parola si è fatta carne, è diventata persona umana, affinché noi potessimo accoglierla e farla nostro nutrimento. Poiché l’uomo è troppo piccolo, incapace di raggiungere Dio, Dio stesso si è fatto piccolo per noi, così che possiamo ricevere amore dal suo amore e il mondo diventi il suo regno. Questo significa la festa del Corpus Domini. Il Signore che si è fatto carne, il Signore che è diventato pane, noi lo portiamo per le vie delle nostre città e dei nostri paesi. Lo immergiamo nella quotidianità della nostra vita, le nostre strade diventano le sue strade. Egli non deve restare rinchiuso nei tabernacoli discosto da noi, ma in mezzo a noi, nella vita d’ogni giorno. Deve camminare dove noi camminiamo, deve vivere dove noi viviamo. Il nostro mondo, le nostre esistenze devono diventare il suo tempio. Il Corpus Domini ci fa capire cosa significa fare la comunione: ospitarlo, riceverlo con tutto il nostro essere. Non si può mangiare il corpo del Signore come un qualsiasi pezzo di pane. Occorre aprirsi a lui con tutta la propria vita, con tutto il cuore: «Ecco, io sto alla porta e busso», dice il Signore nell’Apocalisse. «Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io entrerò da lui, cenerò con lui e lui con me» (3,20).

Il Corpus Domini vuole rendere percepibile questo bussare del Signore anche alla nostra sordità inferiore. Egli bussa forte alla porta della nostra vita d’ogni giorno e dice: «Aprimi! Fammi entrare! Comincia a vivere di me!». Questo non può valere soltanto un attimo, come di sfuggita, durante la santa Messa, e poi di nuovo come prima. È un’esperienza che attraversa tutti i tempi e tutti i luoghi. «Aprimi!», dice il Signore. «Come io mi sono aperto per te. Aprimi il mondo, perché io possa entrarvi, e possa così rischiarare la tua mente intorpidita, vincere la durezza del tuo cuore. Fammi entrare! Io per te mi sono lasciato squarciare il cuore». Il Signore dice questo a ciascuno di noi, lo dice alla nostra comunità nel suo insieme: fatemi entrare nella vostra vita, nel vostro mondo. Vivete di me, per essere veramente vivi. Ma vivere significa anche e sempre: donare ad altri. II Corpus Domini è un invito rivolto a noi dal Signore, ma è anche un grido che noi indirizziamo a lui. Tutta la festa è una grande preghiera: facci dono di Te! Da a noi il vero pane! Arriviamo così a comprendere meglio il Padre nostro, la preghiera per eccellenza. La quarta invocazione, quella per il pane, funge come da collegamento fra le tre invocazioni che riguardano il regno di Dio e le ultime tre che riguardano le nostre necessità. Che cosa chiediamo? Naturalmente il pane per oggi. È la preghiera dei discepoli, che non hanno capitali da parte, ma vivono della quotidiana bontà del Signore: perciò si mantengono in dialogo costante con lui, volgono a lui il loro sguardo, confidano soltanto in lui. E la preghiera di chi non vuole accumulare ricchezze, di chi non cerca una sicurezza mondana, ma si accontenta del necessario per avere tempo da dedicare alle cose veramente importanti. È la preghiera dei semplici, degli umili, di coloro che amano e vivono la povertà nello Spirito Santo.

Ma nella domanda del pane c’è un’altra profondità, il termine greco epioúsios, che noi traduciamo con “quotidiano”, non compare da nessun’altra parte, ma è tipico ed esclusivo del Padre nostro. Per quanto gli esperti discutano ancora sul suo significato, molto probabilmente vuole anche dire: dacci il pane di domani, cioè il pane del mondo a venire. In realtà, soltanto l’Eucaristia può essere la risposta a ciò che questa misteriosa parola, epioúsios, vuole indicare: il pane del mondo futuro, che già oggi ci è dato, affinché già oggi il mondo futuro abbia inizio in mezzo a noi.

Alla luce di quest’invocazione, la preghiera perché venga il regno di Dio e perché la terra diventi come il cielo assume grande concretezza: con l’Eucaristia il cielo viene sulla terra, il domani di Dio si compie già oggi e introduce nel mondo di oggi il mondo di domani.

Ma qui è come sintetizzata anche la richiesta di essere liberati da tutti i mali, dai nostri debiti, dal pericolo della tentazione: dammi questo pane, perché il mio cuore si mantenga vigile, perché possa resistere al male, perché sappia distinguere il bene e il male, perché impari a perdonare e sia forte nella tentazione. Soltanto allora il nostro mondo comincerà a essere veramente umano: se il mondo futuro diventa già in qualche misura l’oggi, se il mondo comincia già oggi a diventare divino. Con la richiesta del pane andiamo incontro al domani di Dio, alla trasformazione del mondo. Nell’Eucaristia ci viene incontro il domani di Dio, il suo Regno già oggi comincia tra di noi. E non dimentichiamo, infine, che tutte le invocazioni del Padre nostro sono espresse col “noi”: nessuno può dire “Padre mio” se non Cristo, il Figlio. Perciò noi, se davvero vogliamo pregare nel modo giusto, dobbiamo farlo con gli altri e per gli altri, uscendo da noi stessi, aprendoci.

Tutto questo è significato da quel “camminare insieme col Signore” che è, per così dire il segno distintivo della festa del Corpus Domini.

Dopo che Gesù ebbe terminato il suo discorso eucaristico nella sinagoga di Cafarnao, molti discepoli lo abbandonarono: era qualcosa di troppo impegnativo, di troppo misterioso. Le loro attese erano più che altro rivolte a una liberazione politica, tutto il resto sapeva ben poco di concretezza. Non è forse così anche oggi? Quante persone, nel corso degli ultimi cent’anni, se ne sono andate perché a loro avviso Gesù non era abbastanza “pratico”. Quello che poi, da parte loro, sono riusciti a realizzare è sotto gli occhi di tutti. E se il Signore oggi ci domandasse: «Volete andarvene anche voi?». In questa festa del Corpus Domini, insieme con Simon Pietro, noi con tutto il cuore vogliamo rispondergli: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna, e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6,68ss.).

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-109).

La prima comunione

Benedetto XVI presiede nel pomeriggio di sabato 15 ottobre 2005, in piazza San Pietro, lo speciale incontro di catechesi con i bambini di prima comunione, al quale partecipano oltre 150.000 persone tra fanciulli, genitori, catechisti e sacerdoti. Dopo la proclamazione della Liturgia della Parola, il Santo Padre risponde alle domande rivoltegli da sette bambini. Questi sono alcuni brani del testo del “dialogo” tra il Papa e i piccoli.

Andrea: «Caro Papa, quale ricordo hai del giorno della tua prima comunione?».

Innanzitutto vorrei dire grazie per questa festa della fede che mi offrite, per la vostra presenza e la vostra gioia. Ringrazio e saluto per l’abbraccio che ho avuto da alcuni di voi, un abbraccio che simbolicamente vale per voi tutti, naturalmente. Quanto alla domanda, mi ricordo bene del giorno della mia prima comunione. Era una bella domenica di marzo del 1936, quindi 69 anni fa.

Era un giorno di sole, la chiesa molto bella, la musica, erano tante le belle cose delle quali mi ricordo. Eravamo una trentina di ragazzi e di ragazze del nostro piccolo paese, di non più di 500 abitanti.

Ma nel centro dei miei ricordi gioiosi e belli sta questo pensiero – la stessa cosa è già stata detta dal vostro portavoce – che ho capito che Gesù è entrato nel mio cuore, ha fatto visita proprio a me. E con Gesù Dio stesso è con me. E che questo è un dono di amore che realmente vale più di tutto il resto che può essere dato dalla vita; e così sono stato realmente pieno di una grande gioia perché Gesù era venuto da me. E ho capito che adesso cominciava una nuova tappa della mia vita, avevo 9 anni, e che adesso era importante rimanere fedele a questo incontro, a questa Comunione. Ho promesso al Signore, per quanto potevo: «Io vorrei essere sempre con te» e l’ho pregato: «Ma sii soprattutto tu con me». E così sono andato avanti nella mia vita. Grazie a Dio, il Signore mi ha sempre preso per la mano, mi ha guidato anche in situazioni difficili. E così questa gioia della prima comunione era un inizio di un cammino fatto insieme. Spero che, anche per tutti voi, la prima comunione che avete ricevuto in quest’Anno dell’Eucaristia sia l’inizio di un’amicizia per tutta la vita con Gesù. Inizio di un cammino insieme perché andando con Gesù andiamo bene e la vita diventa buona.

Andrea: «La mia catechista, preparandomi al giorno della mia prima comunione, mi ha detto che Gesù è presente nell’Eucaristia. Ma come? Io non lo vedo!».

Sì, non lo vediamo, ma ci sono tante cose che non vediamo e che esistono e sono essenziali. Per esempio, non vediamo la nostra ragione, tuttavia abbiamo la ragione. Non vediamo la nostra intelligenza e l’abbiamo. Non vediamo, in una parola, la nostra anima e tuttavia esiste e ne vediamo gli effetti, perché possiamo parlare, pensare, decidere, ecc… Così pure non vediamo, per esempio, la corrente elettrica, e tuttavia vediamo che esiste, vediamo questo microfono come funziona; vediamo le luci. In una parola, proprio le cose più profonde, che sostengono realmente la vita e il mondo, non le vediamo, ma possiamo vedere, sentire gli effetti. L’elettricità, la corrente non le vediamo, ma la luce la vediamo. E così via. E così anche il Signore risorto non lo vediamo con i nostri occhi, ma vediamo che dove è Gesù, gli uomini cambiano, diventano migliori. Si crea una maggiore capacità di pace, di riconciliazione, ecc… Quindi, non vediamo il Signore stesso, ma vediamo gli effetti: così possiamo capire che Gesù è presente. Come ho detto, proprio le cose invisibili sono le più profonde e importanti. Andiamo dunque incontro a questo Signore invisibile, ma forte, che ci aiuta a vivere bene.

Alessandro: «A cosa serve andare alla santa Messa e ricevere la comunione per la vita di tutti i giorni?».                

Serve per trovare il centro della vita. Noi la viviamo in mezzo a tante cose. E le persone che non vanno in chiesa non sanno che a loro manca proprio Gesù. Sentono però che manca qualcosa nella loro vita. Se Dio resta assente nella mia vita, se Gesù è assente dalla mia vita, mi manca una guida, mi manca un’amicizia essenziale, mi manca anche una gioia che è importante per la vita. La forza anche di crescere come uomo, di superare i miei vizi e di maturare umanamente. Quindi, non vediamo subito l’effetto dell’essere con Gesù quando andiamo alla comunione; lo si vede col tempo. Come anche, nel corso delle settimane, degli anni, si sente sempre più l’assenza di Dio, l’assenza di Gesù. È una lacuna fondamentale e distruttiva. Potrei adesso facilmente parlare dei Paesi dove l’ateismo ha governato per anni; come ne sono risultate distrutte le anime, e anche la terra; e così possiamo vedere che è importante, anzi, direi, fondamentale, nutrirsi di Gesù nella comunione. È Lui che ci da la luce, ci offre la guida per la nostra vita, una guida della quale abbiamo bisogno.

Anna: «Caro Papa, ci puoi spiegare cosa voleva dire Gesù quando ha detto alla gente che lo seguiva: “lo sono il pane della vita?».

Allora, dobbiamo forse innanzitutto chiarire che cos’è il pane. Noi abbiamo oggi una cucina raffinata e ricca di diversissimi cibi, ma nelle situazioni più semplici il pane è il fondamento della nutrizione e se Gesù si chiama il pane della vita, il pane è, diciamo, la sigla, un’abbreviazione per tutto il nutrimento. E come abbiamo bisogno di nutrirci corporalmente per vivere, così anche lo spirito, l’anima in noi, la volontà, ha bisogno di nutrirsi. Noi, come persone umane, non abbiamo solo un corpo, ma anche un’anima; siamo persone pensanti con una volontà, un’intelligenza, e dobbiamo nutrire anche lo spirito, l’anima, perché possa maturare, perché possa realmente arrivare alla sua pienezza. E, quindi, se Gesù dice: «Io sono il pane della vita», vuol dire che Gesù stesso è questo nutrimento della nostra anima, dell’uomo interiore del quale abbiamo bisogno, perché anche l’anima deve nutrirsi. E non bastano le cose tecniche, pur tanto importanti. Abbiamo bisogno proprio di questa amicizia di Dio, che ci aiuta a prendere le decisioni giuste. Abbiamo bisogno di maturare umanamente. Con altre parole. Gesù ci nutre così che diventiamo realmente persone mature e la nostra vita diventa buona.

Adriano: «Santo Padre, ci hanno detto che oggi faremo l’adorazione eucaristica. Che cosa è? Come si fa? Ce lo puoi spiegare? Grazie».

Allora, che cos’è l’adorazione, come si fa, lo vedremo subito, perché tutto è ben preparato: faremo delle preghiere, dei canti, la genuflessione e siamo così davanti a Gesù. Ma, naturalmente, la tua domanda esige una risposta più profonda: non solo come fare, ma che cosa è l’adorazione. Io direi: adorazione è riconoscere che Gesù è mio Signore, che Gesù mi mostra la via da prendere, mi fa capire che vivo bene soltanto se conosco la strada indicata da Lui, solo se seguo la via che Lui mi mostra. Quindi, adorare è dire: «Gesù, io sono tuo e ti seguo nella mia vita, non vorrei mai perdere questa amicizia, questa comunione con te». Potrei anche dire che l’adorazione nella sua essenza è un abbraccio con Gesù, nel quale gli dico: «Io sono tuo e, ti prego, sii anche tu sempre con me».

(J. RATZINGER [Benedetto XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 91-96).

ODA AL SANTÍSIMO SACRAMENTO DEL ALTARExposiciónPange lingua gloriosicorporis mysterium.Cantaban las mujeres por el muro clavadocuando te vi, Dios fuerte, vivo en el Sacramento,palpitante y desnudo como un niño que correperseguido por siete novillos capitales. Vivo estabas, Dios mío, dentro del ostensorio.Punzado por tu Padre con agujas de lumbre.Latiendo como el pobre corazón de la ranaque los médicos ponen en el frasco de vidrio. Piedra de soledad donde la hierba gimey donde el agua oscura pierde sus tres acentos,elevan tu columna de nardo bajo nievesobre el mundo de ruedas y falos que circula. Yo miraba tu forma deliciosa flotandoen la llaga de aceites y paño de agonía,y entornaba mis ojos para darle en el dulcetiro al blanco de insomnio sin un pájaro negro. Es así, Dios anclado, como quiero tenerte.Panderito de harina para el recién nacido.Brisa y materia juntas en expresión exactapor amor de la carne que no sabe tu nombre. Es así, forma breve de rumor inefable,Dios en mantillas, Cristo diminuto y eterno,repetido mil veces, muerto, crucificadopor la impura palabra del hombre sudoroso. Cantaban las mujeres en la arena sin norte,cuando te vi presente sobre tu Sacramento.Quinientos serafines de resplandor y tintaen la cúpula neutra gustaban tu racimo. ¡Oh Forma sacratísima, vértice de las flores,donde todos los ángulos toman sus luces fijas,donde número y boca construyen un presentecuerpo de luz humana con músculos de harina! ¡Oh Forma limitada para expresar concretamuchedumbre de luces y clamor escuchado!¡Oh nieve circundada por témpanos de música!¡Oh llama crepitante sobre todas las venas! (Federico García Lorca)  ODE AL SANTISSIMO SACRAMENTOEsposizionePange lingua gloriosicorporis misterium.Cantavano le donne lungo il muro inchiodato quanto ti vidi, Dio forte, vivo nel Sacramento,palpitante e nudo come un bambino che correinseguito da sette torelli capitali. Vivo eri, Dio mio, nell’ostensorio.Trafitto da tuo padre con aghi di fuoco.Palpitando come il povero cuore della ranache i medici mettono nel fiasco di vetro. Pietra di solitudine dove l’erba gemee dove l’acqua oscura perde i suoi tre accenti,alzano la tua colonna di nardo sotto tra nevesopra il mondo che gira di ruote e di falli. Io guardavo la tua forma deliziosa fluttuantenella piaga d’olî, nel panno d’agoniae socchiudevo gli occhi per centrare nel dolcetiro a segno d’insonnia senza un uccello nero. È così, Dio scomparso, che voglio averti.Piccolo cembalo di farina per il neonato.Brezza e materia unite nell’espressione esattaper amore della carne che non sa il tuo nome. È così, forma breve di ineffabile rumore,Dio in fasce, Cristo minuscolo ed eterno,mille volte ripetuto, morto, crocifisso,dall’impura parola dell’uomo che suda. Cantavano le donne nell’arena senza guida,quando ti vidi presente sopra il tuo Sacramento.Cinquecento serafini di splendore e di colorenella cupola neutra gustavano il tuo grappolo. Ho Forma consacrata, vertice dei fiori,dove tutti gli angoli prendono luci fisse,dove numero e bocca costruiscono un presentecorpo di luce umana con muscoli di farina! Ho forma limitata per esprimere concreta moltitudine di luci e clamore ascoltato!O neve circondata da timpani di musica!Ho fiamma crepitante sopra tutte le vene! (Federico García Lorca)  

 

Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete

Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’Apostolo che dice ai credenti: «Voi siete il corpo di Cristo e sue membra» (1Cor 12,27). Se voi dunque siete il corpo e le membra di Cristo, sull’altare del Signore è posto il mistero delle vostre vite. Ricevete il vostro mistero. A ciò che siete, rispondete: «Amen» e, rispondendo lo sottoscrivete. Senti dire: «Corpo di Cristo» e rispondi: «Amen». Sii membro del corpo di Cristo perché il tuo Amen sia vero. Perché il corpo di Cristo nel pane? Non vogliamo dire niente di nostro, ascoltiamo sempre lo stesso Apostolo che, parlando di questo sacramento, dice: «Pur essendo molti, formiamo un solo pane e un solo corpo» (1Cor 10,17). Comprendete e gioite. Unità, verità, fede, carità. «Un solo pane»: chi è quest’unico pane? «Pur essendo molti formiamo un solo corpo». Ricordate che il pane non è formato da un solo chicco di grano, ma da molti […] Siate ciò che vedete e ricevete ciò che siete. Questo ha detto l’Apostolo a riguardo del pane. E ci ha fatto capire con sufficiente chiarezza ciò che dobbiamo intendere riguardo al calice, anche se non lo ha detto esplicitamente. Perché ci sia la forma visibile del pane vengono impastati molti chicchi di grano fino a formare una cosa sola ed è come se avvenisse quanto la santa Scrittura dice dei credenti: «Avevano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32); così avviene anche per il vino. Fratelli, pensate a come si fa il vino. Molti acini pendono dal grappolo, ma il succo degli acini si fonde in un tutto. Così Cristo Signore ci ha voluto dare un simbolo di noi tutti, ha voluto che facessimo parte di lui e ha consacrato sulla sua tavola il sacramento della nostra pace e unità. Chi riceve il sacramento dell’unità e non conserva il vincolo della pace, non riceve il sacramento a sua salvezza ma una testimonianza a suo danno.

(AGOSTINO, Discorsi 272,1, in Opere di sant’Agostino, Discorsi 2, pp. 1042-1044).

Il pane che ci unisce

Nello spezzare il pane insieme noi affermiamo la nostra condizione spezzata, anziché negare la sua realtà. Diventiamo più consapevoli che mai di essere presi, messi a parte come testimoni di Dio; di essere benedetti dalle parole e dagli atti della grazia; di essere spezzati, non per vendetta o per crudeltà, ma al fine di diventare un pane che può essere dato come cibo agli altri. Quando due, tre, dieci, cento o mille persone mangiano unite alla vita spezzata e versata di Cristo, esse scoprono che la loro stessa vita è parte di quell’unica vita e si riconoscono così a vicenda come fratelli e sorelle.

Vi sono pochi luoghi rimasti al mondo dove la nostra comune umanità può essere elevata e celebrata, ma ogni volta che ci riuniamo attorno ai semplici segni del pane e del vino noi abbattiamo molti muri e cogliamo un barlume delle intenzioni di Dio per la famiglia umana. E ogni volta che questo accade, siamo chiamati a preoccuparci maggiormente non soltanto del benessere dell’altro, ma anche del benessere di tutti nel mondo. Lo spezzare il pane dunque… ci mette in contatto con coloro il cui corpo e la cui mente è stata spezzata dall’oppressione e dalla tortura e la cui vita viene distrutta nelle prigioni di questo mondo. Ci mette in contatto con gli uomini, le donne e i bambini la cui bellezza fisica, mentale e spirituale rimane invisibile a causa della mancanza di cibo e di riparo…

Queste relazioni ci rendono davvero «uniti nel pane» e ci sfidano a operare con tutte le nostre energie per il pane quotidiano di tutti. In questo modo il nostro pregare insieme diventa un appello all’azione.

(Henri J.M. NOUWEN, Compassion, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 197-198).

Preghiera

Non ci sei. Non si vede il tuo Volto.

Ci sei. I tuoi raggi si spargono in mille direzioni.

Sei la Presenza nascosta.

Presenza sempre nascosta e sempre manifesta,

Mistero Affascinante

verso il quale convergono tutte le aspirazioni.

Sei il più lontano e il più vicino di tutto.

Sei sostanzialmente presente

nel mio essere intero.

Tu mi penetri, mi avvolgi, mi ami.

Sei intorno a me e dentro di me.

Con la tua Presenza attiva raggiungi

le zone più remote e più profonde

della mia intimità.

Con la tua forza vivificante

penetri tutto quanto sono e ho.

Prendimi tutto intero,

e fa’ di me una viva trasparenza

del tuo Essere e del tuo Amore,

o Signore amatissimo!

La Settimana con don Bosco

14 giugno – 21 giugno

14. I padri e le madri e gli altri superiori “usino affabilità e dolcezza colle persone loro affidate, soprattutto quando trattasi dar consigli in fatto di religione” (OE3 312).

15. “L’esattezza nel levarsi è una pratica delle più importanti della Compagnia” (OE29 248).

16. “Io sono povero mendicante e voglio che mi tratti in questo senso per la camera, per la mensa e per tutto, e quel pane e minestra che mi darà, sia tutto per amore del Signore” (E3 356).

17. “Conservati nel santo timor di Dio, amami sempre nel Signore, e se in qualche cosa ti potrò servire, mi troverai sempre affezionatissimo amico” (E1 123).

18. “La musica dei ragazzi si ascolta col cuore e non colle orecchie” (MB15 76).

19. (S. Romualdo) Questo santo “conosceva anche l’interno del cuore, svelando nominatamente le colpe che si erano nei più segreti luoghi commesse, il che gli giovò a convertire molti ostinati peccatori” (OE1 200). 

20. “Le cose di questo mondo pare che si avvicinino alla crisi; ma Dio è Padre infinitamente buono, ma infinitamente potente, perciò lasciamolo fare” (E10 45).

21. (S. Luigi Gonzaga) “Stabilite oggi di non voler mai più riguardare oggetti pericolosi o parlare di cose contrarie alla virtù, di cui abbiamo trattato” (OE33 243).

(Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. II: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

SANTISSIMA TRINITA’

Lectio – Anno C

Prima lettura: Proverbi 8,22-31

           Così parla la Sapienza di Dio: «Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. Dall’eternità sono stata formata, fin dal principio, dagli inizi della terra. Quando non esistevano gli abissi, io fui generata, quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua; prima che fossero fissate le basi dei monti, prima delle colline, io fui generata, quando ancora non aveva fatto la terra e i campi né le prime zolle del mondo. Quando egli fissava i cieli, io ero là; quando tracciava un cerchio sull’abisso, quando condensava le nubi in alto, quando fissava le sorgenti dell’abisso, quando stabiliva al mare i suoi limiti, così che le acque non ne oltrepassassero i confini, quando disponeva le fondamenta della terra, io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo».  
  • Che quanto il Padre possiede sia anche tutto del Figlio si può cominciare a capirlo da questo passo, culmine del lungo prologo del libro dei Proverbi (Pr 1,8-9,18). Là il maestro parla della sapienza al discepolo come il padre al figlio e la stessa Sapienza parla di sé due volte (Pr 1,20-32 e 8,1-36), in una personificazione letteraria, non filosofica o teologica. La seconda volta essa fa questo discorso sulla propria origine, preceduto dalla raccomandazione a seguire lei e i suoi insegnamenti (Pr 8,1-21) e seguito dall’invito ad essere ascoltata (Pr 8,32-36). Delle sue origini parla con riferimenti al racconto della creazione di Gen 1 e con importanti approfondimenti su quello che la parola di Dio dice e lo spirito opera. Prima afferma la sua priorità su tutto quanto esiste e poi la sua presenza nell’opera creatrice.

     La priorità su tutto quanto esiste (Pr 8,22-26) pone la Sapienza in rapporto unico con Dio. Da lui, quando nulla ancora esisteva, è stata «creata» (v. 22), nel senso di acquisita e posseduta quasi fosse una persona (cf. Gen 4,1), un’idea resa ancor meglio poi con «generata» (vv. 24s). Da lui fu «costituita» sulle sue opere, con una specie di investitura regale, «dall’eternità» (v. 23) specificata nel senso dei tempi più remoti con le espressioni «fin dal principio, dagli inizi della terra» e «come inizio della sua attività» (v. 22). «Fin dal principio» può esser inteso anche come «alla base» dell’agire divino, aggiungendo alla priorità temporale quella del modello della causa esemplare.

     La presenza nella creazione (Pr 8,27-31) pone la Sapienza in un rapporto speciale con tutte le opere di Dio. «Io ero là» (v. 26) non significa di per sé una presenza attiva. Ma poi «Io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno» (v. 30) dice una partecipazione al compiacimento divino, ripetuto in Gen 1 con «vide che era cosa buona». E il successivo «dilettandomi» presenta la Sapienza anche come suscitatrice della gioia in ogni opera creata da Dio, in generale sul globo terrestre e in particolare «tra i figli dell’uomo» (v. 31). Quest’ultimo aspetto è portato avanti poi da Sir 24 e da Sap 7,22-8,1.

     Il brano liturgico non rivela dunque ancora la Trinità. Ma è tra quelli che più da vicino, nell’Antico Testamento, hanno preparato la rivelazione della seconda Persona come Sapienza e Parola eterna che procede dal Padre e opera in sintonia con lui. Aiuta a capire l’affermazione di Gesù: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (Vangelo), alla luce del prologo di Giovanni che si ispira a questo passo dei Proverbi (Gv 1,1-18 in particolare 1,3-4), come poi anche l’inno cristologico di Col 1,15-20 e l’esordio della lettera agli Ebrei (Eb 1,2-4). E della paternità di Dio apre la prospettiva cosmica, oltre a quella strettamente religiosa.

Seconda lettura: Romani 5,1-5

              Fratelli, giustificati per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio.
E non solo: ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza. La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato.
 
  • Idea dominante di questo passaggio della lettera ai Romani è la speranza viva accesa in noi dalla giustificazione o recupero dal peccato e dalle mirabili prospettive di vita nuova, per il dono della grazia di Cristo e per l’amore dello Spirito Santo: inizia gli sviluppi che da Rm 5 culminano in Rm 8. Tutta la Trinità vi appare, ma è opera soprattutto dello Spirito Santo il sostegno nel cammino della speranza, nominata qui da Paolo per tre volte, in altrettante riprese del pensiero.

     Prima (vv. 1-2) egli dice che la risposta di fede al dono della grazia di Cristo mette nella pace con Dio, che nella Bibbia vuol dire crescita armoniosa e piena della vita. A tale pace si accompagna un «vanto» particolare, nel senso anche di ambizione, ma nel significato più santo e profondo, quale il gloriarsi per un fondamento sicuro della vita. È un vanto che si proietta nella speranza nientemeno che «nella speranza della gloria di Dio», cioè di arrivare a tutta la ricchezza e lo splendore dell’opera di salvezza voluta dal Padre (cf. Rm 8 ed Ef 1,3-14).

     Poi (vv. 3-4) l’apostolo fa un passo indietro a indicare quasi un supporto pure umano della speranza. Dice infatti che motivo del vanto è anche il travaglio che continua ad essere richiesto al credente per vivere la fede. Perché è un travaglio che costruisce e solidifica la speranza, salendo quattro ideali gradini: dalla tribolazione o persecuzione alla pazienza o capacità di sopportare, dalla pazienza all’irrobustimento della virtù, e da questo alla sicura speranza.

     Infine (v. 5) torna al fondamento divino per il quale la speranza cristiana non può andare delusa: l’amore di Dio nei nostri cuori, cioè nelle profondità più intime delle nostre persone. Si tratta primariamente dell’amore che Dio ha per noi, portato e alimentato dentro di noi dallo Spirito Santo. Ma, al culmine degli sviluppi di questa parte della lettera, Paolo dirà che lo Spirito Santo rende attivi anche noi nella corrispondenza allo stesso amore, in quanto: ci fa gridare «Abbà, Padre!»; sostiene il gemito per la rivelazione al mondo dei figli di Dio, paragonabile alle doglie di un parto; e ci mette dentro con gemiti inesprimibili i desideri e quello che è conveniente domandare per la piena realizzazione dei disegni amorosi di Dio (cf. Rm 8,15-16.22-24,26-27).

Vangelo: Giovanni 16,12-15

          In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà».  

Esegesi

     In questo brano del secondo discorso dell’ultima Cena (Gv 15-16), Gesù torna sulla promessa dello Spirito Santo. Nel primo discorso ne aveva annunciato l’opera a favore della comunità dei discepoli (Gv 14,16-17.25-26), adesso ne prospetta la testimonianza di fronte al mondo, che opererà in un duplice modo (cf. Gv 15,26): come diretto accusatore del mondo nelle coscienze umane (Gv 16,5-11) e come guida nella testimonianza che anche i discepoli hanno da dare, nel continuo e impegnativo sviluppo dell’esistenza dentro al mondo (la lettura odierna). Destinatario del messaggio sono le comunità cristiane della fine del primo secolo e, insieme con loro, tutte le successive impegnate nella lotta contro il male e nella propria crescita.

     Lo Spirito Santo — dice Gesù — sarà intermediario, lungo la storia, fra le Persone divine e noi. Sta per prendere il suo posto e dirà ai discepoli le cose che egli ora non può dire loro, perché non sono in grado di portarne il peso. Non è che manchino di intelligenza, ma il mistero suo e della Trinità hanno bisogno dell’esperienza vissuta per essere approfonditi. E le esigenze concrete della testimonianza si manifestano alla prova dei fatti, spesso tra ostacoli e persecuzioni: là lo Spirito sarà davvero l’altro Consolatore o Paraclito o Avvocato sostenitore. Questa azione è annunciata con le due frasi: «vi guiderà a tutta la verità» e «vi annuncerà le cose future», o meglio «venute o venienti», perché si tratta non del futuro lontano, ma di quello che istante per istante arriva al nostro presente e che anche noi chiamiamo avvenimenti.

     Questo annuncio e questa guida realizzano la mediazione dello Spirito Santo anzitutto tra la seconda persona della Trinità, Gesù Cristo, e noi. È Cristo infatti «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). E in riferimento a lui il Paraclito è «lo Spirito della verità» (a questo senso del testo originale è tornata la nuova versione della CEI, correggendo il generico «Spirito di verità» ancora in uso). Infatti: «non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito… prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Quest’ultimo verbo è ripetuto per tre volte alla fine degli ultimi tre versetti: «ananghèlei», un annunciare dall’alto, che vuol dire rivelare e insieme progressivamente attualizzare.

     L’ultimo versetto accenna alla mediazione dello Spirito Santo tra la prima persona della Trinità, il Padre, e noi. Essa passa per l’opera del Figlio. Perché, se lo Spirito guida alla verità tutta intera che è Cristo, prendendo del suo, Gesù aggiunge: «tutto quello che il Padre possiede è mio». Questa estensione si intende bene con il Prologo di Giovanni (Gv 1,1-18), che al Padre attribuisce la creazione e la storia della salvezza, operate e rivelate mediante il Figlio e nel Figlio, l’Unigenito. E spiega l’inserimento liturgico come prima Lettura del brano sulla Sapienza eterna di Dio.

Meditazione

Solennità della Santissima Trinità. Una festa di recente istituzione, storicamente ben databile, che ci aiuta a concentrare l’attenzione in modo specifico sulle persone del Padre, del Figlio e dello Spirito santo. Noi siamo soliti parlare genericamente di Dio, cerchiamo di cogliere i tratti del suo volto a partire dalla sua Parola e in particolar modo a partire dall’esperienza di Gesù, che ce lo ha «rivelato» (Gv 1,18). Ma ‘dimentichiamo’ sia lo Spirito santo sia di fissare lo sguardo sulla ‘vita interna’ di Dio, sulla sua interiorità più profonda… Ardua impresa, si potrebbe obiettare: già è difficile capire cosa si annida nel cuore di un essere umano, figuriamoci in quello di Dio! Ma è Gesù stesso, la nostra via (cfr. Gv 14,6) per eccellenza, che ci abilita e anzi ci stimola a questa ricerca. È possiamo cercare di addentrarci nel segreto della vita intima di Dio a partire dal brano evangelico dell’evangelista Giovanni, tratto dai cosiddetti ‘discorsi d’addio’ – che giustamente qualcuno ha definito ‘discorsi di arrivederci’, in quanto sono finalizzati a nuovo incontro tra noi e Gesù. In questi dialoghi con i suoi discepoli, pronunciati poche ore prima della tragica conclusione della sua esistenza, Gesù ha raccolto i desideri, le preoccupazioni, le consegne e le parole che maggiormente gli stavano a cuore. E se queste espressioni ci vengono presentate a un altissimo livello di densità e di profondità – così come è per ogni testamento – siamo allora invitati a moltiplicare la nostra attenzione e la nostra ricerca. Anche la colletta di questa eucaristia ci esorta affinché «nella pazienza e nella speranza, possiamo giungere alla piena conoscenza di te, che sei amore, verità e vita».

I quattro versetti (Gv 16,12-15) del brano evangelico si aprono con la disincantata affermazione di Gesù ai discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (v. 12). Troppi fatti avvenuti nelle ultime ore, troppe parole ancora da rielaborare: troppo… di tutto! Capita a chiunque, in momenti particolarmente densi, di non avere più ‘spazio’ per accogliere altre indicazioni e stimoli dalla vita: ci vuole una pausa e uno stacco. Ma… se non ora, quando?

Gesù non ha più tempo! Il suo tempo, la sua ‘ora’ (cfr. Gv 2,4) è ormai imminente! È stupefacente osservare la signoria con cui Gesù allora apre all’azione dello «Spirito della verità» (v. 13) e richiama la perfetta comunione tra Lui e il Padre: «Tutto quello che il Padre possiede è mio» (v. 15). Gesù appare perfettamente padrone della situazione e del tempo, non introduce ‘a denti stretti’ il Padre e lo Spirito, quasi a rincalzo e a delega di una sua incapacità a compiere tutto quanto si era prefissato. No, egli sa bene – potremmo dire per esperienza diretta e costante – che è divino non solo il donare ma anche il ricevere, l’offrire come anche l’accogliere. Questo è forse il tratto che ci colpisce maggiormente: la piena condivisione di intenti e di operazioni all’interno della Trinità, condivisione che diviene simbolo e modello per la Chiesa e per ogni compagine umana. L’amore si alimenta in un incessante dare e ricevere e Dio stesso vive così! Un vero leader non fa tutto da solo ma cerca collaborazione e apre volentieri lo spazio all’azione di altri, che completano la sua opera, approfondendola e cogliendone tutte le implicazioni (cfr. vv. 13-14). Non c’è traccia di alcuna forma di durezza, rigidità o autosufficienza: Gesù coinvolge in questo circolo addirittura i suoi discepoli, prolungando l’azione della Trinità stessa! C’è da rimanere stupiti e quasi disorientati da tanta stima e generosità!

Il brano della Lettera ai Romani che costituisce la seconda lettura liturgica riprende la medesima immagine: «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato» (5,5). C’è un dono che ci raggiunge e, se accettiamo di accoglierlo con riconoscenza, ci abilita a un’azione missionaria capace di renderci forti e maturi perfino nelle tribolazioni (cfr. vv. 3-4). La delizia di Dio (cfr. Pr 8,30-31; prima lettura), del Padre, del Figlio, dello Spirito santo risulta allora essere quella di coinvolgere in questa dinamica d’amore ogni essere umano, svelandoci in tal modo la elementare e gioiosa essenza della propria intimità. Domandiamo ancora al Dio uno e trino lo stupore e il coraggio di partecipare in pienezza «a questa grazia nella quale ci troviamo» (Rm 5,2).

Don Bosco commenta il Vangelo

Santissima Trinità

Il mistero trinitario

Nel libro di formazione cristiana intitolato La chiave del paradiso, don Bosco presenta il mistero trinitario in questi termini:

Due parole soglionsi usare quando parliamo di Dio: Unità e TrinitàUnità vuol dire che vi è un solo Dio. Trinità vuol dire che in Dio vi sono tre persone realmente distinte che si chiamano Padre, Figliuolo, Spirito Santo. Il Padre è Dio, il Figliuolo è Dio, lo Spirito Santo è Dio; tuttavia non sono tre Dei, ma tre persone che hanno la medesima potenza, sapienza e divinità, che perciò sono un solo Dio (OE8 6).

In una visione, racconta don Bosco nelle Maraviglie della Madre di Dio, san Giovanni Evangelista apparve a san Gregorio Taumaturgo per istruirlo sul grande mistero:

Gli spiegò che vi era un Dio solo in tre persone, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo, che tutte tre sono perfette, invisibili, incorruttibili, immortali, eterne; che al Padre si attribuisce specialmente la potenza e la creazione di tutte le cose; che al Figliuolo si attribuisce specialmente la sapienza, e che si fece veramente uomo, ed è uguale al Padre quantunque generato da lui; che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figliuolo ed è la fonte di ogni santità (OE20 244s).

Nella congregazione salesiana tutto si fa nel nome della Santissima Trinità. Quando un salesiano pronunzierà i voti nella congregazione, egli reciterà la formula seguente:

Nel nome della SS. Trinità, Padre, Figliuolo e Spirito Santo. Io N. N. mi metto alla vostra presenza, Onnipotente e Sempiterno Iddio, e sebbene indegno del vostro cospetto, tuttavia confidato nella somma vostra bontà ed infinita misericordia, alla presenza della Beatissima Vergine Maria Immacolata, di s. Francesco di Sales e di tutti i Santi del Cielo, faccio voto di povertà, di castità e di ubbidienza a Dio ed a voi N. N. Superiore della nostra Società, (ovvero a voi, che fate le veci del Superiore della nostra Società) per tre anni (ovvero in perpetuo) secondo le costituzioni della Società di san Francesco di Sales (OE27 96s).

Nel Cattolico provveduto troviamo questa preghiera di adorazione e di ringraziamento alla SS. Trinità da recitare la domenica:

Santissima Trinità, Padre, Figliuolo, e Spirito Santo, mio principio ed ultimo fine, io vi adoro col più profondo rispetto, e vi ossequio con tutti gli uomini che sulla terra vi conoscono. Vivamente commosso per gl’innumerevoli benefizi concessimi fin dal primo istante di mia esistenza, ve ne ringrazio con tutto il mio cuore.

Poi segue un ringraziamento particolare a ciascuna Persona divina:

Vi ringrazio, celeste Padre, per che mi avete creato a vostra immagine e somiglianza, e mi avete conservato affinché io riconosca ed ami Voi, il Figliuol vostro Gesù Cristo, e lo Spirito Santo, e così io possa poi un giorno lodarvi insieme cogli angeli e coi santi vostri eternamente in cielo.

Vi ringrazio, eterno Figliuolo di Dio, che per amor mio abbiate voluto vestire la natura umana, spargere il vostro sangue, e subire una morte crudele per liberar me dalla morte, eterna e riconciliarmi col Padre.

 Vi ringrazio, Santo Spirito, che per mezzo del santo Battesimo abbiate voluto fare vostra abitazione nell’anima mia, mi abbiate santificato, e fatto erede del regno celeste.

Come potrò io, Trinità santissima, rendervi le dovute grazie? Voi anime sante, voi, eletti di Dio, voi specialmente, da tutte le generazioni chiamata beata, voi benedetta fra tutte le donne, o Vergine Maria, offrite alla SS. Trinità in mia vece le vostre adorazioni, i vostri ringraziamenti, imperocché sebbene io avessi mille lingue, tuttavia non sarei mai in istato di adorare, di ringraziare il mio Dio, come Egli si merita. Così sia (OE19 220s).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

AOSTA – 2019  

«La via della Bellezza si rivela così come la via di Dio Trinità, e perciò come la via della salvezza e della verità: nella bellezza tutto è unificato, tutto giustificato nel suo ultimo senso».

(Bruno Forte)

Proverbi 8,22-31Romani 5,1-5Giovanni 16,12-15 Hans Urs von Balthasar ha approfondito una stupenda analogia per parlare dell’azione trinitaria in favore di noi uomini, per parlare della Trinità per come la conosciamo noi in quello che ha fatto per noi uomini. L’analogia è quella del teatro. Pensiamo al teatro, ad un dramma. Pensiamo al rapporto che c’è tra l’Autore del testo del dramma, l’Attore protagonista della scena e il Regista di tutta la scena. La bellezza della rappresentazione dipende tutta dalla sintonia del regista e dell’attore con l’autore. Il pubblico è coinvolto, ci sono ponti fluidi tra platea e scena. Chi sono l’Autore, l’Attore e il Regista del dramma divino che coinvolge l’uomo? Sono proprio il Padre, il Figlio e lo Spirito. Il Padre genera, esprime, formula, dà tutto ciò che è.Il Figlio incarna, rende vivo, realizza, dà presenza e azione.Lo Spirito Santo ispira, suggerisce, dirige, orchestra, unisce nella distanza. La bellezza che attrae, stupisce e coinvolge è la sintonia perfetta, l’unità.     

 

Preghiere e racconti

Racconto

Si racconta che un giorno S. Agostino, grandissimo sapiente della Chiesa, era molto rammaricato per non essere riuscito a capire gran che del mistero della Trinità. Mentre pensava a queste cose e camminava lungo la spiaggia, vide un bambino che faceva una cosa molto strana: aveva scavato una buca nella sabbia e con un cucchiaino, andava al mare, prendeva l’acqua e la versava nel fosso. E così di seguito. E il santo si avvicina con molta delicatezza e gli chiede: «Che cos’è che stai facendo?» E il ragazzo: «Voglio mettere tutta l’acqua del mare in questo fosso». S. Agostino sentendo ciò rispose: «Ammiro il desiderio che hai di raccogliere tutto il mare. Ma come puoi pensare di riuscirci? Il mare è immenso, e il fosso è piccolo. E poi, con questo cucchiaino non basta la tua vita». E il ragazzo, che era un angelo mandato da Dio, gli rispose: «E tu come puoi pretendere di contenere nella tua testolina l’infinito mistero di Dio?». Agostino capì che Dio è un grande mistero. E capì che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo erano così pieni di amore, che insieme dovevano divertirsi proprio un mondo.

La mia vita

Sul suo stemma vengono conservati le teste di due mori incoronati, che da circa mille anni, figurano di regola nello stemma dei vescovi di Frisinga. Non è ben chiaro il loro significato, ma per lui sono (Cf. E. BIANCO, Benedetto XVI lavoratore nella vigna, 57.) “l’espressione dell’universalità della Chiesa, che non conosce nessuna distinzione di razza e di classe” (J. RATZINGER, La mia vita, 120-121). La conchiglia è per Ratzinger anzitutto il segno dell’identità dei pellegrini in cammino. Ma essa ricorda a Ratzinger anche la leggenda secondo cui Agostino, che si lambiccava il cervello attorno al ministero della Trinità, avrebbe visto sulla spiaggia un bambino mentre giocava con una conchiglia, con cui attingeva l’acqua del mare per travasarla in una piccola buca. Gli sarebbe stato detto che questa buca poteva contenere l’acqua del mare, quanto la sua ragione poteva afferrare il mistero di Dio (Cf. J. RATZINGER, La mia vita, 121). “Per questo la conchiglia rappresenta per me un richiamo al mio grande maestro, Agostino, un richiamo al mio lavoro teologico e, insieme, alla grandezza del mistero, che è sempre molto più grande di tutta la nostra scienza”.

(J. RATZINGER, La mia vita, 121).

Oggi è la Domenica della Santissima Trinità

La luce del tempo pasquale e della Pentecoste rinnova ogni anno in noi la gioia e lo stupore della fede: riconosciamo che Dio non è qualcosa di vago, il nostro Dio non è un Dio “spray”, è concreto, non è un astratto, ma ha un nome: «Dio è amore». Non è un amore sentimentale, emotivo, ma l’amore del Padre che è all’origine di ogni vita, l’amore del Figlio che muore sulla croce e risorge, l’amore dello Spirito che rinnova l’uomo e il mondo. Pensare che Dio è amore ci fa tanto bene, perché ci insegna ad amare, a donarci agli altri come Gesù si è donato a noi, e cammina con noi. Gesù cammina con noi nella strada della vita.

La Santissima Trinità non è il prodotto di ragionamenti umani; è il volto con cui Dio stesso si è rivelato, non dall’alto di una cattedra, ma camminando con l’umanità. E’ proprio Gesù che ci ha rivelato il Padre e che ci ha promesso lo Spirito Santo. Dio ha camminato con il suo popolo nella storia del popolo d’Israele e Gesù ha camminato sempre con noi e ci ha promesso lo Spirito Santo che è fuoco, che ci insegna tutto quello che noi non sappiamo, che dentro di noi ci guida, ci dà delle buone idee e delle buone ispirazioni.

Oggi lodiamo Dio non per un particolare mistero, ma per Lui stesso, «per la sua gloria immensa», come dice l’inno liturgico. Lo lodiamo e lo ringraziamo perché è Amore, e perché ci chiama ad entrare nell’abbraccio della sua comunione, che è la vita eterna.

 (PAPA FRANCESCO, ANGELUS, Piazza San Pietro, Solennità della Santissima Trinità, Domenica, 26 maggio 2013)

Sopra tutti è il Padre, con tutti il Verbo, in tutti lo Spirito

La fede ci fa innanzitutto ricordare che abbiamo ricevuto il battesimo per il perdono dei peccati nel nome di Dio Padre, nel nome di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto carne, morto e risorto, e nello Spirito santo di Dio; ci ricorda ancora che il battesimo è il sigillo della vita eterna e la nuova nascita in Dio, di modo che d’ora in avanti non siamo più figli di uomini mortali ma figli del Dio eterno; ci ricorda ancora che Dio che è da sempre, è al di sopra di tutte le cose venute all’esistenza, che tutto è a lui sottomesso e che tutto ciò che è a lui sottomesso da lui è stato creato.

Dio perciò esercita la sua autorità non su ciò che appartiene a un altro, ma su ciò che è suo e tutto è suo, perché Dio è onnipotente e tutto proviene da lui […] C’è un solo Dio, Padre, increato, invisibile, creatore di tutte le cose, al di sopra del quale non c’è altro Dio come non esiste dopo di lui. Dio possiede il Verbo e tramite il suo Verbo ha fatto tutte le cose. Dio è ugualmente Spirito ed è per questo che ha ordinato tutte le cose attraverso il suo Spirito. Come dice il profeta: «Con la parola del Signore sono stati stabiliti i cieli e per opera dello Spirito tutta la loro potenza» [Sal 32 (33) ,6]. Ora, poiché il Verbo stabilisce, cioè crea e consolida tutto ciò che esiste, mentre lo Spirito ordina e da forma alle diverse potenze, giustamente e correttamente il Figlio è chiamato Verbo e lo Spirito Sapienza di Dio. A ragione dunque anche l’apostolo Paolo dice: «Un solo Dio, Padre, che è al di sopra di tutto, con tutto e in tutti noi» (Ef 4,6). Perciò sopra tutte le cose è il Padre, ma con tutte è il Verbo, perché attraverso di lui il Padre ha creato l’universo; e in tutti noi è lo Spirito che grida «Abba, Padre» (Gal 4,6) e ha plasmato l’uomo a somiglianza di Dio.

(IRENEO, Dimostrazione della fede apostolica 3-5, SC 406, pp. 88-90).

Non lasciarlo troppo attendere!

“Tu che hai guardato, tu che hai ascoltato, non pensare:

questo risale alla notte dei tempi!

Icona russa Trinità Rublev dipinta mano 14x10 cm 1Adamo, sei tu. La sua creazione, il mistero della tua vita.

Tra Dio e te, nessun altro gioco d’amore, nessun altro dramma!

Ciò che segue: non una storia compiuta per sempre,

un’avventura vissuta una volta per tutte, ma una lunga ricerca,

contemporanea alla tua vita, che continua, di giorno e di notte.

Non ieri, ma oggi. Penetrato dal suo pensiero su di te entra nel tempo di Dio.

Questo Dio, il tuo Dio, in pena per te, il cui Volto è così poco desiderato,

non lasciarlo troppo attendere!”

(Daniel ANGE, Dalla Trinità all’Eucaristia. L’Icona della Trinità di Rublëv, Ancora, Milano 1999)

Dio è Amore

Al nonno, professore universitario, che cercava di trasmettergli il concetto che “Dio è onnisciente, onnipotente, non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, insomma è tutto!” il nipotino di cinque anni rivolge a bruciapelo questa domanda inaspettata: “ma senti un po’ nonno, se Dio è tutto perché ha fatto il mondo?

Quando mi raccontarono il fatto rimasi sbalordito, ero appena uscito dalla lettura di due testi, il primo di un fisico, premio Nobel, Steve Weinberg che chiudeva il suo libro sull’origine dell’universo con una frase più o meno simile: quanto più l’universo ci diventa noto, tanto più non riusciamo a spiegarcene il perché, ci resta incomprensibile. Il secondo libro era di un teologo, Hans Urs von Balthasar, il quale affermava che: il mondo rimane per noi incomprensibile non soltanto se Dio non c’è, ma anche se Dio c’è e non è Amore.

La domanda “se Dio è tutto perché ha creato il mondo?” può avere una sola risposta: perché Dio è Amore.

La prima conclusione suona allora così: se il mondo c’è, Dio è Amore.

Il patto di Dio

Dio ha fatto un patto con noi. Il termine inglese covenant (patto, alleanza) significa ‘con-venire’: Dio vuole venire insieme con noi. In molti dei racconti della Bibbia ebraica, troviamo che Dio appare come un Dio che ci difende contro i nostri nemici, ci protegge contro i pericoli e ci guida alla libertà. Dio è un Dio-per-noi. Quando Gesù viene, si rivela una nuova dimensione dell’alleanza. In Gesù Dio è nato, diviene adulto, vive, soffre e muore come noi. Dio è un Dio-con-noi. Infine, quando Gesù lascia questa terra, promette lo Spirito Santo. Nello Spirito Santo Dio rivela pienamente la profondità del suo patto. Dio vuole essere vicino a noi quanto il nostro respiro, Dio vuole respirare in noi, affinché tutto quello che diciamo, pensiamo o facciamo sia completamente ispirato da Dio. Dio è Dio-in-noi. Il patto di Dio ci rivela dunque quanto Dio ci ami.

(Henri J.M. NOUWEN, Pane per il viaggio, in ID., La sola cosa necessaria – Vivere una vita di preghiera, Brescia, Queriniana, 2002, 59).

Preghiera

Lode a te, o Dio, che sei Padre, Figlio e Spirito,

che sei il termine eccedente del mio desiderio

e la fonte inesauribile del mio stupore.

Lode a te che hai voluto entrare nella nostra e nella mia storia

per mostrare che la mia solitudine radicale è vinta,

che la mia morte non potrà avvincermi in forma definitiva.

Lode a te che vinci il mio timore di perdermi se ti lascio spazio nel mio cuore.

Lode a te che mi avvolgi nella tua nube

e in essa mi sveli il tuo mistero,

che è il mistero della mia stessa vita ardentemente indagato.

Lode a te che sei l’amore traboccante e perennemente accogli e salvi la mia fragilità.

Lode a te che mi concedi di entrare nella tua comunione

e mi dischiudi possibilità di relazioni vertiginose.

Lode a te che mi conduci sulla via della dedizione

seducendo il mio spirito desideroso di pienezza.

Lode a te che sei il principio, l’ambiente e la meta di tutto quanto io posso fruire.

Lode a te che sei il mio Tutto.

La Settimana con don Bosco

7 giugno – 14 giugno

7. “Il Signore ci ha messi in questo mondo per gli altri” (MB7 30).

8. (B. Istvan Sándor) “Vi rendiamo grazie, o Signore, che ci avete fatti degni di soffrire qualche cosa per la gloria del vostro Santo Nome” (OE13 91).

9. (S. Efrem) “Sant’Efrem Siro […] esclama cosi: La sapienza dei filosofi, l’eloquenza degli oratori restano ammutoliti allo spettacolo che offrono i gloriosi combattimenti dei martiri” (OE10 83s).

10. “Non si può fare opera migliore, dice san Vincenzo de’ Paoli, che contribuire a fare un prete” (OE29 17).

11. (S. Barnaba) Barnaba era un “giovane di gran virtù, la cui bontà di cuore contribuì molto a temperare l’animo focoso del condiscepolo [Paolo]” (OE9 171).

12. (Bb. F. Kęsy e comp.) “Dio solo poteva infondere tanta forza e tanto coraggio nel cuor dei martiri” (OE4 274).

13. (S. Antonio di Padova) “L’unzione, il fuoco, la dignità più angelica che umana con cui predicava gli tirò sì gran numero di uditori che fu necessità predicasse nell’aperta campagna” (OE1 402).

14. I padri e le madri e gli altri superiori “usino affabilità e dolcezza colle persone loro affidate, soprattutto quando trattasi dar consigli in fatto di religione” (OE3 312).

(Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

ASCENSIONE DEL SIGNORE

Lectio – Anno C

Prima lettura: Atti 1,1-11

          Nel primo racconto, o Teòfilo, ho trattato di tutto quello che Gesù fece e insegnò dagli inizi fino al giorno in cui fu assunto in cielo, dopo aver dato disposizioni agli apostoli che si era scelti per mezzo dello Spirito Santo. Egli si mostrò a essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo». Quelli dunque che erano con lui gli domandavano: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?». Ma egli rispose: «Non spetta a voi conoscere tempi o momenti che il Padre ha riservato al suo potere, ma riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra». Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo».  
  • I primi tre versetti del libro degli Atti lo collegano strettamente al terzo vangelo: ne riassumono infatti il contenuto e ripetono il nome del personaggio a cui ambedue i libri sono dedicati: Teofilo (che può essere il nome di un personaggio storico o può essere soltanto il titolo dato al prototipo del cristiano: l’amico di Dio). Il riassunto del terzo vangelo qui proposto si sofferma soprattutto (nell’intero versetto 3) sul fatto che gli Apostoli sperimentarono a lungo e in maniera pienamente convincente che Cristo era tornato a vivere, dopo la sua passione e morte (cioè, era risorto): infatti era apparso a loro ripetutamente, istruendoli sul regno di Dio. L’espressione «per quaranta giorni» deve avere qui un valore simbolico: deve voler significare che l’esperienza del Cristo risorto fu bensì limitata e conclusa nel tempo, ma sufficiente perché agli Apostoli fosse dato un insegnamento pieno sulla missione a loro affidata.

     Nei vv. 4.8 sono quasi condensati, in un unico episodio, il lungo rapporto intercorso tra Gesù risorto e gli Undici e l’insegnamento che essi da lui ricevettero. L’espressione «mentre si trovava a tavola con essi» contiene forse una allusione alla verità indiscutibile della sua risurrezione (non era un fantasma!) e alla familiarità conviviale con cui il risorto si intratteneva con i suoi. Elemento importante dell’insegnamento di Gesù risorto è considerato quello che riguarda lo Spirito Santo, il quale con la sua forza avrebbe portato a compimento la loro formazione di discepoli. Altro elemento importantissimo di quell’insegnamento è

l’orizzonte universale della missione affidata agli Undici da Gesù: «di me sarete testimoni… fino agli estremi confini della terra». L’universalità di questa prospettiva è presentata con grande decisione, tale da far apparire quasi insignificante il desiderio di conoscere i tempi e i momenti della ricostruzione del regno di Israele; quel desiderio è destinato quasi ad annegare nella vastità dei disegni del Padre.

     I versi 9-11 contengono diversi messaggi tra loro coordinati. Il primo è che Gesù ha concluso la sua presenza visibile sulla terra, essendo rientrato nel modo di essere proprio di Dio, come suggerisce la frase: «una nube lo sottrasse ai loro occhi» (la nube è infatti, nell’Antico Testamento, il nascondiglio e insieme il segno della presenza di Dio). Un altro insegnamento è che ormai la testimonianza su Gesù e del suo vangelo è affidata esclusivamente ai suoi discepoli: questo sembra vogliano suggerire i due misteriosi uomini in bianche vesti, che li invitano a non restarsene lì incantati a cercare con lo sguardo colui che fu elevato in alto. Un ultimo insegnamento è che quel Gesù che non è più visibile con gli occhi, tornerà un giorno e sarà di nuovo visibile, nella sua veste di giudice supremo e universale.

Seconda lettura: Ebrei 9,24-28; 10,19-23

                Cristo non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore. E non deve offrire se stesso più volte, come il sommo sacerdote che entra nel santuario ogni anno con sangue altrui: in questo caso egli, fin dalla fondazione del mondo, avrebbe dovuto soffrire molte volte. Invece ora, una volta sola, nella pienezza dei tempi, egli è apparso per annullare il peccato mediante il sacrificio di se stesso. E come per gli uomini è stabilito che muoiano una sola volta, dopo di che viene il giudizio, così Cristo, dopo essersi offerto una sola volta per togliere il peccato di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione con il peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza. Fratelli, poiché abbiamo piena libertà di entrare nel santuario per mezzo del sangue di Gesù, via nuova e vivente che egli ha inaugurato per noi attraverso il velo, cioè la sua carne, e poiché abbiamo un sacerdote grande nella casa di Dio, accostiamoci con cuore sincero, nella pienezza della fede, con i cuori purificati da ogni cattiva coscienza e il corpo lavato con acqua pura. Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso.  
  • La lettera agli Ebrei, nel brano che costituisce la nostra seconda lettura, pur non facendo alcun riferimento al racconto del libro degli Atti che include il fatto dell’ascensione del Signore, sembra che ne illustri il profondo significato teologico.

     Come nel libro degli Atti, anche qui è detto che Gesù «è entrato… nel cielo… per comparire ora al cospetto di Dio» (9,24). Per poter approfondire il significato dell’ingresso di Gesù nel cielo, che era un elemento comune della predicazione nella Chiesa primitiva, l’ignoto autore della lettera agli Ebrei stabilisce un confronto tra la persona di Gesù e le pratiche cultuali degli Ebrei, concentrate nel tempio di Gerusalemme. In particolare, qui sembra evocata la festa dell’Espiazione, quella che oggi è per gli ebrei, accanto alla Pasqua, una delle feste religiose più importanti, col nome di jôm Kippùr. Elemento centrale di questa celebrazione era quello che si può chiamare il rito del sangue: il sommo sacerdote, passando oltre il velo che separava il luogo santissimo dalla zona del sacrificio, ungeva il coperchio dell’Arca (detto in ebraico kappòret e tradotto con il termine propiziatorio) con il sangue del vitello e del capro offerti quel giorno in sacrificio per l’espiazione dei peccati dello stesso sacerdote e di tutti gli israeliti (Vedi Levitico, 16). Nella nostra lettura, Gesù Cristo è visto come il celebrante di una nuova festa dell’Espiazione: egli è penetrato nel cielo stesso portando il proprio sangue, quello sgorgato dalla sua persona, e ha ottenuto una volta per tutte di togliere i peccati di molti. Conseguenza grandiosa di questi fatti è che si è aperta una via nuova e vivente, la persona stessa di Gesù Cristo immolatasi per il mondo intero, che consente anche a noi di entrare nel santuario, cioè nella casa di Dio. Perché questo accada è però necessario avere il cuore purificato e il corpo lavato con acqua pura, nella luce della fede e nella professione della speranza: il che vuol dire avere accolto la testimonianza della predicazione apostolica ed essere entrati a far parte della Chiesa voluta da Gesù.

Vangelo: Luca 24,46-53

           In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni. Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto». Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio.  

Esegesi

     Chi pensasse di trovare nel vangelo di Luca il racconto circostanziato dell’ascensione al cielo di Gesù, così come in certi apocrifi è raccontata l’ascensione di altri personaggi biblici, resterebbe deluso. Al fatto in se stesso il testo evangelico dedica solo queste parole: «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». Queste parole appartengono alla sezione conclusiva del terzo vangelo, che abbraccia l’intero capitolo 24 e lega tra loro strettamente gli avvenimenti che scandirono un’intera giornata, il «primo giorno dopo il sabato» (24,1): le donne scoprirono la tomba vuota e, ricevuto l’annunzio della risurrezione di Gesù, lo comunicarono agli Undici; anche Pietro andò a vedere la tomba vuota e restò «pieno di stupore»; due discepoli che andavano a Emmaus si imbatterono in Gesù, vennero da lui istruiti sul significato delle Scritture e finirono per riconoscerlo nella frazione del pane; finalmente, a tarda sera, Gesù in persona apparve agli apostoli riuniti, diede loro le ultime istruzioni, affidò a loro la missione della testimonianza, li benedisse e si staccò da loro.

     Come si vede, il tema che riempie tutta la durata di questo specialissimo giorno è quello della risurrezione del Signore Gesù, che si conclude con il mandato, affidato agli Undici, di testimoniarla «sino ai confini della terra».

     Diamo qui di seguito il senso globale del brano conclusivo del terzo vangelo, che costituisce la nostra lettura evangelica, senza indugiare sull’analisi dettagliata delle sue singole frasi.

     Poiché Gesù Cristo è realmente risorto, la sua passione e la sua morte non sono e non debbono considerarsi una sconfitta, ma una vittoria sul peccato, sicché a tutti è adesso accessibile il perdono dei peccati. E se il peccato è stato sconfitto non c’è più ragione che l’umanità continui a camminare nella strada della sua rovina, ma può cambiare strada, può dare inizio alla propria conversione. È per l’appunto questa la missione che Gesù intende affidare ai suoi discepoli: egli vuole che essi siano i suoi testimoni. Cominciando da Gerusalemme, la loro testimonianza dovrà arrivare a tutte le genti. A tutte le nazioni della terra, a tutti i popoli, dovrà arrivare la lieta notizia di Gesù Cristo, che ha predicato il vangelo e per questo è stato inchiodato sulla croce ed è morto, ma il terzo giorno è risorto. Per intraprendere questa missione, i discepoli di Gesù hanno però bisogno di una forza dall’alto, hanno bisogno cioè che scenda su di loro la forza dello Spirito Santo, secondo la promessa già fatta ai profeti per gli ultimi tempi. Dopo aver raccomandato loro di restare in Gerusalemme fino alla discesa dello Spirito, con un’ultima benedizione, Gesù «si staccò da loro e veniva portato su, in cielo». La testimonianza della risurrezione poteva così essere completata con quest’ultimo elemento: l’ingresso di Gesù nella vita divina del cielo. Egli dunque non doveva essere considerato assente o lontano dalla vita degli uomini sulla terra, ma doveva essere considerato sempre vicino quanto Dio lo è a tutta la sua creazione.

Meditazione

     La liturgia della parola della solennità odierna ci presenta due racconti del medesimo avvenimento – lo staccarsi definitivo di Gesù, in modo fisico, da questa terra e dai discepoli – narrati dallo stesso autore. Ciò è dovuto alla grande maestria letteraria e teologica dell’evangelista Luca, non certo a una svista! La differenza che salta maggiormente agli occhi è la cronologia: nel brano evangelico l’ascensione avviene la sera stessa di Pasqua (dato storicamente inverosimile, dal momento che nel racconto dei due discepoli di Emmaus siamo già a sera inoltrata), mentre negli Atti degli apostoli si situa alla conclusione di un periodo di quaranta giorni di apparizioni. Tale diversità si spiega a partire da una diversa prospettiva teologica: nell’evangelo tutta l’attenzione è concentrata su Gesù e sulla novità che il giorno di Pasqua porta, non c’è più tempo e spazio per narrare dei discepoli ed è Gesù che domina l’ultima scena; negli Atti degli apostoli è la comunità dei discepoli che diviene soggetto, il tempo è più disteso e si sviluppa il cammino della Chiesa.

     Comunque sia, il fatto si svolge a Gerusalemme, meta del pellegrinaggio terreno di Gesù (cfr. Lc 9,51 ss.) e luogo della sua morte e risurrezione. Lo spazio più sacro della città santa è il tempio, con cui si apre (cfr. 1,8 ss.) e si chiude il racconto evangelico. Ma ora è Gesù stesso il tempio, il luogo dove abita la presenza di Dio e noi siamo portati, insieme con lui, alla destra dell’Altissimo!

     Gerusalemme è anche il luogo dove scenderà lo Spirito santo (cfr. Lc 24,49; At 1,5), che i discepoli devono attendere: si compie l’ultima e principale promessa di Gesù, che introduce alla comunione trinitaria e che abilita alla missione tra le genti. L’Ascensione è pertanto momento di passaggio, di attesa tra la Pasqua e la Pentecoste: c’è il tempo per prepararsi a rendere testimonianza al Signore risorto, che ora siede nei cieli.

     Ma qual è dunque il messaggio, l’incarico a cui sono chiamati i discepoli «a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8)? «La conversione e il perdono dei peccati» (Lc 24,47), la possibilità per ogni uomo di veder rinascere la propria esistenza, di vederla segnata dalla misericordia affinché a tutti si rechi nuovamente misericordia. Il contenuto del messaggio sembra semplice, seppur straordinario; ciononostante, perfino in quel momento, regna l’incomprensione: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (At 1,6). Quanta fatica a staccarsi dai propri progetti, quale conversione chiede tenere insieme il nostro mondo con quello di Dio…

     È lo stesso Gesù a guidare il gruppo nel momento del distacco. Come i patriarchi, si separa da loro mediante la benedizione, un ultimo gesto di sostegno e vicinanza che sostituisce le parole. Se la prima reazione dei discepoli è quella dello sconcerto, della perplessità, del disorientamento, forse anche della nostalgia – «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo?» (At 1,11) – subito subentra l’azione missionaria e della preghiera, da svolgersi nella lode (cfr. Lc 24,53) e nell’attesa del ritorno del Signore: «Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,11). Non c’è pertanto un distacco radicale, una separazione: la tristezza che aveva caratterizzato i discepoli nell’ultima sera trascorsa insieme a Gesù viene rimpiazzata dalla le-tizia di saperlo non nel regno dei morti ma dei viventi, di Dio! Ecco perché l’ultimo gesto nei confronti di Gesù è quello della prostrazione – unico caso in tutto il vangelo di Luca – attraverso il quale si riconosce la divinità del Signore.

     Mi sembra estremamente significativo che il Signore Gesù introduca i discepoli alla predicazione missionaria mediante il richiamo alle Scritture: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (Lc 24,46). Nonostante siano compiute, le Scritture restano determinanti per interpretare e conoscere sempre meglio la persona di Gesù: sono il compagno di viaggio dell’autentico discepolo del Signore.

Don Bosco commenta il Vangelo

VII domenica di Pasqua

ASCENSIONE DEL SIGNORE

Gesù promette lo Spirito di verità

Se mi amate, osservando i miei comandamenti, dice Gesù, “io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito, […] lo Spirito della verità” (Gv 14,16).

La promessa di Gesù si compirà dopo la morte e risurrezione, scrive don Bosco nella sua Storia sacra:

“Promise quindi che dopo la sua morte e risurrezione avrebbe mandato lo Spirito Santo dicendo: Se mi volete bene, osservate i miei comandamenti, ed io pregherò il Padre celeste, il quale vi manderà lo Spirito di verità. Egli v’insegnerà tutte le cose, vi rammenterà quanto vi ho detto” (OE3 191).

Nello scritto apologetico dal titolo Vita infelice di un novello apostata, l’amico dell’apostata risponde alle sue obiezioni dicendo:

Voi dunque ignorate […] che alla medesima Chiesa Gesù Cristo abbia promesso l’assistenza dello Spirito Santo, acciocché non possa errare; e che egli abbia dato particolarmente a san Pietro […] il potere, anzi il comando di rinfrancare gli altri nella fede, e quindi d’interpretare loro la Sacra Scrittura, e loro far conoscere le verità che in esse si contengono, e tenerli lontani dagli errori (OE5 187s).

L’azione eclatante dello Spirito Santo si manifesta in particolare nella vita dei santi. Don Bosco nei Fatti ameni della vita di Pio IX riferisce quanto segue in occasione della glorificazione di due serve di Dio. Il papa, dopo aver citato il Vangelo del giorno e ricordato ciò che disse Nostro Signore nell’ultima cena, che cioè “il Santo Spirito venendo su questo mondo avrebbe convinti gli uomini della loro incredulità”, soggiunse:

Le prove della verità di nostra fede sono molteplici e i testimoni che ce ne lasciò il passato brillano di una vivida luce. E intanto non vi è angolo della terra, oggigiorno anzitutto, dove non trovisi o un drappello o un esercito intero di sciagurati che non s’arrovellino per torcere in ridicolo il maggiore dei beni, la fede. Ma il Signore fa vedere a quegli infelici, quasi un rimbrotto continuo, i tanti suoi servitori che suggellarono questa fede col loro sangue […]. Sì, anch’oggigiorno, Iddio mostra ed oppone all’incredulità queste due sue ancelle, le quali ottengono, sebbene in diverso grado, gli onori degli altari (OE23 210s).

L’assistenza dello Spirito Santo vale per tutto il collegio apostolico, e in modo tutto particolare per il papa. Nel suo opuscolo dal titolo I concili generali e la Chiesa cattolica, don Bosco mette in bocca al prevosto questa risposta agli interrogativi del giovane parrocchiano di nome Tommaso:

Le promesse che Gesù Cristo fece di sempre essere cogli altri apostoli sino alla fine del mondo, e l’assistenza e l’inspirazione dello Spirito Santo loro divinamente assicurate, riguardano tutto il collegio apostolico, dal quale perciò non si può escludere san Pietro, che n’è uno dei membri, anzi membro principale pei pieni poteri ricevuti da solo a preferenza di tutti gli altri apostoli. Vi ha di più: le promesse della divina assistenza e dell’infallibilità sono fatte agli altri apostoli solo in quanto che essi sono uniti a Pietro, già prima nominato capo e pastore universale. Di fatto Gesù Cristo assicurò questa infallibilità prima al solo Pietro, e perché? Perché si conoscesse che il papa era il mezzo col quale comunicavasi l’infallibilità alla Chiesa tutta (OE22 46s).

Così la Chiesa “avrà per anima lo Spirito Santo, il quale le insegnerà ogni verità” (OE22 70).

Nelle sue Memorie dellOratorio, la questione della verità della religione cattolica è il tema principale nell’affare della conversione dell’amico ebreo Giona. Alla domanda dell’amico: “Ma tu che mi vuoi tanto bene, se fossi al mio posto, che faresti?”, Bosco rispose:

“Comincerei ad istruirmi nella cristiana religione. Intanto Dio aprirà la via a quanto si dovrà fare in avvenire. A questo scopo prendi il piccolo catechismo, e comincia a studiarlo. Prega Dio che ti illumini, e che ti faccia conoscere la verità” (MO 67).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

Matera: Capitale Europea della Cultura  –  2019   

L’immagine della domenica

«La Terra è un paradiso.

L’Inferno è non accorgersene».

(José Luis Borges)

Atti 1,1-11Ebrei 9,24-28; 10,19-23Luca 24,46-53 Assistiamo ad un offuscamento della speranza. Il tempo che stiamo vivendo, infatti, con le sfide che gli sono proprie, appare come una stagione di smarrimento. Tanti uomini, donne, sembrano disorientati, incerti, senza speranza e non pochi cristiani condividono questo stato d’animo…Allo smarrimento si accompagna una sorta di paura nell’affrontare il futuro. L’immagine del domani risulta sbiadita ed incerta. La nebbia ci impedisce di contemplare i colori del cielo, i colori della vita, i colori accessi nel cuore di ogni persona.  Il Vangelo e gli Atti degli Apostoli, nel racconto della Ascensione, sono molto scarni, come a voler affermare una meravigliosa verità che ci riguarda e, come tutte le notizie meravigliose, è caratterizzata non dalle parole, ma da stupore e gioia. Dobbiamo esultare e pienamente ringraziando rallegrarci. Oggi non solo abbiamo ricevuto la conferma di possedere il paradiso, ma siamo penetrati con Cristo nell’altezza dei cieli (Leone Magno).  


Preghiere e racconti

Un pastore della chiesa riformata, il pastore Paolo Ricca, scrivendo in questi giorni dell’Ascensione, diceva che “un po’ dappertutto l’Ascensione è diventata o tende a diventare la cenerentola delle feste cristiane”. Ascensione, festa cenerentola. E si chiedeva perché, come mai? Eppure dell’Ascensione si parla ampiamente nelle Sacre Scritture. A confronto per esempio col Natale, molto più ampiamente. Eppure vedete quanta importanza diamo al Natale, e quanta meno all’Ascensione. Perché? Come mai? “La risposta” -scrive Paolo Ricca- “non è difficile: l’Ascensione è poco festeggiata perché la Chiesa esita a far festa nel momento in cui il suo Signore “se ne va”. La Chiesa festeggia volentieri il Signore che viene, ma non il Signore che parte; acclama colui che appare, ma non colui che scompare”. Con l’Ascensione Gesù diventa invisibile. L’invisibilità fa problema: mi ha colpito questa citazione di Dietrich Bonhoeffer, che scriveva: “L’invisibilità ci uccide”. Sì, questo è un pericolo. Non è forse vero che nell’invisibilità ci si allontana a volte? Abbiamo perfino coniato un proverbio: “Lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Quasi a dire che quando viene meno la visibilità -lontano dagli occhi- viene meno anche il rapporto la relazione. E non è proprio questo quello che accade sul monte degli Ulivi, e cioè l’andare lontano dagli occhi? E’ scritto: “Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo…”. Lontano dagli occhi. Ma ci chiediamo, lontano anche dal cuore questo Signore? Ecco, la storia che seguì -e la storia che segue è certo quella narrata negli Atti degli Apostoli, ma anche quella narrata nei secoli successivi, è la storia anche dei discepoli di oggi- ebbene, la storia che segue contiene una sfida al proverbio, sta a dimostrare che la lontananza dagli occhi di Gesù, la sua invisibilità, non l’ha cancellato dal nostro cuore. “L’invisibilità” -scrive Paolo Ricca- “non significa assenza, ma un altro tipo di presenza, quella dello Spirito con il quale Gesù paradossalmente è più vicino di prima ai suoi discepoli: prima stava “con loro”, adesso dimora “dentro” di loro”. L’Ascensione rovescia il proverbio: “lontano dagli occhi, vicino nel cuore”. Vorrei aggiungere che paradossalmente quella visibilità di Gesù a cui, a volte, guardiamo con nostalgia, la visibilità del passato, quando le folle lo toccavano, quando la donna peccatrice lo ungeva e lo profumava, quella visibilità era anche un ostacolo. Un ostacolo perché tratteneva Gesù: lo tratteneva in un piccolo paese, nei confini che delimitavano la sua azione: quante migliaia di persone lo videro, lo ascoltarono? Poche senz’altro. Da quando è asceso al cielo, pensate quante storie di uomini e di donne -miliardi, miliardi di storie e noi siamo una di queste storie- quante storie di uomini e di donne hanno stretto un legame con questo invisibile Signore. Voi mi capite, che Gesù -lontano dai nostri occhi- viva, viva con la sua presenza, con la sua parola, con la sua luce, con la sua consolazione, nei nostri cuori. E da ultimo è anche vero che questa festa dell’Ascensione -lo faceva notare ancora Paolo Ricca- proprio perché sottrae il Signore ai nostri sguardi, ci fa vivere i nostri giorni anche come attesa. Perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno, allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo. Vivere l’attesa. Non è facile imparare l’attesa. Aspettare Dio. Anche nella religione a volte abbiamo più l’aria di chi possiede, che lo sguardo curioso di chi attende. Scrive P. Tillich: “Penso al teologo, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in un edificio dottrinale. Penso all’uomo di chiesa, che non aspetta Dio perché lo possiede rinchiuso in una istituzione. Penso al credente, che non aspetta Dio rinchiuso nella sua propria esperienza. Non è facile sopportare questo non avere Dio, questo aspettare Dio…”. E’ quello che ci insegna la festa dell’Ascensione.

(Angelo Casati, in www.sullasoglia.it)

Trasfigurati dalla speranza

Come si vede, prima componente della speranza, che io propongo, è il dialogo con Dio, da figlio a padre, da povero peccatore a colui che è misericordia infinita; esso va bene tanto nei momenti della gioia quanto in quelli del dolore; chi non lo conosce, questo dialogo, o l’avesse da tempo sospeso o tralasciato, dovrebbe riprenderlo quanto prima.  Altra componente della speranza: dare più spazio alla parte migliore di noi, che bisogna saper scoprire, far riemergere dal profondo e valorizzare.  La gente, oggi, mitizza volentieri e cerca modelli di vita nei divi del cinema, nei campioni dello sport, negli uomini che hanno successo.  Questa gente, si direbbe, si ispira a Carlyle, che pensò agli “eroi” come a “uomini superiori”, sorti a guidare i popoli: Meglio ispirarsi al nostro Giambattista Vico, per il quale l’”eroe” è “qui sublimia appetit”, chi cioè tende a cose alte: alla perfezione morale, all’unione con Dio, a promuovere, secondo le proprie possibilità, l’avanzamento di ogni uomo e di tutto l’uomo. C’è davvero maggiore speranza in noi, quando sentiamo più cocente la nostalgia di un’autentica grandezza umana. Quella, per esempio, che Amleto attribuiva al suo defunto padre, dicendo: “Tutto in lui armonizzava così bene che la natura sembrava alzarsi in punta di piedi e segnarlo a dito dicendo: Quegli era un uomo”.  Oppure l’altra grandezza, di cui un poeta francese: “L’homme est un dieu tombé qui se souvient  des cieux”, l’uomo è un dio decaduto, che ha nostalgia del cielo. Noi siamo infatti una specie di angelo che non ha più le ali, ma se ricordiamo di averle avute e se crediamo che le riavremo, veniamo trasfigurati dalla speranza.

(Albino Lucani [Giovanni Paolo I], Da “Opera Omnia”, voll. VII, Padova, Messaggero, 1975-1976, 540-41).

Guardarsi dentro

Un giorno Dio si rallegrava e si compiaceva più del solito nel vedere quello che aveva creato. Osservava l’universo con i mondi e le galassie, ed i venti stellari sfioravano la sua lunga barba bianca accompagnati da rumori provenienti da lontanissime costellazioni che finivano per rimbombare nelle sue orecchie. Le stelle nel firmamento brillavano dando significato all’infinito.

Mentre ammirava tutto ciò, uno stuolo di Angeli gli passò davanti agli occhi ed Egli istintivamente abbassò le palpebre, ma così facendo gli Angeli caddero rovinosamente. Poveri angioletti, poco tempo prima si trovavano a lodare il Creatore rincorrendosi tra le stelle ed ora si trovavano su di un pianeta a forma di grossa pera!

“Che luogo è questo?” chiesero gli Angeli a Dio.

“E’ la Terra.” Rispose il Creatore.

“Dacci una mano per risalire”, chiesero in coro le creature, “perché possiamo ritornare in cielo”.

Dopo una pausa di attesa (secondo i tempi divini!), Egli rispose:

“No! Quanto è accaduto non è avvenuto per puro caso. Da molti secoli odo il lamento dei miei figli e mai hanno permesso che rispondessi loro. Una volta andai di persona, ma non tutti mi ascoltarono. Forse ora ascolteranno voi, dopo quello che hanno passato e passano seguendo falsi dei.

Andate creature celesti, amate con il mio cuore, cantate inni di gioia, mischiatevi tra i popoli in ogni luogo della terra e quando avrete compiuto la missione, allora ritornerete e faremo una grande festa nel mio Regno”.

Da allora tutti gli Angeli, felici di quanto si apprestavano a compiere per il bene degli uomini, se ne vanno in giro a toccare i cuori della gente e gioiscono quando un anima trova l’Amore.

Ma la cosa più sorprendente era che, toccando i cuori, scoprirono che molti di essi erano … Angeli che urtando il capo nella caduta avevano perduto la memoria.

E la missione continua anche se ancora ci sono molti Angeli smemorati, che magari alla sera, seduti sul davanzale della propria casa, guardano il cielo stellato in attesa di un significato scritto nel loro cuore.

Se solo si guardassero “dentro”!

Il cielo

«Con l’immagine e la parola “cielo”, che si connette al simbolo di quanto significa “in alto”, al simbolo cioè dell’altezza, la tradizione cristiana definisce il compimento, il perfezionamento definitivo dell’esistenza umana mediante la pienezza di quell’amore verso il quale si muove la fede.

Per il cristiano, tale compimento non è semplicemente musica del futuro, ma rappresenta ciò che avviene nell’incontro con Cristo e che, nelle sue componenti essenziali, è già fondamentalmente presente in esso.

Domandarsi dunque che cosa significhi “cielo” non vuol dire perdersi in fantasticherie, ma voler conoscere meglio quella presenza nascosta che ci consente di vivere la nostra esistenza in modo autentico, e che tuttavia ci lasciamo sempre nuovamente sottrarre e coprire da quanto è in superficie. Il “cielo” è, di conseguenza, innanzi tutto determinato in senso cristologico. Esso non è un luogo senza storia, “dove” si giunge; l’esistenza del “cielo” si fonda sul fatto che Gesù Cristo come Dio è uomo, sul fatto che egli ha dato all’essere dell’uomo un posto nell’essere stesso di Dio (K. Rahner, La risurrezione della carne, p. 459). L’uomo è in cielo quando e nella misura in cui egli è con Cristo e trova quindi il luogo del suo essere uomo nell’essere di Dio.

In questo modo, il cielo è prima di tutto una realtà personale, che rimane per sempre improntata dalla sua origine storica, cioè dal mistero pasquale della morte e risurrezione».

(Joseph Ratzinger [BENEDETTO XVI], Imparare ad amare. Il cammino di una famiglia cristiana, Milano/Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Editrice Vaticana, 2007, 131).

«Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo» (At 1,11)

«[…] Nella risposta a questa domanda è racchiusa la verità fondamentale sulla vita e sul destino dell’uomo.

La domanda in questione si riferisce a due atteggiamenti connessi con le due realtà, nelle quali è inscritta la vita dell’uomo: quella terrena e quella celeste. Prima la realtà terrena: «Perché state?» – Perché state sulla terra? Rispondiamo: Stiamo sulla terra perché il Creatore ci ha posto qui come coronamento all’opera della creazione. L’onnipotente Dio, conformemente al suo ineffabile disegno d’amore, creò il cosmo, lo trasse dal nulla. E, dopo aver compiuto quest’opera, chiamò all’esistenza l’uomo, creato a propria immagine e somiglianza (cfr. Gn 1,26-27). Gli elargì la dignità di figlio di Dio e l’immortalità. Sappiamo, però, che l’uomo si smarrì, abusò del dono della libertà e disse “no” a Dio, condannando  in questo modo se stesso a un’esistenza in cui entrarono il male, il peccato, la sofferenza e la morte. Ma sappiamo anche che Dio stesso non si rassegnò a una situazione del genere ed entrò direttamente nella storia dell’uomo e questa divenne storia della salvezza. “Stiamo sulla terra”, siamo radicati in essa, da essa cresciamo. Qui operiamo il bene sugli estesi campi dell’esistenza quotidiana, nell’ambito della sfera materiale, e anche nell’ambito di quella spirituale: nelle reciproche relazioni, nell’edificazione della comunità umana, nella cultura. Qui sperimentiamo la fatica dei viandanti in cammino verso la meta lungo strade intricate, tra esitazioni, tensioni, incertezze, ma anche nella profonda consapevolezza che prima o poi questo cammino giungerà al termine. Ed è allora che nasce la riflessione: Tutto qui? La terra su cui “ci troviamo” è il nostro destino definitivo?

In questo contesto occorre soffermarsi sulla seconda parte dell’interrogativo riportato nella pagina degli Atti: «Perché state a guardare il cielo?». Leggiamo che quando gli apostoli tentarono di attirare l’attenzione del Risorto sulla questione della ricostruzione del regno terrestre di Israele, egli «fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo». Ed essi «stavano fissando il cielo mentre egli se n’andava» (At 1,9-10). Stavano dunque fissando il cielo, poiché accompagnavano con lo sguardo Gesù Cristo, crocifisso e risorto, che veniva sollevato in alto. Non sappiamo se si resero conto in quel momento del fatto che proprio dinanzi a essi si stava schiudendo un orizzonte magnifico, infinito, il punto d’arrivo definitivo del pellegrinaggio terreno dell’uomo. Forse lo capirono soltanto il giorno di Pentecoste, illuminati dallo Spirito Santo. Per noi, tuttavia, quell’evento di duemila anni fa è ben leggibile. Siamo chiamati, rimanendo in terra, a fissare il cielo, a orientare l’attenzione, il pensiero e il cuore verso l’ineffabile mistero di Dio. Siamo chiamati a guardare nella direzione della realtà divina, verso la quale l’uomo è orientato sin dalla creazione. Là è racchiuso il senso definitivo della nostra vita».

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla spianata di Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 106-107).

«Rimanete saldi nella fede»

Cari fratelli e sorelle, il motto del mio pellegrinaggio in terra polacca, sulle orme di Giovanni Paolo II, è costituito dalle parole: «Rimanete saldi nella fede!». L’esortazione racchiusa in queste parole è rivolta a tutti noi che formiamo la comunità dei discepoli di Cristo, è rivolta a ciascuno di noi. La fede è un atto umano molto personale, che si realizza in due dimensioni. Credere vuol dire prima di tutto accettare come verità quello che la nostra mente non comprende fino in fondo. Bisogna accettare ciò che Dio ci rivela su se stesso, su noi stessi e sulla realtà che ci circonda, anche quella invisibile, ineffabile, inimmaginabile. Questo atto di accettazione della verità rivelata allarga l’orizzonte della nostra conoscenza e ci permette di giungere al mistero in cui è immersa la nostra esistenza. Un consenso a tale limitazione della ragione non si concede facilmente.

Ed è proprio qui che la fede si manifesta nella sua seconda dimensione: quella di affidarsi a una persona – non a una persona ordinaria, ma a Cristo. È importante ciò in cui crediamo, ma ancor più importante è colui a cui crediamo.

Abbiamo sentito le parole di Gesù: «Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra» (At 1,8). Secoli fa queste parole giunsero anche in terra polacca. Esse costituirono e continuano costantemente a costituire una sfida per tutti coloro che ammettono di appartenere a Cristo, per i quali la sua causa è la più importante. Dobbiamo essere testimoni di Gesù che vive nella Chiesa e nei cuori degli uomini. È lui ad assegnarci una missione. Il giorno della sua Ascensione in cielo disse agli apostoli: «Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo a ogni creatura… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 16,15.20).

[…] Prima di tornare a Roma, per continuare il mio ministero, esorto tutti voi, ricollegandomi alle parole che Giovanni Paolo II pronunciò qui nell’anno 1979: «Dovete essere forti, carissimi fratelli e sorelle! Dovete essere forti di quella forza che scaturisce     dalla fede! Dovete essere forti della forza della fede! Dovete essere fedeli! Oggi più che in qualsiasi altra epoca avete bisogno di questa forza. Dovete essere forti della forza della speranza, che porta la perfetta gioia di vivere e non permette di rattristare lo Spirito Santo! Dovete essere forti dell’amore, che è più forte della morte… Dovete essere forti della forza della fede, della speranza e della carità, consapevole, matura, responsabile, che ci aiuta a stabilire… il grande dialogo con l’uomo e con il mondo in questa tappa della nostra storia: dialogo con l’uomo e con il mondo, radicato nel dialogo con Dio stesso – col Padre per mezzo del Figlio nello Spirito Santo -, dialogo della salvezza” (10 giugno 1979, Omelia, n. 4).

Anch’io, Benedetto XVI, successore di papa Giovanni Paolo II, vi prego di guardare dalla terra il cielo – di fissare Colui che – da duemila anni – è seguito dalle generazioni che vivono e si succedono su questa nostra terra, ritrovando in lui il senso definitivo dell’esistenza. Rafforzati dalla fede in Dio, impegnatevi con ardore nel consolidare il suo Regno sulla terra: il Regno del bene, della giustizia, della solidarietà e della misericordia. Vi prego di testimoniare con coraggio il Vangelo dinanzi al mondo di oggi, portando la speranza ai poveri, ai sofferenti, agli abbandonati, ai disperati, a coloro che hanno sete di libertà, di verità e di pace. Facendo del bene al prossimo e mostrandovi solleciti per il bene comune, testimoniate che Dio è amore.

Vi prego, infine, di condividere con gli altri popoli dell’Europa e del mondo il tesoro della fede, anche in considerazione della memoria del vostro connazionale che, come successore di san Pietro, questo ha fatto con straordinaria forza ed efficacia. E ricordatevi anche di me nelle vostre preghiere e nei vostri sacrifici, come ricordavate il mio grande predecessore, affinché io possa compiere la missione affidatami da Cristo. Vi prego, rimanete saldi nella fede! Rimanete saldi nella speranza! Rimanete saldi nella carità! Amen!

(BENEDETTO XVI, Dall’omelia nell’eucaristia celebrata sulla Cracovia-Blonie, 28 maggio 2006, in J. RATZINGER [BENEDETTO XVI], Giovanni Paolo II. Il mio amato predecessore, Cinisello Balsamo/Città del Vaticano, San Paolo/Libreria Editrice Vaticana, 2007, 108-112).

Preghiera

Gesù, vorremmo sapere che cosa sia stato per te tornare nel seno del Padre, tornarci non solo quale Dio, ma anche quale uomo, con le mani, i piedi e il costato piagati d’amore. Sappiamo che cosa è tra noi il distacco da quelli che amiamo: lo sguardo li segue più a lungo che può…

Il Padre conceda anche a noi, come agli apostoli, quella luce che illumina gli occhi del cuore e che ti fa intuire Presente, per sempre. Allora potremo fin d’ora gustare la viva speranza a cui siamo chiamati e abbracciare con gioia la croce, sapendo che l’umile amore immolato è l’unica forza atta a sollevare il mondo.

La Settimana con don Bosco

24-31 maggio

24. (B. Vergine Maria, aiuto dei cristiani) “La festa di Maria Ausiliatrice deve essere il preludio della festa eterna che dobbiamo celebrare tutti insieme uniti un giorno in Paradiso” (MB17 114).

25. (S. Beda) A Cana, “come dice il venerabile Beda, poteva la Vergine credere benissimo che Cristo avrebbe respinto le sue preghiere, tuttavia operò contro la speranza, molto confidando nella misericordia del figlio” (OE20 228). (S. Gregorio VII) “rese lo spirito a Dio pronunziando queste parole del salmista: ho amato la giustizia, ed ho odiato il vizio ed è perciò che muoio in esilio” (OE18 376) (S. Maria Maddalena de’ Pazzi) “Anche da giovanetta era tutta di Dio, e viveva nel suo amore” (OE8 489).

26. (S. Filippo Neri) Nel vedere don Bosco trattare famigliarmente con i ragazzi, esclamavano: “Ecco un altro san Filippo Neri, amico della gioventù” (MB5 896).

27. (S. Agostino di Canterbury) S. Gregorio Magno mandò in Inghilterra “quaranta religiosi sotto la presidenza di sant’Agostino suo discepolo a predicarvi la fede” (OE24 183).

28. “Fermatevi alquanto a considerare ciò che più v’inquieta, e fatene un’offerta al Signore dicendo: sia fatta in ogni cosa la santissima volontà del nostro Iddio” (OE3 447).

29. (S. Paolo VI) (B. Giuseppe Kowalski) “Col Rosario furono combattute le eresie, si riformarono costumi, si allontanarono pestilenze, si pose fine a molte guerre” (OE8 108).

30. “Io non ho altro scopo che il pubblico bene della gioventù a cui nella mia pochezza mi sono totalmente consacrato” (E3 70).

31. (Visitazione della B. V. Maria) – Maria “guidata da vero spirito di carità andò a visitare santa Elisabetta, e stette in casa sua tre mesi servendola come umile ancella” (OE10 462).

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

VI DOMENICA DI PASQUA  

Lectio – Anno C

Prima lettura: Atti 15,1-2.22-29

          In quei giorni, alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli: «Se non vi fate circoncidere secondo l’usanza di Mosè, non potete essere salvati». Poiché Paolo e Bàrnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Bàrnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione. Agli apostoli e agli anziani, con tutta la Chiesa, parve bene allora di scegliere alcuni di loro e di inviarli ad Antiòchia insieme a Paolo e Bàrnaba: Giuda, chiamato Barsabba, e Sila, uomini di grande autorità tra i fratelli. E inviarono tramite loro questo scritto: «Gli apostoli e gli anziani, vostri fratelli, ai fratelli di Antiòchia, di Siria e di Cilìcia, che provengono dai pagani, salute! Abbiamo saputo che alcuni di noi, ai quali non avevamo dato nessun incarico, sono venuti a turbarvi con discorsi che hanno sconvolto i vostri animi. Ci è parso bene perciò, tutti d’accordo, di scegliere alcune persone e inviarle a voi insieme ai nostri carissimi Bàrnaba e Paolo, uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo. Abbiamo dunque mandato Giuda e Sila, che vi riferiranno anch’essi, a voce, queste stesse cose. È parso bene, infatti, allo Spirito Santo e a noi, di non imporvi altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenersi dalle carni offerte agl’idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalle unioni illegittime. Farete cosa buona a stare lontani da queste cose. State bene!».  
  • La liturgia della Parola di questo tempo di Pasqua (anno C) sceglie solitamente per la Prima Lettura brani degli Atti degli Apostoli. Ciò perché in questi brani sono raccontati fatti della chiesa primitiva: così nel tempo di Pasqua si ri-presenta — a livello della liturgia — la nascita della chiesa. Questa nascita è frutto e risultato della risurrezione del Signore. Siccome Egli è risorto, i dodici discepoli e le donne si radunano di nuovo attorno a Lui. Alla fine del tempo pasquale, la solennità di Pentecoste ci fa rivivere la discesa dello Spirito Santo, che realizza e guida la Chiesa.

     Rilievi storico-esegetici

— Nel brano odierno si fa riferimento ad una grave crisi che sta scuotendo la chiesa primitiva. I cristiani che provengono dal mondo giudaico mettono ancora in pratica la legge giudaica e praticano la liturgia del mondo giudaico (la Torah). Il motivo di questa linea di condotta era duplice: primo, il fatto che Gesù stesso aveva ottemperato alla Torah e partecipato alle celebrazioni liturgiche del giudaismo, dato che era un Ebreo: lo stesso avevano fatto gli Apostoli e le donne insieme a Maria Madre di Gesù; secondo, la legge era stata anche rivelata da Dio: era parola e comandamento di Dio. Come la si poteva disattendere? Ecco perché i cristiani venuti dal giudaismo sostenevano che anche i cristiani che provenivano dal mondo pagano fossero tenuti ad osservare la legge giudaica (divina!).

— I primi cristiani, provenienti da ambito non giudaico vivevano ad Antiochia (nella Siria attuale), nella Cilicia (sud-est della Turchia attuale) ed un’altra area dell’Oriente. Essi avvertivano una certa perplessità davanti al fatto di dover osservare precetti biblici del giudaismo: Paolo e Barnaba, infatti, che li avevano portati alla fede cristiana, non ne avevano proprio parlato.

— L’importanza della nostra lettura (decurtata fortemente e privata di una parte notevole: mancano i vv. 3-21) è la seguente: Pietro, Paolo e Barnaba, alla luce della loro fede in Gesù Cristo, ritenevano che ad eccezione di alcune direttive importanti (ad es. il Decalogo), molti comandamenti non avevano se non valore provvisorio, limitato al mondo giudaico, ed erano sostituiti dalla fede in Gesù (Paolo aveva mostrato ciò specialmente nella Lettera ai Galati). Ma questo punto di vista non era chiaro per tutti. Molti lo rifiutavano, specie tra i cristiani della Chiesa Madre di Gerusalemme. Nella lettura noi vediamo come la Chiesa sia

concorde nell’esprimere il suo giusto punto di vista. Certo, Luca ha semplificato le lunghe e dure controversie nel racconto degli Atti. È probabile che ci fosse un clima animato e teso, più che una pacifica, lineare discussione.

     Ma l’importante, qui, è il fatto che emerge: sin dall’inizio alla chiesa si presentarono questioni nuove e imprevedibili, alle quali nessuno sapeva dare subito una risposta. Tuttavia, lo Spirito Santo, l’impegno degli Apostoli e di tutta quanta la Chiesa fecero sì che si approdasse ad una vera e giusta soluzione.

Seconda lettura: Apocalisse 21,10-14.22-23

        L’angelo mi trasportò in spirito su di un monte grande e alto, e mi mostrò la città santa, Gerusalemme, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio. Il suo splendore è simile a quello di una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino. È cinta da grandi e alte mura con dodici porte: sopra queste porte stanno dodici angeli e nomi scritti, i nomi delle dodici tribù dei figli d’Israele. A oriente tre porte, a settentrione tre porte, a mezzogiorno tre porte e a occidente tre porte. Le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. In essa non vidi alcun tempio: il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello sono il suo tempio. La città non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina  e la sua lampada è l’Agnello.  
  • Com’è noto, la struttura del libro dell’Apocalisse è caratterizzata dalla serie di sette settenari (7 chiese, 7 sigilli, 7 trombe, 7 visioni, 7 coppe e ancora 7 visioni…). La nostra pericope si colloca all’interno dell’ultimo settenario, che rappresenta, in certo senso, la conclusione di tutta la vicenda della Parola di Dio, da Abramo agli eventi finali. In questo settenario, il cap. 21 descrive la settima visione, quella in cui Giovanni contempla il realizzarsi della profezia di Is 65,17: «Ecco io creo nuovi cieli e nuova terra; non si ricorderà più il passato, non verrà più in mente». In realtà, Giovanni vede una creazione trasfigurata, si direbbe in continuità con l’antica creazione, dove però non c’è più il mare (simbolo del male e della forza che fa resistenza alla liberazione dell’esodo…). Nel brano di questa domenica si riportano solo alcuni versetti di questa visione conclusiva, quelli che riguardano la Gerusalemme celeste.

     Chiavi di lettura

     È estremamente arduo entrare nei dettagli simbolici della visione espiegarli singolarmente. Preferiamo offrire al lettore alcune chiavi dilettura, che chiariscano il senso teologico della descrizione.

     — Prima chiave di lettura: il compimento delle profezie. Ezechiele, nei cc. 40-48 descrive dettagliatamente il Tempio nuovo che sorgerà nella Gerusalemme escatologica. Questa città avrà un nome emblematico: «Il Signore è là» (Ez 48,35). Inoltre Isaia 60 rivolge una promessa a Gerusalemme: «Alzati, rivestiti di luce, perché… su di te risplende il Signore la sua Gloria appare su di te» (vv. 1-2). Quanto era promesso e annunciato come realtà futura dai profeti, ora Giovanni lo contempla come realtà presente. Questa Gerusalemme rappresenta la nuova umanità redenta, intimamente legata a Gesù Cristo, essendo la sposa dell’Agnello (21,9).

Seconda chiave di lettura: ecclesiologica. I fondamenti di questa città celeste sono 12, come in Ezechiele, ma Giovanni precisa che sono i nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello. I Dodici prolungano e realizzano l’unità del popolo di Dio formato dalle dodici tribù. Nel realizzare il suo disegno di salvezza. Dio vuole un accordo profondo ed un progresso all’insegna della continuità. La Chiesa non è che il punto di approdo del cammino del popolo di Israele. La chiesa non è massa di umanità anonima e priva di relazioni. La città ha la sua compattezza e le sue strutture; in essa gli individui sono legati da vincoli, conoscenze, interessi comuni, formando una comunità gioiosa e fraterna.

Terza chiave di lettura: ecumenica. La struttura della città è orientata, in mirabile simmetria, secondo i quattro punti cardinali: oriente, occidente, settentrione e meridione (tre porte per ogni punto cardinale, v. 13). La Chiesa di Dio non è una società chiusa, ripiegata sulla fruizione dei suoi privilegi (la gloria di Dio la illumina  e la sua lampada è l’Agnello, v. 23). La salvezza di cui essa gode si apre a tutta l’umanità e a tutto l’universo. Si potrebbe inoltre osservare che le iniziali dei quattro punti o coordinate universali (anatolé, dysis, àrktos, mesembría) formano esattamente il nome Adam il capostipite di tutta quanta l’umanità. Tutto il genere umano, fino agli estremi confini della terra, è chiamato ad accedere attraverso quelle porte e integrarsi nella luminosa società dei santi.

Vangelo: Giovanni 14,23-29

           In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: “Vado e tornerò da voi”. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate».  

Esegesi

     La pericope è desunta dai cosiddetti «Discorsi di addio» di Gesù nel Vangelo di Giovanni. Si tratta di un complesso di insegnamenti (cc. 13-17) che l’Evangelista avrebbe raccolti da vari momenti del ministero di Gesù e posti sulle sue labbra nel momento più solenne della sua missione terrena (quando passa dalla sua esistenza terrena a quella celeste), una specie di testamento spirituale che illumina in retrospettiva tutto il senso della vita e dell’opera di Gesù. Nella nostra lettura è presentato lo Spirito Consolatore, inviato dal Padre, in preparazione alla ormai vicina Pentecoste.

     Annotazioni

     — «Se uno mi ama, osserverà la mia parola… (v. 23). Questa verità, qui enunciata in termini positivi, viene poi ribadita in termini negativiChi non mi ama, non osserva le mie parole», v. 24) e ripresa più avanti: «Se mi amaste, vi rallegrereste…» (v. 28). Questo amore, di cui parla Gesù, deve possedere due condizioni o prove di autenticità: 1. chi ama Gesù, osserva le sue parole, vale a dire vive di esse; 2. chi ama Gesù si rallegra che Gesù vada al Padre, cioè sia nella gloria, perché lì Egli si trova nella «casa del Padre» anche in quanto uomo.

     — «Vedremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (v. 23). Chi ama Gesù e vive, cioè realizza pienamente, le sue parole, diventa un tempio, nel quale dimora Dio. L’inabitazione di Dio nell’anima degli uomini costituisce uno dei doni più grandi che Dio possa elargire a noi sulla terra. In modo misterioso l’anima diventa «cielo sulla terra».

     — «Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome…» (vv. 25-26). Dal greco (paráclétos): non solo nel senso dell’avvocato che difende gli uomini, ma anche nel senso di colui che parla e intercede in loro favore. «Paraclito» nel senso che noi siamo sostenuti e protetti da lui.

     — «Vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (v. 26). Lo Spirito Santo ci proteggerà perché ci farà capire la parola di Gesù, che non è altro che la parola stessa del Padre (v. 24). Svolgerà questo compito dando calore, forza e intelligibilità a tale parola nella nostra vita. Riporta alla memoria quella parola, non come qualcosa di dimenticato, ma come realtà riscoperta a livello più profondo di fede e di gioia cristiana.

     — «Vi lascio la pace, vi do la mia pace» (v. 27). Il prezioso bene della pace è dono di Gesù, è lui che ce lo lascia. Dove c’è Dio, ivi è la pace. Questa pace, intimamente commessa con la presenza di Dio, può sussistere anche in mezzo agli assalti o alle insidie del male, anche in mezzo alle sofferenze. Spesso i Santi parlano dell’esperienza di questa pace profonda, che nessuno al mondo può toglierci.

     —«Vado e tornerò da voi…» (vv. 28-29). Gesù non si sottrae che al contatto materiale, corporeo con noi. Ma egli ritornerà in due modi: primo, con lo Spirito Santo; secondo, alla fine dei tempi come Risorto nella sua gloria.

Meditazione

     La prima e la seconda lettura di questa sesta domenica di Pasqua ci offrono due immagini simboliche di Gerusalemme. Nel racconto degli Atti è la sede di un incontro, che la tradizione successiva definirà ‘concilio di Gerusalemme’, attraverso il quale la prima comunità cristiana dovrà assumere una decisione fondamentale per la sua storia successiva: se imporre o meno ai cristiani provenienti dal mondo pagano l’obbligo della circoncisione e dell’osservanza integrale della legge mosaica. Il brano dell’Apocalisse ci porta invece a contemplare già la Gerusalemme celeste, che viene da Dio e risplende della sua gloria. Una

città perfetta, aperta a tutte le tribù di Israele (ma è un linguaggio simbolico per affermare che tutti i popoli della terra vi trovano ospitalità come nella loro vera patria). Anche le me-diazioni di ogni tipo – quelle religiose come il tempio, quelle cosmiche come il sole e la luna – vengono meno, poiché cedono il passo all’immediatezza della presenza di Dio e dell’Agnello, simbolo con il quale l’Apocalisse allude sempre al Signore Gesù crocifisso e risorto. Dio e l’Agnello sono il suo tempio e la sua luce. Se ora noi abbiamo bisogno di segni per incontrare il mistero di Dio e percepire la sua presenza nella nostra storia, allora potremo contemplare Dio faccia a faccia, senza più mediazioni. Se ora abbiamo bisogno di essere illuminati per camminare verso Dio, allora sarà Dio stesso a farsi nostra luce. Se ora

viviamo la nostra appartenenza ecclesiale come luogo di distinzione tra coloro che credono e coloro che non credono o vivono altre appartenenze religiose, allora scopriremo Gerusalemme come luogo di incontro di tutti i popoli. La città, infatti, ha porte aperte verso ogni punto cardinale; da ogni confine della terra i popoli vi giungeranno e potranno accedervi, come ricorda anche il salmo responsoriale:

Ti lodino i popoli, o Dio,

ti lodino i popoli tutti.

La terra ha dato il suo frutto.

Ci benedica Dio, il nostro Dio,

ci benedica Dio e lo temano

tutti i confini della terra (Sal 66,6-8).

     L’Apocalisse stessa, nei versetti che seguono immediatamente quelli proclamati dal lezionario liturgico, insiste nel descrivere queste porte sempre aperte e verso tutti: «le nazioni cammineranno alla sua luce, e i re della terra a lei porteranno il loro splendore. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, perché non vi sarà più notte. E porteranno a lei la gloria e l’onore delle nazioni» (vv. 24-26). Nella città non potrà entrare niente di falso e di impuro, ma «solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello» (v. 27). È lui, infatti, l’Agnello, la vera porta, in virtù del suo mistero pasquale. La sua mediazione salvifica si rende presente nella storia attraverso la comunità cristiana, fondata sulla testimonianza apostolica dei Dodici, che porta a compimento l’elezione di Israele e delle sue tribù. I nomi delle Dodici tribù sono infatti scritti sopra le dodici porte, così come i nomi dei Dodici apostoli sui dodici basamenti della città santa. Il simbolismo è ricco, complesso, ma affascinante: la salvezza di Dio, attraverso l’elezione di Israele e della Chiesa, si apre – come queste porte rivolte a oriente e a settentrione, a mezzogiorno e a occidente – per accogliere tutti i popoli, secondo la promessa di Gesù custodita nei vangeli: «Verranno da oriente e da occidente, da settentrione e da mezzogiorno e siederanno a mensa nel regno di Dio» (Lc 13,29).

     Proprio perché la vera porta è l’Agnello, e nella sua Pasqua la salvezza di Dio può essere annunciata a tutte le genti, la comunità storica di Gerusalemme giunge a decidere, nel discernimento guidato dallo Spirito Santo (cfr. At 15,28), che non è necessario imporre la circoncisione ai convertiti dal paganesimo. Infatti, afferma Pietro nella riunione di Gerusalemme (in un passo che la lettura liturgica omette): «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati, così come loro» (v. 11). Per la sua grazia, non per altro.

     Queste due immagini di Gerusalemme, che le prime due letture dell’eucaristia ci offrono, evocano in fondo la Chiesa in tutto il suo mistero. È una comunità che cammina nella storia, come ci ricordano gli Atti, e in questa sua dimensione è attraversata da tensioni e visioni differenti, sempre impegnata in un faticoso discernimento spirituale della volontà di Dio, chiamata a decisioni che possono anche mutare nel tempo e adattarsi a differenti contesti storici e culturali. Nello stesso tempo, annuncia l’Apocalisse, c’è una dimensione misterica della Chiesa, un suo scendere dall’alto e dal mistero di Dio, che già la abita e la trasfigura nella sua luce, per renderla «una gemma preziosissima, come pietra di diaspro cristallino» (Ap 21,11). È soprattutto per farne sacramento di salvezza per tutti i popoli, nonostante tutti i suoi l imiti storici.

     Noi siamo in cammino verso la Gerusalemme celeste per scoprire – ma solo a condizione di essere già per via, protesi verso la meta – che è Gerusalemme stessa a scendere verso di noi in tutta la sua bellezza, per compiere il nostro desiderio e il nostro pellegrinaggio. In questo cammino, come ci ricorda Gesù nell’evangelo di Giovanni, dobbiamo portare con noi un bagaglio sobrio, essenziale ma indispensabile. Innanzitutto una parola da osservare e custodire, o meglio, quella parola che è Gesù stesso come rivelazione definitiva del Padre. Dimorando in lui e nel suo amore siamo certi di essere già in comunione con il Padre, anche nel tempo del nostro pellegrinaggio. A consentirci di rimanere nella Parola c’è il dono dello Spirito Santo – il secondo bene essenziale da portare con sé – che ci insegna ogni cosa ricordando tutto ciò che il Signore Gesù ci ha detto. Quello dello Spirito è un insegnare ricordando, consentendoci di approfondire la rivelazione di Gesù e anche di discernere nella sua luce le decisioni da assumere di volta in volta, di fronte ai problemi che man mano insorgono lungo il cammino. Appunto come accade nel concilio di Gerusalemme, quando le decisioni vengono prese sulla base di quanto «è parso bene allo Spirito Santo e a noi» (v. 28). Un terzo bene da portare con sé è la pace donata dal Signore, che vince ogni turbamento e timore. 

     Non mancano infatti lungo la via rischi, pericoli, ostilità, scelte coraggiose da assumere. Tutto può però essere affrontato senza paura, nella pace che è dono del Signore e non del mondo, e che dunque possiamo accogliere se siamo disponibili a una comunione con il Signore che ci converte dalle logiche mondane per farci aderire sempre di più al suo stesso ‘sentire’.

     Preparando in questo modo il bagaglio per il viaggio ci si accorge tuttavia che si porta con sé un bene infinitamente più grande: la presenza stessa di Dio che cammina con noi e in noi. «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Già lungo il cammino si gusta anticipatamente ciò che ci attende al suo compimento: il Padre e il Figlio abitano in noi così come il Signore Dio, l’Onnipotente, e l’Agnello abitano nel cuore della Gerusalemme celeste.

Don Bosco commenta il Vangelo

VI domenica di Pasqua

Gesù promette lo Spirito Santo

Durante l’ultima cena, Gesù disse: “Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14,26).

Nel Cattolico provveduto leggiamo questa fervorosa “preghiera per ottenere i sette doni dello Spirito Santo”:

Venite, o Spirito Creatore, a visitare l’anima mia, la quale più non desidera che voi. Venite e riempitela della vostra grazia celeste. Voi siete lo Spirito consolatore, il dono di Dio onnipotente, di luce sorgente viva e perenne, il fuoco divino, la carità, la spirituale unzione delle anime nostre. Venite coi sette vostri preziosi doni, Voi che siete il dito di Dio ed insegnateci i nostri doveri. Voi che siete la promessa del divin Padre, suggerite tutto quello che dobbiam fare.

Poi segue una preghiera per ottenere i vari doni dello Spirito Santo e per ciascun dono si chiede una grazia particolare:

Spirito di sapienza, dateci questa virtù che assiste al trono della vostra Maestà;

Spirito d’intelletto, diradate le tenebre della mia mente, fate brillare nell’anima mia un raggio della vostra luce divina;

Spirito di consiglio, siate la mia guida, mostratemi la via che mi conduce al Cielo;

Spirito di fortezza, inspiratemi sì fatto coraggio da mettere in non cale i discorsi dei cattivi, e le loro derisioni, da confessare altamente la fede di Gesù Cristo e colle parole e colle opere;

Spirito di scienza, datemi la scienza dei santi, quella che consiste nel conoscervi e nell’amarvi;

Spirito di pietà, infondete in me uno zelo ardente pel vostro onore, un santo impegno per tutto ciò che è di vostro gusto.

Datemi un santo timore di offendervi, un grande abborrimento al peccato. Questo timore siami qual freno potente, che mi trattenga quando sono per cadere nel peccato, o qual forte stimolo a prestamente alzarmi qualora avessi la disgrazia di soccombere (OE19 612).

Don Bosco, padre degli orfani, è rimasto colpito in modo particolare dalla promessa di Gesù formulata in questi termini: “Non vi lascerò orfani” (Gv 14,18). E la prova che Gesù non ci ha lasciato orfani sta nel fatto che abbiamo la Chiesa e l’Eucaristia.

Nell’episodio XXII della raccolta di Episodi ameni e contemporanei, intitolato “Il Papa e l’Eucaristia”, don Bosco ha scritto:

Dio è presente fra noi in forza dell’Eucaristia e del Papato, secondo la promessa di Gesù Cristo di far sua dimora fra noi, di non lasciarci orfani, di parlare per bocca della Chiesa, di continuare la sua benefica missione, di guarire e di salvare l’umanità (OE15 213).

Nella Vita di san Pietro don Bosco ripete le parole di Gesù nei seguenti termini: “Tu poi, o Pietro, e voi tutti miei apostoli, non pensate che io vi lasci orfani; no, io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli” (OE8 353).

La presenza dello Spirito Santo si manifesta in modo speciale nei concili della Chiesa. Nel suo opuscolo dal titolo I concili generali e la Chiesa cattolica, don Bosco mette in bocca al giovane parrocchiano di nome Tommaso queste affermazioni che il suo prevosto non poteva che approvare:

Siccome Gesù Cristo ha promesso la sua divina assistenza alla Chiesa insegnante, e disse che lo Spirito Santo le avrebbe suggerito tutte le verità, sicché errare non potesse nei suoi insegnamenti; e siccome i vescovi uniti al papa, cioè in un concilio generale, costituisce appunto questa Chiesa insegnante, ne conseguita necessariamente che le decisioni di un siffatto concilio debbano essere infallibili, e le verità da lui proposte verità di Dio, poiché la parola di Gesù Cristo non può mancare (OE22 68s).

(Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume.

L’immagine della domenica

Giardini UPS (Roma)     –     2021  

«La novità è come un fiore: non nasce quando lo si vuole, ma solo quando è il tempo».

(Luigi Maria Epicoco)

Casella di testo: Atti 15,1-2.22-29
Apocalisse 21,10-14.22-23
Giovanni 14,23-29

La Parola culmine di Gesù è tu amerai. Custodirai, seguirai l’amore. Che è la casa di Dio, il cielo dove abita, ecco perché verremo e prenderemo dimora in lui. Se uno ama, genera Vangelo. Se ami, anche tu, come Maria, diventi madre di Cristo, gli dai carne e storia, tu «porti Dio in te» (san Basilio Magno). Altre due parole di Gesù, oggi, da ospitare in noi: una è promessa, verrà lo Spirito Santo; una è realtà: vi do la mia pace. Verrà lo Spirito, vi insegnerà, vi riporterà al cuore tutto quello che io vi ho detto. Riporterà al cuore gesti e parole di Gesù, di quando passava e guariva la vita, e diceva parole di cui non si vedeva il fondo. Ma non basta, lo Spirito apre uno spazio di conquiste e di scoperte: vi insegnerà nuove sillabe divine e parole mai dette ancora. Sarà la memoria accesa di ciò che è accaduto in quei giorni irripetibili e insieme sarà la genialità, per risposte libere e inedite, per oggi e per domani.

E poi: Vi lascio la pace, vi dono la mia pace. Non un augurio, ma un annuncio, al presente: la pace “è” già qui, è data, oramai siete in pace con Dio, con gli uomini, con voi stessi. Scende pace, piove pace sui cuori e sui giorni. Basta col dominio della paura: il drago della violenza non vincerà. È pace. Miracolo continuamente tradito, continuamente rifatto, ma di cui non ci è concesso stancarci. La pace che non si compra e non si vende, dono e conquista paziente, come di artigiano con la sua arte. Non come la dà il mondo, io ve la do… il mondo cerca la pace come un equilibrio di paure oppure come la vittoria del più forte; non si preoccupa dei diritti dell’altro, ma di come strappargli un altro pezzo del suo diritto. Shalom invece vuol dire pienezza: «il Regno di Dio verrà con il fiorire della vita in tutte le sue forme» (G. Vannucci).
(P. Ermes Ronchi)
Preghiere e racconti

«Quando lo Spirito Santo verrà, v’insegnerà ogni cosa» (Gv 14,26).

Cari figli, non si tratta qui di come questa o quella guerra sarà composta, o se il grano crescerà bene. No, no, figli, non così. Ma quell’«ogni cosa» significa tutte le cose che ci sono necessario per una vera vita divina e per una segreta conoscenza della verità e della malvagità della natura. Seguite Dio e camminate per la santa e retta via, cosa che certe persone non fanno: quando Dio le vuole dentro, esse escono e quando le vuole fuori, entrano; ed è tutta una cosa a rovescio. Queste sono «tutte le cose», tutte le cose che ci sono necessarie interiormente ed esteriormente, sono il conoscere profondamente e intimamente, puramente e chiaramente i nostri difetti, l’annientamento di noi stessi, grandi rimproveri per come restiamo lontani dalla verità e dannosamente ci attacchiamo alle piccole cose.

Lo Spirito Santo c’insegna a inabissarci in una profonda umiltà e a raggiungere una totale sottomissione a Dio e a tutte le creature. Questa è una scienza in cui sono racchiuse tutte le scienze di cui si ha bisogno per la vera santità. Questa sarebbe vera umiltà, senza commenti, non a parole o in apparenza, ma reale e profonda. Possiamo noi disporci in tal modo che ci venga dato in verità lo Spirito Santo! In ciò Dio ci aiuti. Amen.

(GIOVANNI TAULERO, I sermoni, Milano, 1997, 233s.).

Lo Spirito di Dio

Senza lo Spirito Santo, se, cioè, lo Spirito non ci plasma interiormente e noi non ricorriamo a lui abitualmente, praticamente può darsi che camminiamo al passo di Gesù Cristo, ma non con il suo cuore. Lo Spirito ci rende conformi nell’intimo al vangelo di Gesù Cristo e ci rende capaci di annunziarlo esternamente (con la vita). Il vento del Signore, lo Spirito Santo, passa su di noi e deve imprimere ai nostri atti un certo dinamismo che gli è proprio, uno stimolo cui la nostra volontà non rimane estranea, ma che la trascende. Dio ci donerà lo Spirito Santo nella misura in cui accoglieremo la Parola, ovunque la sentiremo.

Dovrebbe esserci in noi una sola realtà, una sola verità, uno Spirito onnipotente che si impossessi di tutta la nostra vita, per agire in essa, secondo le circostanze, come spirito di carità, spinto di pazienza, spirito di dolcezza, ma che è l’unico Spirito, lo Spirito di Dio. Tutti i nostri atti dovrebbero essere la continuazione di una medesima incarnazione. Bisognerebbe che consegnassimo tutte le nostre azioni allo Spirito che è in noi, in modo tale che si possa riconoscere in ciascuna di esse il suo volto. Lo Spirito non chiede che questo. Non è venuto in noi per riposarsi; egli è infaticabile, insaziabile nell’agire; una sola cosa può impedirglielo: il fatto che noi, con la nostra cattiva volontà, non glielo permettiamo, oppure non gli accordiamo abbastanza fiducia e non siamo fino in fondo convinti che egli ha una sola cosa da fare: agire. Se lo lasciassimo fare, lo Spirito sarebbe assolutamente instancabile e di tutto si servirebbe. Basta un nulla a spegnere un focherello, mentre un fuoco avvampante consuma ogni cosa. Se noi fossimo gente di fede, potremmo consegnare allo Spirito tutte le azioni della giornata, qualunque siano: le trasformerebbe in vita.

(M. DELBRÊL, Indivisibile amore. Frammenti di lettere, Casale Monferrato, 1994, 43-45, passim).

Preghiera per la pace

Signore, noi abbiamo ancora le mani insanguinate dalle ultime guerre mondiali, così che non ancora tutti i popoli hanno potuto stringerle fraternamente fra loro;

 Signore, noi siamo oggi tanto armati come non lo siamo mai stati nei secoli prima d’ora, e siamo così carichi di strumenti micidiali da potere, in un istante, incendiare la terra e distruggere forse anche l’umanità;

Signore, noi abbiamo fondato lo sviluppo e la prosperità di molte nostre industrie colossali sulla demoniaca capacità di produrre armi di tutti i calibri e tutte rivolte a uccidere e a sterminare gli uomini nostri fratelli; così abbiamo stabilito l’equilibrio crudele della economia di tante Nazioni potenti sul mercato delle armi alle Nazioni povere, prive di aratri, di scuole e di ospedali;

 Signore, noi abbiamo lasciato che rinascessero in noi le ideologie, che rendono nemici gli uomini fra loro: il fanatismo rivoluzionario, l’odio di classe, l’orgoglio nazionalista, l’esclusivismo razziale, le emulazioni tribali, gli egoismi commerciali, gli individualismi gaudenti e indifferenti verso i bisogni altrui;

 Signore, noi ogni giorno ascoltiamo angosciati e impotenti le notizie di guerre ancora accese nel mondo;

 Signore, è vero! Noi non camminiamo rettamente! Signore, guarda tuttavia ai nostri sforzi, inadeguati, ma sinceri, per la pace nel mondo! Vi sono istituzioni magnifiche e internazionali; vi sono propositi per il disarmo e la trattativa;

 Signore, vi sono soprattutto tante tombe che stringono il cuore, famiglie spezzate dalle guerre, dai conflitti, dalle repressioni capitali; donne che piangono, bambini che muoiono; profughi e prigionieri accasciati sotto il peso della solitudine e della sofferenza; e vi sono tanti giovani che insorgono perché la giustizia sia promossa e la concordia sia legge delle nuove generazioni;

 Signore, Tu lo sai, vi sono anime buone che operano il bene in silenzio, coraggiosamente, disinteressatamente e che pregano con cuore pentito e con cuore innocente; vi sono cristiani, e quanti, o Signore, nel mondo che vogliono seguire il Tuo Vangelo e professano il sacrificio e l’amore;

 Signore, Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, dona a noi la pace.

 (Paolo VI)

Porremo la nostra dimora presso di lui

Io e il Padre, dice il Figlio, verremo a lui, cioè all’uomo santo, e porremo la nostra dimora presso di lui (Gv 14,23) […] E l’Apostolo dice chiaramente che Cristo abita per la fede nei nostri cuori (Ef 3,l7). Non fa meraviglia se il Signore Gesù è lieto di abitare [nell’anima], che è come un cielo per la cui conquista ha lottato e per la quale non si è limitato, come per gli altri cieli, a dire una parola perché essi fossero creati. Dopo le sue fatiche, manifestò il suo desiderio e disse: Questo è il mio riposo per sempre; qui abiterò poiché l’ho scelto [Sal 131 (132),14]. E beata colei alla quale è detto: Vieni, mia eletta, e porrò in te il mio trono (Ct 2,10-13).

Perché ora sei triste, anima mia, e perché gemi su di me? Pensi di trovare anche tu un posto per il Signore dentro di te? [cfr. Sal 41 (42),6] E quale posto in noi è degno di una tale gloria ed è in grado di accogliere la sua maestà? Potessi almeno adorarlo nel luogo dove si sono fermati i suoi passi! Chi mi darà di poter almeno seguire le tracce di un’anima santa che si è scelta come sua dimora? Se potesse degnarsi di infondere nella mia anima l’unzione della sua misericordia e così stenderla come una tenda, la quale quando viene unta, si dilata, perché anch’io possa dire: Ho corso per la via dei tuoi comandamenti quando tu hai dilatato il mio cuore [Sal 118 (119), 32], potrò forse anch’io mostrare in me stesso se non una grande sala tutta pronta, dove possa mettersi a tavola con i suoi discepoli, almeno un posticino ove possa adagiare la testa (cfr. Mt 8,20). Guardo da lontano quelli veramente beati di cui è detto: Abiterò in loro e con loro camminerò (2Cor 6,16) […]

È necessario che l’anima cresca e si dilati per poter contenere Dio. Ora, la sua larghezza corrisponde al suo amore, come dice l’Apostolo: Dilatatevi nella carità (2Cor 6,13). Infatti, poiché l’anima, essendo spirito, non ha affatto quantità, tuttavia la grazia le dona ciò che non ha la natura. Essa infatti cresce, ma spiritualmente; cresce non nella sostanza, ma nella virtù; cresce anche nella gloria; cresce, infine, e progredisce fino a formare l’uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo (cfr. Ef 4,13); cresce anche come tempio santo del Signore. La quantità di ciascuna anima corrisponde alla misura della sua carità in modo tale che è grande quando ha una grande carità, piccola quando ne ha poca, se non ne ha affatto è nulla, come dice Paolo: Se non ho la carità, non sono niente (ICor 13,12).

(BERNARDO DI CHIARAVALLE, Discorsi sul Cantico 27,8-10, PL 183,918-919).

Preghiera

Signore Gesù, tu chiedi l’amore

come condizione

per l’inabitazione della Trinità,

l’amore che è adesione alla tua Parola.

Ma come possiamo amarti

se non siamo dentro la logica del tuo amore?

Se non sentiamo in noi il fuoco

di questo amore grande e misterioso

che supera ogni limite

e sa affrontare ogni avversità?

Noi non possiamo produrre tale amore,

possiamo solo accoglierlo come dono.

Aiutaci a saperci guardare dentro,

per scorgere in noi la presenza del tuo amore.

La Settimana con don Bosco

17-24 maggio

17. “Il vero cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come era Gesù Cristo alle nozze di Cana di Galilea e di Betania, cioè sobrio, temperante, attento ai bisogni altrui” (OE8 22).

18. (S. Giovanni I) “Il Signore assegnò a ciascun uomo uno stato particolare nel quale debba vivere ed operare la propria salute” (OE19 593).

19. “Fate quest’oggi qualche astinenza in onore di Maria santissima” (OE3 364).

20. (S. Bernardino da Siena)Nella chiesa del Sacro Cuore a Roma il pittore ha voluto rappresentare “san Bernardino da Siena, recante la tavola col nome di Gesù” (MB18 348).

 21. (S. Cristoforo Magallanes e comp.) “Dio solo poteva infondere tanta forza e tanto coraggio nel cuor dei martiri” (OE4 274).

22. (S. Rita da Cascia) – “Perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza” (MO 62).

23. “Non è forse miglior cosa saper ben vivere che saper ben parlare?” (OE29 329).

24. (B. Vergine Maria, aiuto dei cristiani) “La festa di Maria Ausiliatrice deve essere il preludio della festa eterna che dobbiamo celebrare tutti insieme uniti un giorno in Paradiso” (MB17 114).

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO

V DOMENICA DI PASQUA  

Lectio – Anno C

Prima lettura: Atti 14,21-27

          In quei giorni, Paolo e Bàrnaba ritornarono a Listra, Icònio e Antiòchia, confermando i discepoli ed esortandoli a restare saldi nella fede «perché – dicevano – dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni». Designarono quindi per loro in ogni Chiesa alcuni anziani e, dopo avere pregato e digiunato, li affidarono al Signore, nel quale avevano creduto. Attraversata poi la Pisìdia, raggiunsero la Panfìlia e, dopo avere proclamato la Parola a Perge, scesero ad Attàlia; di qui fecero vela per Antiòchia, là dove erano stati affidati alla grazia di Dio per l’opera che avevano compiuto. Appena arrivati, riunirono la Chiesa e riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede.    
  • Paolo e i suoi collaboratori sono presentati come missionari itineranti, che predicano la parola di Dio. Essi non prendono dimora stabile in nessuna comunità, ma vanno di paese in paese.

     Quando è necessario essi ritornano nelle comunità evangelizzate per «fortificare» (lett. confermare) nella fede i discepoli. «Confermare» è un termine che diventa tipico nel linguaggio missionario delle primitive comunità cristiane (cf. At 15,32-41; 16,5; Rom 1,11; 1 Ts 3,2.13). Il tema della conferma della fede si trova già nel Vangelo lucano: «confermare i fratelli» è la missione affidata da Gesù a Pietro (cf. Lc 22,32).

     Le tribolazioni sono la grande tentazione della fede per i discepoli. Le sofferenze possono portare alla disperazione e indurre a non avere più fiducia nell’avvento del regno di Dio e a rinunciare a lavorare per esso.

     Il regno di Dio è indicato qui come una realtà escatologica, nella quale si entra «attraverso molte tribolazioni». È presentato come realtà futura, nella quale i discepoli devono ancora entrare. Chiesa e regno non si identificano: essi sono nella Chiesa, ma non ancora nel Regno. Sono ancora nel regime della «fede» e della «speranza», che si possono perdere a causa delle tribolazioni…

     Paolo e Barnaba si preoccupano di dare una struttura stabile alla comunità e costituiscono degli «anziani», che le governino, mentre loro continuano ad andare in nuovi paesi a predicare la parola di Dio. Paolo e Barnaba stanno compiendo la missione fra i pagani, che numerosi hanno abbracciato la fede. Il giungere alla fede nel Signore è un dono gratuito di Dio, come essi riconoscono e dichiarano davanti alla comunità (cf. At 14,27).

Seconda lettura: Apocalisse 21,1-5

        Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo.  Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate». E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose».  
  • La sezione dell’apocalisse che inizia col capitolo 21 e termina a 22,5, è l’ultimo grande affresco della profezia di Giovanni. Si tratta di una conclusione radiosa, conseguenza di un intervento diretto e creatore di Dio. I versetti che leggiamo oggi sono l’introduzione a questa sezione. Essi vanno letti non come una previsione del futuro, ma come una esortazione alla speranza e all’attesa dell’intervento definitivo di salvezza di Dio.

     Giovanni ha la visione di un cielo nuovo e una terra nuova. Si tratta di una novità dovuta all’intervento creatore di Dio, come lo era stato all’inizio, non solo di una trasformazione, infatti il cielo e la terra di prima «erano scomparsi». Il riferimento è ad Isaia (65,17; cf. 66,22). «Ecco, infatti, io creo nuovi cieli e nuova terra».

     La visione continua con quella della «Gerusalemme nuova». In Isaia Dio promette «farò di Gerusalemme una gioia del suo popolo, un gaudio». La salvezza escatologica della visione di Giovanni è universale e particolare al tempo stesso. Rispecchia il movimento creatore e salvatore di Dio che attraversa tutta la rivelazione biblica. Dio è creatore dell’universo e Padre di tutte le creature che popolano la terra, ma Dio al tempo stesso si sceglie un popolo, Israele, e una città, Gerusalemme, come possesso e dimora amati e riservati in modo particolare per sé.

     La nuova Gerusalemme è presentata nella visione «come una sposa adorna per il suo sposo» (cf. Is 52,1; 61,10).

     Nella terra e cielo nuovi Dio ha la sua dimora stabile. Questo fa la differenza con il cielo e la terra di prima dove Dio aveva dimora, ma nascosta «dalla tenda». Solo in visione e da parte di alcuni scelti da lui per delle missioni particolari, come Mosé, ci poteva essere un contatto per così dire, più diretto. La dimora definitiva di Dio fra gli uomini sarà lo svelamento di quella stessa presenza di Dio nella tenda in mezzo o alla guida del suo popolo in questo mondo che deve passare. La dimora, in greco skené, ha le stesse consonanti della parola ebraica skekinà, che indica l’immanenza di Dio che sta insieme al suo popolo e condivide, se così si può dire, la sua stessa vita tanto da andare in esilio con lui.

     Il segno della dimora definitiva di Dio col suo popolo e l’umanità “giusta” sarà l’assenza di ogni sofferenza, morte, lutto, dolore (cf. Is 35,10; 65,19; Ger 31,16).

Vangelo: Giovanni 13,31-33a.34-35

        Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».     

Esegesi

     Nei primi due versetti della pericope che leggiamo oggi Gesù parla della glorificazione del «Figlio dell’uomo» ormai avvenuta e annuncia che Dio è glorificato in lui.

     Giovanni collega il discorso della glorificazione di Gesù con il dono dello Spirito. In 7,39 afferma che non c’era ancora lo Spirito, perché Gesù non era ancora stato glorificato. I credenti ricevono lo Spirito del Signore glorificato, e solo dopo questo dono «si ricordano» (12,16) e capiscono le parole di Gesù.

     La glorificazione del Figlio è opera del Padre, al quale appartiene la gloria. I segni miracolosi compiuti da Gesù presentano questo movimento dinamico: essi avvengono a gloria di Dio e le persone che vi assistono lodano il Padre, Dio di Israele (cf. Mt 9,8; 15,31; Mc 2,12;). Gesù insiste su questa dinamica intrinseca alla glorificazione del Padre, che a sua volta glorifica il Figlio e che è glorificato attraverso il Figlio (Gv 8,54). C’è un intreccio inestricabile fra le due glorificazioni, ma il termine ultimo è sempre il Padre. «Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). «Padre è giunta l’ora, glorifica il Figlio, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).

     Per Giovanni la glorificazione di Gesù è strettamente legata alla passione. Egli dice infatti all’annuncio della passione: «È venuta l’ora che il figlio dell’uomo sia glorificato» (Gv 12,23). Gesù si sottomette a passione per amore, in obbedienza al Padre. Egli dà l’esempio dell’amore più grande: «dare la vita». «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). Questa è la misura dell’amore che i discepoli debbono avere gli uni verso gli altri.

     «Amatevi gli uni gli altri, come io vi ho amati». Gesù propone sé stesso come esempio di adempimento in misura totale del comandamento grande di Lev 19,18: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Ne sottolinea l’attualità ai discepoli: «Vi do’ un comandamento nuovo», un comandamento che va messo in pratica sempre in forma nuova a seconda delle circostanze in cui una persona si trova. La novità per i discepoli è il dovere di imitare Gesù nel suo dono senza misura.

     Gesù si rivolge ai discepoli chiamandoli affettuosamente «figlioletti» (teknía). Questo termine ricorre solo qui nel vangelo di Giovanni, ma è un’espressione tipica della Prima Lettera a lui attribuita (1Gv 2,12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21), che ravvicina al genere letterario sapienziale dei Proverbi (cf. Pv 1,8; 2,1; 3,1; 4,1; 8,32): un padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti. Il diminutivo «figlioletti», anziché il più usuale «figli», indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento.

Meditazione

La pericope evangelica che la liturgia propone nella quinta domenica di Pasqua dell’anno C’ è, come sempre, tolta dal suo contesto biblico per ‘rivivere’ in un nuovo contesto che è quello liturgico. Senza contraddire il contesto biblico, cerchiamo di far risuonare questo testo di Giovanni all’interno della celebrazione pasquale che la Chiesa vive nei Cinquanta giorni, i quali costituiscono un unico grande giorno di festa.

Nella pagina degli Atti degli Apostoli (prima lettura) troviamo la narrazione della missione di Paolo e Barnaba, in particolare di come essi cercarono di dare solidità e struttura alle comunità da loro fondate, istituendo in ogni Chiesa alcuni anziani. Quello che ci viene qui narrato è dunque uno sforzo di evangelizzazione, accompagnato dalla preoccupazione di organizzare anche in modo ‘istituzionale’ le comunità locali — e tuttavia si afferma che quando i due apostoli ritornarono ad Antiochia, la comunità dalla quale erano partiti, «riferirono tutto ciò che Dio aveva operato per mezzo loro» (At 14,27). Ecco un aspetto pasquale al quale la Chiesa sempre si deve convertire: imparare a vedere sempre, nella sua vita, la presenza dell’azione di Dio.

Il brano tratto dal libro dell’Apocalisse (seconda lettura) ci può aiutare a cogliere il contesto pasquale sullo sfondo del quale interpretare le parole di Gesù che troviamo nel vangelo.

Ecco: faccio nuove tutte le cose!

L’Apocalisse riprende un’immagine molto bella, già usata in precedenza per parlare della fine della storia (cfr. Ap 7,17): Dio che asciuga ogni lacrima dal volto dell’umanità. E aggiunge qui un elenco di situazioni concrete che alla fine e nel fine della storia non ci saranno: «Non vi sarà più morte né lutto e grida e dolore» (Ap 21,5). Le lacrime che saranno asciugate non sono quelle dei grandi eventi della storia, ma quelle dei lutti e delle tribolazioni che ogni uomo e ogni donna hanno vissuto nella loro concreta esistenza.

Nel fine e nella fine della storia, nel disegno di Dio, queste realtà non ci sono più. Dio non le ha mai volute e alla fine della storia le cancella, perché il suo desiderio originario alla fine non può che vincere contro ogni ‘nemico’. Il brano termina con un’affermazione che ci proietta nel testo evangelico: «Ecco: faccio nuove tutte le cose». La storia conoscerà una svolta, ma tale svolta è opera di Dio. A partire da questo annuncio, spostiamo la nostra attenzione sul brano evangelico, per contemplare come, dove e quando quest’azione di Dio trova conferma, quando la Parola di Dio si dimostra degna di fede/fedele e veritiera (cfr. Ap 21,5).

Anche il testo del Vangelo parla di una ‘cosa nuova’, un comandamento nuovo, che Gesù dona ai suoi discepoli. In realtà non si tratta di una novità dal punto di vista del contenuto: il comando dell’amore è già presente nell’Antico Testamento sia in riferimento a Dio (Dt 6,5), sia in riferimento al prossimo (Lv 19,18.34). La novità sta nel ‘come’. Si tratta di un comando, ‘amatevi’, che interessa l’avvenire, fondato sopra un fatto avvenuto nel passato: ‘come io ho amato voi’. L’amore dei discepoli è possibile perché sono stati preceduti dall’amore di Gesù: «Noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). In Gv 15,9 Gesù descriverà così qual è l’amore con il quale egli ha amato i discepoli: «Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore». È in questo amore, con il quale il Padre ha amato Gesù e che Gesù a sua volta ha indirizzato verso i suoi discepoli, che i discepoli stessi devono ‘rimanere’.

La novità di questo comandamento, allora, è la novità della Pasqua, nella quale Dio crea qualcosa di nuovo proprio in Gesù, primogenito dell’umanità e terra nuova che l’Apocalisse canta con stupore. Anche se collocato in un discorso di Gesù ambientato nella cena che ha preceduto la passione e quindi la Pasqua, questo testo, come ogni testo dei vangeli, viene trasfigurato dalla luce pasquale. Ma ci dice anche qualcosa di più circa la ‘novità’ che è stata resa possibile dalla Pasqua di Gesù e che ‘oggi’ la Chiesa può celebrare nel suo cammino nella storia dell’umanità.

Gloria, sequela, amore

Nel brano si susseguono tre temi molto significativi — la gloria, la sequela, il comandamento dell’amore — che corrispondono nel testo a suddivisioni ben riconoscibili, e anche a una scansione temporale ben precisa.

La gloria. Nell’Antico Testamento la ‘gloria’ — termine che in ebraico indica la ‘pesantezza’, la ‘consistenza’ — è il manifestarsi di Dio nella storia. La gloria è la presenza di Dio visibile nella storia dell’umanità. Nel testo di Giovanni si parla del Padre che è glorificato in Gesù e di Gesù che è glorificato da parte del Padre. In Gesù, nella sua Pasqua, continua dunque il medesimo ‘stile’ del Dio dell’Esodo, un Dio che agisce nella storia in favore del suo popolo e dell’umanità. Questo primo tema fa riferimento al tempo della Pasqua di Gesù.

La sequela. Il secondo tema è quello del seguire il Signore. Su esso sembra che ci sia incomprensione tra il maestro e i suoi (cfr. 13,36-38). Gesù afferma che ora i discepoli non lo possono seguire dove egli va, sulla sua via (Gv 13,33.36) e il v. 36 è ancora più chiaro: ora i discepoli non possono seguire Gesù. Lo potranno fare però in un secondo momento, dopo la sua Pasqua. Non possono amarsi vicendevolmente come Gesù li ha amati prima che egli li abbia amati fino alla fine (Gv 13,1). Devono accettare questo suo gesto estremo di amore per poter diventare capaci di essere veramente suoi discepoli e di seguirlo. Il tempo di cui si sta parlando è il presente dei discepoli, prima della Pasqua di Gesù.

Il comandamento dell’amore. Ora si capisce perché Gesù introduca a questo punto il tema del comandamento nuovo. Gesù indica qui la via che i discepoli devono percorrere per poterlo seguire, per andare dove lui va, cioè verso la Pasqua: è l’amore fino alla fine, a somiglianza del suo. Prima della Pasqua questo amore è ‘sconosciuto’ ai loro occhi e non sono in grado di percorrere quella via. Solo dopo, dopo la Pasqua di Gesù e il dono dello Spirito, potranno essere veramente discepoli.

La sequela non è frutto dell’impegno dei discepoli, ma è quella ‘cosa nuova’, quella via nel deserto che Dio ha aperto nella storia dell’umanità. Senza la strada aperta da Dio in Gesù, che è la via (Gv 14,6), non ci può essere sequela autentica. Allora questa parola di Gesù è situata in un ‘terzo tempo’, che viene dopo la sua Pasqua e il dono dello Spirito, e condurrà i discepoli alla verità tutta intera. È il tempo della Chiesa.

Don Bosco commenta il Vangelo

V domenica di Pasqua

Amatevi gli uni gli altri

Durante l’ultima cena, Gesù disse ai suoi discepoli: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34).

Nella sua Vita dei sommi Pontefici s. Lino, s. Cleto, s. Clemente don Bosco evoca anche la figura di san Giovanni Evangelista che alla fine della vita ripeteva sempre le parole di Gesù:

Verso il fine dei suoi giorni non potendo più andare sopra la cattedra, ovvero sul pulpito, a predicare vi si faceva portare a braccia. Siccome poi le gravi fatiche sostenute, la sua debolezza e la sua grande età l’impedivano di fare lunghi discorsi, egli soleva spesso ripetere queste parole: Figliuoli miei, amatevi a vicenda, e adempirete la legge di Gesù Cristo. A udirlo così sovente a ripetere la stessa massima, i suoi discepoli annoiati gli risposero: Maestro, voi ci dite sempre le medesime cose.

Il Santo rispose: “Ve lo dico in verità, amatevi scambievolmente, e se avrete la vera carità, adempirete tutta la legge di Gesù Cristo” (OE9 437s).

Nel suo libro sull’Apparizione della beata Vergine sulla montagna di La Salette don Bosco cita una lettera della veggente Melania nella quale raccomanda in particolare l’amore vicendevole:

Mantenetevi in pace, amatevi come fratelli, promettendo a Dio di osservare i suoi comandamenti e di osservarli davvero. E per la misericordia di Dio voi sarete felici, e farete una buona e santa morte, che desidero a tutti mettendovi tutti sotto la protezione dell’augusta Vergine Maria (OE22 430).

Ai primi missionari salesiani in partenza per l’Argentina don Bosco lasciò tra gli altri questo ricordo:

“Fra di voi amatevi, consigliatevi, correggetevi, ma non portatevi mai né invidia né rancore, anzi il bene di uno sia il bene di tutti; le pene e le sofferenze di uno siano considerate come pene e sofferenze di tutti, e ciascuno studi di allontanarle o almeno mitigarle” (MB11 340).

Insisteva sullo stesso tema in una conferenza ai salesiani nel 1876:

Ancora una cosa, che io credo di una importanza veramente straordinaria e che bisogna che cerchiamo proprio che ci sia in noi ora e che si conservi sempre. Quest’è l’amor fraterno. Credetelo: il vincolo che tiene unite le Società, le Congregazioni, è l’amor fraterno. Io credo di poterlo chiamare il perno su cui si aggirano le Congregazioni ecclesiastiche. Ma a che grado dovrebbe esso ascendere? Iddio Salvatore ce lo disse: Diligite alterutrum sicut et ego dilexi vos; amatevi a vicenda, nel modo, con quella misura con cui io ho amato voi (MB 12 630).

Lo stesso anno, a Marsiglia, don Bosco s’incontrò con un giovanotto quasi morto di freddo e di fame, lo condusse all’Oratorio dove gli diedero le prime cure.

Concluderò quindi con un pensiero che mi sta sommamente a cuore. L’Apostolo san Giovanni, vecchio di ben cent’anni, non potendo parlare a lungo delle cose di Dio, si faceva portare in chiesa e ripeteva queste poche parole ai discepoli radunati: Diligite alterutrum, e null’altro. Talora i discepoli gli chiedevano: E fatto questo, che cosa dovremo fare d’altro? Diligite alterutrum! rispondeva. Ma stanchi i cristiani di udire sempre da lui lo stesso consiglio, lo pregarono umilmente a dar loro spiegazione di tanta insistenza. Perché, rispose il Santo Apostolo, chi adempie al precetto della carità, ha fatto tutto! Così io dico a voi, o miei cari figli: Amatevi gli uni gli altri, aiutatevi gli uni gli altri caritatevolmente, e non succeda mai che alcuno tenga astio contro il suo fratello, o lo screditi con parole sconvenienti. Guai a chi opera in tal modo! Dobbiamo perdonare al nostro fratello, come desideriamo che Dio perdoni a noi i nostri peccati (MB17 297s).

 (Morand Wirth)

Tra parentesi il lettore troverà i riferimenti principali dei testi citati nelle opere di o su don Bosco: – nei 38 volumi delle Opere edite di G. Bosco (OE1-38, a cura del Centro Studi Don Bosco dell’Università Pontificia Salesiana); – nei 19 volumi delle Memorie biografiche di don G. Bosco (MB1-19, a cura di G.B. Lemoyne, A. Amadei e E. Ceria); – nelle sue Memorie dell’Oratorio (MO, a cura di A. Giraudo); – nei 10 volumi del suo Epistolario (E1-10, a cura di F. Motto). La seconda cifra indica la pagina del volume

L’immagine della domenica

SEGOVIA (SPAGNA)     –     2022  

«Anche se tutti i nostri sogni si dovessero sgretolare, non bisogna mai permettere che il cinismo prenda il sopravvento e sclerotizzi i nostri cuori. Da ogni delusione nascerà sempre un nuovo sogno».

(Carlo Acutis)

Casella di testo: Atti 14,21-27
Apocalisse 21,1-5
Giovanni 13,31-33a.34-35

La liturgia di questa domenica comincia a prepararci all'Ascensione del Signore Gesù, al momento in cui Egli ha lasciato di essere visibilmente presente tra noi, ma non ha lasciato di essere vivo, operante in mezzo a noi. Si fa visibile attraverso una mediazione, voluta da Lui: la Chiesa. E questa Chiesa che ha uno statuto di fondazione, un distintivo, un distintivo che se si attua è perfino capace di ricreare una città nuova come quella di Giovanni, un distintivo che fa nuove tutte le cose: l'amore vicendevole, cioè: "amatevi come io vi ho amato".

Possiamo motivare l'amore per gli altri di mille maniere: il motivo cristiano è soltanto uno. Che Dio ci ama, ci ha amato per primo, e ci rende degni di essere amati. Come conseguenza la peculiarità del nostro amore non sta tanto nell'amare in sé, ma nell'amare come Cristo. Solo il suo amore non è deformato dall'egoismo e quindi non può rischiare di deformare l'amore di quanti lo imitano. Questo è il comandamento nuovo: esser simili a Cristo nel suo amore senza limite. Gesù diventa norma dell'amore con il suo comportamento.

Amare vuol dire non soltanto dare, ma donarsi. Comprendere gli altri, capire le loro difficoltà e le loro necessità, perdonare con tutto il cuore, servire senza la speranza di essere ricambiati. Amare vuol dire rinunciare a se stessi per pensare agli altri.

Preghiere e racconti

La nostalgia dell’Eterno

Come le rondini che a metà agosto cominciano a venir prese dalla febbre migratoria e al crepuscolo con alte strida in gruppi ahimè sempre più piccoli si richiamano e si raccolgono sui fili, così anche noi, a un certo punto della nostra vita, possiamo sentire lo stimolo di prendere il volo.

Al di là del mare, un altro mondo ci chiama.

Non l’abbiamo mai visto, non abbiamo in mano un contratto che ci garantisca l’approdo, non sappiamo neppure se le nostre forze saranno sufficienti. Forse una notte, sfiniti, verremo inghiottiti dai flutti.

Eppure, partiamo lo stesso.

Come i piccoli rondinotti nati in Italia, già al primo volo intorno al nido hanno nostalgia dell’Africa, così noi, nelle parti più segrete del cuore, custodiamo sempre la nostalgia della voce dell’Eterno che ci chiama.

(Susanna TAMARO, Un cuore pensante, Bompiani, Milano, 2015,127)

Affamati d’amore

Oggi non abbiamo più neppure il tempo per guardarci, per parlarci, per darci reciprocamente gioia, e ancor meno per essere ciò che i nostri figli si aspettano da noi, che un marito si aspetta dalla moglie e viceversa. E così siamo sempre meno in contatto gli uni con gli altri. Il mondo va in rovina per mancanza di dolcezza e di gentilezza. La gente è affamata d’amore, perché siamo tutti troppo indaffarati.

(Madre Teresa di Calcutta)

«Vi do un comandamento nuovo».

Poiché c’era da aspettarsi che i discepoli, sentendo tali discorsi e considerandosi abbandonati, si lasciassero prendere dalla disperazione, Gesù li consola, munendoli, per la loro difesa e protezione, della virtù che è alla radice di ogni bene, cioè della carità. È come se dicesse: «Vi rattristate perché io me ne vado? Ma se vi amerete l’un l’altro, sarete più forti». E perché non disse proprio così? Perché impartì loro un insegnamento molto più utile: «In questo tutti conosceranno che siete miei discepoli». Con queste parole fece capire che la sua eletta schiera non avrebbe dovuto mai sciogliersi, dopo aver ricevuto da lui questo segno distintivo. Lui lo rese nuovo, con la maniera stessa in cui lo formulò. Difatti precisò: «Come io ho amato voi» […].

E, trascurando qualsiasi accenno ai miracoli che essi avrebbero compiuto, dice che sarebbero stati riconosciuti dalla loro carità. Sai perché? Perché la carità è il più grande segno che distingue i santi: essa è la prova sicura e infallibile di ogni santità. Soprattutto con la carità noi tutti conseguiamo la salvezza. In questo soprattutto egli afferma consistere l’essere suoi discepoli. Proprio a motivo della carità tutti vi loderanno, vedendo che imitate il mio amore. I pagani certamente non si commuovono tanto di fronte ai miracoli come di fronte alla vita virtuosa. E niente educa alla virtù come la carità. Essi infatti chiamarono spesso impostori gli operatori di miracoli, ma non possono mai trovare qualcosa da criticare in una vita integra.

(GIOVANNI CRISOSTOMO, Omelie sul vangelo di Giovanni, 57,3s.).

Ama con umiltà e rispetto

La vita spirituale si riassume nell’amare. E l’amore, è chiaro, significa più che sentimento, più che carità, più che protezione. L’amore è l’identificazione completa con la persona amata, ma senza alcuna intenzione di ‘fare del bene’ o di ‘aiutare’. Quando si tenta di fare del bene attraverso l’amore, è solo perché consideriamo il prossimo come un oggetto, mentre noi ci vediamo come esseri generosi, colti e saggi. Questo, spesse volte, può determinare un atteggiamento duro, dominatore, brusco. Amare significa comunicare con chi si ama. Ama il prossimo tuo come te stesso, con umiltà, discrezione e rispetto. Soltanto così è possibile entrare nel santuario del cuore altrui.

(Thomas Merton).

«Amerai il prossimo tuo come te stesso» (cfr. Mt 22,37-39).

 Comincio a sperimentare che un amore di Dio totale e incondizionato rende possibile un amore del prossimo visibilissimo, sollecito e attento. Ciò che spesso io definisco ‘amore del prossimo’ si dimostra troppo spesso un’attrazione sperimentale, parziale o provvisoria, di solito molto instabile e fuggevole. Ma se il mio obiettivo è l’amore di Dio, si può sviluppare anche un profondo amore per il prossimo. Altre due considerazioni possono spiegarlo meglio.

Prima di tutto, nell’amore di Dio scopro ‘me stesso’ in modo nuovo. In secondo luogo, non scopriremo solo noi stessi nella nostra individualità, ma scopriremo anche i nostri fratelli umani perché è la gloria stessa di Dio che si manifesta nel suo popolo in una ricca varietà di forme e di modi. L’unicità del prossimo non si riferisce a quelle qualità peculiari, irrepetibili da individuo a individuo, ma al fatto che l’eterna bellezza e l’eterno amore di Dio divengono visibili in quelle creature umane uniche, insostituibili, finite. È precisamente nella preziosità dell’individuo che si rifrange l’amore eterno di Dio, diventando la base per una comunità d’amore. Se scopriremo la nostra stessa unicità nell’amore di Dio e se potremo affermare che possiamo essere amati perché l’amore di Dio dimora in noi, potremo allora arrivare agli altri, in cui scopriremo una nuova ed unica manifestazione dello stesso amore, entrando in intima comunione con loro.

(H.J.M. NOUWEN, Ho ascoltato il silenzio. Diario da un monastero trappista, Brescia, 1998, 82s.).

Cogliere il mistero di Dio

Fratelli, non temete il peccato degli uomini, amate l’uomo anche nel suo peccato, perché questa immagine dell’amore di Dio è anche il culmine dell’amore sopra la terra. Amate tutta la creazione divina, nel suo insieme e in ogni granello di sabbia. Amate ogni fogliuzza, ogni raggio di sole! Amate gli animali, amate le piante, amate ogni cosa! Se amerai tutte le cose, coglierai in esse il mistero di Dio. Coltolo una volta, comincerai a conoscerlo senza posa ogni giorno di più e più profondamente. E finirai per amare tutto il mondo di un amore ormai totale e universale.

(Fedor Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).

Cercare la verità…amando

Ho cercato la verità,

con l’Innominato di Manzoni.

Ho cercato la verità

tra le lettere di don Milani.

Ho cercato la verità,

curiosando nella vita di Gandhi.

Ho cercato la verità,

nelle confessioni di sant’Agostino.

Ho cercato la verità

nelle prediche di don Mazzolari.

Ho cercato la verità,

piangendo con Giobbe sul letamaio.

Ho cercato la verità,

fuggendo da casa, con la mia parte

di eredità, come il Figliol Prodigo.

Ho cercato la verità,

nelle poesie di Tagore.

Ho cercato la verità,

nei pensieri di Pascal.

Ho cercato la verità,

nei fioretti di san Francesco.

Ho cercato la verità,

nell’Allegretto della settima di Beethoven.

Ho cercato la verità,

vagando stralunato.

Ho cercato la verità,

negli occhi incavati

e ormai vitrei di Brambilla,

morto di Aids tra le mie braccia.

Ho cercato la verità,

nei rosari che la mia santa madre

recitava per me,

prete molto diverso dal prete

che teneva nella sua testa.

Ho cercato la verità,

nel Parco Lambro,

negli anni ottanta,

assistendo giovani in overdose.

Ho cercato la verità,

nei commenti biblici, stupendi,

del mio cardinale di Milano.

Ho cercato la verità,

nei viaggi del pellegrino Wojtyla.

Ho cercato la verità,

nella filosofia di Tommaso l’Aquinate.

Ho cercato la verità,

nelle storie degli ultimi

e dei diseredati.

Ho cercato… talvolta nell’affanno,

tal’altra nella pazienza;

talvolta nella confusione,

tal’altra nel silenzio.

Una notte inginocchiato

nella mia cameretta,

recitavo Compieta.

Ho sentito battere al mio cuore.

Ho detto: avanti.

Ero assonnato e stanco.

Solo dopo qualche minuto

mi sono accorto chi era.

«Sono la fede!

So che mi hai cercato

per tanto tempo…lo sai bene

anche tu, che la fede non si cerca

dove non è…perché

la fede è LUI…e LUI è…

l’irruzione, la gratuità,

la meraviglia…

Lui è quello che ha detto:

«Cercate la verità, amando».

Smetti di cercare. Aspetta perché arriverà.

Sono venuto a dirtelo.

Accendi la lampada e spegni

i ragionamenti nella tua testa.

Perché LUI entra dal cuore.

È l’unica porta che può riceverlo».

(Don Antonio Mazzi, Preghiere di un prete di strada).

L’amore basta all’amore

Quando l’amore ti chiama, seguilo,

anche se ha vie ripide e dure.

Quando dalle sue ali ne sarai avvolto,

abbandonati a lui;

anche se la sua lama potrà ferirti.

Quando ti parla, credigli,

anche se la sua voce potrà disperdere i tuoi sogni.

Perché più l’amore ti colpirà,

più tu maturerai.

Perché l’amore non deve dar nulla, se non se stesso,

né coglier nulla, se non da se stesso.

Perché amarsi l’un l’altro,

non è far dell’amore una prigione.

Perché l’amore non possiede, né deve essere posseduto.

Perché l’amore basta all’amore.

La Settimana con don Bosco

10. “Maria ha continuato dal cielo e col più gran successo la missione di madre della Chiesa ed ausiliatrice dei cristiani che aveva incominciato sulla terra” (OE20 237).

11. “Non dimenticare che siamo salesiani. Sal et lux. Sale della dolcezza, della pazienza, della carità. Luce in tutte le azioni esterne” (E7 276).

12. (Ss. Nereo e Achilleo) (S. Pancrazio) “Il tiranno lo sottopose ad un lungo e grave interrogatorio, in cui Pancrazio spiegò una fortezza degna non di un giovanetto, ma di un eroe” (OE14 411s).

13. (B. Vergine Maria di Fatima) (S. Maria Domenica Mazzarello) Don Bosco “approvò che Suor Maria Mazzarello continuasse ad esercitare l’ufficio di superiora […]. Suor Maria lo pregò di mandar presto un’altra al suo posto, dichiarandosi sempre inetta a quell’ufficio, e Don Bosco le rispose: – State tranquilla, il Signore provvederà!” (MB10 619).

14. (S. Mattia) – “San Clemente Alessandrino racconta di san Mattia che insegnava la mortificazione sia colle parole sia coi fatti” (OE9 419).

15. “Il benedetto suo Cuore ha una secreta e prodigiosa virtù di commuovere i peccatori più induriti nel male, ha nello stesso tempo una singolar attrattiva per condurli a ravvedimento” (OE18 526).

16. “Nutrimento e cibo dell’anima nostra è la parola cioè le prediche, la spiegazione del Vangelo e il catechismo” (OE2 198).

17. “Il vero cristiano nel mangiare e nel bere deve essere come era Gesù Cristo alle nozze di Cana di Galilea e di Betania, cioè sobrio, temperante, attento ai bisogni altrui” (OE8 22).

 (Morand Wirth)

* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:

Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.

La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.

COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.

M. FERRARI, monaco di Camaldoli, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Tempo di Quaresima e Tempo di Pasqua, Milano, Vita e Pensiero, 2013.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.

– J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.

– C.M. MARTINI, Incontro al Signore risorto. Il cuore dello spirito cristiano, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2009.

Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.

PER L’APPROFONDIMENTO:

“Essere leader in una Chiesa sinodale – formarsi al discernimento ecclesiale per la missione”

ll nuovo corso di formazione, promosso dalla CRUIPRO, mira a formare leader capaci di orientarsi e guidare la comunità ecclesiale secondo lo stile della sinodalità. L’approccio adottato combina teoria e pratica, favorendo un apprendimento immersivo attraverso strumenti quali l’ascolto reciproco, la conversazione nello Spirito, l’interazione tra scienze, teologia e pastorale, la preghiera comune e momenti di condivisione fraterna.

L’iniziativa è aperta esclusivamente agli studenti e alle studentesse di Licenza e Dottorato di ogni indirizzo regolarmente iscritti all’anno accademico 2025/2026 -solo a coloro che stanno attualmente studiando a Roma- e si svolgerà dal 29 settembre al 3 ottobre 2025 presso l’Istituto Giovanni Paolo II a Roma.

Il corso è gratuito, la frequenza è esclusivamente in presenza ed è prevista una prova finale al fine di ottenere l’assegnazione di 3 ECTS.

Il programma sarà guidato da un prestigioso gruppo di docenti, tra cui Sr Nathalie Becquart, Sottosegretaria del Sinodo dei Vescovi, Philippe Bordeyne, Preside dell’Istituto Giovanni Paolo II, Andrea Bozzolo, Rettore dell’Università Pontificia Salesiana e Presidente CRUIPRO, Armando Nugnes, Rettore del Pontificio Collegio Urbano.

Ogni giornata del corso seguirà una scansione ben definita:

08:30 Preghiera, 09:00 Inizio lezioni, 12:15 Santa Messa, 13:00 Pranzo comunitario, 15:00 Lavori di gruppo, 18:00 Conclusione dei lavori.

Le iscrizioni sono aperte fino al 15 maggio 2025.

Per partecipare, è necessario presentare una lettera motivazionale.

Per maggiori informazioni, è possibile inviare una mail a: eventi@istitutogp2.it